Stati Uniti – Viaggiando nella Storia

Stati Uniti – I miti dell’America
Stati Uniti – La metropoli che inventò i grattacieli

Da Philadelphia, culla della Nazione, a New Orleans, uno dei principali porti delle navi dei negrieri. Poi, lungo le rive del Mississippi visitando le grandi piantagioni dove lavoravano decine di migliaia di schiavi.

Il nostro viaggio inizia nella culla della storia a stelle e strisce: Philadelphia. La città dove nel 1774 si tenne il primo congresso tra i coloni della Nuova America per discutere dei loro rapporti con la corona inglese. Dove nel 1776 il secondo congresso decretò la separazione dalla Gran Bretagna e il 4 luglio adottò la dichiarazione d’indipendenza. Dove nel 1787 venne ratificata la costituzione americana (proprio qui si trovano tutti i documenti originali). Queste tappe fondamentali della storia statunitense si celebrarono nell’Indipendence Hall e dal suo campanile si udì la campana, la Liberty Bell, suonare a festa.
Nel nucleo più antico di questa storica città è stato istituito l’Indipendence National Historical Park, il miglio quadrato più ricco di storia di tutta l’America, costituito da dodici isolati con case in mattoni rossi, nei quali si possono ripercorrere le tappe salienti della nascita della nazione, dal 1776 al 1800, anni durante i quali Philadelphia fu capitale del paese.
Il luogo più magico, dove vennero prese le decisioni più importanti, è l’Indipendence Hall. Accanto si trovano la Congress Hall, dove si tennero le riunioni della prima camera dei deputati e del primo senato e la Old City Hall, sede della prima corte suprema. Non distante è stato costruito un museo per accogliere la Liberty Bell, la campana che scandì i momenti salienti della nascita della nazione, assurta in seguito a simbolo della libertà, anche durante la guerra di secessione per la liberazione degli schiavi.
Non lontano dal centro storico, immersa tra costruzioni moderne, si trova Elfreth’s Alley, una pittoresca viuzza, considerata la più antica degli Stati Uniti, che fu abitata fin dal 1727. Philadelphia offre anche interessanti musei, in particolare il Museum of Art (splendida collezione di arte europea dal 1850 al 1900), e un nuovo centro urbano situato sull’altra sponda del fiume Delaware, con un’imponente City Hall in stile Secondo Impero francese completata nel 1901.

New Orleans culla del jazz
Il nostro viaggio prosegue in aereo verso New Orleans (circa 3 ore di volo), un’altra città che svolse un ruolo importante nella giovane storia americana. Il suo porto, assieme a quello di Charleston (situata a nord est), fu infatti uno dei principali punti di approdo degli schiavi provenienti dall’Africa e dalle colonie francesi a partire dall’inizio del XVIII secolo. Alcuni di loro acquistarono la libertà e – assieme agli abitanti di origine francese e spagnola residenti nel Quartiere Francese – diedero origine alla cultura creola, che tanto influenzò la musica e la gastronomia cittadine, frutto di un crogiuolo di razze e di culture. Gli anglo-americani, che arrivarono verso metà Ottocento, vennero mal tollerati e invitati a insediarsi in “nuovi” quartieri nati attorno al centro storico.
La musica jazz nacque a New Orleans, in questo clima culturale, verso la fine del XIX secolo, influenzata soprattutto dalle popolazioni di cultura africana e si affinò all’inizio del Novecento nei bar e nei bordelli del Quartiere Francese.
New Orleans è una città diversa da tutte le altre degli Stati Uniti. Grazie alla sua mentalità festaiola, si dice che i suoi abitanti prendano la vita con calma (The Big Easy). Distrutta a due riprese nel Settecento da due devastanti incendi (1788 e 1794), la sua architettura tradisce origini europee, piuttosto spagnole che francesi, adattate a un clima subtropicale. Questo si spiega con il fatto che nel 1760 Luigi XV cedette la città con i vasti territori attorno a suo cugino spagnolo Carlo III, il quale la governò fino a pochi mesi prima che Napoleone vendesse per 15 milioni di dollari l’amplissima regione, a cui apparteneva anche New Orleans, al presidente americano Thomas Jefferson.
Fondata nel 1718 su un territorio paludoso, la città deve il suo sviluppo alla posizione vicino alla foce del Mississippi, il fiume più lungo degli Stati Uniti (3778 chilometri). Oggi la sua economia si basa sui pozzi di petrolio del Golfo del Messico e sul turismo (è una delle città più visitate del paese).

Il Quartiere Francese
Nel 2005 l’uragano Katrina ha distrutto l’80 per cento di New Orleans. La città sorge infatti un metro e mezzo sotto il livello del mare e i suoi argini sono stati sopraffatti dalla violenza delle acque. Solo il Quartiere Francese, il centro storico, è stato risparmiato dagli allagamenti. Ed è soprattutto qui che si concentrano le visite turistiche. Lo si può comodamente percorrere a piedi in lungo e in largo in una giornata (musei a parte). Cuore del centro è la francese Place d’Armes, poi ribattezzata Jackson Square in onore di un eroe della liberazione. Sulla piazza si affaccia la cattedrale d’ispirazione neogotica ricostruita nel 1794. Accanto sorgono due palazzi gemelli. Il Cabildo, eretto dal governo spagnolo nel 1799, e il Presbytère edificato nel 1813 per ospitare i vescovi della Louisiana. Oggi il primo fa parte del museo storico cittadino e il secondo presenta un’interessante mostra sul Mardi Gras, il famosissimo carnevale di New Orleans. Sui due lati di Jackson Square si allineano altri due edifici gemelli del 1840 commissionati da una baronessa dopo un viaggio in Europa. I loro balconi in ghisa costituirono un esempio per molti altri palazzi cittadini. Sul quarto lato della piazza scorre il Mississippi, che si può ammirare da un belvedere. Poco lontano sorge il French Market, mercato cittadino nell’antichità, oggi trasformato in centro commerciale con ristoranti.
Ma per scoprire New Orleans bisogna camminare con il naso per aria lungo Royal street, Bourbon street e Lachartres street, risalendo anche le vie perpendicolari a queste tre strade parallele. Si ammirano splendidi palazzi cittadini, molti dei quali, come vedremo in seguito, edificati dai ricchissimi proprietari delle piantagioni di cotone lungo le rive del Mississippi, che amavano trascorrere lunghi periodi in città. Oltre i confini del Quartiere Francese, anticamente abitato soprattutto dai creoli, sorgono le zone costruite dagli angloamericani. L’urbanistica è sempre squadrata ma le case sono lontane le une dalle altre e sono caratterizzate da una loggia sull’entrata. Presentano quelle architetture romantiche che sono passate nell’immaginario collettivo come le classiche case dell’America d’inizio Novecento. È piacevole passeggiare per questi quartieri, soprattutto alla vigilia del 4 luglio, festa dell’indipendenza, quando molte case sono addobbate a stelle e strisce.

