Assisi – Ripercorrendo strade e valli di un soldato diventato santo

Assisi – A lezione di umiltà e gioia lungo la strada del silenzio

In compagnia di Padre Callisto sulle tracce di San Francesco, lungo conventi, simboli sacri e preziose chiese che si sono miracolosamente salvati dal terribile terremoto di qualche anno fa.

Chiunque salga sul colle della città serafica non può sfuggire a una suggestione indescrivibile, misteriosa, impalpabile, del tutto diversa dalla bellezza della valle umbra”. Così Lina Duff-Gordon, compagna di viaggio del critico d’arte Bernard Berenson, descriveva nel 1900 la sua emozione davanti ad Assisi. Un’emozione che prova anche il viaggiatore contemporaneo di fronte a questa città così unitaria e ricca di significati legati alla straordinaria figura di San Francesco il cui messaggio rimane sempre di grande attualità. La visitiamo con padre Callisto Caldelari, frate ticinese molto amato dalla gente, perché cerca ogni giorno, e con successo, di interpretare in chiave moderna il messaggio di Francesco. La nostra visita sarà cronologica e seguirà le tappe principali della vita del santo.
Giunti ai piedi della collina su cui sorge questa incantevole cittadina umbra, ci fermiamo per ammirarne l’unità architettonica. “Il villaggio – ci spiega la nostra guida d’eccezione – è costruito in pietra rosa proveniente dai monti del Subasio, le montagne retrostanti dove Francesco si ritirava a meditare. Le case moderne in cemento sono colorate di rosa per non compromettere il colpo d’occhio da lontano”.

La casa natale di San Francesco
Il nostro itinerario inizia davanti alla Chiesa Nuova eretta nel 1615, a spese di re Filippo III di Spagna, sui resti della supposta casa paterna di San Francesco. Davanti alla chiesa un monumento è dedicato ai genitori del santo. Il padre, Pietro Bernardone, era un commerciante di stoffe che acquistava il materiale in Provenza e aveva laboratorio ad Assisi. Durante un viaggio d’affari conobbe donna Pica, che diventò sua moglie. Per questa ragione Francesco parlava bene la lingua provenzale. Dalla madre ereditò anche il suo spirito allegro.
Nella seconda metà del XIII secolo, al tempo di Francesco, si stava profilando una nuova classe sociale, quella dei ricchi commercianti, a cui apparteneva anche la sua famiglia. Pietro Bernardone aveva però l’ambizione di far acquistare al suo casato il titolo nobiliare. Per ottenerlo esisteva una sola strada: distinguersi in guerra. Francesco venne destinato a questo compito. Giovane brillante e vivace, combatté dapprima una battaglia contro i Perugini e quindi decise di partire per le crociate. Ma giunto a Spoleto, distante pochi chilometri da Assisi, secondo la tradizione un sogno gli rivelò che stava compiendo una scelta sbagliata. Tornò allora nella sua città natale e decise di cambiar vita, deludendo le aspettative del padre. Fece voto di povertà, curò i lebbrosi, vendette le stoffe dell’azienda di famiglia per distribuire il ricavato ai poveri. Per queste sue scelte venne rifiutato dal suo ceto sociale e Pietro Bernardone lo denunciò e lo imprigionò per furto (secondo il diritto romano il padre aveva diritto di vita e di morte sui figli e sulla moglie). Sotto le fondamenta della Chiesa Nuova sono ancora conservate la prigione che ospitò il santo, la sua abitazione e il negozio di Pietro Bernardone. È giunta fino ai nostri giorni anche la cosiddetta “porta dei morti”. Nel Medioevo i defunti lasciavano la casa da una porta speciale che veniva aperta solo per il passaggio delle bare. Utilizzarla da vivi portava male, ma Francesco abbandonò la sua casa natale passando simbolicamente proprio da questa porta per abbracciare una nuova vita.
La sua prima dimora fu la graziosa chiesetta di San Damiano, che si trovava fuori dalle mura della città.

