Francia – Dove nascono i migliori vini rossi al mondo

Francia – A Bordeaux, la capitale mondiale del vino

Un itinerario tra mare e colline, nelle regioni dell’Haut-Médoc, del Pomerol e del Saint Èmilion, alla scoperta di un territorio che dà origine ai migliori vini al mondo e ad altre prelibatezze per il palato come gli allevamenti di ostriche nel Bassin d’Arcachon con la duna più grande d’Europa.

Prosegue il nostro itinerario nella regione di Bordeaux con la sua straordinaria tradizione enologica. Il nostro intento non era però quello di girare per cantine, bensì alla scoperta di un territorio che dà origine ai migliori vini del mondo e ad altre prelibatezze per il palato. Anche lungo la strada del ritorno in Ticino, grazie alla guida sicura della Michelin Verde, abbiamo scoperto luoghi romantici e meravigliosi nel Périgord lungo le rive della Dordogna.

Nella patria delle ostriche
Il mattino del quinto giorno di viaggio lasciamo a malincuore – perché l’abbiamo molto amata – Bordeaux per dirigerci verso il Bassin d’Arcachon e verso l’Oceano Atlantico. Il bacino è un’insenatura lungo l’oceanica Costa d’Argento che si estende verso la Spagna, una laguna pescosa con l’acqua dolce del fiume Eyre e il sale delle maree. Simbolo di questo bacino è la cosiddetta Pinasse, un’imbarcazione dai colori vivaci a chiglia piatta costruita in legno di pino (da qui il nome). Pittoresche anche le variopinte capanne dei pescatori che si affacciano sullo specchio d’acqua. Ma il Bassin, sin dal tempo dei romani, è famoso per le sue ostriche. Fino a metà Ottocento erano selvatiche, in seguito iniziarono a scarseggiare e si dovettero allora escogitare metodi di allevamento. Si depositano così nell’acqua mattoni rivestiti di calce, sui quali si insediano le larve delle ostriche. Attraverso numerosi interventi manuali i molluschi vengono trattati per tre anni prima di finire sui tavoli dei più rinomati ristoranti di Francia. Il procedimento è bene illustrato alla “Maison de l’huître” nel villaggio di Guyan-Mestras, la capitale delle ostriche.

Tra mare, pinete e dune di sabbia
La regione del Bassin d’Arcachon offre innumerevoli possibilità di svago a contatto con la natura: passeggiate, gite in canoa, un centro ornitologico. Ma per chi non ha troppo tempo a disposizione l’attrazione più spettacolare è certamente rappresentata dalla Dune du Pilat. Lunga 2,7 chilometri, larga 500 metri e alta 105 è la più elevata d’Europa. È situata tra l’oceano (a ovest) e una fitta pineta (a est). Una passeggiata lungo la cresta della duna, accompagnati dal rumore del vento e delle onde che si infrangono sulla spiaggia, offre un’indimenticabile vista sull’Atlantico, sul mare di sabbia e sulla foresta, in un tripudio di colori.
Prima di lasciare questa splendida regione vale la pena di visitare Arcachon, una località balneare di fine Ottocento. Voluta da due astuti banchieri (i fratelli Pereire) fu concepita ex novo, grazie al prolungamento della ferrovia da La Teste, ex luogo di villeggiatura dei bordolesi, fino alla nuova Arcachon, dove vennero create moderne infrastrutture e costruite villette ai bordi del bosco e non lontano dal mare. Qui si veniva non tanto per la tintarella e i bagni di mare quanto per l’aria salubre. Da quando Napoleone III vi fece visita diventò una località alla moda frequentata da nobili, uomini d’affari, letterati, artisti e musicisti di grido come Toulouse-Lautrec, Sartre, Debussy, Alexandre Dumas, Cocteau e molti altri. Sulla collina, una sorta di Beverly Hills alla francese, rimangono molte di quelle costruzioni di fine Ottocento-inizio Novecento. Parecchie sono state restaurate, altre sono chiuse, ma passeggiando per le “Allée” (così si chiamano le strade) sembra di tornare indietro negli anni e di rivivere il tempo della Belle époque.

I sontuosi châteaux dell’Haut-Médoc
Il nostro viaggio volge al termine, ma i prossimi due giorni, il sesto e il settimo, sono dedicati alla scoperta delle regioni da cui provengono i vini rossi più prestigiosi del mondo: Haut-Médoc, Pomerol e Saint-Èmillion.
Iniziamo dall’Haut-Médoc, una regione che si estende sulla sponda destra della Gironde, un’insenatura del mare, dove i fiumi Dordonne e Garonne si incontrano prima di sfociare nell’oceano. Poco oltre la confluenza dei due fiumi, in direzione del mare, alla fine del Seicento fu costruito Fort Médoc (si può visitare), che faceva parte di un sistema di difesa per impedire alla flotta inglese di raggiungere Bordeaux.
La tradizione viticola della regione risale ai tempi del re Sole. È questa la patria per eccellenza dei Grands Crus Classés, voluti da Napoleone III nel 1855 in occasione dell’esposizione universale di Parigi per mettere il più possibile in luce i prodotti francesi di qualità. Si distinsero così diversi livelli: dal premier fino al cinquième grand cru. Questa classificazione, che fu decisa dai commercianti e non da un giudice super partes, detta legge ancora oggi. Percorrendo la strada statale D2 si attraversano immense e armoniose distese di vigneti suddivisi in sei giurisdizioni comunali: Margaux, Moulis, Listrac, Saint-Julien, Pauillac e Saint-Estephe. I vigneti più pregiati sorgono lungo pendii rivolti verso la Gironde e hanno la caratteristica di immagazzinare il calore durante il giorno per poi restituirlo durante le ore notturne. Nella regione, che fornisce solo l’8 per cento dei vini del bordolese, si coltivano i vitigni Merlot, Cabernet-Sauvignon, Cabernet Franc, Petit Verdot e Malbec. Da un’assemblaggio di queste uve nascono bottiglie prestigiose vendute a prezzi vertiginosi. Per visitare gli châteaux più rinomati, quasi tutti ottocenteschi e frutto della cosiddetta “aristocratie du bouchon”, è necessario prenotare con molto anticipo. Ma ci si può fare un’idea del loro valore economico e del business che si nasconde dietro edifici tanto sontuosi anche vedendoli dall’esterno. Vale pertanto la pena di soffermarsi, viaggiando da sud a nord, davanti a Château Siran appartenuto agli avi del pittore Toulouse-Lautrec, all’armonioso Château Margaux, a Château Beychevelle, al maestoso Château Lafite-Rothschild e al curioso Château Cos-d’Estournel dalla silhouette orientale.
Lasciamo l’Haut-Médoc attraversando la Gironde in traghetto da Lamarque verso Blaye per dirigerci, sempre tra paesaggi vignati, ma di prestigio minore, verso altre mecche del vino: Pomerol e St-Èmilion.

Nella patria di Petrus
Qui il clima meno marittimo e più continentale rispetto al Médoc, quindi più fresco andando verso l’autunno, fa sì che il Cabernet Sauvignon incontri sovente difficoltà a maturare completamente: ecco quindi che il taglio viene maggiormente caratterizzato dal Merlot, integrato dal Cabernet Franc: è questo che fa la differenza rispetto al Médoc. A nord-est della graziosa cittadina di Libourne, con la sua bella piazza centrale, si trova la piccolissima regione del Pomerol, dove viene prodotto forse il più grande vino rosso al mondo, il Petrus (100% Merlot). La sua cantina è anonima e non segnalata, ma costituisce una mecca per gli amanti del vino. A sud-est di Libourne si estende invece la regione del Sain Èmilion, dove è piacevole perdersi per le stradine tra i vigneti alla ricerca di graziose chiesette romaniche (Montagne, St-Georges, St-Christophe-des-Bardes, St-Hippolyte) e di castelli più antichi di quelli dell’Haut-Médoc, come per esempio Château de Pressac dove venne firmato il trattato che mise fine alla guerra dei Cent’anni. Tra queste vigne gloriose scorgiamo anche un segno del Ticino, tracciato dalla penna dell’architetto Mario Botta: lo splendido Château Faugères che dialoga magistralmente con il paesaggio circostante.
Questa regione non soddisfa però solo le papille gustative ma anche il “plaisir des yeux” , come dicono i francesi. Saint-Èmilion è infatti uno splendido borgo medievale costruito con una pietra dorata, ricco di graziose piazzette e sinuose viuzze e iscritto nella lista dei Patrimoni mondiali dell’Unesco. Di particolare interesse l’Èglise monolithe, una chiesa benedettina a tre navate che a partire dal IX secolo fu scavata nella roccia: quindi più opera scultorea che creazione architettonica. Unica in Europa per le sue dimensioni: 38 metri di lunghezza, 20 di larghezza e 11 di altezza.

Nel Périgord Noir lungo la Dordogne
Eccoci giunti all’ultimo giorno di visite, prima del viaggio di rientro. Ci spostiamo verso est per circa 100 chilometri per visitare un’incantevole e romantica regione – il sud del Périgord Noir – risalendo il fiume Dordogne lungo un’opulenta valle dominata da una schiera di roccaforti. Il percorso del fiume si snoda tra campi fioriti delimitati da pioppi. Il paesaggio è incantevole, fiabesco. La prima tappa è il Castello di Milandes, dove visse a lungo la nota e provocante artista Joséphine Baker (1906-1975). Un percorso museografico racconta la sua vita avventurosa. Più avanti i castelli di Beynac e di Castelnaud (archetipo del castello medievale dei libri di storia), situati uno in faccia all’altro, ci ricordano le interminabili battaglie tra Francesi e Inglesi nel XIII e nel IVX secolo. Da Domne, un incantevole villaggio che domina una collina, la vista abbraccia tutta la valle della Dordogna segnata dal fiume che si snoda tra i campi disseminati di villaggi e fattorie. Forse il più incantevole di questi borghi è La Roque-Gageac, aggrappato a una falesia con le case dai colori caldi della pietra allineate lungo la Dordogne. Sulla cresta della falesia si può passeggiare lungo i viali dei Giardini di Marqueyssac per raggiungere un belvedere che domina la valle a picco sopra il villaggio La Roque-Gageac. Beynac-et-Cazenac è un altro borgo abbarbicato su un’altra impressionante falesia. Ultima meta, dulcis in fundo, è Sarlat-la-Caneda, una romantica cittadina medievale costruita con una pietra color ocra biondo, in cui è piacevole perdersi per le strette viuzze che sfociano in graziose piazzette. Il borgo, spesso utilizzato come set cinematografico, è stato scelto nel 1962 dal Governo francese come intervento pilota di salvaguardia dei nuclei storici di valore.

Itinerario

1° giorno
Locarno-Le Puy-en-Velay (612 km)

2° giorno
Le Puy-en-Velay-Conques-Rocamadour-Sauternes (586 km)

3° giorno
Sauternes-La Brède-Bordeaux (107 km)

4° giorno
Bordeaux

5° giorno
Bordeaux-Arcachon-Pyla sur Mer (80 km)

6° giorno
Bordeaux-Haut Médoc-Libourne (140 km)

7° giorno
Libourne-Pétrus-St. Émilion (70 km)

8° giorno
St. Émilion-Périgord Noir-Sarlat (150 km)

9° giorno
Sarlat-Locarno (924 km)

Bibliografia
Francia Guida Michelin, Milano 1997
Francia Touring Club Italiano, Milano 1994
Francia Sud-Ovest La Guida Verde Michelin, Milano 2008

Ungheria – Le città e i villaggi, la corona di Budapest

Ungheria – In campagna tra chiese e castelli
Slovacchia – Con Bratislava amore a prima vista

Il percorso proposto esclude la capitale, alla scoperta di quella che potremmo chiamare l’altra Ungheria, una destinazione poco gettonata dal turismo internazionale, ma forse per questo particolarmente interessante.