Le piantagioni lungo il Mississippi
Il nostro viaggio prevede il trasferimento in automobile da New Orleans a Chicago attraversando gli stati della Louisiana, Mississippi, Tennessee, Kentucky, Indiana e Illinois. Ci rechiamo così all’aeroporto di New Orleans per noleggiare un’automobile, un comodo suv della Dodge. La prima tappa è la cosiddetta River Road, la strada che percorre le rive del Mississippi su entrambe i lati per quasi 200 chilometri da New Orleans a Baton Rouge, lungo la quale si trova una splendida collezione di case coloniche delle piantagioni. Prima della guerra di Secessione (1861-1865) ce n’erano più di 2 mila. Oggi alcune sono state trasformate in musei. L’architettura di queste imponenti residenze, costruite con il lavoro degli schiavi, è in stile europeo, ma adattato al clima subtropicale. L’entrata principale era rivolta verso il fiume per poter accogliere gli ospiti che arrivavano in barca. Per prevenire il propagarsi degli incendi le cucine erano staccate dalla costruzione principale. Gli arredamenti ricordano quelli delle antiche ville aristocratiche e nobiliari europee di campagna. Molte residenze comprendevano un’ala separata, la cosiddetta garçonnière, dove andavano ad abitare i giovani uomini della famiglia al compimento dei 15 anni.
Le spartane case degli schiavi sorgevano a distanza. Si possono spesso visionare documenti sull’acquisto degli schiavi, con indicato il prezzo e le caratteristiche della ‘merce’ umana.
Visitiamo tre piantagioni. Le caratteristiche generali sono le stesse, anche le storie dei loro fondatori di origine europea sono simili, ma ogni “plantation” offre spunti diversi di riflessione.
Laura Plantation è l’unica che propone visite guidate anche in lingua francese. La sua storia è interessante perché la conduzione era stata affidata a donne della famiglia. La regola voleva che per garantirne la continuità la proprietà fosse in mano al figlio più promettente. E qui in ben due occasioni il testimone toccò a due donne, giudicate più idonee, nonostante ci fossero figli maschi a disposizione. Questa piantagione, come molte altre, proseguì la sua attività anche dopo la guerra di Secessione (1861-1865) che decretò la fine della schiavitù. Gli schiavi diventarono però uomini liberi solo sulla carta. Attraverso il sistema della mezzadria i neri continuavano infatti a coltivare la terra ed erano costretti a cedere la gran parte del raccolto al proprietario. Che per giunta li ripagava con gettoni che potevano utilizzare solo al negozio della ‘plantation’, gestito naturalmente dalla proprietà.
A pochi chilometri si può visitare la splendida Oak Plantation, residenza di campagna che veniva abitata per otto, nove mesi all’anno. I suoi proprietari, come quasi tutti i signori delle piantagioni, si trasferivano infatti per lunghi periodi nelle loro ricche residenze a New Orleans o a Natchez, che avevano caratteristiche architettoniche più cittadine. Molto spesso compivano anche lunghi viaggi in Europa. Colpiscono a Oak Plantation gli splendidi viali di accesso alle entrate anteriore e posteriore della casa colonica costituiti da querce centenarie che offrono un quadro indimenticabile.
Un centinaio di chilometri più a nord in direzione di Natchez, a Francisville visitiamo Rosedown Plantation, con il suo bel giardino all’italiana. Ma ciò che più colpisce è l’arredamento. Se in molte altre residenze i mobili non sono più quelli originali, ma sono stati sostituiti con altri dell’epoca, qui il tempo sembra essersi fermato: tutto è rimasto intatto!