Chiara segue Francesco
Prima di lasciare il centro storico per scendere a San Damiano, padre Callisto ci conduce alla basilica di Santa Chiara e racconta la storia di Chiara, una giovinetta che si era probabilmente innamorata di Francesco e che all’età di diciotto anni lasciò pure lei la propria casa (fu poi seguita da due sorelle e dalla madre), fece voto di povertà e come Francesco dedicò la sua vita ai poveri nel convento di San Damiano, la prima dimora di Francesco che poi l’abbandonò per cederla a Chiara e alle sue compagne. Quando Chiara morì a San Damiano nel 1252, il papa invitò le suore a lasciare quella chiesetta fuori dalle mura, perché ritenuta poco sicura, per trasferirsi nella chiesa di San Giorgio in attesa che venisse costruito il convento di Santa Chiara, che avrebbe ospitato l’ordine della clarisse. Si narra che il papa riconobbe l’ordine proprio il giorno prima della morte di Chiara. Le suore lasciarono San Damiano per trasferirsi in città, ma portarono con loro il crocefisso che secondo la tradizione aveva parlato a Francesco, confermandolo nella sua vocazione (“Francesco, va e ripara la mia casa che, come vedi, va tutta in rovina”). Si tratta di un crocefisso bizantineggiante con il Cristo vivo attorniato dai santi. Lo si può ammirare nella chiesa di Santa Chiara, che ospita anche la suggestiva tomba della santa.

La prima dimora di Francesco
Ma torniamo a Francesco, che dopo aver rotto con il padre (“Non dirò più padre mio Pietro di Bernardone, ma unicamente Padre nostro che sei nei cieli”) ed aver lasciato la sua casa si ritirò a San Damiano. La chiesetta si trova ancora oggi immersa nella splendida campagna umbra. Il sentiero che in un quarto d’ora circa porta dal convento di Santa Chiara a San Damiano scorre tra ulivi e cipressi in un paesaggio di pace. Quando Francesco giunse in questo luogo la chiesetta esisteva già, era amministrata da un sacerdote e molto mal ridotta. Assieme a un gruppo di compagni, che lo seguirono nonostante fosse stato ripudiato dalla sua famiglia e dal suo ceto sociale, Francesco sistemò per bene San Damiano prima di cederlo a Chiara, dove la santa trascorse la sua vita con le compagne. Mentre era ancora a San Damiano Francesco chiese al suo vescovo l’autorizzazione di predicare. Questi non si assunse la responsabilità di quella decisione e lo mandò dal papa, che gli concesse il permesso.
Questa idilliaca chiesetta immersa nel verde si presenta in ottime condizioni. Si possono visitare i luoghi in cui visse Chiara con le sue monache: il refettorio, il dormitorio, l’infermeria in cui la santa, morta a 59 anni, venne curata e la cappella da cui ascoltava la messa.

Verso la chiesetta della Porziuncola
Lasciato San Damiano a Chiara, Francesco si trasferì nel piccolo “tugurio” detto Rivotorto, che dista non molti chilometri. Francesco non vi rimase a lungo perché un contadino rivendicò quel luogo per ospitare i suoi asinelli. Da lì Francesco, che era spesso assente da Assisi perché viaggiava moltissimo (in Italia, Francia, Spagna e persino in Egitto e in Palestina), si trasferì verso la sua ultima dimora: la chiesetta della Porziuncola. Prima di raggiungerla si passa davanti al luogo in cui vivevano i lebbrosi, emarginati dai sani e segnalati con un campanello al collo.
Da lontano si scorge l’imponente chiesa di Santa Maria degli Angeli, dentro la quale è conservata la chiesetta della Porziuncola, dove il santo morì. “Frate Francesco – scrisse Giosuè Carducci – quanto d’aere abbraccia/ questa cupola bella del Vignola, / dove incrociando a l’agonia le braccia / nudo giacesti sulla terra sola!” (Rime Nuove, XV, 1861-67). Il maestoso edificio, costruito attorno alla chiesetta, nascose agli occhi del poeta la sede autentica di Francesco, la cappella annerita e minuscola miracolosamente salva dal terremoto del 1832: è questa la miglior metafora di un personaggio tradito dalla ricezione della storia.
Francesco e i suoi seguaci vivevano in capanne sparse attorno alla graziosa chiesetta, molto ben conservata. Quando Francesco sentì che la morte si avvicinava si fece trasferire in una capanna vicino alla Porziuncola e posare nudo sulla terra. Spirò cantando “Laudato sii mi Signore per sora nostra morte corporale…”.