Budapest, come Londra per la Gran Bretagna o Parigi per la Francia, è il fulcro attorno a cui ruota la vita dell’Ungheria. È una splendida città, meta ideale per un fine settimana prolungato. L’itinerario che vi propongo si articola escludendo la capitale, alla scoperta di quella che potremmo chiamare l’altra Ungheria. Si tratta di una destinazione solitamente poco gettonata e forse proprio per questo interessante. Durante il nostro soggiorno abbiamo incontrato molti turisti locali, ma pochi che venivano dall’estero. Salvo quando ci si avvicinava a Budapest, come a Visegrad o Szentendre. Certo, se non siete mai stati nella capitale, sarebbe davvero un peccato non dedicarle alcuni giorni, ma tenete conto che è facilmente raggiungibile, sia in aereo, sia via Danubio da Praga e da Vienna.
Il percorso qui descritto è facilmente praticabile partendo da casa con la propria vettura, perché per raggiungere la frontiera ungherese non occorrono più di sette ore passando per il Friuli. Non si vedono cose eccezionali, ma si trascorre una piacevole settimana visitando simpatiche cittadine e villaggi, castelli ricchi di tradizione e monumenti religiosi antichi quanto la storia di questo paese.

Quattro cittadine e la dominazione turca
Tra le città e cittadine visitate durante questo itinerario nell’altra Ungheria, cioè oltre Budapest, quella che più mi ha affascinato è senz’altro Sopron, incuneata all’interno del territorio austriaco. In effetti il Trattato del Trianon, con cui gli Alleati vittoriosi nel 1920 dopo la prima guerra mondiale ridisegnarono a Versailles l’Europa, assegnava questa cittadina all’Austria. Un anno più tardi i suoi abitanti chiamati alle urne optarono però risolutamente per ritornare ungheresi. Per celebrare questo avvenimento sulla piazza principale del centro storico si erge la Porta della Lealtà con una decorazione che mostra l’Ungheria circondata da cittadini inginocchiati e lo stemma di Sopron che da allora include il titolo di “Civitas Fidelissima”. Gli Austriaci vi si recano per fare acquisti, per cenare nei numerosi ristoranti e per le cure odontoiatriche: ci sono studi dentistici ovunque! Per noi turisti, invece, Sopron con i suoi 115 monumenti e 240 edifici antichi, può essere considerata a giusta ragione “la città più storica dell’Ungheria”. Non essendo mai stata devastata dai Mongoli o dai Turchi, il centro storico ha infatti conservato il suo impianto medievale con una commistione di gotico e barocco. La seconda guerra mondiale ha provocato gravi danni, ma la città antica è stata restaurata con molto garbo. Circondato dai quartieri moderni il centro storico è costruito a ferro di cavallo attorno alla piazza principale (Fö Ter). Si articola su quattro vie pavimentate a grossi ciottoli e fiancheggiate da abitazioni dipinte con colori pastello. Passeggiando per le strette viuzze pedonalizzate, sia di notte come di giorno, si ha l’impressione di tornare indietro nel tempo.
Un’altra cittadina molto caratteristica e affascinante è Szentendre. Appare come un villaggio romantico che si estende sulla riva destra del Danubio a 19 chilometri da Budapest. Numerosi artisti hanno trovato in questi luoghi una fonte di ispirazione. La “Montmartre del Danubio” – così l’ha definita Claudio Magris – si presenta come un delizioso complesso di case dai colori autunnali, con giardini segreti e vicoletti che si snodano fino alle chiese in cima alle colline. Accanto a luoghi di culto cattolici se ne trovano anche di ortodossi, eretti da cittadini serbi che erano riparati qui nel lontano ‘600 quando i Turchi avevano invaso il loro paese.
Sebbene sia considerata da molti come la più bella città d’Ungheria, dopo la capitale, sono rimasto invece parzialmente deluso da Pecs, che si trova a sud del paese. La sfortuna ha voluto che la visitassi di lunedì, giorno in cui i suoi numerosi e interessanti musei sono chiusi. In particolare mi sono perso il Csontvary Muzeum, dedicato alle opere dell’omonimo grande artista nato nel 1853, lo stesso anno di Van Gogh, con cui non ha avuto in comune solo la data di nascita, ma anche un’esistenza altrettanto tragica. Apprezzato in Francia, ma non nel suo paese, oppresso da una personalità instabile e ossessiva che sconfinava nella malattia mentale, morì a Budapest solo e senza un soldo. La sua opera, messa all’asta dai parenti, venne acquistata quasi in blocco da un giovane architetto, che ne riconobbe la genialità. Picasso, scoprendo questo artista in occasione di una mostra a Parigi, affermò con poca modestia: “Non sapevo, che oltre a me, ci fosse un altro grande pittore in questo secolo”.
Situata in un avallamento e protetta dai venti, questa città dal clima mediterraneo è famosa, oltre che per la cultura (di cui fu eletta capitale europea nel 2010), anche per i suoi vini. Buona parte del centro storico è pedonalizzato e passeggiare è piacevole. Molto suggestiva la piazza dove sorge la cattedrale e quella che ospita il Belvarosi Templon: un’antica moschea costruita verso il 1580 dai Turchi utilizzando le pietre recuperate dalla demolizione di una chiesa cattolica medievale. Alla partenza dei Saraceni, quest’edificio è stato trasformato in chiesa cattolica, dopo aver abbattuto il minareto. Un episodio che bene esprime il trauma vissuto da questo paese durante la dominazione turca.
Anche Eger, una cittadina situata nel nord-est del paese, ha una storia legata al periodo dell’occupazione ottomana. Condotti da Istvan Dobo, un eroe nazionale, 2000 soldati nel 1552 resistettero per un mese a un esercito di oltre 100 mila Turchi. La leggenda narra che il comandante ungherese sostenne le truppe sfinite grazie ai poteri magici di un vino locale. Siccome i soldati non si asciugavano educatamente la bocca, i Turchi pensarono che bevessero sangue di toro. A quel punto gli invasori abbandonarono impauriti il campo e il vino locale assunse il nome di Bikaver, cioè sangue di toro. Aneddoti a parte, la cittadina, dominata da un imponente castello molto ricostruito, è piuttosto deludente, salvo una piazza e alcune belle vie che salgono al maniero, affiancate da costruzioni antiche.

Due villaggi rurali molto diversi fra loro
Kozeg, annidata sulle alture subalpine lungo il confine austriaco, propone uno dei centri storici più belli d’Ungheria. È una Sopron in miniatura, sia per la sua posizione, sia per la sua bellezza. Le sue case barocche e l’ambiente riflettono secoli di influenza austriaca e tedesca, quando era chiamata Güns. Come Sopron è disposta a ferro di cavallo e si articola su poche arterie principali collegate da stradine su cui si affacciano case e palazzi antichi dai colori tenui. Come Eger è famosa per la sua eroica resistenza ai Turchi durante l’assedio del 1532: per un mese il sultano Solimano, diretto a Vienna con 100 mila soldati, fu tenuto in scacco da 400 combattenti guidati dal capitano Miklos Jurisics. Dopo diciannove assalti il sultano abbandonò la campagna fino all’anno successivo, quando Vienna era ormai pronta a difendersi.
Di natura completamente diversa è invece lo splendido villaggio di Hollokö, considerato il più bello d’Ungheria e dichiarato patrimonio dell’Umanità dall’Unesco. Situato su un’altura in mezzo a un paesaggio cosparso di vigneti, pur essendo realmente abitato assomiglia a un museo etnografico all’aperto. È una sorta di Corippo ungherese. Molte delle sue case sono state adibite a museo, altre sono state acquistate da intellettuali della capitale per salvare questo luogo più volte distrutto da incendi, ma sempre ricostruito con le tecniche antiche, salvo i tetti che nel passato erano in paglia. Le strutture portanti delle case sono in legno e gli interni sono decorati come una volta. Isolato dalle aree di sviluppo economico – l’acqua e l’elettricità sono giunte qui solo nel 1959 – il villaggio è stato protetto dalle trasformazioni e può vantare oggi un aspetto quasi incontaminato. Era abitato da una minoranza etnica di origine slovacca chiamata Paloc, per la quale la gerarchia familiare era molto importante e si esprimeva anche nell’ubicazione delle abitazioni. La prima casa di una famiglia, dove abitava il ramo più anziano, era collocata sul bordo di una delle due strade principali su cui si articola il villaggio. I discendenti costruivano in seguito le loro case sulla stessa parcella, che si estendeva perpendicolarmente alla strada.

Itinerario
Locarno – Kutas (921 km)
Kutas – Pecs – Kutas (200 km)
Kutas – Gödöllo – Eger /365 km)
Eger – Belapatfalva – Szilvasvarad – Lillafüred (50 km)
Lillafüred – Eger – Hollöko – Szentendre – Visegrad (245 km)
Visegrad – Esztergom – Pannonhalma – Bratislava (215 km)
Bratislava – Fertörakos – Sopron (85 km)
Sopron – Fertöd – Köszeg – Tatzmannsdorf (105 km)
Tatzmannsdorf – Locarno (Via Udine) (874 km)

Bibliografia
Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia Le Guide Routard, Milano 2008
Ungheria Touring Editore, Milano 2011
Ungheria Le Guide Mondadori, Milano 2009
Budapest e l’Ungheria La Guida verde Michelin, Milano 2009
Ungheria The Rough Guide, Vallardi, Milano 2007
Ungheria Lonely Planet, Torino 2009
Slovacchia Touring Editore, Milano 2010
Bratislava Morellini Editore, Milano 2009

Laos – La sua linfa vitale è il fiume Mekong

Laos – Il Laos “no stress” tra passato e presente
Cambogia – L’estasi davanti ai templi di Angkor
Cambogia – Un angelo svizzero medico in Cambogia

Un itinerario sorprendente che permette la scoperta del Paese asiatico navigando il suo fiume storico da Huay Xai, al confine con la Thailandia, fino a Luang Prabang, la graziosa antica capitale protetta dall’Unesco e prediletta dai turisti.

Il fiume Mekong ha costituito per millenni la linfa vitale del Laos, uno dei paesi più poveri al mondo, dove l’80 per cento degli abitanti vive di agricoltura. Ancora oggi circa 60 milioni di persone dipendono dalle risorse delle sue acque e da quelle dei suoi affluenti. Questo fiume, che nasce in Tibet e attraversa Cina, Birmania, Thailandia, Cambogia e Vietnam, ha profondamente inciso sulla storia del Laos, al punto che quasi tutto il paese si è sviluppato lungo le sue rive. Per questo, il nostro itinerario realizzato da Kel 12, prevede la scoperta del Laos navigando il suo fiume storico, laddove è possibile: da Huay Xai, al confine con la Thailandia, fino a Luang Prabang, la graziosa cittadina protetta dall’Unesco e prediletta dai turisti. Oltre non si può navigare a causa di ripide e cascate. Proseguiremo pertanto verso la capitale Vientiane in aereo. Il nostro viaggio continuerà quindi in Cambogia alla scoperta degli affascinanti templi di Angkor, immersi nella foresta e abbracciati dalle magiche radici dei suoi alberi.