Natchez, una perla
Anche se non molto nota Natchez è una vera perla degli Stati Uniti, che custodisce lo splendore architettonico del sud del primo Ottocento, cioè del periodo precedente la guerra di Secession. L’urbanistica è squadrata e urbana come quella di New Orleans, ma le case non sono una a ridosso dell’altra come nelle grandi città e come nel Quartiere Francese. I quartieri sono costituiti da splendide ville con parco caratterizzate da architetture classiche e austere. Passeggiando per le vie del centro si può percorrere un viaggio a ritroso nella storia immaginando quello che doveva essere questa regione nella prima metà dell’Ottocento. Alcune residenze sono diventate musei e si possono visitare. Nel centro cittadino vanno segnalate la graziosa Rosalie e l’imponente Stanton Hall, che si trovano ai due estremi della città. Camminando tra una e l’altra e seguendo una piccola guida distribuita sul posto si possono ammirare le vie più suggestive. Lontane dal centro, immerse in immensi parchi, sorgono invece Rosalie e l’incompiuta Longwood.
A differenza delle residenze che abbiamo visitato nelle ‘plantation’ queste sono ville di città, non di campagna, ma anch’esse si ispirano all’architettura europea. Le storie dei loro proprietari sono molto interessanti. Ascoltandole ci si rende conto come tutto da queste parti sia sempre da riferire alla guerra di Secessione (1861-1865) che contrappose il sud schiavista al nord modernizzatore. Questa regione, prima del conflitto, vantava più milionari di qualsiasi altra parte degli Stati Uniti eccetto New York. Dopo la guerra, con la vittoria dei nordisti e l’abolizione della schiavitù tutto cambiò e molte famiglie persero le loro immense fortune, accumulate sullo sfruttamento degli schiavi. Interessante a questo proposito la storia del proprietario di Longwood, filonordista: come spesso accade nelle guerre civili fu osteggiato dapprima dai sudisti e in seguito anche dai nordisti. Perse così tutta la sua fortuna e non riuscì a ultimare il suo progetto megalomane che prevedeva un’enorme e originalissima casa ottagonale che culminava con una cupola. Anche il ricchissimo proprietario di Stanton Hall, che per la sua residenza fece arrivare dall’Europa gli oggetti più assurdi, perdette tutti i suoi averi in seguito alla guerra.

Itinerario
1° giorno Zurigo-Philadelphia
2° giorno Philadelphia-New Orleans
3° giorno New Orleans
4° giorno (330 km – 4h) New Orleans – River Road – Natchez
5° giorno Natchez
6° giorno (800 km – 9h) Natchez – Nashville (per la Natchez Trace PKWY)
7° giorno (350 km – 4h) Nashville – Lexington
8° giorno (130 km – 2h) Lexington – Frankfort – Louisville
9° giorno (500 km – 5h) Louisville – Chicago
10°-15° giorno Chicago
16° giorno Chicago – Locarno

Per saperne di più
Usa Est La guida verde Michelin, Milano 2009
Stati Uniti centrali The Rough Guide, Milano 2009
Stati Uniti orientali Lonely Planet, Torino 2012
Chicago Lonely Planet, Torino 2014
T. Harry Williams, La guerra civile americana, in Storia del mondo contemporanea Milano 1982

Stati Uniti – I miti dell’America

Stati Uniti – Viaggiando nella storia
Stati Uniti – La metropoli che inventò i grattacieli

Elvis Presley, la musica country, Abramo Lincoln, uno dei padri della nazione, e l’enfant terrible Muhammad Ali, la corsa di cavalli del Kentucky Derby, sono solo alcuni dei grandi simboli che incontriamo nel nostro viaggio da New Orleans a Chicago, attraversando da sud a nord il cuore del paese.

Il nostro viaggio da New Orleans verso Chicago attraversando il centro degli Stati Uniti prosegue verso Nashville, la capitale della musica country e del Tennessee, un altro stato profondamente conservatore, tanto che il parlamento ha recentemente approvato un progetto di legge per rendere la Bibbia testo ufficiale dello stato. Una strada panoramica di 643 chilometri, facilmente percorribili in un giorno, collega Natchez a Nashville. L’arteria, chiusa al traffico commerciale, senza semafori e – attenzione – senza stazioni di benzina, segue un’antichissima pista tracciata da bufali e cacciatori preistorici. La Natchez Trace Parkway, questo è il nome della strada, è curata dal National Park Service e l’erba ai lati è rasa come nei parchi cittadini. Si guida per ore immersi nel verde incrociando poche automobili, qualche motociclista, alcuni ciclisti e senza incontrare nessuna zona abitata, salvo abbandonare la Trace per raggiungere qualche villaggio dove rifocillarsi e soprattutto fare il pieno di benzina. Fino a metà Ottocento, quando i battelli a vapore iniziarono a navigare nelle due direzioni lungo il Mississippi, questa pista era battuta da 10 mila viaggiatori all’anno. Si trattava di coraggiosi avventurieri del Kentucky e in genere del nord, che trasportavano merci lungo il fiume fino a New Orleans, dove vendevano anche le loro chiatte per il legname e ritornavano a casa percorrendo la Trace, perseguitati da maltempo, animali selvatici, indiani ostili e terreno accidentato.

La città natale di Elvis Presley
Poco oltre metà strada tra Natchez e Nashville una piccola deviazione porta a Tupelo, la città natale di uno dei miti dell’America moderna: Elvis Presley. Entrando in città numerosi cartelli stradali indicano “birthplace” (luogo di nascita), dando per scontato che tutti sappiano di chi. Su una collina appena fuori città, in un quartiere povero, sorge la casa della famiglia Presley, dove Elvis nacque l’8 gennaio 1935 assieme al suo gemello Jesse che morì subito dopo avere assaporato la luce del mondo. Si tratta di una piccola abitazione lunga e stretta, costituita da due sole stanze, che i genitori costruirono nel 1934. Il mobilio è stato ricostituito con mobili dell’epoca, così che l’arredamento risulti identico a quello del giorno in cui nacque Elvis. Suggestiva è anche la visita della chiesetta frequentata dai Presley, che è stata trasferita qui dalle vicinanze. Ci si siede sui banchi e ai lati scendono degli schermi su cui viene proiettato un filmato che ripropone l’atmosfera delle tonanti cerimonie religiose a cui assistette il giovane Elvis, ritmate da quei gospel che tanto influenzarono la sua musica in seguito. Il piccolo museo colloca il periodo della gioventù di Elvis nel contesto storico locale e nazionale, illustrando la vita del sud negli anni antecedenti la seconda guerra mondiale. La continuazione della storia incredibile che trasformò un giovane camionista in uno dei miti dell’America moderna la si può seguire al Country Music Hall of Fame & Museum di Nashville, che dedica un’intera sezione a Elvis, mostrando video dei suoi concerti, esponendo le sue chitarre, i suoi stravaganti vestiti e perfino la sua Cadillac con le maniglie d’oro.
Raggiungiamo Nashville in serata. Pernottiamo in un’antica stazione in stile liberty trasformata in albergo. È il 4 luglio, festa dell’Indipendenza. La città, culla del country, è addobbata a festa. Musica nei bar, nei locali notturni della centralissima Broadway Road e in piazza, dove si tiene uno splendido spettacolo di fuochi pirotecnici accompagnati dall’orchestra sinfonica cittadina. Nei locali notturni la musica imperversa fino all’alba. Ne giriamo alcuni: animatissimi. Tutti con musica di buon livello. Ricordate il film “Le ragazze del Coyote Ugly” dove le avvenenti cameriere ballano in modo sfrenato e sexy sul bancone di un bar da cowboy? Ebbene quel locale si trova proprio qui a Nashville.