Assisi – A lezione di umiltà e gioia lungo la strada del silenzio

Assisi – Ripercorrendo strade e valli di un soldato diventato santo

Insieme a Padre Callisto sulle tracce di San Francesco tra i luoghi della cristianità. Chiese e cripte ricche d’arte che vengono visitate da centinaia di pellegrini. La storia delle spoglie scomparse dopo la costruzione della “doppia basilica”.

Sotto l’influenza dell’ordine religioso fondato da Francesco, la città vide sbocciare un’arte nuova che segnò una svolta nella storia artistica dell’Italia. La sua lezione spirituale fatta di rinuncia, accettazione umile e gioia mistica, determinò una nuova visione artistica espressa nella purezza e nell’eleganza dell’arte gotica.
Due anni dopo la morte di Francesco era pronta la cripta della chiesa per accogliere le sue spoglie. Fu disegnata dal suo successore Elia e ad affrescare la basilica di San Francesco vennero chiamati i più importanti artisti del momento, tra cui Giotto che realizzò qui uno dei suoi capolavori narrando la vita del santo. Il grandioso complesso, tra i maggiori templi della cristianità, è formato dalla sovrapposizione di due chiese che lasciano individuare due differenti fasi costruttive. Il progetto della doppia basilica evidenziava la duplice funzione cui doveva rispondere la struttura, destinata inferiormente a chiesa tombale e a cripta, e superiormente ad aula monastica, di predicazione e cappella papale.
Le spoglie del santo, custodite per un paio d’anni nella chiesa di San Giorgio vicino a Santa Chiara, furono trasportate verso la nuova basilica, ma quando arrivarono nelle vicinanze si scontrarono due diverse visioni dell’ordine: chi riteneva che la chiesa fosse troppo ricca e quindi non fedele alle idee di Francesco e chi invece la riteneva idonea. Fatto sta che le spoglie scomparvero. La tradizione vuole però che il santo sia sepolto nella cripta della basilica inferiore, che si può visitare. Ed in effetti è probabile che il corpo di Francesco sia stato veramente sepolto in quella sede. Nel 1790 papa Pio VII ordinò dei lavori, che vennero eseguiti di notte per evitare pettegolezzi, per cercare il sepolcro. Sotto l’altare venne trovata una bara in pietra con le spoglie di un uomo, che vennero esaminate con metodi moderni nel 1940. Si stabilì che si trattava di un uomo di circa quarant’anni. È quindi probabile che si tratti di Francesco. Un ultimo esame eseguito negli anni Ottanta ha confermato questa tesi.
Del santo rimane comunque la storia della vita narrata da Giotto in diciannove superlativi affreschi. L’artista non terminò però il lavoro, perché partì per Firenze dove fu chiamato ad affrescare Santa Croce. Il lavoro venne proseguito dai suoi discepoli, ma confrontando le tavole del maestro con quelle dei suoi allievi, si apprezza ancor più la capacità di sintesi e l’essenzialità di Giotto.

Le Carceri, luogo di meditazione
Molti sono i luoghi francescani che si potrebbero ricordare, ma uno non può essere tralasciato perché di particolare importanza: “le Carceri”. Non si tratta di una prigione, ma di un sito appartato dove Francesco e i suoi compagni si ritiravano in silenzio a meditare. Si trova a mezza costa sul Monte Subasio. Lo si può raggiungere comodamente in automobile, ma molti pellegrini vi arrivano con il noto cavallo di San Francesco, cioè a piedi. In quel luogo il santo aveva prescritto una regola particolare che suggeriva penitenza e assoluto silenzio. Si narra che fece zittire anche degli uccelli che disturbavano la meditazione. Gli assisiani scoprirono molto presto quel bosco e iniziarono a frequentarlo rubandogli la pace. Il santo si ritirò quindi dapprima su un’isoletta del lago Trasimeno, in seguito sul più lontano monte de La Verna, dove per dirla con Dante ricevette “l’ultimo sigillo”, le stigmate.