La grande madre
Il nostro viaggio inizia da Milano-Malpensa, dove un volo diretto Thai airways ci porta a Bangkok, da cui si riparte per Chiang Rai nel nord della Thailandia. Da qui in un’ora di pulmino si raggiunge Chieng Khong, un porto fluviale considerato “la porta dell’Indocina”. Il Mekong, la “Madre di tutti i fiumi”, che segna il confine tra l’antico impero siamese e il Laos, è davanti a noi. Il nostro viaggio entra nel vivo. Un’imbarcazione ci attende per attraversare il fiume. Prima di raggiungerla passiamo sotto un arco di dubbio gusto, considerato appunto “la porta dell’Indocina”. Giunti sull’altra sponda, a Huey Xai, espletiamo sul posto le pratiche per il visto e ci incamminiamo verso il modesto albergo dove passeremo la notte, ospitato in un’antica casa coloniale francese.
Prima di cena visitiamo un tranquillo villaggio di etnia Lenten, che si affaccia sul Mekong a una trentina di chilometri da dove alloggiamo. Le abitazioni sono plurifamiliari con tetti in foglie di palma e bambù, come tutti gli altri villaggi in cui sosteremo nei giorni seguenti lungo il Mekong. Siamo nel cosiddetto Triangolo d’oro, noto per la coltivazione del papavero da oppio. Nel villaggio in cui ci troviamo sembra che lo coltivino non per commerciarlo, ma solo per consumarlo. Le donne indossano vestiti blu e neri, non hanno sopracciglia (vengono depilate all’età di 15 anni) e nei capelli lisci portano una moneta d’argento. L’atmosfera è tranquilla. Gli uomini giocano alle pétanque: il gioco delle bocce che i Francesi hanno introdotto durante la loro dominazione (1893-1953).
Rientriamo a Huey Xai. La via principale è un susseguirsi di guesthouse, negozi e agenzie di viaggio. Anche qui l’atmosfera è rilassata e la passeggiata piacevole.
Il mattino seguente una lunghissima barca in legno ci aspetta per una crociera che durerà due giorni. La nostra meta è Luang Prabang, l’antica capitale del Laos, che dista circa 300 chilometri. Per la notte faremo tappa a Pakbeng in un grazioso resort che si affaccia sulle rive del Mekong.
La navigazione lungo il fiume è piacevole. Il nostro barcone scivola sull’acqua a una velocità media di 20 km/h aiutato dalla corrente del fiume che a tratti è intensa. Siamo nel mese di febbraio e l’acqua è bassa. Sulle rive si sono pertanto create improvvisate spiaggette di sabbia bianchissima, simile a quella del mare. La foresta incombe a pochi metri. Ma per lunghi tratti le sponde sono rocciose, con forme appuntite. Il fiume è molto selvaggio. I rari villaggi si affacciano sulle acque, a volte nascosti dalla folta vegetazione. Si intuisce la loro esistenza dalle barche ormeggiate lungo le rive, coltivate a patate, e dall’animazione: bimbi che giocano, donne che lavano i panni, altre che setacciano la sabbia cercando povere pagliuzze d’oro, uomini che pescano pesci o alghe, animali che si abbeverano, buoi di fiume che si immergono. Il Mekong per tutta questa gente è una fonte di vita: fornisce cibo e acqua per irrigare i terreni e rappresenta la via di comunicazione principale. In alcuni villaggi, dove si fermano i barconi dei turisti, le donne tessono la seta per arrotondare le scarse entrate.
A un paio d’ore da Luang Prabang un’imponente parete rocciosa si erge sulla riva destra del fiume. Qui, nelle grotte di Pak Ou, che si aprono in alto, si trova un commovente e suggestivo luogo di culto, caratterizzato dalla semplicità della fede popolare. Sotto la volta, nelle sacre caverne, è ospitata un’innumerevole quantità di statuette, alcune povere e grezze, offerte dalle popolazioni che risiedono lungo il fiume e nelle aspre montagne che lo costeggiano.

Un magico equilibrio
Il colpo d’occhio che ci offriva – scriveva all’inizio del secolo scorso l’esploratore Francis Garnier – era fra i più pittoreschi e animati … I tetti, l’uno accanto all’altro, si allineavano in file parallele lungo il fiume e serravano da ogni lato una montagna che si elevava come una cupola coperta di verde. Alla sommità della montagna un that o dagoba (monumenti religiosi ndr) slanciava la sua acuta cuspide sulla vegetazione, formando il tratto dominante del paesaggio”.
La città laotiana prediletta dai Francesi durante il protettorato e oggi la più amata dai turisti, dopo oltre un secolo da quando furono scritte queste parole, appare ancora così.
Una vera gioia per gli occhi, scriveva più o meno nello stesso periodo il diplomatico parigino Auguste Pavie. Con i suoi fiumi, la città e le montagne intorno, questo è indiscutibilmente il più bel posto del Laos”.
Le ville del periodo coloniale francese oggi sono state trasformate in alberghi o in eleganti negozi, ma lo spirito di questa cittadina, inserita nel 1995 dall’Unesco sulla lista del Patrimonio mondiale dell’Umanità, non è stato alterato. Sorge a 700 metri di quota, racchiusa da una cerchia di montagne, e propone un magico equilibrio tra il suo stupendo quadro ambientale e le opere d’arte che l’uomo ha creato per celebrare la profonda fede buddista, di cui si ha una testimonianza ogni mattina all’alba se ci si apposta su una delle vie principali. I monaci passano con la loro ciotola protesa a ricevere il cibo per la giornata e lunghe file di persone li attendono inginocchiate sui bordi della strada per protendere i loro doni. Al tramonto rimbombano invece i suoni dei tamburi che rammentano l’insegnamento del Budda e richiamano alla meditazione.
Luang Prabang ospita più di trenta monasteri. Ognuno con la sua particolarità. Sarebbe ingiusto e difficile stilarne una graduatoria, ma il più solenne è certamente Vat Xieng Thong, perché qui un tempo risiedeva il grande Venerabile, la guida spirituale di tutti i monaci. È anche uno dei più antichi della città – risale al XVI secolo – ed è stato risparmiato dal saccheggio avvenuto nel 1887 ad opera delle Bandiere Nere thailandesi, che distrussero tutti gli altri luoghi di culto.
Nel Palazzo reale adibito a museo si può ammirare il Pha Bang, una statua che rappresenta il simbolo di legittimazione buddista della monarchia laotiana e che ha dato il nome alla città. Curiosa celebrazione in uno stato in cui sopravvive una delle ultime dittature comuniste e dove la monarchia ha abdicato da ormai oltre 35 anni.
Prima di lasciare Luang Prabang vale la pena di visitare il variopinto mercato artigianale serale, che si svolge ogni giorno in centro città.

Vientiane, la capitale
Secondo gli autori della guida Lonely Planet dedicata al Laos, Vientiane “può fregiarsi del titolo di capitale più tranquilla di tutto il pianeta”. Percorrendola si incontrano numerosi stili architettonici che rammentano la sua animata storia: dal laotiano al thailandese, dal cinese all’americano, dal sovietico al francese. Ma lungo i larghi viali alberati spiccano soprattutto gli eleganti edifici coloniali francesi. Per non parlare di una goffa imitazione dell’Arco del trionfo parigino, che in città viene ironicamente chiamato “la pista verticale”, perché fu costruito con i soldi concessi dagli Americani per costruire un nuovo aeroporto. Nessun grattacielo sovrasta le pagode, più numerose degli edifici pubblici. Ci si può rendere conto dell’elevata devozione popolare entrando a caso in uno dei tanti monasteri per assistere a semplici e sincere cerimonie religiose, celebrate ad hoc per piccoli gruppi di fedeli, da giovani monaci.
La sera la gioventù si riversa sull’ombreggiata passeggiata lungo il Mekong e nelle piazzette esegue esercizi di ginnastica al ritmo di musica moderna. I turisti possono passeggiare senza timori per le vie della città e sul lungofiume, dove viene proposto un simpatico mercatino dell’artigianato.
Anche Vientiane, come Luang Prabang, è stata rasa al suolo dalla furia dei Siamesi (attuali Thailandesi) nel 1828. Tra i monasteri solo il Wat Si Saket è stato risparmiato dagli invasori, sembra per l’affinità architettonica con gli edifici del loro paese. La particolarità di questo monumento consiste nelle mura interne punteggiate da piccole nicchie che contengono migliaia di statuette del Budda.
Ma il monumento più importante della città e dell’intero Laos, simbolo della religione buddista e della sovranità del paese, è il Pha That Luang, le cui guglie dorate sono visibili da lontano e rappresentano l’orgoglio della nazione. Raffigura la metafora dell’elevazione umana, che passa dall’ignoranza all’illuminazione del buddismo, realizzata proponendo piattaforme quadrate sovrapposte e degradanti: la prima simboleggia la terra, le successive i petali di loto per giungere all’apice con il bocciolo del fiore sacro in forma allungata.

Itinerario
1° giorno
Milano-Bangkok
2° giorno
Bangkok-Chiang Rai-Chieng Khong-Huey Xai
3° giorno
Navigazione da Huey Xai a Pakbeng
4° giorno
Navigazione da Pakbeng a Luang Prabang
5° giorno
Luang Prabang
6° giorno
Luang Prabang-Vientiane
7° giorno
Vientiane-Phnom Penh
8° giorno
Phnom Penh-Sambor Prei Kuk-Siem Reap (Angkor)
9° giorno
Siem Reap (Angkor)
10° giorno
Siem Reap (Angkor)-Bangkok-Milano

Bibliografia
Laos Lonely Planet, Torino 2007
Laos Polaris, Firenze 2009

Tenerife – Sulla cima di Spagna, ma alle Canarie

La Gomera

Un viaggio alla scoperta di una Tenerife discosta dai centri più rinomati. Nei suoi splendidi parchi nazionali, a cominciare dai paesaggi lunari del vulcano del Teide, la montagna più alta di Spagna, per poi scendere verso le scogliere selvagge ad est e ad ovest dell’isola.

Non dimenticate di mettere gli occhiali da sole se arrivate per la prima volta sulla punta sud occidentale di Tenerife. Ne avrete bisogno per proteggervi non solo dal sole accecante, ma anche per non restare abbagliati dalle insegne al neon, dalla sabbia bianca (importata dal Sahara) e dai turisti nordeuropei rossi come gamberi. Grandi resort pieni di piscine e con buffet all-you-can-eat hanno trasformato questa sonnolenta costa di pescatori in uno dei più importanti motori economici di Tenerife”. La guida Lonely Planet presenta così le spiagge più famose – Los Cristianos, Playa de las Americas e Adeje – della costa sud che hanno reso celebre l’isola nel mondo ed ogni anno ospitano 10 milioni di turisti. Senza nulla voler togliere a chi opta per una settimana di sole e mare per allontanarsi dal freddo dei nostri inverni, esiste anche un’altra Tenerife, molto meno nota, ma straordinaria, con paesaggi particolarmente suggestivi. È alla scoperta di questa Tenerife, discosta dai centri più rinomati e per fortuna non ancora invasa dal cemento armato degli enormi alberghi e apparthotel, che ho organizzato un viaggio l’autunno scorso. L’itinerario prevedeva anche la visita della vicina isola di La Gomera. Ne è nata una vacanza meravigliosa, al di là delle mie aspettative, che consiglio a chi ama immergersi in una natura incontaminata tra mare e montagne.

