Un mondo svelato dalla Via della Seta

Cina – La Cina immaginata e quella della realtà
Tibet – Un viaggio sul tetto del mondo sfiorando le nuvole con le dita
Tibet – Il Tibet è un Paese occupato dai cinesi

I cinesi raccontano che a Shanghai avete la possibilità di assaporare gli ultimi 150 anni della storia del loro paese, a Pechino gli ultimi mille, mentre a Xian incontrerete la Cina più antica. Queste tre città ricche di storia permettono un approccio ai diversi volti della Cina.

A Shanghai avete la possibilità di assaporare gli ultimi 150 anni della storia cinese. A Pechino gli ultimi 1000, da quando cioè divenne capitale dell’impero. A Xian, punto di arrivo e di partenza della mitica Via della Seta, incontrerete le vestigia della Cina più antica. Sono queste le mete principali del nostro itinerario, che prevede anche un soggiorno di cinque giorni in Tibet. Un viaggio del genere non permette certamente di conoscere un paese, ma fornisce stimoli di riflessione, provoca sensazioni e pone interrogativi.

Xian, culla della civiltà cinese
Confesso che prima di preparare questo viaggio non avevo mai sentito parlare di Xian, eppure è la culla della civiltà cinese. È qui che Qin Shi Huang nel 221 a.C. riuscì a unificare il paese per diventare il primo imperatore della Cina e gettò le basi di una coscienza nazionale. Abolì il feudalesimo e diede al paese un’organizzazione burocratica, lo protesse verso nord collegando nella Grande Muraglia i tratti di mura preesistenti, unificò i pesi e le misure, le distanze tra le ruote dei carri per pianificare le strade, impose un’unica moneta, un solo sistema di ideogrammi per unificare la scrittura e la lingua parlata, impose un unico sistema legale. Questo imperatore visionario, ma anche crudele e megalomane, si costruì un monumento funerario al quale lavorarono per 38 anni 700 mila operai. Quando nel 210 a.C. morì durante la sua campagna di unificazione, si racconta che la sua salma fu calata nella sala principale del palazzo delle tenebre assieme alle mogli, alle concubine, a guardie e operai sacrificati in suo onore. L’ingresso del mausoleo venne quindi mimetizzato e il terreno circostante coltivato a cereali. Fu per caso che nel 1974 un contadino, che oggi firma il volume pubblicato sul sito, scavando un pozzo fece la più importante scoperta archeologica del XX secolo, che l’ex presidente francese Chirac, in visita nel 1991, decretò giustamente ottava meraviglia del mondo. Il sito è finora stato scavato solo in parte. Finora sono state portate alla luce tre grandi fosse. La prima (230 metri per 62) contiene 6 mila guerrieri di statura reale che rappresentano la guardia imperiale schierata con cavalleria e 35 carri da guerra. La seconda presenta un esercito di 900 soldati diviso in tre battaglioni. Nella terza, 31 soldati delle guardia d’onore attendono l’imperatore. Un museo presenta altre statue e due straordinari carri in bronzo.
La sola visita di questo sito vale il viaggio in Cina. Tutti noi abbiamo sentito parlare dei guerrieri cinesi di terracotta e li abbiamo ammirati in documentari, ma vederli dal vivo provoca un’emozione eccezionale. Ognuno di loro ha un viso e un’espressione che sottintendono una storia di vita. Gli scavi continuano e altre meraviglie verranno portate alla luce. Al di là di queste scoperte archeologiche Xian è oggi un’importante città commerciale con oltre 7 milioni di abitanti. Il suo centro è racchiuso nel perimetro di 12 chilometri delle sue mura, che risalgono all’epoca Ming (1368-1644). È animatissimo e molto curato con negozi e shopping center di chiara impronta occidentale. Suggestive le torri della Campana (epoca Tang 618-917) e del Tamburo (epoca Ming). Il cuore della città ospita anche un coloratissimo bazar nel quartiere abitato da una minoranza musulmana cinese. Al centro si può visitare un’interessante moschea risalente al VIII secolo, che presenta un curioso incrocio di stile arabo e cinese.

Pechino, il cuore del Paese
Non è certamente facile riassumere ciò che offre Pechino in poche righe di giornale, ma ci proverò. La città è priva di piazze e di un centro. Per questo Mao Tse Tung nel 1949, dopo aver vinto la guerra civile contro i nazionalisti di Chiang Kai Shek creò la piazza Tian’anmen. Un luogo tristemente noto per l’intervento dell’esercito cinese, che nel 1989 entrò con i carri armati aprendo il fuoco contro i dimostranti desiderosi di riforme e di libertà e facendo migliaia di morti. Con i suoi 400 mila metri quadrati di superficie è il più grande spazio pubblico al mondo, è il cuore pulsante della Cina ed il testimone per eccellenza degli eventi che hanno plasmato la storia della Repubblica Popolare sin dai suoi esordi. È qui che il primo ottobre del 1949 Mao Tse Tung pronunciò il discorso della liberazione alle folle in giubilo. Sulla piazza, per la verità molto fredda, si affacciano i musei della storia e della rivoluzione, il Grande Palazzo del popolo, sede del parlamento, il mausoleo del presidente Mao che accoglie la sua salma.

La città proibita
Oltrepassando un arco sopra il quale troneggia l’effigie di Mao, si entra in una delle meraviglie di questa città: la città proibita. Fulcro per cinque secoli – vi regnarono 24 imperatori delle dinastie Ming e Qing – dell’impero e per i cinesi dell’universo. Anche qui gli spazi sono vastissimi. Si tratta di una vera e propria città nella città con oltre 800 edifici, che risalgono quasi tutti al Quattrocento, quando l’imperatore Yongue riportò la capitale da Nanchino a Pechino. Tutti i padiglioni sono disposti secondo le teorie geomantiche basate sull’equilibrio fra energia negativa (yin) e positiva (yang). In questa sorta di vastissima gabbia dorata il popolo non poteva entrare e nemmeno avvicinarsi. Vi si accede dalla porta meridionale (Wumen), la più importante, dove i Figli del Cielo si rivolgevano alla corte e dove i generali di ritorno da guerre vittoriose si presentavano con i prigionieri per deciderne la sorte. Proseguendo si accede ad altri ambienti pubblici (padiglioni delle Cerimonie), prima di giungere agli appartamenti imperiali, dove l’imperatore alloggiava con la moglie e le concubine gestite dagli eunuchi, che diventarono sempre più potenti all’interno del palazzo ordendo intrighi di ogni genere. Quest’ultima parte della città presenta, oltre ad un intimo giardino, costruzioni più piccole e affascinanti, ambienti cinesi, dove bisogna prendersi il tempo per passeggiare senza meta.