Mondo etrusco – La civiltà più colta prima dei Romani

Mondo etrusco – Quattro tappe tra turismo e cultura

L’itinerario si sviluppa tra colline, laghetti e pianure, attraversa romantici villaggi appesi alla cima dei colli a cavallo di tre regioni – Toscana, Umbria e Lazio – che diedero origine ad un grande e misterioso popolo.

Un itinerario a tema alla scoperta del mondo etrusco: la civiltà di più elevato livello che abitò la penisola italica prima dei Romani. Un popolo particolarmente aperto agli influssi delle culture con cui venne in contatto grazie alla sua abilità nella navigazione, alla ricchezza di ferro delle sue montagne, alla fertilità del suo terreno. Commerciò con la Sardegna, con il Medio Oriente, con la Grecia e con l’Europa del nord. Tanto aperto che sulle sue origini nacquero diverse leggende. Si parlò di popolazioni giunte dal Medio Oriente o addirittura dal nord. Gli Etruschi semplicemente seppero cogliere gli influssi di altre civiltà per poi adattarli alle loro necessità.
L’itinerario si sviluppa tra colline, laghetti e pianure, attraversa romantici villaggi appesi alla cima dei colli nei territori della Toscana, dell’Umbria e del Lazio che diedero origine al popolo etrusco. La cosiddetta “Etruria propria”, cioè quella originaria, si estendeva infatti dall’Arno al Tevere ed era delimitata ad ovest dal Tirreno e ad est giungeva fino alle attuali Perugia, Orvieto e Viterbo. Nei periodi di maggior espansione e prima di essere romanizzato il popolo etrusco giunse fino alla costa adriatica, alla Padania e alla Campania.
Il nostro percorso, di circa 800 chilometri, parte da Firenze, dove si visita uno dei principali musei di arte etrusca, per concludersi a Cerveteri. In queste due città si possono infatti visitare i due principali musei di arte etrusca. I luoghi ricchi di testimonianze di questo popolo nella fascia fra Firenze e Roma sono moltissimi. Ne abbiamo scelti quattro particolarmente “spettacolari” dal profilo turistico e rappresentativi della cultura etrusca: Populonia, importante per le sue attività siderurgiche e unica città in riva al mare, che si affaccia sullo splendido golfo di Baratti; il triangolo dei romantici villaggi di Sovana, Sorano e Pitigliano scavati nelle impressionanti colline di tufo, una pietra particolarmente modellabile; Tarquinia per le sue incredibili pitture giunte a noi in ottimo stato di conservazione; e Cerveteri, forse il luogo più suggestivo del viaggio, dove percorrendo la città dei morti si ha la sensazione che il tempo si sia fermato.
Si consiglia di visitare questi straordinari siti archeologici accompagnati da una guida per meglio coglierne il significato profondo, sebbene tutte queste testimonianze siano giunte fino a noi in buono stato, così da poterne facilmente capire la funzionalità. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare non si tratta quindi di un viaggio per specialisti archeologi. Nei musei, soprattutto di Firenze e Roma ma anche di Tarquinia e Cerveteri, si possono ammirare soprattutto i corredi funerari scoperti nei sepolcri non derubati dai tombaroli di tutte le epoche, a partire da quella romana. Sì, corredi funerari, perché della civiltà etrusca ci rimangono soprattutto le testimonianze del culto dei morti. E’ infatti attraverso le tombe e gli oggetti ritrovati al loro interno che si è riusciti a studiare questo popolo. I defunti nella loro vita ultraterrena andavano infatti ad “abitare” case scavate nella roccia che riproducevano le abitazioni, molto più fragili perché costruite in legno e argilla, utilizzate nella vita terrena. Anche il corredo funebre era rappresentato da oggetti di uso giornaliero. I soggetti che appaiono nelle tombe affrescate (soprattutto a Tarquinia) e quelli incisi sulle ceramiche, nonché la funzionalità degli oggetti ritrovati (arredi, statue, ex voto) hanno permesso agli studiosi di capire come gli Etruschi abitavano, si vestivano, quali sport praticavano, quale musica ascoltavano, quali erano le loro credenze religiose. Ne esce l’immagine di un popolo molto evoluto, dove per esempio la donna, a differenza di quanto avveniva in Grecia e più tardi a Roma, occupava un posto importante nella famiglia e nella società.
L’arte per l’arte – spiegano Antonio Giuliano e Giancarlo Buzzi – agli Etruschi non interessava: le opere obbedivano a scopi funzionali”, a differenza di quanto avveniva nella cultura greca. Il periodo di maggior maturità artistica, spiegano i due studiosi, viene raggiunto nel VI secolo a.C. (a questo periodo risalgono gli affreschi di Tarquinia) quando gli Etruschi “fanno proprio il gusto dei Greci… ma lo correggono con spunti veristici, con una maggiore concretezza e immediatezza delle figurazioni”.