Il vulcano del Teide, un paesaggio lunare
Eravamo molto delusi quando dalla costa nord dell’isola guardavamo in alto la strada che attraversando la valle di Orotava sale verso il Teide, la montagna più alta di Spagna (3718 metri). Ma dato che avevamo prenotato per la notte al Parador de la Canada del Teide, a quota 2’200 metri, siamo saliti in ogni caso. Dopo aver attraversato una densissima nebbia, che non avremmo mai associato con il clima delle Canarie, tutt’a un tratto siamo sbucati in un paesaggio lunare con un cielo blu molto terso. Iniziava lo spettacolo. Davanti a noi sua maestà il vulcano, all’interno del quale gli indigeni dell’isola anticamente credevano vivesse il diavolo Guyota, che un bel giorno decise di uscire dalla sua tana sotterranea e vide il sole. Ingelosito dalla sua luce, lo rubò per nasconderlo nel suo covo, portando morte, distruzione e oscurità su tutta l’isola. I Guanci pregarono allora Chaman, il dio del sole, che sconfisse Guyota e riportò la luce. Questa leggenda è legata a un’eruzione che avvenne nel XIII secolo, quando una nube di cenere oscurò il sole e l’unica luce che gli abitanti potettero vedere per giorni è quella che veniva dalla bocca del vulcano. Ciò li indusse a credere che il sole fosse intrappolato al suo interno. Terminata l’eruzione, la cenere si depositò sul terreno e il sole tornò a splendere.
Il Parco Nazionale del Teide è di una bellezza mozzafiato. Le guide spiegano che qui si trova più dell’ottanta per cento delle formazioni vulcaniche del mondo, con terreni, rocce e pinnacoli di lava di ogni colore e forma. Il nostro primo impatto è stato ancora più incantevole perché era l’ora del tramonto, con il cielo che si illumina di tutte le tonalità dal giallo, all’arancione, al rosso fuoco riflettendo i suoi colori sulle rocce cangianti. Quando piomba la notte invece si gode lo spettacolo delle stelle.
Il mattino seguente ci siamo alzati di buonora per camminare lungo i sentieri che i Guanci prima e i pastori spagnoli poi percorrevano per portare al pascolo le capre. Si tratta delle “cañadas”, ossia i sette “sentieri dei greggi al pascolo”, detti anche “strettoie” o gole. Una gita pianeggiante di circa 17 chilometri ai piedi del vulcano, della durata di 5 ore, che collega i due punti di informazione del Parco (bisogna partire entro le 9 per poter rientrare con il bus delle ore 15). Lungo il tragitto il paesaggio muta in continuazione. Sulla destra si ergono montagne rocciose levigate e lavorate dal vento. Sulla sinistra domina imponente la vista del Teide, una montagna multicolore, dove si vedono ancora le colate rosso scuro dell’ultima eruzione avvenuta nel Settecento. La montagna è brulla, ma ospita un po’ di sterpaglia che arricchisce di qualche tonalità di verde una gamma che in autunno varia dal color sabbia, passando per tutte le gradazioni del marrone e terminare al rosso scuro delle colate di lava. Tra il sentiero che corre lungo le rocce e il Teide si estendono vasti campi lavici molto scuri, alcuni nero cupo con componenti luccicanti che brillano ai raggi del sole. Pochi gli arbusti. Alcuni verdi, la maggior parte bruni. Qua e la spiccano originali pennacchi simili a code di volpe, tipici della zona, e rocce dalle forme singolari. A tratti sembra di intravedere forme modellate da un artista, ma è tutta opera della natura. Quando giungiamo al termine del percorso siamo stanchi, ma anche delusi che lo spettacolo a cui abbiamo assistito sia terminato.
Questi sentieri sono deserti: in una giornata abbiamo incontrato solo due altri turisti. Non è così per salire in teleferica (made in Switzerland) sul Teide. Ogni anno trasporta 4 milioni di persone. Già per la prima corsa alle 9 di mattina si fa la coda. Arrivati in cima, la vetta è riservata a sole 150 persone al giorno: bisogna essere in possesso di un permesso speciale (che si può scaricare da internet). La salita richiede mezz’ora. Più ci si avvicina alla bocca del vulcano addormentato, più si sente un forte odore di zolfo. Dall’alto si può godere lo spettacolo della vallata vulcanica estendersi maestosamente sotto di noi e le isole di La Gomera, La Palma ed El Hierro emergere dall’Atlantico.

Da una punta dell’isola all’altra
Oltre al Parco Nazionale del Teide, Tenerife offre al viaggiatore altre due meraviglie: le punte ovest ed est dell’isola decretate “parchi rurali”, quindi zone protette.
Le spiagge di sabbia, che hanno reso celebre Tenerife a livello internazionale, terminano a Los Gigantes, una località turistica sulla costa ovest, a partire dalla quale inizia una zona scogliosa che si protrae fino alla splendida punta del Teno. Da Los Gigantes la strada sale verso Santiago del Teide, da cui prendendo a sinistra si entra in un paesaggio montagnoso a picco sul mare con splendidi panorami fino al villaggio di Masca, diventato molto turistico perché facilmente raggiungibile dalle spiagge più affollate. Da qui un percorso panoramico molto spettacolare porta a Buenavista, da cui si può raggiungere la Punta del Teno, oltrepassando cartelli indicatori che intimano di fermarsi, ma che nessuno osserva. Montagne solitarie si ergono come giganti verso l’interno, mentre le onde poderose dell’oceano si infrangono contro gli scuri scogli lavici e sulla nera spiaggia vulcanica. Solo un faro ricorda la presenza dell’uomo.
In un paio d’ore di automobile si può raggiungere la punta opposta di Tenerife, quella a est. Una comoda autostrada conduce fino all’antica capitale, San Cristobal de la Laguna. Viaggiando in direzione del Parque Rural di Anaga la strada inizia a salire e si attraversa una zona di boschi di lauro con splendidi “mirador” (punti panoramici) sulle vallate e sul mare. Vale la pena di ridiscendere fino a Benijo, dove il paesaggio marino ricco di scogli è di una bellezza indimenticabile. La costa in questa zona colpisce per la sua struttura frastagliata e per le bizzarre formazioni laviche che spuntano dal mare e vengono investite con violenza dalle impetuose onde dell’Oceano. La regione è ricca di sentieri, ma non sempre ben segnalati.

L’architettura canaria a Laguna e Orotava
Dal 1999 La Laguna è stata inserita dall’Unesco nell’elenco dei luoghi Patrimonio dell’Umanità. E in effetti il suo centro storico è un gioiello ricco di edifici pittoreschi, di sontuose ville, di strette viuzze. La sua struttura risale agli inizi del Cinquecento, quando gli spagnoli, dopo avere conquistato l’isola alla fine del secolo precedente, vi costituirono la capitale che in seguito fu adottata come modello urbanistico per molte altre città coloniali nelle Americhe.
Un’altra cittadina coloniale degna di nota è certamente Orotava, uno dei siti più apprezzabili in stile “canario” di tutto l’arcipelago, con i suoi palazzi dotati dei tipici balconi in legno. La cittadina è molto bella anche dall’alto. In particolare dal mirador dedicato al viaggiatore tedesco del Settecento Alexander von Humboldt, che si dice cadde in ginocchio sopraffatto dalla bellezza di questo paesaggio – oggi purtroppo molto costruito – affermando: “Devo confessare di non aver mai visto altrove un’immagine così armoniosa, varia e affascinante, caratterizzata da un alternarsi di verde e roccia”.

Bibliografia
Spagna del Sud La Guida Verde, Milano 2006
Isole Canarie Lonely Planet, Torino 2008
Spagna del Sud Touring Club It., Milano 2004
Canarie Le Guide Mondadori, Milano 2011
Canarie Traveller, Milano febbraio 2003
Attilio Gaudio, Canarie Milano 1991
Tenerife Low Cost, Milano 2008
Tenerife Ada Pocket, Modena 1993

Cipro – Viaggio nel sud di cultura greca

Cipro – La storia “occupata” dai turchi
Cipro – Una città divisa tra due culture
Cipro – Un viaggio nella storia

Sulle montagne alla scoperta di solitarie chiesette bizantine, al mare alla scoperta di siti archeologici e di paesaggi selvaggi.

Proseguiamo il nostro itinerario alla scoperta di cultura, arte, storia, natura e gastronomia di Cipro. Nella prima parte abbiamo descritto il viaggio nella parte nord dell’isola, quella turca. Oggi proseguiamo il percorso a sud. Anche a meridione si trovano numerose testimonianze culturali e artistiche dei diversi popoli – egizi, greci, romani, bizantini, francesi, genovesi, veneziani, ottomani e britannici – che hanno fatto la storia di quest’isola. La natura è stata generosa con Cipro, anche se in diverse parti è stata irrimediabilmente compromessa dalla speculazione edilizia. Le montagne che sorgono al centro del paese e la penisola di Akamas all’estremo ovest sono comunque ancora luoghi incontaminati.

Chiese bizantine sulle montagne
Riprendiamo l’itinerario da Kyrenia nel nord del paese, per trasferirci al sud attraverso il check point di Morfou (Güzelyurt), verso le montagne del Troodos. Le valli che salgono verso le quote più alte delle montagne (fino a 2000 metri), dove d’inverno nevica abbondantemente, sono rimaste tra gli ambienti più integri e selvaggi dell’isola con i loro incantevoli boschi di cedro. Questa regione è il vero custode dell’anima più tradizionale e profonda dell’isola. Da qui provenivano le ricchezze che in passato hanno reso celebre Cipro nel Mediterraneo: il rame (cuprum in latino), che forse diede il nome all’isola, e il legname che fu utilizzato per varare ed equipaggiare le navi dei soldati e dei mercanti dal primo millennio a.C. in poi.
In ogni epoca questa catena montuosa ha costituito sia una barriera, sia una risorsa e, soprattutto durante l’era cristiana, ha offerto rifugio alla cultura ellenica. Furono la repressione e le gravi discriminazioni religiose perpetrate dai Lusignano a costringere il clero ortodosso a rifugiarsi su questi monti e a costruire le solitarie chiesette che costituiscono una delle mete artistiche più ragguardevoli dell’isola. Situate in luoghi discosti e suggestivi questi luoghi di culto, poco più grandi di un piccolo fienile, sono ricchi di affreschi e molto simili tra loro. Per proteggerli dalle frequenti nevicate furono aggiunti, in un secondo tempo, grandi tetti a spiovente, che ricordano più le montagne appenniniche e alpine che le coste mediterranee. “Visitare le chiesette affrescate dei monti Troodos è come aprire un volume di storia dell’arte al capitolo pittura bizantina”: è con questa motivazione che i nove edifici più significativi sono stati inseriti nel Patrimonio mondiale dell’Unesco. Gli affreschi avevano lo scopo di illustrare ai contadini analfabeti dell’epoca, quasi sotto forma di fumetto, i passi principali dei Vangeli.
La visita richiede tempo: diverse chiesette sono difficili da scovare, altre sono chiuse e per trovare la chiave bisogna rintracciare il custode nel paese vicino. L’organizzazione lascia a desiderare, ma scoprirle vale davvero la pena.
Checché ne dicano le guide i paesini del Troodos, così come quelli di tutta l’isola, sono poco attrattivi e spesso trasandati. Uno dei più graziosi è comunque Kakopetria, che offre anche un originale albergo ricavato da antiche case del villaggio restaurate con gusto, annesse a una taverna dove si possono gustare i piatti tipici e gli ottimi vini di queste vallate.
Questa regione impervia è legata anche alla storia recente dell’isola, perché era qui che durante l’epoca coloniale si nascondevano i combattenti per l’indipendenza di Cipro dai britannici.