Il Tempio del Cielo
Un altro luogo di grande significato storico è il Tempio del Cielo, che sorge in un’altra parte della città e che per cinque secoli ha rappresentato il cuore dei cerimoniali e del simbolismo imperiale. Edificato anch’esso all’inizio del XV secolo era considerato il luogo di contatto fra la terra (considerata quadrata) e il cielo (rotondo), la cui simbologia rappresenta parte integrante anche del progetto architettonico. Intermediario tra terra e cielo era naturalmente l’imperatore che in occasione del solstizio d’inverno si recava qui e pregava per il raccolto. Decisamente meno suggestiva risulta invece la visita alla residenza imperiale estiva, distrutta dagli inglesi durante la seconda guerra dell’Oppio e in parte ricostruita.

Le tombe dei Ming
Ma l’emozione torna a livelli elevati durante la visita alla tomba degli imperatori Ming, la dinastia che regnò dal 1368 al 1644. Tredici dei sedici figli del cielo sono sepolti in una dolce valle che sorge a una quarantina di chilometri da Pechino. Oltrepassato un magnifico arco in marmo bianco, si giunge a una grande Porta Rossa, dove inizia il suggestivo Viale degli Spiriti lungo 7 chilometri e fiancheggiato da alberi e da statue di animali mitologici, di mandarini e di militari. Al termine dei vialetti portano alle tombe monumentali. Ognuna è divisa in tre parte principali: la stele, la sala delle offerte e il tumulo dove si trova la salma.

La grande muraglia
È una delle sette meraviglie del mondo. È un’impresa ingegneristica sbalorditiva. È lunga 6350 chilometri, una distanza equivalente dal Ticino a New York. È nata con l’avvento della dinastia dei Quin nel 221 a.C. per difendersi contro le orde di nomadi attratte dalle fertili terre della pianura del bacino del Fiume Giallo, su idea del primo imperatore cinese, lo stesso che si è fatto seppellire con l’esercito di terracotta. Il lavoro principale fu quello di collegare tra loro le muraglie già esistenti e di consolidare il tutto in un’unica difesa murata. La sommità della muraglia è costituita da una via lastricata larga 5 metri che rappresenta anche un’importante via di comunicazione essendo percorribile totalmente sotto protezione e quindi un mezzo di comunicazione tra genti diverse. Oggi sono milioni i turisti che nel corso di un anno visitano quest’opera e ne percorrono dei tratti a piedi.

Lo stadio olimpico
Oltre alla sua storia, ai suoi monumenti e ai suoi simboli storici Pechino è un’interessante e moderna città densa di grattacieli di stile americano, poco inquinata contrariamente a quando pensavo, dove si può passeggiare tranquillamente. La sua via principale – un centro vero e proprio non esiste – si dice sia percorsa giornalmente da un milione e mezzo di persone. Me la immaginavo simile alle città russe dell’ultimo periodo sovietico, ma ho trovato un ambiente dove i turisti occidentali sono ben accolti. Deludente, perché troppo turistico, il quartiere antico Hutong. Splendido, in compenso il centro olimpico con lo stadio degli architetti Jacques Herzog e Pierre Demoron che visto dal vero è un’opera architettonica emozionante. E anche qui spazi enormi, come è nelle tradizioni cinesi, ai quali noi europei non siamo abituati.

Shanghai, tra Cina Europa e Usa
È il fulcro dello straordinario boom economico cinese. Il suo obiettivo, praticamente già raggiunto, è diventare il più grande centro finanziario dell’Asia. La sua densità abitativa è il quadruplo di quella di New York, che supera anche quanto a numero di grattacieli. Nel corso degli ultimi quindici anni la sua popolazione è più che raddoppiata e raggiunge oggi quasi 25 milioni. Il reddito pro capite è aumentato dai 1’000 dollari del ’97 ai 6’000 del 2007. Il suo porto, dove transita oltre il 50% del commercio cinese, è uno dei più attivi al mondo. Le gru – non gli animali ma quelle da costruzione – sono considerate ironicamente la mascotte di questa metropoli straordinaria, dove si respira aria di euforia, di voglia di cambiamento. Si calcola che qui gli stipendi siano mediamente il doppio rispetto al resto della Cina e spropositati se paragonati alla realtà rurale del paese. Ed è per questo che proprio a Shanghai si manifestano più evidenti i contrasti del colosso asiatico.
Data questa premessa ci si potrebbe aspettare che si tratti di una città finanziaria senz’anima. E invece non è così. È una splendida metropoli, che affascina perché armonizza tre mondi diversi, tre culture: quella cinese soprattutto moderna ma anche antica, quella europea e quella delle metropoli americane. Passeggiando per l’affollatissima via Nanchino che dal lungofiume porta in Piazza del Popolo, cuore della città, si respira l’aria di una metropoli occidentale. La città vecchia propone viuzze alla cinese con caratteri un po’ troppo calcati, tanto da renderla una piccola, ma simpatica Disneyland. Al suo interno si possono visitare gli splendidi giardini Yu creati nel XVI secolo. Un po’ più lontano dal centro, nel tempio buddista di Yufo, si può ammirare lo splendido Buddha dall’espressione estremamente dolce, scolpito in Birmania da un unico blocco di giada bianca. Il vecchio quartiere francese – che all’inizio del Novecento in epoca coloniale veniva definito la “Parigi d’Oriente” – dove si può camminare senza meta è certamente una delle zone più affascinanti. Ma qualsiasi turista, dopo aver visitato questa metropoli, non potrà mai dimenticare la splendida passeggiata lungo il fiume Huangpu. Da una parte il cosiddetto Bund, la sponda con grandi edifici e palazzi in stile anglo-orientale restaurati con cura e risalenti all’epoca delle concessioni straniere. Dall’altra, il Pudong – affascinante soprattutto di notte – con la sua selva di modernissimi grattacieli che si perdono a vista d’occhio, tra i quali ne spiccano alcuni di altissimo pregio architettonico. Fino a pochi decenni fa questa zona era ancora occupata da risaie. Ma d’altra parte tutta la città si è sviluppata dal XIX secolo con l’arrivo degli stranieri. Con il trattato di Nanchino (1842) gli inglesi furono i primi ad arrivare, seguiti cinque anni dopo dai francesi, nel 1863 dagli americani e nel 1895 dai giapponesi. Ogni quartiere, in base al principio dell’extraterritorialità, costituiva un piccolo stato governato dalle leggi del paese coloniale di riferimento. Questa situazione fece sì che gli stranieri a Shanghai erano più numerosi dei cinesi, peraltro sfruttati nelle fabbriche. Non è un caso se il partito comunista del futuro del presidente Mao è nato proprio in questa città, nei pressi del quartiere francese.