La culla del country
Nashville è considerata la culla della musica country, nata all’inizio del Novecento come risultato dell’interazione tra le tradizioni musicali folk britanniche e irlandesi importate dai coloni anglosassoni con gli inni spiritual e gospel cantati dagli schiavi afroamericani e dai loro discendenti. Una trasmissione radiofonica (The Grand Ole Opry) trasmessa sin dal 1925 da un’emittente di Nashville e tuttora molto ascoltata negli Stati Uniti ha scoperto in quasi un secolo di storia i grandi cantanti di questo genere. Tanto che gli artisti country potevano dire di avere raggiunto il successo solo dopo avere superato l’esame dell’Opry e aver suonato nel prestigiosissimo Ryman Auditorium, un’ex chiesa in mattoni rossi, che si trova nel centro città e dove si tenevano i concerti. Oggi anche i 2 mila posti messi a disposizione in questa sala non sono più sufficienti e alcuni concerti si tengono in un nuovo gigantesco teatro fuori città.
Ma anche lungo tutta la centralissima Broadway vi sono bar dove musicisti di talento suonano dopo il tramonto. Nel vastissimo Country Music Hall of Fame & Museum il genere viene rivisitato in tutti i suoi aspetti, le sue tendenze ed evoluzioni. Raccoglie cimeli di grandi star (abiti, stivali, strumenti, persino automobili), filmati, fotografie e registrazioni, che si possono ascoltare in sofisticate cabine.
È davvero peccato avere poco tempo a disposizione, ma il nostro viaggio verso Chicago è ancora lungo. La nostra prossima tappa ci porta nel Kentucky, la terra dei cavalli purosangue. Ma prima di raggiungere Lexington ci imbattiamo in un altro mito: quello del presidente Abramo Lincoln.

Lincoln, padre della democrazia
Una deviazione di pochi chilometri dalla statale US-31 East ci porta al National Historic Site dove si trova una riproduzione simbolica della capanna in cui il 12 febbraio 1809 nacque Abramo Lincoln, il padre dell’America moderna, il presidente che sconfisse il fronte sudista nella guerra di Secessione (1861-1865) e decretò la fine della schiavitù. La capanna in legno è racchiusa all’interno di un Memorial Building, monumentale ricostruzione di un tempio greco in granito e marmo con 56 gradini, che simboleggiano gli anni della vita di Lincoln, assassinato a Washington il 14 aprile 1865. La capanna dove Lincoln trascorse la sua adolescenza (pure riprodotta) si trovava a pochi chilometri di distanza dal luogo di nascita, in un’altra splendida zona di campagna.
Risalgono a questo periodo i suoi primissimi di schiavi incatenati e spinti a forza lungo la strada. “Il compito di Lincoln, – scrive T. Harry Williams nel Volume X di “Storie del mondo contemporaneo” della Cambridge – il più difficile che sia toccato a uno statista americano, era quello di conservare la nazione. Egli doveva ricostruire l’Unione (dalla quale gli Stati schiavisti del sud si erano scissi ndr.), dirigere la guerra civile e nello stesso tempo dar vigore all’unità di propositi del popolo”. Ci riuscì grazie alle sue “qualità di statista – forza morale e intellettuale, profonda comprensione dello spirito della sua epoca e dell’opinione pubblica, straordinaria abilità politica – e alla volontà di impiegare queste qualità nella realizzazione del suo proposito”. Ma Lincoln possedeva anche “un’altra qualità dello statista, la passione. La sua era la passione della democrazia – conclude T. Harry Williams – del più grande esempio mondiale di democrazia, l’Unione americana, quella che egli chiamava l’ultima, la migliore speranza della terra”.

Nel regno dei cavalli
Proseguiamo verso Lexington nel Kentucky, considerata “la capitale mondiale del cavallo”, attraversando il cosiddetto Bluegrass Country. Deve il suo nome al fatto che in primavera i pascoli fioriscono di minuscoli boccioli azzurri. È un susseguirsi di prati ondulati, punteggiati di allevamenti di cavalli – sembra che ce ne siano oltre 450 – recintati da steccati bianchi, con al centro belle dimore coloniche. In questa regione si pratica l’allevamento da oltre 250 anni. Il Kentucky Horse Park, situato sui terreni da pascolo di un ex allevamento, è il luogo in cui si celebra il cavallo in tutte le sue forme: un grande museo ne illustra la storia e l’evoluzione, la Parade of Breeds (Parata delle razze) presenta alcune delle 50 razze di cavalli ospitate nel parco, nella Hall of Champions vengono invece fatti sfilare alcuni grandi campioni documentando i loro successi con filmati. La visita permette anche di girare liberamente per le scuderie che ospitano centinaia di purosangue.
Gli amanti delle corse non possono mancare di visitare a Louisville, che dista circa un’ora di automobile, il Churchill Downs dove il primo sabato di maggio si celebra uno degli appuntamenti ippici più importanti al mondo: il Kentucky Derby, il più vecchio evento sportivo degli Stati Uniti, praticato sin dal 1875, con in palio un premio di 1 milione di dollari. Si può visitare l’ippodromo dove in 2 minuti i campioni percorrono i 2 chilometri della corsa e il cavallo vincitore viene sommerso da una pioggia di petali di rosa. Un museo racconta la storia dei cavalli e dei fantini più celebri, mentre un video a 360 gradi permette di vivere l’atmosfera che si respira in quel luogo il primo sabato di maggio, quando l’élite della società del sud si dà appuntamento per assistere al grande evento, preceduto da un festival che dura ben due settimane.