Dalle montagne al mare
Per scendere dal Troodos verso la costa occidentale si passa dal monastero di Kykkos, uno dei più ricchi e venerati dell’isola, ma di scarso interesse artistico, perché riedificato nel 1831 dopo un incendio. L’arcivescovo Makarios, leader religioso e politico di Cipro durante il breve periodo di indipendenza e unità dell’isola, iniziò qui gli studi e servì come monaco novizio prima di usare il monastero come rifugio durante i giorni di appartenenza all’EOKA (Organizzazione nazionale per la lotta cipriota), che aveva il suo quartier generale nelle vicinanze. Di conseguenza Kykkos è fortemente legato alle lotte nazionaliste cipriote. Dopo la morte, Makarios è stato seppellito sulla collina sopra il monastero. Un imponente monumento ricorda la sua figura.
Una strada tortuosa e molto lenta, che attraversa suggestivi boschi di cedro, scende lentamente verso il mare offrendo splendidi panorami sulla costa. Percorrendo poi per una ventina di chilometri una piacevole litoranea si raggiunge Polis, che dà accesso alla splendida penisola di Akamas.

Qui apparve Afrodite
Divinità tra le più antiche del pantheon mediterraneo, Afrodite ha segnato questa terra con la sua leggenda. Dicono che apparve qui, dalla spuma delle onde sollevate dal vento. Dicono che portò con sé la bellezza, l’amore e i profumi sacri della rosa e del mirto. Figlia di Urano o forse di Zeus, è soprattutto figlia di Cipro, dove è approdata per volere degli dei.
Ai mortali era proibito spingersi fino ai bagni della dea, pena la morte. Oggi questo luogo, a una decina di chilometri da Polis, costituisce una delle mete turistiche più gettonate. I bagni possono anche lasciare delusi, ma la penisola di Akamas rimane una delle rare e ultime regioni cipriote veramente selvagge. Per una strana coincidenza, per molto tempo l’esercito inglese ha infatti utilizzato l’entroterra come poligono di tiro, allontanando i turisti e salvando così questa regione dalla speculazione edilizia. L’isolamento ha contribuito anche a proteggere flora e fauna, che sono ricchissime.
Il modo migliore per apprezzare appieno la penisola è compiere un’escursione di qualche ora a piedi. L’itinerario più gettonato è quello di Afrodite: 7 chilometri con un dislivello di 400 metri che si percorrono in due ore e mezzo. La prima parte è a picco sul mare con panorami meravigliosi: il colore delle acque propone tutte le gradazioni dal blu al turchese. La seconda parte del percorso si svolge invece nell’entroterra, in un paesaggio quasi desertico.
Un’altra escursione da non perdere è quella alle gole di Avakas, che parte dal versante opposto, cioè sud, della penisola e richiede due ore scarse. Si lascia l’auto in un posteggio in riva al mare (5 km a sud di Lara) e si attraversa dapprima uno splendido agrumeto con alberi di arancio, limone e pompelmo. Terminato questo primo tratto si imbocca il sentiero delle gole in mezzo ai campi. Rapidamente le pareti del canyon si stringono, fino quasi a toccarsi mentre il cielo azzurro sembra allontanarsi. Il sentiero si snoda sul fondo delle gole ingentilite, in primavera, da fiori spontanei e oleandri che crescono lungo il ruscello e addolciscono l’imponenza della natura.
Ritornati al parcheggio, percorrendo una strada sterrata e molto sconquassata, si raggiunge Lara, che offre una delle più belle spiagge selvagge dell’isola. La litoranea prosegue ma è percorribile solo con una vettura 4×4.
A una manciata di chilometri dai bagni di Afrodite, isolato in riva al mare, sorge il migliore albergo dell’isola: l’hotel Anassa, con le sue splendide terme. Il luogo, ma anche i prezzi, ricordano la costa Smeralda in Sardegna. A Pafos gli alberghi, di tutte le categorie, sono innumerevoli, ma senza carattere. Il villaggio è prettamente turistico e privo di fascino. Vi consigliamo però una sosta gastronomica in una delle migliori taverne di Cipro: Hondros, non lontano dal porto (cfr. la guida Lonely Planet). In questa locanda abbiamo gustato le migliori specialità della cucina cipriota, una versione rivista di quella greca: mussaka, spiedini, agnello, stufati e naturalmente pesce. Anche il vino è di ottima qualità.

Archeologia in riva al mare
I siti archeologici di Pafos e di Kourion, distanti tra loro una cinquantina di chilometri, sono particolarmente spettacolari grazie alla loro posizione in riva al mare, in un paesaggio quasi desertico, in cui l’unico rumore percepibile è quello delle onde che si infrangono sugli scogli. Secondo antiche leggende furono fondate dagli Argivi di ritorno dall’assedio di Troia. La loro origine risale invece all’epoca in cui Cipro faceva parte del regno dei Tolomei. Pafos divenne capitale dell’isola e anche in epoca romana rimase la città più importante. Raggiunse la sua massima fioritura nel III secolo d.C., come testimoniano gli eccezionali mosaici delle ville cittadine. “A quell’epoca – si legge sui testi dell’Unesco che hanno dichiarato queste opere Patrimonio mondiale dell’Umanità – l’Augusta Claudia Flavia Paphos, la sacra metropoli di tutte le città cipriote, era divenuta uno dei più importanti centri di produzione dei mosaici del mondo romano, mantenendo solidi legami con le coste orientali del Mediterraneo”. Questi mosaici, di grande valore artistico ed estetico, rappresentano episodi tratti dai miti greci.
Anche Kourion offre splendidi mosaici, oltre a un anfiteatro romano del II secolo a.C. (troppo restaurato) e le rovine di una basilica paleocristiana del V secolo. Ma il sito, visitatissimo per la sua spettacolarità, è famoso soprattutto per il santuario di Apollo: immagine classica dell’isola.
A Pafos non si può mancare di visitare le cosiddette Tombe dei re, scavate negli scogli in riva al mare. Situate poco oltre le mura dell’antica città, furono scavate a partire dal III secolo a.C. seguendo l’usanza e lo stile delle tendenze orientali diffuse a Cipro dagli alessandrini. Le tombe, destinate a famiglie aristocratiche, avevano una struttura molto elaborata con cortile, peristilio e colonne per accogliere i membri di un’intera famiglia.

Una città divisa in due
Nicosia dista una quarantina di chilometri dall’aeroporto principale di Cipro sud. La si può quindi visitare all’inizio o alla fine del viaggio. Il modo migliore per scoprirla è a piedi. Durante la visita ci si imbatte più volte nel muro, che divide la parte turca da quella greca, e nei bastioni, ottimamente conservati, costruiti dai veneziani tra il 1567 e il 1570 per tenere lontani – ma senza successo – i temuti invasori ottomani.
Nella parte sud meritano certamente una visita i musei archeologico e bizantino e la cattedrale.
Il museo archeologico espone alcuni oggetti eccezionali che testimoniano l’importanza dell’isola come crocevia culturale del mondo antico, partendo dall’8000 a.C. e arrivando fino all’epoca romana. Straordinaria una serie di duemila figurine in terracotta realizzate tra il 625 e il 500 a.C. Nel museo bizantino si potranno invece trovare alcune tra le migliori testimonianze di arte religiosa cipriota. La Madonna è sempre raffigurata sulle numerose icone con il volto triste, perché secondo la tradizione conosceva la fine che attendeva il bimbo che portava in braccio, dipinto sovente con parvenze di adulto. Nell’adiacente cattedrale Agios Ioannis si può invece ammirare un interessante ciclo di affreschi settecenteschi dedicati alla vita di San Barnaba, evangelizzatore dell’isola.
Nella parte nord della città l’edificio che maggiormente colpisce è l’antica cattedrale di Santa Sofia, costruita sul modello del gotico francese di Notre-Dame o di Chartres, ma trasformata in moschea con la presenza di due imponenti minareti ai lati della facciata. Altre costruzioni ricordano il carattere orientale della città: il caravanserraglio edificato dagli ottomani dopo la conquista del 1572 per ospitare viaggiatori e commercianti e i bagni turchi del Büyük Hammam, realizzato riutilizzando alcune strutture di una chiesa trecentesca.

Itinerario

1° giorno
Milano-Larnaka-Nicosia

2° giorno
Nicosia

3° giorno
Nicosia-Famagosta-Salamina- Dipkarpaz-Capo S.Andrea (210 km)

4° giorno
Dipkarpaz-Agios Filon-Kantara-Bellapais-Kyrenia (180 km)

5° giorno
Kyrenia-Troodos (200 km)

6° giorno
Troodos-Bagni di Afrodite (120 km)

7° giorno
Bagni di Afrodite-Pafos (50 km)

8°giorno
Pafos-Lara-Pafos (40 km)

9°giorno
Pafos-Kourion-Larnaka (150 km)

10° giorno
Larnaka-Milano

Bibliografia
Cipro The Rough Guide, Vallardi Viaggi, Perugia 2004
Cipro Lonely Planet, Torino 2006
Cipro Touring Club Italiano, Milano 2006
Cyprus Eyewitness Travel, London 2008
Cipro Meridiani, Milano 2006
Cipro top 10 Mondadori, Milano 2010

Birmania – Un passo nella storia

Birmania – In fuga lontano dalla globalizzazione
Birmania – Un lago, un mondo
Birmania – Birmania, dilemma etico per il turista
Birmania – Un paese sospeso tra storia e futuro

Oltre 3 mila monumenti religiosi, patrimonio mondiale dell’Unesco, sorgono su una pianura di 40 chilometri quadrati e sembrano appartenere più alla natura che all’umanità. Un viaggio con Kel12 nella storia delle principali dinastie che nel corso dei secoli dominarono il paese.