Itinerario

1° giorno
Milano-Pechino

2° giorno
Pechino e Tempio del cielo, che per cinque secoli ha rappresentato il cuore dei cerimoniali e del simbolismo imperiale

3° giorno
Tomba dei Ming – Grande Muraglia, un’impresa ingegneristica sbalorditiva, lunga 6.350 chilometri

4° giorno
La città proibita, una vera e propria città nella città con oltre 800 edifici – Crociera sul lago Kumming

5° giorno
Xining – Monastero di Kumbum – Lhasa

6°giorno
Ferrovia tibetana – Lhasa, nota anche come “Tibet Express”, oltre 1.100 km per collegare Cina e Tibet

7° giorno
Lhasa – Palazzo Potala – Tempio Jokhang

8° giorno
Monastero di Drepung

9° giorno
Lago Yamdrok – Gyantse

10° giorno
Xigatse, sorge alla confluenza del Yarlung e del Nyangchu

11° giorno
Lhasa, capitale della Regione Autonoma del Tibet. In passato anche residenza tradizionale del Dalai Lama

12° giorno
Da Chengdu, punto di snodo per i trasporti e le comunicazioni della Repubblica popolare cinese, a Shanghai, una delle città più popolose al mondo

13° giorno
Shanghai, con oltre 18.5 milioni di abitanti

14° giorno
Shanghai-Milano

Armenia – Monasteri e fortezze immersi in una natura selvaggia

Armenia – La tragedia del genocidio all’inizio del Novecento
Armenia – La rinascita iniziò dalla laguna veneta
Armenia – L’amara verità storica del genocidio armeno
Armenia – La letteratura del viaggiatore

L’itinerario parte dalla capitale Yerevan ricca di musei che testimoniano una storia difficile ma ricca e prosegue in uno spettacolare territorio montagnoso alla scoperta di antichissime chiese e monasteri, di fortezze e caravanserragli situati lungo la Via della Seta.

Nonostante le continue occupazioni e i tentativi di assimilazione, di conversione e di annientamento l’etnia armena è sopravvissuta alle vicende storiche avverse fondandosi sulla fede cristiana e sulla millenaria cultura espressa in una lingua con un alfabeto proprio. Dalle avversità storiche ha saputo trarre anche aspetti positivi assimilando nel vocabolario, nell’arte, nella cucina, negli usi e costumi l’essenza delle civiltà di cultura e religione diverse con cui la sua popolazione è venuta suo malgrado in contatto. Visitando oggi l’Armenia come turisti si percepisce questa ricchezza.
L’architettura religiosa, dato l’alto significato del Cristianesimo nella storia armena, costituisce certamente l’elemento caratterizzante di questo paese. Chiese e monasteri sono spesso appollaiati sopra dirupi o situati in magnifiche vallate, dove il corso delle acque ha scavato profondi canyon. Ma sono interessanti anche le visite alle fortezze, erette in luoghi impervi per difendere il territorio dalle continue invasioni, e ai caravanserragli, siti di sosta per i commercianti che percorrevano la mitica Via della Seta. Al di fuori della capitale Yerevan, dove vive un terzo degli oltre 3 milioni di abitanti (all’estero se ne contano quasi 9 milioni), il paesaggio è agreste, spesso senza vegetazione, dato che ci si trova sovente sopra i 2000 metri di altezza. Dietro qualsiasi curva della strada bisogna essere pronti a frenare perché molto spesso le mandrie di mucche o di pecore scambiano l’asfalto per il pascolo. Zona vulcanica ad alto rischio sismico l’Armenia in molte regioni offre visioni lunari. Il lago Sevan (il terzo lago più alto del pianeta, situato, con i suoi 110 km2 di superficie, a 1900 metri) offre uno dei paesaggi più suggestivi: di un color azzurro scuro si contrappone al marrone delle montagne desertiche. Il tragitto che lo collega a Yerevan, attraverso il passo Selim, è particolarmente affascinante. Si attraversano profonde pareti rocciose per raggiungere paesaggi desertici e poi, ad un tratto, spuntano villaggi verdissimi, simili ad oasi, in mezzo a montagne spettrali. I paesini sono rurali e molto poveri, ma il territorio, salvo durante il rigido inverno, è molto fertile. E di spazio non ne manca. A tratti abbiamo attraversato zone viticole. Per affrontare temperature che scendono di molti gradi sotto lo zero i contadini, una volta colta l’uva, devono interrare i tralci per dissotterrarli in primavera. Il paesaggio forse più straordinario è la vallata in cui si trova il monastero di Noravank. Si attraversa per 8 chilometri un canyon con pareti altissime di color rosso e giunti nel fondovalle si scorge il monastero in uno spettacolare scenario di rocce rosate.