Alì, l’enfant terrible
La simpatica Louisville è famosa anche in quanto città natale di Muhammad Alì, figura carismatica, provocatoria e controversa sia dentro il ring che fuori. Il suo impatto mediatico non ha avuto eguali nel mondo sportivo. Detentore del titolo mondiale dei pesi massimi a intervalli tra il 1964 e il 1978, campione olimpionico nel 1960 a Roma, Muhammad Alì è stato personaggio importante anche per il suo attivismo politico contro la segregazione razziale e molto discusso per la sua decisione di abbracciare la religione mussulmana nel 1975 abbandonando il suo nome di nascita di Cassius Clay. Il suo rifiuto nel 1967 di arruolarsi per il Vietnam e la sua conseguente condanna che lo tenne lontano per 4 anni dal ring lo resero un’icona della controcultura americana degli anni Sessanta. La fondazione da lui creata ha costruito un vastissimo museo, dove si possono ripercorrere le tappe fondamentali della sua movimentata vita utilizzando i più moderni ritrovati della multimedialità. La fondazione ha come scopo di “preservare gli ideali del suo fondatore, di promuovere il rispetto, la speranza e la comprensione e di indurre adulti e bambini a realizzarsi al meglio (to be as great as they can be)”.
Poco distante dal Muhammad Alì Center, sulla Mainstreet di Louisville, si trova il museo del baseball, che espone all’entrata un’enorme mazza alta 36 metri.
Il nostro viaggio prosegue verso Chicago, che dista circa 500 chilometri, percorribili su comode autostrade.

Itinerario
1° giorno Zurigo-Philadelphia
2° giorno Philadelphia-New Orleans
3° giorno New Orleans
4° giorno (330 km – 4h) New Orleans – River Road – Natchez
5° giorno Natchez
6° giorno (800 km – 9h) Natchez – Nashville (per la Natchez Trace PKWY)
7° giorno (350 km – 4h) Nashville – Lexington
8° giorno (130 km – 2h) Lexington – Frankfort – Louisville
9° giorno (500 km – 5h) Louisville – Chicago
10°-15° giorno Chicago
16° giorno Chicago – Locarno

Per saperne di più
Usa Est La guida verde Michelin, Milano 2009
Stati Uniti centrali The Rough Guide, Milano 2009
Stati Uniti orientali Lonely Planet, Torino 2012
Chicago Lonely Planet, Torino 2014
T. Harry Williams, La guerra civile americana, in Storia del mondo contemporanea Milano 1982

Chicago – La metropoli che inventò i grattacieli

Stati Uniti – Viaggiando nella storia
Stati Uniti – I miti dell’America

Città intelligente, dinamica, aperta, dove si può “tastare il polso dell’America”. Ricca di parchi e straordinari musei, offre una delle più pregevoli e raffinate combinazioni di architettura moderna al mondo. Fu qui che, a fine Ottocento, l’urbanistica ha cambiato volto.

Yes, we can”. Ricordate lo slogan con cui Barak Obama ha vinto le elezioni presidenziali americane nel 2008? Ebbene questo potrebbe essere anche il simbolo della sua Chicago. Una città intelligente, dinamica, aperta, partecipativa. Un esempio sopra tutti può spiegare e giustificare questi aggettivi. Nel 1871 un terribile incendio devastò il centro città: andò distrutto il 70 per cento delle costruzioni, che erano in legno. La forza propositiva di questa metropoli l’aiutò a rinascere in tempi brevi: in un solo anno vennero costruiti 10 mila nuovi edifici e nel giro di poco tempo la popolazione era raddoppiata. Nel 1893, poco più di vent’anni dopo la terribile catastrofe, venne organizzata l’Esposizione Universale Colombiana per dimostrare al mondo che Chicago era risorta. Con sfoggio di architettura neoclassica e di tecnologie moderne la manifestazione ebbe oltre 27 milioni di visitatori, che consacrarono la città a livello internazionale. Il talento di un gruppo di giovani architetti creò la Chicago School of Architectur. Una scuola di grande importanza per l’architettura moderna. Fu infatti in questa città che negli anni Ottanta dell’Ottocento sorse il primo grattacielo, stimolato dalla ricerca di nuovi spazi che si potevano trovare solo costruendo in altezza. I primi edifici avevano ancora una struttura tradizionale, retta da spesse pareti alla base che reggevano il peso dell’edificio, fino a quando nel 1884 l’architetto William Le Baron Jenny elaborò la nuova tecnologia dello scheletro in acciaio a cui venivano ancorate le pareti interne. Tecnologia che in seguito si perfezionò ulteriormente per meglio radicare gli edifici nel terreno paludoso e per ridurre gli effetti dei venti. Sì, perché Chicago viene anche definita “la città del vento”. I progressi nella progettazione di ascensori più efficienti permisero sempre più ai grattacieli di crescere in altezza. Nel Monadnock Building si può vedere nello stesso edificio una parte in muratura del 1891 e la rivoluzionaria struttura con scheletro in acciaio di due anni dopo. Una passeggiata nel centro di Chicago permette di ammirare molti esempi che illustrano lo sviluppo dei grattacieli da fine Ottocento ai giorni nostri.
Come affermava la famosa attrice Sarah Bernhardt a Chicago si può tastare “il polso dell’America”. Spesso viene chiamata la seconda, pensando alla rivale New York come alla prima. Ma tra le due città, entrambe estremamente affascinanti, esiste a mio parere una diversità: Chicago è profondamente americana, mentre la metropoli della grande mela è universale.
Per visitare Chicago è necessaria almeno una settimana. La città è ricca di spazi verdi soprattutto lungo le rive del Michigan, quinto bacino d’acqua al mondo, che assomiglia più al mare che ai nostri laghi. Tra una visita e l’altra ci si può sempre rilassare in uno degli ampi parchi senza sentirsi oppressi dal caos del centro urbano, ricco comunque di arterie molto ampie che rendono piacevole anche passeggiare in città. Un’altra caratteristica di Chicago è la ricchezza di musei con concezione moderna (purtroppo ancora molto rari in Europa), che trasformano spesso la visita in un’esperienza interattiva.
Si consiglia di scegliere un albergo sulla parte nord della Michigan Avenue, lungo il cosiddetto Magnificent Mile, che consente di effettuare tutte le visite a piedi, ricorrendo raramente all’uso dei taxi che hanno per altro costi molto ragionevoli. Acquistando una Chicago Go Card (190 dollari per 5 giorni) si accede a musei, talvolta evitando le code, alle crociere, ai bus turistici e alle visite guidate.