L’appuntamento è per le 5.30 alla réception. Il bussino attende puntuale. Ci trasporta in una zona di campagna. Quando arriviamo alla nostra meta, i tre teloni che una volta gonfiati si trasformeranno in altrettante mongolfiere sono ancora distesi inermi sul terreno. I cestelli in vimini che ci ospiteranno sono pronti. I comandanti inglesi pure. Uno stuolo di inservienti si apposta attorno ai teloni, che vengono velocemente gonfiati con aria calda e poi, quando sono quasi su, con idrogeno a suon di boati di gas. Ci fanno salire. Siamo pronti per partire. Il sole si affaccia timidamente all’orizzonte. Non avevo ancora visto Bagan, perché ero arrivato in aereo di notte. La mongolfiera sale dolcemente e lo spettacolo che appare ai miei occhi è indescrivibile. Avevo letto moltissimo su quel luogo, patrimonio mondiale dell’Unesco, ma è ancora più straordinario di quanto mi aspettassi. Una miriade di monumenti religiosi attorno a noi – sembra siano più di 3 mila in un territorio di 40 chilometri quadrati – appare lentamente illuminata dai primi tenui e caldi raggi dell’alba. Sembrano appartenere alla natura più che all’umanità. Costruiti in mattoni con lo stesso colore della terra hanno un aspetto profondamente mistico, ma non sembrano edifici. Lassù capisco cosa intendeva Eugenio Montale quando affermava che “bisogna andare in Oriente, vera sede delle religioni, per capire cos’è la religione”.
Durante la giornata visitiamo i monumenti principali, quelli che sono stati di modello per l’architettura buddista in Birmania. Verso sera, all’ora del tramonto, saliamo su un calesse e ci inoltriamo in quelle stradine sterrate di campagna che il mattino avevamo visto dall’alto. Visitiamo i monumenti meno nobili, quelli che non hanno influenzato la storia dell’arte, ma che ci commuovono per la loro spontaneità. I raggi del tramonto, tinteggiandoli di rosso-viola li rendono ancora più suggestivi. La storia, la brama, il potere. Non resta più nulla, solo questi gusci vuoti di infinita bellezza e romanticismo, che si sono conservati per secoli grazie al clima secco. Quelle immagini mi rimarranno dentro per sempre! È questo certamente uno dei posti più belli che ho visitato nella mia vita!

Il periodo d’oro durò 243 anni
Il periodo d’oro di Bagan ebbe inizio con l’ascesa al trono del re Anawratha nel 1044 e si concluse nel 1287 con l’invasione dei Mongoli condotti da Kublai Khan. Appena salito al trono Anawratha intraprese immediatamente un grandioso programma edilizio: alcuni tra i più significativi edifici di Bagan risalgono al periodo del suo regno. In particolare la stupenda Shwezigon Paya, considerata il prototipo di tutti i successivi stupa (tipici monumenti buddisti in forma conica) birmani, oppure l’Amanda Pahto, un’altra meraviglia con i suoi corridoi ricchi di nicchie contenenti innumerevoli immagini del Buddha. Anche dopo la morte del primo sovrano i suoi successori proseguirono a sviluppare pressoché ininterrottamente il paese durante tutto il periodo d’oro di Bagan. “Alla fine di 15 giorni di viaggio – scrive Marco Polo nel suo ‘Il Milione’ – arrivai in una città chiamata Mein (antico nome di Bagan) grandiosa e splendente, la capitale del regno”. È difficile immaginare come fosse in passato perché, come altre città reali birmane, soltanto gli edifici religiosi più importanti furono costruiti con materiali destinati a durare nel tempo. I palazzi dei re furono invece edificati in legno, così come quasi tutti i monasteri. Quello che oggi rimane non è dunque che una pallida ombra del passato splendore.
La città di Bagan custodisce inoltre la raccolta più imponente di pitture murali del sud-est asiatico, con affreschi datati fra l’XI e il XIV secolo. Secondo gli studiosi, in quel periodo, tutti i templi della città erano riccamente decorati al loro interno e sulle volte, con soggetti didattici che cercavano di spiegare ai fedeli l’essenza della dottrina buddista.

Mandalay e le città del secondo impero
Per i duecento anni che seguirono la caduta di Bagan, la Birmania rimase frammentata nel caos di guerre etniche o tribali. Il secondo impero nacque nel XVI secolo, ma ebbe breve vita. Ad esso seguì un altro periodo confuso. Il terzo impero risale invece alla metà del XVIII secolo e durò fino all’inizio della dominazione coloniale inglese (1824), che occupò a tappe le varie regioni del paese nel giro di una sessantina di anni. Durante il periodo del terzo impero diverse capitali si sono succedute alla guida del paese: Mandalay, Amarapura, Ava, Mingun e Sagaing. Si affacciano tutte sul fiume Ayeyarwadi (lungo più di 2 mila chilometri), distano pochi chilometri una dall’altra e sono oggi praticamente tutte conglobate nella città di Mandalay, secondo centro del paese, con oltre 1 milione di abitanti.
Ogni volta che il re, dopo aver sentito il parere degli astrologi, spostava la sua residenza, il palazzo reale costruito in legno veniva smantellato e riassemblato nella nuova località. Lo stile dell’architettura reale in Myanmar rimase lo stesso per secoli.
Mandalay, con il suo traffico caotico dove le biciclette e le motorette hanno il sopravvento sulle automobili, è turisticamente interessante, ma i suoi dintorni lo sono anche più.
Il luogo più suggestivo è forse costituito da Ava, probabilmente perché distaccata dall’agglomerato urbano: si trova infatti su una sorta di isolotto attorniato dalle acque del fiume principale del paese. La si visita a bordo di sgangheratissmi calessi trainati da bronzini, che si spostano a fatica sulle strade sconnesse e sterrate. Offre due perle. All’interno di Bagaya Kyaung, un monastero ottocentesco fresco e buio, costruito in legno di tek, si respira un’atmosfera assai suggestiva che richiama alla mente tempi lontani. Perfettamente conservato è un altro monastero (Menu) in mattoni, abbandonato nella natura. Sembra che i monaci non vogliano abitarlo per la sua storia tragica e tribolata. Vicinissima ad Ava è la città imperiale di Amarapura, celebre soprattutto per il suo trafficatissimo ponte di 1200 metri considerato il più lungo al mondo realizzato in legno di tek. Un’altra attrattiva di questa antica città reale è il famoso monastero Mahagandayon, che ospita oltre mille monaci. È permesso assistere ai preparativi e al pranzo dei monaci. I turisti accalcati all’entrata impugnano gli apparecchi fotografici per attendere i monaci che entrano ordinatamente nella mensa in fila indiana. Anch’io scatto qualche immagine, ma mi sento fuori posto e mi vergogno di essere turista. Non siamo mica alla fossa degli orsi a Berna o allo zoo per assistere al pasto degli animali…
Una splendida passeggiata di un’ora in barca porta invece a Mingun. Lungo le rive del fiume la vita scorre lentamente. Alcune donne coltivano campi di riso, altre caricano imbarcazioni di sabbia utilizzata per le costruzioni in città, i pescatori vivono in capanne improvvisate. Tutte queste attività vengono cancellate durante la stagione delle piogge quando il livello del fiume sale di due o tre metri. Incrociamo immense zattere di bambù trainate da mezzi a motore. Ci spiegano che il trasporto di questo importante materiale con cui è costruita la maggior parte delle case rurali avviene via fiume.
Giunti a Mingun, come avviene in tutte queste città imperiali, uno stuolo di bellissimi bimbi attende i turisti e insistentemente offre loro oggetti di pessimo gusto.
Il tempio più famoso del luogo, Mingun Paya, è incompleto. Sarebbe stato il più grande del mondo se il re Bodawpaya non fosse morto prima di portarlo a termine. Avrebbe dovuto raggiungere un’altezza di 150 metri, mentre si è fermato a quota 50, ma da lassù la vista sul fiume e su innumerevoli stupa immersi in una vegetazione foltissima è splendida. Lo stesso re megalomane è comunque riuscito a far costruire una campana in bronzo di 90 tonnellate, considerata la più grande ancora in esercizio al mondo.
Dall’altra parte del fiume rispetto a Mandalay è la deliziosa Sagaing, che ospita 700 monasteri. Luogo di residenza di 6 mila fra monaci e monache, sembra sia la città dove si recano i buddisti birmani quando sono stressati. Oggi questa mistica collina, dove da lontano si vede spuntare una miriade di stupa dorati, è nota soprattutto come centro religioso.
Tutte queste città imperiali che ho appena descritto si possono ammirare se il tempo è bello e l’aria tersa dal Mandalay Hill, la splendida collina posta a 230 metri di altezza, da cui si domina la piattissima pianura sottostante solcata dal fiume Ayeyarwadi.
Il gioiello di Mandalay era costituito dalla cittadella reale che ospitava oltre un centinaio di palazzi, circondata per 3 chilometri da un’immensa cinta muraria alta 8 metri e protetta da un fossato largo 70 metri. Nel marzo del 1945, durante un violento combattimento fra le truppe anglo-indiane e le forze giapponesi, i palazzi reali hanno preso fuoco e sono andati quasi completamente distrutti. Oggi si visita la discutibile ricostruzione di uno di questi palazzi, quello del penultimo re birmano Shwe Nan Daw, mentre la cittadella è chiusa ai turisti perché abitata dai nefasti generali della giunta miliatare.
In questa regione vive il 60 per cento dei monaci di tutto il paese e in effetti Mandalay è famosa per due monumenti buddisti di grande significato. Il primo è Mahamuni Paya, uno dei siti religiosi più importanti del paese per la sua statua del Buddha alta 4 metri. Realizzata in bronzo, nel corso degli anni migliaia e migliaia di devoti l’hanno quasi sfigurata ricoprendola di foglie d’oro, che formano uno strato spesso 15 centimetri. Come a tutti i monumenti principali del paese, vi si accede da un lungo corridoio coperto, ai lati del quale è allineata una miriade di bancarelle che propongono ai pellegrini oggetti da offrire ai monaci. Durante la nostra visita questo monumento era affollatissimo, anche per l’arrivo di un generale della famigerata giunta militare, seguito da telecamere e microfoni.
Frequentatissima dai pellegrini a Mandalay è anche la Kuthodaw Paya, secondo monumento mistico di grande importanza, spesso definita il libro più grande al mondo. Attorno allo stupa principale sono state disposte 729 lastre di marmo, ciascuna conservata in un piccolo stupa, sulle quali sono incisi i testi dei 15 libri che compongono il Tripitaka, le scritture buddiste classiche.

Oman – Nel sultanato dove la natura regna sempre sovrana

Oman – Quattro giorni tra mare, deserto e montagne

Splendide spiagge di finissima sabbia bianca, un mare superbo, forti e castelli, i baluardi delle oasi, e nel deserto dune indimenticabili.