Radici del passato a Yerevan
Nella capitale i grigi palazzi dell’epoca sovietica convivono con i grattacieli moderni di stampo occidentale. Abbondano i musei che illustrano la ricca e tormentata storia di questo popolo. Su due colline situate ai due estremi della città sorgono due monumenti simbolo: il Memoriale per le vittime del genocidio con l’annesso museo e l’imponente e fiera statua della Madre Armenia, che sostituì quella di Stalin la notte stessa in cui giunse la notizia della sua morte. Ma il sacrario della cultura armena è considerata la grande biblioteca di manoscritti Matenadaran, che si erge come una cattedrale in cima al viale più importante di Yerevan. Dedicata all’inventore dell’alfabeto armeno, Mesrop Mashtots la cui statua troneggia all’entrata, custodisce 17 mila manoscritti, in gran parte armeni, e 100 mila documenti medievali e moderni. All’interno una fiera scritta avverte il visitatore: “Seppur siamo una piccola nazione, anche noi abbiamo compiuto opere di prodezza e di valore che crediamo meritino di essere ricordate”. L’orgoglio con cui la nostra apprezzatissima guida locale, Vahé, ci mostra quei preziosi manoscritti salvati dalle malvagità della storia è commovente.
Nella neoclassica e suggestiva Piazza della Repubblica, restaurata con garbo, accanto alla sede del governo e di alcuni ministeri, un edificio imponente ospita il museo statale di Storia armena, che illustra le principali tappe dal paleolitico all’epoca moderna. Le sale più suggestive sono quelle iniziali dove sono esposti reperti di eccezionale qualità artistica, che attestano l’elevato grado di questa civiltà nell’antichità, sin dall’epoca urartea risalente al primo millennio a.C. Ma l’oggetto esposto forse più eccezionale è una scarpetta, la più antica mai scoperta al mondo, che risale a 5500 anni fa, recentemente rinvenuta in una grotta.

Gli edifici religiosi
Il poeta russo Osip Mandelstam definì questa terra, dove ogni pietra narra la storia del suo popolo, “regno di pietre urlanti”. Ed in effetti tutti gli edifici sono costruiti in basalto, perché offriva maggiore resistenza alle devastazioni. L’architettura religiosa, con le sue soluzioni originali che avrebbero influenzato notevolmente lo stile degli edifici religiosi in tutta Europa, è senz’altro quella che più caratterizza l’Armenia. Come fa notare lo storico dell’arte italiano Alpago Novello, l’architettura sacra armena si distingue per semplicità e chiarezza, per la presenza di volumi geometrici elementari organizzati in modo simmetrico. Tanto da far associare a Cesare Brandi, in un famoso articolo intitolato “Le chiese di cristallo”, questi volumi di forme elementari “organizzati secondo assi simmetrici con una rigorosa logica di tipo geometrico-matematico, alle formazioni cristalline naturali”.
Per capire queste costruzioni bisogna distinguere due periodi. Dal VII al IX secolo l’architettura medievale presenta due aspetti originali: da una parte l’inserimento della cupola al centro della chiesa ricorrendo a soluzioni statiche interessanti e spesso ardite, dall’altra un certo contrasto tra un esterno monumentale e quadrangolare e un interno molto lineare e luminoso.
Dal IX al XIV secolo, invece, sorgono importanti monasteri che riprendono i motivi architettonici precedenti, ma con l’aggiunta di nuove esperienze. È in questo periodo che nasce il cosiddetto “gavit”, elemento tipico dell’architettura armena, tanto che non esiste una traduzione italiana di questo termine. Si tratta di una sala collocata davanti all’entrata che fungeva da vestibolo, luogo di sepoltura riservato ai notabili e di ritrovo per i cittadini. Non solo i cristiani, ma anche gli infedeli potevano incontrarsi qui e discutere, socializzare e commerciare. L’ingresso in chiesa era invece consentito solo a chi era battezzato.
“La scelta di costruire i complessi monastici in posizione dominante in fondo a profonde valli o sulla cima di altopiani difficilmente accessibili – scrive Nadia Pasqual, autrice della miglior guida in italiano sull’Armenia – garantiva la sicurezza di questi edifici che avevano la fondamentale funzione di produrre e conservare il patrimonio culturale nazionale e che in alcuni casi divennero anche importanti centri politici. Questi ambienti impervi e isolati facilitavano inoltre il raccoglimento e la concentrazione necessari ai religiosi per coltivare la profonda spiritualità che ancora oggi ammanta questi luoghi carichi di suggestioni”.
Un altro simbolo dell’Armenia sono i khatchkar: letteralmente significa croci di pietra. Si tratta di lastre di pietra finemente scolpite per rappresentare simboli cristiani, spesso la croce. Sono presenti in quasi tutti gli edifici religiosi – chiese, monasteri, cimiteri – incastonati nelle pareti o piantati nel terreno. In tutto il paese ne sono state censite oltre 30 mila, ma mi sono rimaste in particolare nella mente le numerosissime presenti nel suggestivo cimitero di Noraduz, che sorge sulle rive del lago Sevan. Camminare tra queste tombe sepolcrali indorate dai licheni in una giornata di sole in riva al lago incoronato dalle montagne è un’esperienza davvero indimenticabile.