La cronologia
Prima di Gesù Cristo dieci secoli densi di storia e grandi scoperte
La cronologia dello sviluppo della civiltà etrusca va dal IX al I secolo prima della nascita di Cristo.
Perché nella regione che si estende tra Firenze e Roma e si affaccia sul Tirreno si è sviluppato il popolo etrusco? Le montagne dell’Etruria erano ricche soprattutto di ferro, ma anche di rame, stagno, piombo, zinco, argento e persino di sale. Come spiega Giovannangelo Camporeale, professore di etruscologia all’Università di Firenze e autore di numerosi saggi, si può equiparare, per la ricchezza della regione, l’importanza per quell’epoca della presenza di giacimenti di ferro a quella attuale di petrolio. Le manifatture etrusche raggiunsero un elevato livello. Gli oggetti in metallo venivano esportati in tutto il Mediterraneo e nel nord Europa, assieme a quelli in bucchero: una terra cotta che riscaldata in assenza di ossigeno e debitamente laccata assomigliava enormemente al bronzo, ma costava molto meno.
Il suolo, molto fertile, era adatto alla coltivazione di cereali (si parlerà più tardi dell’Etruria come del granaio di Roma), di vite (il vino etrusco veniva esportato) e di olivi. Le zone interne erano inoltre ricche di boschi, il cui legname serviva a rifornire i forni metallurgici e i cantieri navali. Gli Etruschi erano infatti abili navigatori e trasportavano nei paesi che si affacciavano sul Mediterraneo i loro prodotti e le loro ricchezze. Erano però anche molto aperti, come abbiamo visto, agli scambi culturali.
Sia attorno alle origini del popolo etrusco che della sua lingua, la tradizione ha costruito un alone di mistero. In effetti sono scarsissimi i documenti storici scritti giunti fino a noi, salvo qualche iscrizione su tombe o su oggetti che ha permesso di stabilire come l’alfabeto fosse molto simile a quello greco. “Strutturalmente però la lingua non è inseribile in uno dei gruppi linguistici che conosciamo” (Antonio Giuliano e Giancarlo Buzzi). Data la scarsità di documenti scritti, molto di quanto sappiano su questo popolo lo desumiamo dai ritrovamenti archeologici (tombe e corredi funebri) e da testimonianze latine e greche dei periodi in cui la civiltà tirrenica era però già in fase di decadenza.
Anche per quanto concerne le origini degli Etruschi si è voluto creare un alone di mistero immaginando migrazioni di interi popoli dal Medio oriente o dal nord Europa. “Non è il caso di pensare – osservano Antonio Giuliano e Giancarlo Buzzi – a una civiltà venuta dal di fuori che si impose, soppiantandole, a civiltà locali, ma a una tradizione culturale locale ben evidente e solida che si aprì a influssi esterni, a diverse e molteplici sollecitazioni”.
Il territorio era organizzato in città-stato simili a quelle greche, i cui vertici si incontravano una volta all’anno in un luogo non ancora identificato.
Dopo un periodo iniziale in cui “è ragionevole supporre fosse emerso un ceto aristocratico, durante il VII secolo a.C. si affermò un nuovo ceto di imprenditori e di trafficanti, che accumulava ricchezze e finiva per costituire un più vasto gruppo gentilizio, nelle cui mani si concentrava il potere”. Tra la fine del VII secolo e il principio del VI si afferma la città (alcune raggiunsero, secondo gli studiosi, alcune decina di migliaia di abitanti). “Artigiani, mercanti, agricoltori formavano un nuovo ceto, estremamente dinamico, la cui ricchezza non era più basata sulla proprietà immobiliare, ma sulla produzione e sullo scambio”. Pertanto la città è una conquista innanzitutto sociale.
Un’altra tappa fondamentale nel percorso storico del popolo etrusco è rappresentata dalla battaglia di Cuma del 474 a.C., quando i Siracusani vincono gli Etruschi e diventano padroni del Tirreno. Le metropoli costiere, a causa del declino della potenza marinara, si rivolgono allora verso l’interno, da una parte rivitalizzando le città-stato agricole, ma dall’altra creando fonti di conflitto.
Ci stiamo avviando verso il declino della civiltà etrusca. Un secolo più tardi inizia il lento processo di romanizzazione. La prima città-stato romanizzata è Veio nel 396 a.C. Seguiranno lentamente le altre. In alcuni casi il processo avverrà in maniera pacifica, in altri meno.