Quando dici a qualcuno che vai in Oman, o non conosce il paese, oppure nel migliore dei casi pensa che sia il luogo ideale per trascorrere una settimana al caldo durante l’inverno. E’ vero che questo paese ha splendide spiagge di sabbia bianca finissima e un mare superbo con fondali che sono il sogno di ogni sub, ma offre molto altro ancora. Potete scoprire forti e castelli situati in splendide oasi, moschee antiche e moderne, grotte, valli, montagne inserite in paesaggi lunari e le indimenticabili dune di uno dei deserti più impervi al mondo. Le infrastrutture alberghiere sono di ottimo livello, la gente è mite, cordiale e tollerante nei confronti dei costumi e delle tradizioni straniere, pur senza essere giustamente disposta a sacrificare la propria identità nazionale. “Sono giunto alla conclusione di respingere l’idea che il patrimonio culturale debba avere una posizione subordinata nel mondo moderno. Il nostro patrimonio nazionale è ricco e necessita unicamente di essere leggermente ritoccato per adattarlo alla realtà del giorno d’oggi in modo bilanciato, così che un elemento non prevalga sull’altro”. Sono parole del sultano Qabus, un principe illuminato che in 38 anni di governo ha cambiato i destini del suo paese, fino al 1970 ancora immerso nel Medioevo. Il monarca è stimato a livello internazionale e dal suo popolo. Il suo paese è tanto pulito, ordinato e sicuro che viene considerato la Svizzera della Penisola Arabica. L’Oman sta vivendo un rapido sviluppo economico, ma tutte le iniziative devono rispettare principi ecologici. Questi principi vengono applicati con tale scrupolo che l’Oman è stato il primo stato arabo ad essere premiato dall’Unesco “per gli sforzi internazionali compiuti in nome dell’ambiente”. “Il cambiamento è necessario – ha spiegato il sultano in un’intervista a “Repubblica” (27 maggio 1994). La vita dei miei sudditi aveva bisogno di essere semplificata e resa più confortevole, ma era importante non perdere il contatto con il passato, la cultura e la civiltà propria di queste terre e di questa gente. Così, per esempio, ci siamo preoccupati che le nuove costruzioni seguissero un criterio unico per dimensioni e colori delle facciate, in armonia con il clima e la tradizione”. Percorrendo l’Oman non troverete infatti quella pacchiana rincorsa al modo di vivere occidentale che incontrate invece in altri paesi del Golfo.
Circa l’80 per cento degli omaniti si riconosce nel gruppo musulmano degli ibaditi, che professa un islamismo rigoroso e severo. La legge stabilisce comunque la libertà di pensiero e di credo religioso. Il popolo, d’altra parte, è tendenzialmente pragmatico nell’interpretazione della religione, tollerante nei confronti di altri movimenti islamici e permette agli stranieri di seguire il proprio culto.

Muscat
Una città fedele a sé stessa, moderna ma ancora ‘antica’
La guida che mi aspetta all’aeroporto di Muscat, la capitale dell’Oman, indossa la tradizionale veste bianca degli uomini omaniti, la cosiddetta dishdasha. Mentre il taxi con aria condizionata sfreccia sull’autostrada a sei corsie verso il centro della capitale passiamo davanti ai lucenti palazzi della politica e della finanza del quartiere residenziale di Riwi. E’ la capitale del nuovo corso, moderna, efficiente, pulita come una città svizzera. Ma è a Mutrah, il quartiere del porto, che si incontra lo spirito antico della civiltà araba. Sulla splendida insenatura naturale, ricavata in un anfiteatro di rocce scure, si affacciano i due forti di Jalali e Mirani, che ricordano il periodo dell’occupazione portoghese durata 150 anni (dall’inizio del 1500 alla metà del 1600). E’ qui che potete immergervi nella piacevole atmosfera caotica del tradizionale mercato arabo (suk). Tra le solite botteghe di souvenir per turisti, tessuti, ferramenta, oro e argento trovate anche alcuni negozi di antiquariato. La contrattazione è d’obbligo, ma gli sconti concessi sono minimi.
Il mattino, non molto distante dal suk, non mancate di visitare l’animatissimo mercato del pesce, dove potrete ammirare anche alcuni splendidi esemplari di squali. Vi accorgerete allora che questa parte della città, nonostante sia la principale zona portuale della capitale, abbia più l’aspetto di un villaggio di pescatori. Ed è proprio questo il fascino di Muscat, di essere rimasta fedele a se stessa senza occidentalizzarsi.
Ma il cuore della città è costituito dal minuscolo quartiere cinto da mura e munito di porte che dà il nome alla capitale. Oggi ospita il palazzo del sultano, altri edifici governativi e alcuni musei, tra cui il modernissimo e didattico Bait al Baranda, che illustra la storia della città. Molto interessante l’ampia parte dedicata alla cosiddetta “rinascita”, cioè il periodo degli ultimi 38 anni del paese sotto la guida illuminata dal sultano Qabus.
Non si può lasciare Muscat senza aver visitato (aperta per i turisti dalle 9 alle 11) la nuovissima e imponente Grand Mosque, donata alla nazione dal sultano per il trentesimo anniversario del suo regno. E’ uno splendido esempio di architettura islamica moderna. I suoi interni sbalordiscono per la ricchezza delle decorazioni ispirate dalle varie regioni di diffusione della religione musulmana. Il tappeto persiano della sala principale è il più grande del mondo (70 metri per 60) ed è stato realizzato in quattro anni in Iran da 600 tessitrici.

Turchia – Ai confini dell’Europa tra luoghi della Bibbia e popoli in fuga

Questo itinerario, che si articola nel centro e nel sud-est della Turchia, presenta due centri di interesse particolare: la suggestiva montagna di Nemrut, simbolo della Turchia orientale, con le sue enigmatiche statue giganti risalenti a duemila anni fa e la Cappadocia con i suoi spettacolari paesaggi unici al mondo. Non presenta solo questo, ma anche le città bibliche (Harran e Sanliurfa) in cui visse Abramo, la capitale dei curdi Diyarbakir, la città di Konya, dove nel 1200, Mevlâna Gialâl Ud-Din Rûmi fondò l’ordine monastico dei Mevlevi, conosciuti in Occidente come Dervisci danzanti.

Il nostro viaggio inizia da Sanliurfa. La città è costituita da antiche case in calcare, costruite una a ridosso dell’altra per proteggere nella stagione calda i passanti dal sole cocente. Ne nasce un dedalo di viuzze particolarmente affascinanti nei pressi dell’animato bazar, che occupa buona parte del centro storico. Dalla fortezza (Kale), da cui si gode una splendida vista sulla tranquilla città, secondo la leggenda, precipitò Abramo, nativo di Urfa. Per la religione islamica Abramo è infatti un grande profeta. Secondo la leggenda distrusse alcune divinità pagane nell’antica Urfa provocando l’ira di Nimrod, il re assiro locale, il quale ordinò che fosse immolato su una pira funeraria. Dio però intervenne e trasformò il fuoco in acqua e i carboni ardenti in pesci. Abramo precipitò nel vuoto dalla collina su cui sorge la fortezza e fu accolto sano e salvo su un letto di rose. In quel luogo sacro si trovano un magnifico roseto e due vasche rettangolari “abitate” da carpe satolle e intoccabili. Attorno alcuni edifici religiosi.
La città è davvero accogliente. I suoi abitanti sono ospitali e cercano il dialogo. Ci si sente a proprio agio nello splendido e curatissimo giardino situato sotto la fortezza. Per chi ama i bazar arabi sarà poi piacevolissimo perdersi per le pacifiche viuzze di questo immenso mercato voluto da Solimano il magnifico nel Cinquecento.
A una trentina di chilometri da Sanliurfa, poco distante dal confine con la Siria, si trova Harran, la città di Abramo. Ciò che maggiormente affascina sono le cosiddette case ad alveare, il cui modello risale al III secolo a.C. Si tratta di una sorta di trulli in terra e paglia, dove la gente viveva fino a pochi anni fa. Oggi fungono da ripostigli o da bar e negozi per i turisti.
Gli abitanti si sono trasferiti in anonime, ma più comode abitazioni moderne. Particolarmente suggestive sono le rovine della fortezza (Kale), costruita sul culmine di una collina e della moschea (Ulucami) dell’VIII secolo.

Nella Turchia dei Curdi
La seconda giornata del nostro itinerario è piuttosto impegnativa. Se ne avete la possibilità sarebbe meglio suddividerla in due tappe, fermandosi a Diyarbakir per la notte. Si parte il mattino presto per Mardin (175 km). Questa antica città, sovrastata da un castello, domina le vaste pianure assolate della Mesopotamia, che si estendono fino alla Siria. Le sue vie fiancheggiate da
case in pietra dal colore del miele, che digradano lungo il fianco della collina, come fa notare la guida Lonely Planet, ricordano vagamente gli antichi quartieri della città di Gerusalemme. La parte antica della città si estende su una lunghezza di circa 1 km. Una delle attrattive principali di Mardin è costituita dall’ampio e disordinato bazar, che purtroppo però di domenica, quando noi siamo arrivati, è chiuso. Interessante la visita delle moschee, delle scuole coraniche e dell’ufficio
postale ricavato da un caravanserraglio. Si prosegue per Diyarbakir, costruita sulle sponde del fiume Tigri, che dista circa 100 chilometri. Con le sue mura in basalto offre un’atmosfera tipicamente orientale. La città è nota in Turchia soprattutto per
essere stata il centro del movimento di resistenza curdo, attivo soprattutto tra il 1980 e il 1990, ma recentemente di nuovo rivendicativo. La città nel corso degli ultimi decenni si è sviluppata a dismisura diventando una metropoli popolata da diverse etnie e tribù.
La principale attrattiva di Dyarbakir è costituita dalla sua grande muraglia in basalto, eretta probabilmente in epoca romana. Le mura oggi visibili, lunghe quasi 6 chilometri, risalgono però all’inizio dell’era bizantina (330 – 500 d.C) e sono straordinarie, sia viste dal basso, sia ammirate dall’alto dei bastioni. Si dice siano seconde solo alla Grande Muraglia cinese. Il massiccio
perimetro murario di basalto nero è intervallato da numerosi bastioni. L’atmosfera che si respira qui è ben diversa da quella
della tranquilla Sanliurfa. Nel breve tempo di una visita abbiamo assistito a vari episodi di violenza, che riguardavano però gli abitanti del luogo, non i turisti. Due giovani si sono presi a sassate, un adulto – forse derubato – ha estratto una rivoltella per minacciare un ragazzo, alcuni bimbi a cui abbiamo dato delle monete, si sono azzuffati per appropriarsene. Purtroppo, essendo domenica, anche qui il bazar era chiuso, ma le guide assicurano che passeggiandovi “si captano immagini, suoni, fragranze e corpi in movimento, che sembrano preludere all’universo brulicante del continente asiatico”.
Si prosegue quindi per Katha (170 km). La strada indicata su molte carte geografiche ancora in circolazione non esiste più. È stata inondata dopo la costruzione della diga Hataturk, che ha permesso di irrigare vastissime zone della pianura mesopotamica. Si deve quindi attraversare in traghetto (che parte circa ogni ora) il fiume Eufrate per raggiungere la sponda opposta e proseguire per Katha.