I principali siti archeologici
Essendo il nostro viaggio organizzato dalla Società archeologica ticinese, un’attenzione particolare è stata dedicata alla visita dei principali siti archeologici. La maggior parte si trova negli immediati dintorni della capitale. Il più antico è Agarak, scoperto di recente. Risale al 2800-2600 a.C. e sorge su una base naturale in basalto. Sembra si trattasse di un luogo di culto, che si estendeva su un’area molto vasta.
Il sito forse più affascinante, Metsamor, appartiene invece all’epoca urartea attorno al 1200 a.C. Il luogo era noto come centro metallurgico – si vedono ancora le fornaci – e soprattutto per le sue attività astronomiche. Sembra che gli studiosi dell’epoca avessero individuato le costellazioni, fossero riusciti a suddividere l’anno in dodici periodi e conoscessero la stella Sirio che decretava l’inizio del nuovo anno. Conoscenze che venivano utilizzate per il culto, ma certamente preziose anche per l’agricoltura e quindi per organizzare la vita economica. Il museo annesso presenta i reperti trovati durante gli scavi, soprattutto nelle tombe, dove i notabili venivano seppelliti con i loro schiavi. La presenza di una splendida ranocchia in pietra e di un sigillo di fattura mesopotamica indicano come il commercio fosse già molto sviluppato.
Pure di epoca urartea è Erebuni, situata alle porte dell’attuale Yerevan e fondata nel 782 a.C. in un’epoca di relativa stabilità politica. Della città rimangono le fondamenta della muraglia, del palazzo reale, dei vasti magazzini, dei quartieri militari e dell’area sacra. Nel museo annesso si possono vedere le tubature in pietra completamente chiuse che servivano per trasportare l’acqua dalla montagna lontana 40 chilometri.
Con la visita di Garni ci spostiamo invece in epoca romana. L’edificio più suggestivo, in parte ricostruito dai sovietici, risale al 77 d.C. Fu edificato in basalto, caratteristica che lo differenzia dagli altri templi romani, con il denaro che Tiridate I d’Armenia ricevette dall’imperatore Nerone.

Itinerario

1° giorno
Lugano-Zurigo-Yerevan

2° giorno
Yerevan-Garni-Geghard

3° giorno
Agarak-Aruch-Dashtadem-Harich-Gyumri

4° giorno
Odzun-Haghpat-Sanahin-Tumanyan

5° giorno
Dilijan-Lago Sevan

6° giorno
Noraduz-Selim-Noravank-Yerevan

7° giorno
Echimiadzin-Metsamor

8° giorno
Erebuni-Artashat-Dvin

9° giorno
Hovanavank-Saghmosavan-Amberd

10° giorno
Yerevan-Zurigo-Lugano

Bibliografia

Armenia Polaris, Firenze 2010
Georgia, Armenia, Azerbaigian Lonely Planet, Milano 2008
Armenia Braot, Bucks (England), 2003
Claude Murafian et Ericc van Lauwe, Atlas Historic de l’Arménie, Paris 2001

Uzbekistan – La via della seta

Uzbekistan – Lungo la mitica via della seta

Sulle orme delle antiche carovane, tra oasi e steppe desertiche, un suggestivo itinerario in Uzbekistan, sospesi a metà strada tra la Cina e l’Occidente.

Il nostro itinerario nell’Asia centrale, in Uzbekistan, organizzato dall’agenzia turistica Kel12 di Milano, si snoda lungo la mitica “Via della seta” e ha come mete principali le città di Bukhara e di Samarcanda, che rappresentavano nell’antichità strategici punti di sosta a metà del percorso tra la Cina e l’Occidente. Lungo il tragitto sorsero così numerosi caravanserragli che offrivano alloggio, stalle e magazzini alle carovane e che diedero vita a un’attività commerciale senza precedenti. La “Via della seta” non si sviluppò mai lungo un unico percorso, ma era costituita da una fragile rete di itinerari carovanieri intercontinentali. Le città che si trovavano lungo questi tragitti conobbero un grande sviluppo. Le devastazioni e i disordini provocati da Gengis Khan e da Tamerlano, che incontreremo più volte lungo il nostro itinerario, resero sempre più insicure queste vie e portarono come conseguenza alla crisi economica della regione. L’ultimo e definitivo colpo inferto all’ormai agonizzante “Via della seta” fu poi rappresentato dall’apertura delle rotte commerciali marittime tra Europa e Asia, che rendevano superflue le fatiche delle carovane. Si concludeva così un capitolo fondamentale nella storia dell’umanità: per la prima volta infatti, attraverso questi itinerari, si era sviluppato un interscambio di idee, tecnologie e convinzioni religiose, grazie ai contatti tra realtà culturali estremamente diverse.
Il diario di viaggio che segue si sofferma sulle tappe principali di un itinerario, effettuato in torpedone, che percorre tutto l’Uzbekistan, passando da un’oasi all’altra e attraversando l’inospitale steppa che separa alcune perle dell’Islam come Khiva, Bukhara e Samarcanda.