Un tuffo nella storia
La nostra visita inizia dal Chicago History Museum, che si trova a nord della città. Prima di entrare nel vivo dell’argomento offrendo un’accurata ricostruzione della storia cittadina, questo museo propone un’interessante riflessione critica sul valore della libertà. Un’altra dimostrazione di come questa città desideri mostrarsi come modello di apertura e democrazia. Il tema viene affrontato toccando i momenti cruciali della storia americana: le lotte sindacali, quelle per i diritti civili e per il suffragio alle donne, per la libertà delle comunità indiane, contro la schiavitù, contro la repressione durante la seconda guerra mondiale nei confronti dei cittadini americani di origine giapponese.
Il museo ripercorre quindi le tappe salienti di una storia quasi bicentenaria, che iniziò nel 1837 quando Chicago ottenne lo statuto di città e contava 4 mila abitanti. Lo sviluppo nell’Ottocento era legato ai trasporti, sia via fiume, che collegavano il centro degli Stati Uniti al Mississippi, sia ferroviari: nel 1860 Chicago era diventato il più importante snodo al mondo. Fu soprattutto grazie alle vie di collegamento che la città divenne un crogiolo di idee innovative, che le permisero di risollevarsi dopo il terribile incendio del 1871.
Il percorso museale si conclude con un altro inno alla libertà rappresentato dai discorso di uno dei padri dell’America: il presidente Abramo Lincoln, l’uomo a cui si deve l’abolizione della schiavitù e la creazione di uno stato moderno fondato sulla libertà e sulle pari opportunità: utopie purtroppo non sempre rispettate.
L’History Museum si trova ai bordi dell’amplissimo Lincoln Park, che ospita lo zoo, diverse spiagge lacustri e confina con un animato quartiere della città, dove ha sede lo stadio di baseball degli amatissimi Chicago Cubs.
Dopo la visita al museo e un momento di rilassamento nel parco, la nostra giornata prosegue con una passeggiata lungo l’ampio e frequentatissimo Magnificent Mile, la parte nord di Michigan Avenue, elegante mecca dello shopping, su cui si affaccia il John Honcock Center, uno dei grattacieli più rinomati della metropoli, da cui si gode una vista imperdibile. All’ultimo piano un ottimo ristorante abbina panorama e gastronomia.
A piedi raggiungiamo poi Navy Pear, l’animato molo sul lago, che attira folle di visitatori, a cui offre una miriade di negozi e ristorantini (soprattutto fast food: siamo negli Stati Uniti…) e la famosissima ruota panoramica alta 45 metri. Se avete fortuna, al tramonto dal Navy Pear, potete ammirare lo splendido skyline di Chicago che colora la città di rosso.

Un viaggio nell’architettura
Una seconda giornata la consacriamo esclusivamente a una delle più pregevoli e raffinate composizioni di architettura moderna del pianeta: il centro di Chicago, che, come abbiamo scritto sopra, ha visto nascere i primi grattacieli al mondo.
La Chicago Architecture Fondation (224 South Michigan Avenue) organizza interessanti escursioni a piedi (circa 2 ore), con guide anche in francese e italiano, nel Loop (centro storico) e una suggestiva crociera (circa 90 minuti) lungo i canali che percorrono la città. Due proposte per ammirare e capire l’evoluzione architettonica e tecnica dei grattacieli a partire dalla fine dell’Ottocento fino ai giorni nostri. Durante il trasferimento tra la sede della Chicago Architecture Fondation e l’imbarco per la crociera si attraversa il Millenium Park, un’altra dimostrazione del dinamismo di questa città. Fino a non molti anni fa su quest’area, che gode di un’interessante posizione centrale sorgeva un brutto caseggiato. Con un ambizioso progetto da 500 milioni di dollari questo luogo è stato trasformato in uno dei maggiori centri di attrazione cittadina. Si tratta di uno straordinario complesso di luoghi d’interesse, una sorta di galleria d’arte all’aperto. Ospita uno splendido auditorium, opera di Frank Gehry, dove in estate si tengono concerti a ingresso libero; una fontana di Jaume Plensa alta 15 metri costituita da due torri di mattoni in vetro, da cui sgorgano cascate sotto le quali nelle calde giornate si rinfrescano grandi e piccini; la goccia d’acqua più pesante al mondo (110 tonnellate), la scultura in argento liscio di Anish Kapoor, dove i turisti si fotografano specchiati e deformati; la passerella sopraelevata design di Gehry, che collega il centro città alla riva del lago, da cui si gode una splendida vista sullo skyline cittadino.