L’itinerario

1° giorno
Locarno – Firenze (425 km)

2° giorno
Museo Archeologico di Firenze

3° giorno
Firenze – Populonia (169 km)
Populonia – Valpiana (40 km)

4° giorno
Valpiana – Sovana (115 km)

5° giorno
Sovana – Tarquinia (73 km)
Tarquinia – Bracciano (68 km)

6° giorno
Bracciano – Cerveteri (18 km)
Cerveteri – Firenze (314 km)

7° giorno
Firenze – Locarno (425 km)

Mondo etrusco – Quattro tappe tra turismo e cultura

Mondo etrusco – La civiltà più colta prima dei romani

Il nostro percorso, di circa 800 chilometri, parte da Firenze per concludersi a Cerveteri. I luoghi ricchi di testimonianze di questo popolo nella fascia fra Roma e Toscana sono moltissimi.

Il nostro itinerario inizia dal Museo archeologico nazionale di Firenze, dove sono raccolti alcuni capolavori di arte etrusca e di arte greca rinvenuti in tombe etrusche. Di particolare pregio sono le statue in bronzo: accanto a una serie di bronzetti votivi troneggiano la “Chimera” (fine V-inizio IV secolo a.C.) proveniente da Arezzo e “L’Arringatore” (II secolo a.C.) ritrovato nella zona di Perugia. La “Chimera”, scoperta nel 1553, per Cosimo I de’ Medici divenne il simbolo del potere mediceo rappresentando le fiere selvagge che il duca aveva domato per costituire il suo regno. “L’Arringatore”, un personaggio maschile nel pieno della maturità caratterizzato da un volto severo e nello stesso tempo grave e ispirato, arredò per lungo tempo la camera da letto di Cosimo I.