Khiva, città-museo 
La nostra visita all’Uzbekistan inizia da Khiva, venerdì 24 ottobre. Il 23 siamo volati da Roma a Tashkent, la capitale del paese, che dista sei ore di aereo. Giungiamo in serata a causa del fuso orario (5 ore). Il tempo per un breve sonno e il mattino di buonora ripartiamo in volo in direzione ovest per Urgench, da dove in mezz’ora di torpedone raggiungiamo la città-museo di Khiva, diventata tale nel corso di un programma di conservazione sovietico.
La prima immagine è quella delle sue pittoresche mura di fango lunghe due chilometri e mezzo, che circondano tutto il centro storico. Il nostro albergo (hotel Asia Khiva), situato davanti alla porta principale, è una struttura nuova con camere più che dignitose. Preso possesso della camera partiamo a piedi per la visita della città. Tutti i monumenti sono a portata di mano. Si respira un’atmosfera orientale: minareti, moschee dalle cupole verdi, palazzi dei visir, madrasse e naturalmente il mercato.
La nostra visita inizia proprio dal souk, che caratterizzò questa città nel corso della storia per un fiorente mercato degli schiavi durato più di tre secoli, fino al 1873. Era il più grande dell’Asia centrale. Nelle pareti sono ancora visibili le nicchie dove venivano esposti gli sventurati in vendita. Il souk attuale è animato soprattutto da gente del posto. Di turisti se ne vedono pochi. La merce esposta, destinata soprattutto agli indigeni, è molto variopinta, di cattivo gusto e dominata dai materiali sintetici. Non c’è traccia del ricco artigianato di un tempo. Non si vende seta, nonostante questa città si trovasse anticamente proprio sulla “Via della seta”, e nemmeno cotone, sebbene qui attorno tutti vivano della coltura del cotone. Regnano i tessuti sintetici: persino i fiori sono di plastica. Come spesso accade, la parte più bella del souk è quella dedicata alla frutta, alla verdura e alle spezie. Per la prima volta vedo alcune bancarelle vendere solo pasta: di ogni tipo e di ogni forma.
Khiva fu distrutta nel 1740 dai Persiani e in seguito ricostruita. La maggior parte dei suoi monumenti risale pertanto al XVIII secolo. La città, storicamente, era tristemente nota per la ferocia dei suoi regnanti, di cui si visitano due fastosi palazzi decorati con magnifiche ceramiche. Come spiega la nota viaggiatrice ginevrina Ella Maillart (“Vagabonda in Turkmenistan”, Torino 2002) “per il mongolo nomade il lusso consisteva nell’applicare parati e tessuti ricamati alle pareti della sua tenda. Quando fissò la sua dimora volle che i suoi palazzi e le sue moschee gli restituissero con le loro decorazioni di ceramica la stessa sensazione”. Ma a questa raffinatezza si accompagnava nei visir di Khiva una ferocia incredibile. Arminius Vambéry, un viaggiatore ungherese dell’Ottocento, racconta di aver assistito nel 1863 all’esecuzione di trecento prigionieri impiccati o decapitati. “I loro capi con i capelli grigi erano invece distesi a terra in attesa di essere ammanettati, quando il boia si inginocchiò sui loro petti e cavò loro gli occhi, pulendo il coltello insanguinato sulle loro barbe. Tentarono di rialzarsi, ma sbatterono alla cieca gli uni contro gli altri e crollarono al suolo agonizzanti”.
Questi truci racconti non si conciliano con il mio stato d’animo mentre visito questa città dall’atmosfera quasi ibernata, che ti fa sentire ai margini del mondo. La sua architettura è armoniosa. Il colore delle costruzioni, così come quello delle mura costruite in mattoni di argilla e paglia, è quello della terra e si mimetizza perfettamente con il paesaggio mettendo in risalto i verdi e i blu delle smaglianti maioliche. Queste immagini mi rimarranno impresse nella memoria per la loro diversità, per l’armonia e per le tinte dolci soprattutto al momento del tramonto.

Bukhara città sacra 
Lunga trasferta in torpedone da Khiva a Bukhara, la città sacra. La strada percorre una zona desertica e disabitata lungo il confine con il Turkmenistan. La steppa è monotona e il viaggio dura quasi una giornata. Ben si può capire quanto fosse irraggiungibile questa città per gli eserciti che la volevano conquistare. Molti perdettero la maggior parte dei loro soldati e dei cammelli in queste steppe inospitali. Sabato in serata giungiamo a Bukhara, che “per più di mille anni – come osserva Tiziano Terzani (“Buona notte signor Lenin, Milano 1992) – nel mondo mussulmano fu considerata equivalente alla Mecca come importante centro di studi, per lo splendore delle sue moschee e il livello intellettuale delle sue madrasse, le scuole coraniche”. Tanto che gli storici arabi la definirono “il paradiso del mondo”. Ci si può bene immaginare come dovessero rimanere incantati i carovanieri che percorrevano la “Via della seta”, quando dopo giorni di lunga e monotona marcia percorsi nella steppa giungevano all’ombra dei sontuosi monumenti di questa città sacra.
Anche qui come a Khiva gli emiri erano sanguinari. Esisteva una prigione, il cosiddetto “pozzo degli scarafaggi”, dove venivano allevati insetti che scarnificavano i prigionieri. Un colonnello britannico vi passò alcuni mesi prima di essere giustiziato per essere entrato a cavallo nell’Ark, la città regale, dove solo l’emiro poteva cavalcare. L’Ark era una città nella città, abitata dal quinto secolo fino a quando Bukhara cadde in mano all’Armata Rossa. La sua visita è di grande interesse, così come il famosissimo minareto Kalon, uno dei simboli della città. Si narra che Gengis Khan, quando nel 1220 espugnò e distrusse Bukhara al grido “Io sono il castigo di Dio per i vostri peccati”, rimase talmente esterrefatto alla vista di questo monumento che ordinò di risparmiarlo. È giunto fino a noi ben conservato con le sue quattordici fasce decorative, diverse l’una dall’altra, a testimonianza del primo utilizzo delle lucenti piastrelle blu che si diffusero in tutta l’Asia centrale sotto Tamerlano. Ai tempi dell’emiro i condannati a morte venivano messi in un sacco e lanciati dal minareto alto 47 metri, soprannominato dai bolscevichi “Torre della morte”. Tiziano Terzani fa notare come gli abitanti di Bukhara, nonostante il dispotismo degli emiri, parlino oggi di quell’epoca come di tempi d’oro. “La Bukhara mussulmana – osserva Colin Thurbon (“Il cuore perduto dell’Asia”, Milano 1994) – era cinta da 12 chilometri di mura e di porte fortificate e le sue moschee e medresse erano innumerevoli. I bukharioti erano considerati gli abitanti più distinti e civilizzati dell’Asia centrale. I loro modi e il loro abbigliamento divennero un parametro dell’eleganza orientale…Tutto questo splendore – prosegue lo studioso inglese – nascondeva però a malapena l’intimo squallore… Chi faceva il bagno o beveva nelle piscine pubbliche contraeva la ributtante filaria della Medina, che soltanto un barbiere esperto era in grado di estrarre dalla carne incidendo la pelle con una lama e attorcigliando il verme – a volte lungo più di un metro – su un ramoscello”.
Un altro edificio di rara bellezza giunto dal X secolo fino a noi è il mausoleo di Ismail Samani: “uno degli edifici più eleganti dell’Asia centrale – secondo la guida turistica Lonely Planet – che cambia gradualmente ‘carattere’ nel corso della giornata man mano che mutano le ombre”. L’abile intreccio dei mattoni in terracotta presenta una sorta di affascinante ricamo, che alleggerisce questo sobrio monumento, giunto fino a noi grazie a un espediente dei bukharioti. “Quando gli abitanti videro gli invasori mongoli bruciare e distruggere tutta la città – spiega ancora Tiziano Terzani – corsero al mausoleo di Samani e seppellirono l’intera costruzione sotto una collina di terra perché gli uomini di Gengis Khan non la vedessero”.
Nella piazza Lyabi-Hauz, costruita nel 1620 attorno a una vasca, all’ombra di gelsi antichissimi, abbiamo gustato ottimi spiedini al grill, una specialità del luogo. Ma Bukhara è famosa in tutto il mondo anche per i suoi tappeti, che costituiscono per noi il modello classico della nostra idea di “tappeto orientale”. Eseguito su fondo rosso di tutte le tonalità, propone una composizione costituita da un susseguirsi di forme essenziali, rigorosamente geometriche: ottagoni tagliati diagonalmente da un disegno bianco e nero sempre uguale. 