Sono musei? No, experience!
Alcune giornate a Chicago vanno consacrate alla visita dei principali musei della città, che si trasformano in vere e proprie “experience”, a seconda dei propri interessi.
Iniziamo dall’Art Institut of Chicago, uno dei principali musei al mondo. Come al Louvre di Parigi o al Metropolitan di New York è necessario operare delle scelte se si ha una sola giornata a disposizione. E allora vale certamente la pena di iniziare dalle sale dedicate ai pittori impressionisti. Qui si trova infatti la principale collezione al mondo dopo quella del Musée d’Orsay di Parigi. Come mai? Come si sa i pittori impressionisti erano fortemente osteggiati in Francia e molti sono morti in miseria. I loro mercanti, trovando difficoltà a vendere le opere nel vecchio continente, si rivolsero così al nuovo, dove ebbero maggiore fortuna. La collezione delle opere di Monet dell’Art Institut è eccezionale. Ma questo museo propone anche capolavori di Caillebotte, Seurat, Degas, Gauguin, Matisse, Renoir, Manet e Van Gogh (un’intera sala con una decina di tele è dedicata a quest’ultimo). Molto interessante anche la collezione degli artisti americani influenzati dagli impressionisti.
Un altro museo dove si potrebbero trascorrere giornate intere è il Field Museum of Natural History, che conta ben 36 mila metri quadrati di sale. Non ci si lasci scoraggiare da queste dimensioni e non si manchi di rendere visita a Sue, il più completo scheletro (perfettamente conservato) di Tyrannosaurus rinvenuto finora. È stato ritrovato nel Sud Dakota, è vissuto tra i 67 e i 65 milioni di anni fa, è lungo 12,8 metri, alto 4 e si pensa che pesasse 7 tonnellate. Interessante anche l’esposizione Evolving Planet, che narra la vita sulla terra dall’epoca prima dei dinosauri fino all’era glaciale.
Dopo una passeggiata nel Grant Park, gli appassionati di astronomia non possono rinunciare a visitare nelle vicinanze l’Adler Planetarium&Astronomy museum, il più vecchio planetario dell’emisfero occidentale. Anche i non esperti in materia rimangono affascinati dagli sky shows, spettacoli che si tengono sotto la cupola originale del planetario o in uno dei teatri con il soffitto a volta dove vengono proposte visioni in 3D. Prima di lasciare il Planetarium vale la pena di fermarsi a contemplare non più il cielo, ma lo skyline cittadino, che da qui propone una delle sue migliori prospettive.
Altre esperienze imperdibili si possono vivere al Museum of Science and Industry, dove si ammirano un sottomarino tedesco della seconda guerra mondiale, alcune navicelle spaziali del programma americano di conquista dello spazio, il primo treno veloce al mondo e dove si può partecipare a “experiences” come la visita di una miniera di carbone, che è stata completamente ricostruita con tanto di cunicoli e di trenini-carrelli che trasportano i visitatori.

Da non perdere
Una giornata meno impegnativa può essere dedicata alla visita dello Shee Aquarium e della Willis Tower.
L’acquario coperto più grande al mondo possiede 250 mila animali acquatici di 2000 specie. Anche qui, come nei principali musei, vengono organizzati diversi show durante la giornata, come il pasto degli squali o il suggestivo spettacolo dei delfini e delle orche.
Non si può infine lasciare Chicago senza essere saliti sulla famosa Sears Tower, oggi Willis Tower, uno dei grattacieli più alti al mondo. Bisogna prendersi il tempo necessario perché le code possono essere molto lunghe, ma la spettacolare vista da quota 441 metri di altezza ripaga ampiamente dell’attesa.

Itinerario
1° giorno Zurigo-Philadelphia
2° giorno Philadelphia-New Orleans
3° giorno New Orleans
4° giorno (330 km – 4h) New Orleans – River Road – Natchez
5° giorno Natchez
6° giorno (800 km – 9h) Natchez – Nashville (per la Natchez Trace PKWY)
7° giorno (350 km – 4h) Nashville – Lexington
8° giorno (130 km – 2h) Lexington – Frankfort – Louisville
9° giorno (500 km – 5h) Louisville – Chicago
10°-15° giorno Chicago
16° giorno Chicago – Locarno

Per saperne di più
Usa Est La guida verde Michelin, Milano 2009
Stati Uniti centrali The Rough Guide, Milano 2009
Stati Uniti orientali Lonely Planet, Torino 2012
Chicago Lonely Planet, Torino 2014
T. Harry Williams, La guerra civile americana, in Storia del mondo contemporanea Milano 1982

Il Far West – Nelle terre degli indiani d’America

Il Far West – Quando la storia è scolpita nella montagna
Il Far West – A Yellowstone, nel parco delle meraviglie
Il Far West – Nelle terre dell’emarginazione degli indiani del nord America
Il Far West – Nella cittadina di Buffalo Bill si rivive il grande sogno Usa

Sulle tracce dei cow boys, del generale Custer e di Toro Seduto, dei Sioux e degli Cheyenne. A Wounded Knee “dove morì il sogno di un popolo”. Nelle sterminate praterie segnate dai solchi lasciati dalle carrozze delle carovane dei pionieri.