La città del ferro
Solitamente le altre città costiere etrusche sorgevano a una decina di chilometri dal mare. Populonia, che gestiva gli enormi giacimenti di ferro dell’isola d’Elba, costituisce un’eccezione e la sua acropoli, di cui rimangono solo le fondamenta di alcuni edifici sacri, era situata su uno sperone dal quale si domina il mare: da una parte il meraviglioso golfo di Baratti e la costa, dall’altra l’Elba. Accanto all’acropoli oggi sorge un grazioso borgo medievale.
Il suggestivo golfo di Baratti costituisce un porto naturale dove attraccavano le navi provenienti dall’isola e cariche di pietre contenenti ferro. Poco distante sorgeva il centro siderurgico, di cui si possono osservare ancora oggi le fondamenta seguendo la “Via del ferro”. La necropoli sorgeva a pochi metri dal mare nel golfo di Baratti, accanto agli impianti siderurgici e di fronte all’acropoli (la città dei morti, nella civiltà etrusca, era sempre separata da quella dei vivi). Nel corso dei secoli fu sepolta dalle scorie di ferro prodotte in grande quantità dapprima dagli Etruschi e in seguito dai Romani. Gli archeologi dovettero scavare sotto questa immensa montagna nera per trovare sepolcri etruschi in ottimo stato di conservazione e molto interessanti, perché in uno spazio molto delimitato si presentano nelle varie tipologie: a tumulo, a edicola, a sarcofago, a camera.
Il luogo più suggestivo di Populonia è certamente l’itinerario che conduce alla visita delle cave di pietra etrusche e della necropoli delle Grotte, “quasi senza confronto nel mondo etrusco” (guida archeologica del Touring), che unisce all’eccezionalità dei monumenti etruschi il fascino del paesaggio immerso nel verde della macchia mediterranea con sullo sfondo il mare. Il sentiero che sale, illuminato dal sole, è scintillante per la presenza di residui metalliferi nella sabbia. Giunti in cima alla collina si incontrano dapprima le cave di arenaria, una pietra costituita da sabbia cementificata, molto diffusa nella zona e ampiamente utilizzata per costruire monumenti funebri. Facilmente modellabile, veniva utilizzata per costruire muri a secco giunti fino a noi in perfetto stato nonostante siano stati costruiti oltre 2500 anni fa. Di fronte alla cava la necropoli delle Grotte, interamente scavata nella parete di arenaria, propone una serie di tombe a camera che datano del IV e III secolo a.C. Lasciato quel luogo suggestivo, il sentiero che scende verso il mare è cosparso da altri sepolcri scavati nella roccia.

L’Etruria del tufo
Questo triangolo di Maremma tufacea è di una bellezza speciale. I villaggi di Pitigliano e di Sorana osservati da lontano sembrano scaturire dalla roccia vulcanica, assumono le forme e i colori del tufo in perfetta armonia con la splendida natura circostante. Affascinanti anche le viuzze dei loro borghi medievali, ma la perla del magico triangolo è forse costituita da Sovana per la suggestione arcaica del minuscolo borgo distribuito tra la Rocca degli Aldobrandeschi (centro di potere della potente famiglia feudale) e il bellissimo duomo romanico, per l’importanza e per la monumentalità delle straordinarie necropoli etrusche. Dal IV secolo a.C. l’aristocrazia agraria dominante a Sovana esibisce la propria ricchezza realizzando costosissimi e monumentali sepolcri, suggestivamente scavati nei pendii tufacei delle tre valli che circondano l’abitato con una notevole varietà di tipi architettonici. Il monumento più imponente è certamente la tomba Ildebranda realizzata nel III secolo a.C. Completamente scavata nella roccia di tufo, ricorda in maniera impressionante gli splendidi monumenti di Petra in Giordania.
I tre villaggi del magico triangolo sono collegati tra loro da strade etrusche, le cosiddette vie cave. Scavate nella roccia, sono profondamente incassate tra alte pareti tufacee e costituiscono il segno di percorsi antichi che si diramavano in tutte le direzioni dagli antichi centri abitati. Percorrendole avete l’impressione di immergervi nella notte dei tempi. L’emozione è grandissima anche per la lontana luce che le illumina, che conferisce a questi percorsi un significato sacro.

Gli affreschi di Tarquinia
La pietra su cui sorge Tarquinia è molto friabile. Non permette quindi grandi interventi scultorei. Fu probabilmente questa la ragione principale alla base dello sviluppo della pittura funeraria, che non rappresenta solo l’episodio pittorico più importante prima dell’epoca imperiale romana, ma anche una fonte preziosa di informazione sui “valori” all’insegna dei quali viveva la società etrusca, sul costume e sulle credenze soprattutto della classe aristocratica. Gli affreschi rappresentano infatti scene di vita: banchetti funerari e non, allietati da danzatori e suonatori di cetra e di flauto, giochi funebri (alcuni molto truci), riti religiosi, scene di caccia e di gioco, scene erotiche e molto altro ancora.
Delle circa 200 tombe affrescate se ne possono visitare una ventina, quasi tutte in ottimo stato di conservazione. I sepolcri tarquinesi presentano di solito un vano rettangolare a cui si accede con un corridoio a gradini scavato nella parete del colle. Il visitatore si ferma davanti a una porta in vetro che blocca l’ingresso al locale, ma che permette un’ottima visuale sulle pitture realizzate con la tecnica dell’affresco: su una parete intonacata l’artista segnava con una punta i contorni delle figure, poi applicava i colori minerali e vegetali sciolti in acqua. Le immagini sono di due tipi: decorazioni semplici simboliche e allegoriche sui soffitti e sugli spazi frontali delle pareti; decorazioni complesse, rappresentanti varie scene di vita, in genere a metà dell’altezza delle pareti.
I corredi funebri trovati nelle tombe di Tarquinia sono presentati in modo didattico nel rinnovato museo nazionale ospitato dal quattrocentesco Palazzo Vitelleschi. I dipinti di alcune tombe che erano minacciati dalle intemperie sono stati strappati e riproposti al museo, dove si possono ammirare non solo opere etrusche, ma anche preziosi oggetti, soprattutto vasi, provenienti dalla Grecia ma di proprietà dei defunti.