Samarcanda – Lungo la mitica “via della seta”

Uzbekistan – La via della seta

Alessandro Magno quando conquistò Samarcanda esclamò: “Tutto quello che ho udito di Markanda è vero, tranne il fatto che è più bella di quanto immaginassi”.

Lunedì 27 ottobre, giornata di trasferimento da Bukhara alla mitica Samarcanda. Partiamo il mattino di buonora per Shakhrisabz, città natale di Tamerlano, che richiede una deviazione rispetto al percorso più diretto. Attraversiamo la lunga periferia di Bukhara, particolarmente squallida. Le case sono alte solo un piano, ma molto trascurate. Man mano che ci allontaniamo dalla città ricompare il deserto con la sua monotonia, ma anche con la sua armonia. Di tanto in tanto si incontra un’oasi: non quelle idilliache, bensì insignificanti agglomerati di case trascurate. Sul tragitto passiamo anche davanti a due impianti di vitale importanza per il paese: uno per l’estrazione dal sottosuolo di gas e l’altro di petrolio. Giunti nella città natale di Tamerlano, che il regime autoritario di Karimov sembra avere adottato come eroe nazionale, ci imbattiamo subito nel monumento dedicato al condottiero. Molte persone sono radunate attorno ad esso, diverse orchestrine suonano motivi uzbeki. È una giornata freddissima, ma le giovani spose avvolte in leggerissimi e scollati abiti bianchi non rinunciano a una foto ricordo davanti alla statua del nuovo eroe, che ha sostituito quella di Lenin.
Condottiero valoroso e intelligente, Tamerlano riuscì a costituire un impero che aveva il suo confine orientale in India, mentre verso occidente arrivava ad affacciarsi sul Mediterraneo. Si creò la fama di uomo spietato e sanguinario, perché le sue campagne consistevano essenzialmente in guerre di occupazione e di saccheggio, piuttosto che nell’organizzazione sistematica, amministrativa e politica dei territori conquistati. Nel suo paese fu però anche un grande mecenate, un protettore di artisti: Samarcanda rimane la sua opera più duratura. Eppure è probabile che Shakhrisabz, la sua città natale, prima di essere distrutta nel XVI secolo dall’emiro di Bukhara, mettesse in ombra la stessa Samarcanda. Del palazzo reale, che richiese 24 anni di lavoro e fu probabilmente il progetto più ambizioso di Tamerlano, rimangono solo alcuni frammenti del gigantesco ingresso alto 40 metri. Oggi si può soltanto immaginare ciò che doveva essere il resto dell’edificio per grandezza e splendore. Proseguiamo la nostra visita incamminandoci verso il mausoleo dove è custodito il corpo di Jehangir, figlio prediletto di Tamerlano morto a 22 anni per una caduta da cavallo e descritto dalla tradizione locale come un eroe mancato. Il monumento è decorato con dipinti della fine del XIV secolo di particolare finezza.
Riprendiamo il nostro tragitto verso Samarcanda scegliendo la strada meno diretta che aggira le montagne. Il percorso è particolarmente suggestivo. Piove e siamo verso sera, d’autunno. Le poche foglie che rimangono sugli alberi sono ingiallite. Il terreno è arido, desertico, ma abitato. Mi colpisce l’armonia di quei paesaggi collinari. Le case sono costruite in argilla e ricoperte da tetti in paglia. Gli uomini si spostano a dorso d’asino o a cavallo. Le donne portano abiti colorati e i bimbi al passaggio del nostro torpedone salutano affettuosamente. Capre e pecore sono ovunque. Quà e la qualche mucca. La luce del crepuscolo, la stagione che annuncia il freddo inverno alle porte e forse il mio stato d’animo mi danno la sensazione di assistere a un presepio vivente, tale è l’armonia dei colori e delle forme. A poco a poco cala la notte e quel paesaggio magico si spegne davanti ai miei occhi. Ma siamo ormai alle porte di Samarcanda, che ci accoglie con le sue smaglianti luci cittadine, per la verità poco affascinanti.