Alba indimenticabile sul Monte Nemrut
Durante la notte si sale con piccoli autobus e poi a piedi sul Monte Nemrut, per assistere all’alba, con il sole nascente che illumina le imponenti statue di pietra. Si tratta di uno dei momenti più suggestivi del viaggio. Questo luogo costituisce la principale attrattiva della Turchia orientale. Le enigmatiche statue che campeggiano sulla cima del monte sono diventate un simbolo di questo paese. Lo straordinario paesaggio circostante, i reperti storici e l’innegabile aura di misticismo che
aleggia sul sito fanno di questo parco archeologico un luogo imperdibile. Con il piccolo bus, in un’ora circa, si arriva a 600 metri dalla vetta, che si raggiunge poi in 20 minuti a piedi. “La cima – spiega la guida Lonely Planet – assunse la sua forma attuale quando un re megalomane dell’età pre romana commissionò la costruzione di due ampie terrazze artificiali e vi fece costruire diverse statue monumentali che lo raffiguravano insieme alle divinità (sue ‘parenti’) ed in mezzo un tumulo di massi di roccia alti 50 metri. È ipotizzabile che sotto queste tonnellate di pietra si trovino le tombe del re e di tre membri femminili della sua famiglia, ma nessuno può dirlo con certezza. I terremoti hanno decapitato gran parte delle statue e oggi molti di questi busti colossali siedono davanti alle loro teste, alte 2 metri, che si trovano in basso”. Si tratta di un’esperienza davvero emozionante. Quando arrivate sulla cima è ancora notte e vi trovate di fronte massi di pietra assolutamente insignificanti. Man mano che passano i minuti quelle pietre si animano. Emergono dal buio della notte per presentarsi con tutto il loro fascino assorbendo i colori dell’alba.
Terminato questo spettacolo si scende per riprendere la strada verso Katha. Ma le sorprese non sono finite. Dopo pochi chilometri si visita Eski Kale (Arsamela). Un sentiero porta ad alcune stele, di cui una perfettamente conservata raffigurante Mitra (o Apollo), dio del sole, con un copricapo dal quale si irradiano i raggi. Raggiunta la cima piatta della collina, da cui si gode una magnifica vista, si scorgono i resti delle fondamenta della capitale di Mitridate. Proseguendo in direzione di Katha a Yeni Kale si ammirano da lontano le rovine di un misterioso castello dei mamelucchi del XII secolo, costruito sulla cresta di una roccia con la quale si è perfettamente mimetizzato. Dopo pochi chilometri la strada attraversa il fiume Cendere su un moderno ponte. Sulla sinistra si ammira invece un imponente ponte romano a schiena d’asino, risalente al II secolo a.C., costruito in onore dell’imperatore Settimo Severo. Raggiunta Katha vi attende ancora una lunga trasferta (circa 7-8 ore) prima di arrivare in Cappadocia, altra meta spettacolare del nostro viaggio. Le strade sono scorrevoli, i paesaggi montagnosi affascinanti.

In Cappadocia tra i “camini delle fate”
Alla visita della Cappadocia, meta principale del nostro viaggio, dedichiamo tre giorni: il tempo appena necessario per visitare in torpedone i luoghi principali di questo spettacolare angolo di terra. Dopo questa visita avrete voglia di ritornare per percorrere a piedi queste valli incantate. I tour “mordi e fuggi” normalmente si trattengono in Cappadocia un solo giorno.
Nel cuore della Turchia si estende questo paesaggio lunare, uno scenario surreale di antiche chiese e case ricavate nella roccia, villaggi pittoreschi ricchi di tradizioni. Lo splendido paesaggio è costituito da friabile tufo vulcanico scolpito dall’acqua e dall’erosione nel corso dei millenni. Anche la luce è spettacolare e regala struggenti sfumature dal bianco abbagliante al senape, passando per il rosso mattone, con la cima innevata del Monte Argeo, che si staglia sullo sfondo.
La Cappadocia, un tempo cuore dell’impero ittita, divenne un regno indipendente e infine una vasta provincia romana citata più volte nell’Antico Testamento.
Un’occasione da non perdere è l’escursione in mongolfiera, sebbene il costo sia piuttosto elevato: 150 euro per persona, per un’ora di volo. Si parte all’alba per ammirare i cosiddetti “camini delle fate” assorbire i colori del primo sole. L’abilità del conduttore di nazionalità inglese è davvero eccezionale: scende tra le rocce per sfiorarle e poi riprendere quota. Lo spettacolo è indescrivibile. Un’altra interessante proposta durante il soggiorno in Cappadocia consiste nella danza dei dervisci, che si tiene ogni sera nelle suggestive sale interne del carravanservaglio di Avanos. L’esibizione è interessante, composta e non eccessivamente turistica.

L’itinerario classico
Nel museo all’aperto di Göreme, dichiarato patrimonio dell’umanità dall’Unesco, potete ammirare un gruppo imperdibile di chiese, cappelle e monasteri bizantini scavati nella roccia. La visita richiede dalle due alle tre ore. Il villaggio di Uchisor è da manifesto turistico. Salendo verso la piazza principale si scopre un paesaggio entusiasmante. Dal castello la vista sulla valle, come scrive la Guide Bleu “vous coupera le peu de souffle qui vous restera après l’ascension”. Altra tappa imperdibile è Zelve, che dal IX al XIII secolo fu ritiro monastico. Venne quindi abitato dalla gente del luogo fino al 1952, data in cui la stabilità geologica della valle fu giudicata inadeguata per consentire l’insediamento umano. Oggi, con le sue abitazioni rupestri, le cappelle, le piccionaie e una spartana moschea provvista di minareto a colonnette, è un paesino museo, dal quale avete l’impressione che gli abitanti siano partiti il giorno prima.
Ma il luogo forse più suggestivo di questa prima giornata è la cosiddetta Valle delle Fate, dove potete passeggiare a lungo, perdendovi tra le rocce forgiate dall’acqua e dal vento, che costituiscono un incredibile museo di sculture naturali. Ne rimarrete incantati e vi pentirete di non avere più tempo da trascorrere in quel luogo fatato.

Città sotterranee di 4’000 anni fa
La seconda e la terza giornata sono invece dedicate alla scoperta di una Cappadocia meno turistica. Il secondo giorno inizia con la visita delle due città sotterranee di Kaymakli e di Derinkuyu. In Cappadocia sembra che siano state scoperte a tutt’oggi un’ottantina di città sotterranee. Le più antiche risalgano all’epoca ittita, ossia a 4000 anni fa. Sembra comunque sicuro che fossero occupate già nel VII secolo a.C. Ne parla anche lo storico greco Senofonte. In tempo di pace gli abitanti di questa regione vivevano in superficie coltivando la terra, ma quando correvano il pericolo di un’invasione si rifugiavano nelle loro abitazioni trogloditiche, dove potevano vivere in tutta sicurezza anche per sei mesi consecutivi. Kaymakli è scavata su otto livelli, di cui cinque accessibili, Derinkuyu è invece costruita su sette livelli. Proseguiamo in direzione di Nigde per raggiungere il monastero di Eski Gümüsler. È scavato nella roccia e vanta alcuni affreschi bizantini, realizzati tra il VII e l’XI secolo, tra i meglio conservati della Cappadocia.
Si continua verso Yesilhisar, dove si svolta a destra per Soganli, un luogo di grande suggestione, ma discosto dai più frequentati itinerari turistici. La visita delle due vallate, con le loro antiche chiese rupestri, che in epoca romana ospitarono alcune necropoli e in epoca bizantina furono abitate da monaci, richiederà un paio d’ore. Si prosegue quindi fino a Damsa, passando per Kocali e Suves. Sul tragitto si incontrano alcuni “camini delle fate” e alcune chiese rupestri. A Damsa, in una bella oasi, si ammirano la moschea e un edificio diroccato dell’epoca selgiuchide, probabilmente una medersa (scuola coranica). A Cemil si visita la chiesa di St. Etienne. Si giunge infine a Mustafapasa. Fino alla prima guerra mondiale fu un insediamento greco-ottomano. Si tratta di una località piacevolmente tranquilla con belle dimore scavate nella pietra e diverse chiesette rupestri. Di particolare interesse la chiesa di San Basilio del XII secolo, arroccata sulla cima di un dirupo.

I caravanserragli alberghi d’altri tempi
Ultima giornata in Cappadocia. Partiamo in direzione di Konya, ma giunti ad Aksaray raggiungiamo, a 45 chilometri, la valle di Ihlara: una zona remota, che un tempo si chiamava Peristrema e rappresentava uno dei luoghi di ritiro preferiti dai monaci bizantini. Di quell’epoca sono sopravvissute decine di chiese rupestri decorate con dipinti. Percorriamo solo la parte centrale della valle che collega i villaggi di Ihlara e di Belisirma. Ci vogliono circa tre ore a piedi. Informatevi sullo stato della strada prima di partire. Proseguiamo in direzione di Konya, che si trova a circa 150 chilometri. A 42 chilometri da Aksaray, nel desolato villaggio di Sultanhani, si visita l’omonimo caravanserraglio selgiuchide. Fu costruito nel 1229, durante il regno del sultano selgiuchide Alaettin Keykubad I, e dopo i restauri, effettuati nel 1278 in seguito a un incendio, divenne il più grande caravanserraglio della Turchia. Di caravanserragli è cosparso il paese. Si trattava di una sorta di albergo, dove i commercianti che trasportavano merci dall’Europa all’Oriente e viceversa potevano sostare gratuitamente e al sicuro per la notte con i loro animali da trasporto (cammelli, muli, asini e cavalli).

Konya, la capitale dei Dervisci danzanti
Ed eccoci giunti a Konya, storica capitale dei Selgiuchidi e città del Mevlâna. Agli inizi del 1200 la dinastia selgiuchida contenne definitivamente i crociati sulle coste. Raggiunse un accordo con i bizantini, egemonizzò i propri concorrenti e fondò un sultanato autonomo scegliendo Konya – città esistente all’epoca romana – come propria capitale. Nel 1200 il mistico persiano Mevlâna Gialâl Ud-Din Rûmi scelse di fermarsi a Konya, dove fondò l’ordine monastico dei Mevlevi, conosciuti in occidente come Dervisci danzanti, sciolti da Atatürk nel 1925. Figura di rilievo del mondo islamico Mevlâna fu il portatore di una corrente mistica che conseguiva la sublimazione dell’anima con una danza rituale resa frenetica dal ritmo delle percussioni. Punto cruciale della visita il Museo Mevlâna, che ospitava un tempo il convento dei Dervisci rotanti, che è visibile da una certa distanza per la sua inconfondible cupola ricoperta di splendide maioliche turchesi. Di particolare interesse anche la tomba di Mevlâna, che risale all’epoca Selgiuchide. Konya offre anche altri interessanti monumenti, come la moschea Alaettin di origine selgiuchida, il museo Karatay (attualmente in restauro) con la sua straordinaria collezione di ceramiche, la scuola di ceramica Sircali con le sue splendide maioliche turchesi e il museo archeologico con il suo particolare sarcofago romano di Sidamara (250 d.C.), che presenta straordinari rilievi raffiguranti le fatiche di Ercole. Interessante anche la visita del bazar, che mantiene un certo fascino, malgrado la modernizzazione della città.

Guide consigliate
– Le Guide Mondadori, Turchia, Milano 2004
– Touring Club Italiano, Guide d’Europa, Turchia, Milano 2003
– Touring Club Italiano, L’Europa e i paesi del Mediterraneo, Turchia, Cipro, Malta, Milano 2006
– Qui Touring Speciale Mondo, Turchia, Milano 2005
– Lonely Planet, Turchia, Torino 2005
– Les Guides Bleus, Turquie, Paris 1978
– Clup. Guide, Turchia, Milano 1994

Itinerario
1° giorno: Volo Milano-Istanbul-Gaziantep. Trasferta a Sanliurfa in torpedone.
2° giorno: Sanliurfa e Harran.
3° giorno: Spostamento in torpedone a Mardin (175 km da Sanliurfa), quindi a Diyarbaki. Si prosegue per Katha.
4° giorno: Visita del monte Nemrut. Si prosegue per la Cappadocia.
5° giorno: Visita della Cappadocia.
6° giorno: Visita della Cappadocia.
7° giorno: Visita della Cappadocia.
8° giorno: Konya.
9° giorno: Konya-Istanbul-Milano.