Una vera città dei morti
Quella di Cerveteri è la visita più suggestiva di tutto il viaggio. Per due ore, tanto dura la visita al sito archeologico, camminate nel silenzio in una vera città dei morti. Il tempo sembra essersi fermato. Con un po’ di capacità di astrazione potete immaginarvi, come fa lo scrittore Giorgio Bassani nel romanzo “Il giardino dei Finzi-Contini”, di tornare ai tempi in cui gli etruschi visitavano questo luogo così come nei nostri paesi “il cancello del camposanto era il termine obbligato di ogni passeggiata serale”. “Varcata la soglia del cimitero – scrive Bassani – dove ognuno di loro possedeva una seconda casa, e dentro questa il giaciglio già pronto su cui, tra poco, sarebbe stato coricato accanto ai padri, l’eternità non doveva più sembrare un’illusione, una favola, una promessa da sacerdoti. Il futuro avrebbe stravolto il mondo a suo piacere. Lì, tuttavia, nel breve recinto sacro ai morti famigliari; nel cuore di quelle tombe dove, insieme coi morti, si provvedeva a far scendere tutto ciò che rendeva bella e desiderabile la vita; in quell’angolo di mondo difeso, riparato: almeno lì (e il loro pensiero, la loro pazzia, aleggiava ancora, dopo venticinque secoli, attorno ai tumuli conici, ricoperti d’erbe selvagge), almeno lì nulla sarebbe mai cambiato”.
Camminando lungo il percorso trovate sepolcri di ogni epoca etrusca e di ogni genere. A seconda dello sviluppo e delle fortune della città le tombe diventano più imponenti. Con l’affacciarsi delle nuove classi sociali compaiono le cosiddette tombe a dado, soprannominate dalle guide locali le casette a schiera. In questa città dei morti, dove ognuno si costruiva la sua casa per l’aldilà a seconda delle sue possibilità e il più simile possibile a quella abitata durante la vita terrena, potete leggere e capire la vita di questo popolo straordinario. Al museo di Cerveteri, che merita una visita, sono conservati gli arredi funebri di molte tombe.
Seguiamo ancora Giorgio Bassani: “Penetrammo nell’interno della tomba più importante, quella che era stata della nobile famiglia Matuta: una bassa sala sotterranea che accoglie una ventina di letti funebri disposti dentro altrettante nicchie delle pareti di tufo, e adorna fittamente di stucchi policromi raffiguranti i cari, fidati oggetti della vita di tutti i giorni: zappe, funi, accette, forbici, vanghe, coltelli, archi, frecce, perfino cani da caccia e volatili di palude”.

L’itinerario

1° giorno
Locarno – Firenze (425 km)

2° giorno
Museo Archeologico di Firenze

3° giorno
Firenze – Populonia (169 km)
Populonia – Valpiana (40 km)

4° giorno
Valpiana – Sovana (115 km)

5° giorno
Sovana – Tarquinia (73 km)
Tarquinia – Bracciano (68 km)

6° giorno
Bracciano – Cerveteri (18 km)
Cerveteri – Firenze (314 km)

7° giorno
Firenze – Locarno (425 km)