Samarcanda, l’incomparabile
“Samarcanda l’incomparabile”, così titola il capitolo dedicato alla “città dorata” Ella Maillart, la nota viaggiatrice ginevrina che visitò questi luoghi negli anni Trenta, in piena era staliniana. Martedì 28 ottobre dedichiamo l’intera giornata alla visita di questo gioiello dell’Islam. E se ci fosse stato un po’ più di tempo sarebbe stato meglio! Perché Samarcanda è davvero quella città mitica che immaginavo e che sognavo. I suoi monumenti, anche se ormai immersi nel tessuto di una città moderna, sono davvero degni della loro fama. Questa è stata certamente la giornata più straordinaria di tutto il viaggio. Anche Alessandro Magno, quando nel 329 a.C. la conquistò, esclamò: “Tutto quello che ho udito di Markanda è vero, tranne il fatto che è più bella di quanto immaginassi”.
Nessun nome richiama alla mente la “Via della seta” quanto quello di Samarcanda, che si trovava al crocevia delle strade che conducevano le carovane in Cina, India e Persia. Quando Gengis Khan la distrusse completamente nel 1220 avrebbe potuto essere la fine della sua storia, ma nel 1370 Tamerlano decise di fare di Samarcanda la sua capitale e nei successivi 35 anni forgiò una nuova città, che diventò “giardino dell’anima” , “specchio del mondo” e assurse a epicentro culturale ed economico dell’Asia centrale. Tamerlano (1336-1405) è infatti il personaggio attorno a cui ruota tutta la storia dell’epoca d’oro di questa città e dei suoi monumenti. Persino di quelli postumi a Tamerlano. Penso alle due madrasse del Registan, la piazza principale, costruite due secoli più tardi copiando lo stile della Samarcanda di Tamerlano.
Il nostro itinerario inizia il mattino con la visita del mausoleo Guri Amir, che ospita la tomba di Tamerlano, nonché quelle del suo nipote e del suo maestro preferiti. “Chiunque aprirà questa tomba – recava un’iscrizione – sarà sconfitto da un nemico più terribile di me”. Gli archeologi comunisti non si fecero però fermare da questa avvertenza e aprirono il sarcofago per sapere se era vero che Tamerlano, “la tigre zoppa”, era claudicante a causa di una ferita ricevuta in battaglia e per verificare se a suo nipote Ulughbek, quando fu deposto, venne mozzata la testa. Ebbene i due interrogativi ebbero conferma positiva, ma il giorno dopo la scoperta, il 22 giugno 1941, Hitler attaccò l’Unione Sovietica.
Ulughbek successe al trono dello zio e regnò fino al 1449, quando venne deposto da un complotto di fondamentalisti islamici (già allora imperversavano), che non gradivano le sue scoperte scientifiche in campo astronomico. Più famoso come astronomo che come sovrano, trasformò la città in un centro intellettuale e costruì un centro di ricerca astronomico articolato su tre piani con un immenso astrolabio per l’osservazione della posizione delle stelle. È sopravvissuta solo la parte interrata. Il resto è stato distrutto.
Ma eccoci alla visita del luogo certamente più suggestivo di questa incredibile città: Shahr-iZindah, un viale di tombe. Lastricate di maiolica all’interno e all’esterno, disposte in lungo, così da creare un percorso lungo una via, questi sepolcri ricoperti di piastrine che vanno dal blu al verde rendono questo luogo di un fascino incredibile. Tamerlano fece seppellire qui alcune delle persone a lui più care. Il posto era sacro perché ospitava già la tomba di un cugino del profeta Maometto. “La leggenda vuole che il santo – racconta Terzani (op. cit.) – venuto qui a combattere gli infedeli, fosse catturato e decapitato. Ma lui non se ne fece un cruccio. Raccattò la testa che gli avevano appena mozzata, se la mise sotto il braccio e andò a stare in fondo a un pozzo che era lì nei pressi. Il pozzo c’è ancora e la gente dice che il Re Vivente (da qui il nome del luogo) è sempre laggiù che dorme e aspetta l’occasione per uscire e riprendere la sua guerra contro gli infedeli”. Questa destinazione è meta di pellegrinaggi per i musulmani di tutto il mondo: tre viaggi qui equivalgono a uno alla Mecca.
Prima del pranzo visitiamo ancora il museo di Afrosiab. Ospita i frammenti di alcuni affreschi interessanti del VII secolo, che raffigurano scene di caccia, un corteo di ambasciatori e visite di regnanti locali.
Dopo il pranzo a base di spiedini – specialità del luogo – ci rechiamo a visitare la moschea Bibi-Khanim, fatta costruire da una moglie di Tamerlano come regalo-sorpresa durante un’assenza del marito. La moschea, molto ricostruita, è particolarmente imponente e nota per una leggenda, secondo cui l’architetto progettista s’innamorò pazzamente della regina e rifiutò di terminare il lavoro a meno che lei non gli desse un bacio. Tale gesto lasciò un segno sulla guancia della donna e quando Tamerlano lo vide fece giustiziare l’architetto, condannò la moglie a essere murata viva nel suo mausoleo e ordinò che le donne portassero il velo per non rappresentare una tentazione per gli altri uomini al di fuori del matrimonio.
Accanto alla moschea si trova il frenetico e pittoresco, ma particolarmente ordinato, mercato agricolo coperto. Poco distante il souk con la sua offerta di vestiti, scialli, cappelli, turbanti di ogni genere e ogni altra sorta di oggetti. Dulcis in fundo il Registan, la piazza principale di Samarcanda. Nel medioevo era il centro commerciale della città e l’intera piazza era probabilmente occupata dal bazar. Oggi è dominata da tre palazzi e al centro offre ampi spazi. L’edificio principale è la Madrassa di Ulughbek del XV secolo, ai lati altre due madrasse edificate due secoli più tardi riprendendo i modelli architettonici dell’era di Tamerlano.

Il ritorno alla normalità
Mercoledì 29 ottobre lascio a malincuore Samarcanda per l’ultima tappa di trasferimento in torpedone verso la moderna capitale Tashkent, una metropoli di oltre 2 milioni di abitanti, tipica città dell’ex impero sovietico. Il traffico è caotico, ma i numerosi parchi e viali alberati la ingentiliscono. Il centro è monumentale, arredato da palazzi stile regime, fontane e statue di cattivo gusto rappresentanti la madre patria e, naturalmente, l’eroe nazionale Tamerlano. Visitiamo la pulitissima e ordinatissima metropolitana, opera del regime sovietico negli anni Settanta. È monumentale, di stile simile a quella di Mosca e ogni stazione è caratterizzata da un tema legato alla propaganda politica sovietica. È l’unica testimonianza che rimane di quei tempi, oltre al regime di Karimov, che sembra incarnare tutti i difetti di un’epoca terminata solo a parole. Visitiamo alcune moschee e madrasse seicentesche, che sembrano molto ricostruite. Ma dopo Samarcanda il discorso con l’arte islamica è chiuso. Il mattino seguente all’alba parte il nostro volo per Roma e Milano.