Attraverso il mitico Far West. Quello delle sterminate praterie, punteggiate di mandrie di bovini sorvegliate dai cowboys. Quello delle lunghe carovane che emigravano da est a ovest, spinte dalla speranza verso un futuro migliore. Quello delle tribù indiane dei Sioux e degli Cheyenne, che convissero pacificamente con l’uomo bianco fino a quando i visi pallidi non minarono nel profondo la loro vita e le loro tradizioni distruggendo gli equilibri naturali che garantivano cibo e attività vitali. Quello delle epiche e tristi battaglie tra il Settimo Cavalleggeri del generale Custer e i pellerossa guidati da Cavallo Pazzo e Toro Seduto. Quello dei rodei, che costituiscono ancora oggi una delle principali attrazioni non solo turistiche.
È attraverso questo West, caratterizzato da paesaggi indimenticabili, che si sviluppa il nostro itinerario. Un percorso che intreccia pagine di storia degli Stati Uniti, a noi note perché narrate in capolavori cinematografici dedicati alla drammatica lotta tra poveri per la sopravvivenza: da una parte gli indiani diseredati del loro territorio e dall’altra centinaia di migliaia di coloni alla ricerca della terra promessa.
Il nostro viaggio inizia da Denver, capitale dello stato del Colorado, collegata con voli aerei diretti da Londra e da altre capitali europee. Come molte altre cittadine che visiteremo in seguito è stata fondata nella seconda metà dell’Ottocento sulla spinta della corsa all’oro. Oggi conta circa mezzo milione di abitanti ed è una delle otto città americane con squadre che militano in serie A nei quattro sport nazionali: baseball, basket, hockey e football. Durante l’annuale National Stock Show&Rodeo, uno dei maggiori spettacoli del genere, riesce a unire la tradizione del West ai tempi moderni. Denver è oggi un centro specializzato in servizi e alta tecnologia e, dopo Washington, è la seconda città americana con vocazione amministrativa. Il suo Civic Center ospita un campidoglio molto simile, sebbene in versione ridotta, a quello della capitale. Propone due interessantissimi musei che introducono alle tematiche storiche del nostro viaggio. Il Denver Art Museum ha due splendide sedi: una realizzata dall’italiano Giò Ponti, ispirata a una fortezza, ed un’altra, recentissima, di Daniel Libeskind, che interpreta un fiore in titanio, granito e vetro. Espongono straordinarie collezioni di oggetti dei nativi americani ed una mostra di opere d’arte dedicate al periodo della conquista del West. Il Denver History Museum presenta invece, sotto un profilo meno artistico ma più storico-didattico, la vita dei cowboy, degli indiani e dei colonizzatori.
Lasciamo la città il mattino di buon’ora, perché la tappa che ci attende è lunga e impegnativa, per dirigerci dapprima verso le montagne che hanno reso celebre lo stato del Colorado, noto per le sue rinomate stazioni di sport invernali. Prima di giungere ad Aspen, la località più in voga, svoltiamo a destra verso il Rocky Mountain National Park, attraversato da una strada panoramica (Trail Ridge Road) di circa 80 chilometri, che sale fino a 3700 metri e attraversa un paesaggio montano con 100 vette sopra i 3000 metri. La strada, intervallata da idilliaci laghetti alpini, che si possono godere dai numerosi View Points, scende poi ripida verso le estese pianure del West, dove si trova Fort Laramie: il nostro primo importante incontro con la storia. Sede del mitico Settimo Cavalleggeri del generale Custer, il forte si compone di una dozzina di costruzioni sopravvissute al tempo, dove si possono visitare le residenze dei comandanti, degli ufficiali e dei soldati: qui tutto è rimasto intatto, manca solo il sibilo della trombetta che chiamava i militi all’adunata.
A pochi chilometri dal Forte si visitano due altri luoghi suggestivi, che riconducono il visitatore alla seconda metà dell’Ottocento, quando su quei territori scorrevano lunghissime carovane di coloni dirette verso la terra promessa dell’Oregon: 400 mila persone, tra il 1841 e il 1869, si avventurarono da est a ovest. “Quando Dio creò l’uomo – scrisse un pioniere sul suo diario – sembrò avesse pensato di farlo ad est per lasciarlo andare a ovest”. Dove la roccia diventa collina è possibile vedere ancora le “Oregon Trail Ruts”, cioè i solchi scavati dalle migliaia di carri che transitarono in quel luogo. Poco distante, noto come “Register Cliff”, si possono osservare un centinaio di firme incise nella morbida roccia dai coloni in viaggio. Distante un’ottantina di chilometri verso est, a Scott’s Bluff, si sale su una montagna rocciosa da cui si gode una spettacolare vista sulle sterminate e brulle pianure attraversate dalle carovane. Il silenzio del luogo fa galoppare l’immaginazione.
Il quarto giorno del nostro intenso itinerario è quasi interamente dedicato al dramma della civiltà indiana. Ci dirigiamo verso la Pine Ridge Reservation, una delle più vaste riserve indiane degli Stati Uniti. Ed abbiamo l’impressione di entrare in un altro mondo: case abbandonate, auto scassate. Non ci vuole molto per rendersi conto, come scrivono le guide turistiche, che questa è una delle zone più arretrate degli Stati Uniti. Un chiaro segno che il problema dell’integrazione dei nativi americani, a distanza di un secolo e mezzo dalla conquista del West, non è ancora stato risolto. A pochi chilometri da Pine Ridge si visita il luogo in cui avvenne il massacro di Wounded Knee, che pose la parola fine alla conquista del West. Il 29 dicembre del 1890 il Settimo Cavalleggeri intercettò un gruppo di indiani in fuga dalla riserva e accampati in una valle. Intimò loro di consegnare le armi, ma durante un’ispezione partì accidentalmente un colpo dal fucile di un indiano e si scatenò il finimondo: 250 nativi americani, comprese donne e bambini, vennero massacrati dall’artiglieria appostata sulle colline.
Le parole finali di questa triste vicenda vennero scritte molti anni dopo da Alce Nero, il grande uomo sacro dei Sioux. “Non sapevo in quel momento che era la fine di tante cose. Quando guardo indietro, adesso, da questo alto monte della mia vecchiaia, vedo ancora le donne e i bambini massacrati, ammucchiati e sparsi lungo quel burrone serpeggiante. Nitidamente come li vidi con i miei occhi da giovane. E posso vedere che con loro morì un’altra cosa, laggiù, nella neve insanguinata, rimasta sepolta sotto la tempesta. Laggiù morì il sogno di un popolo. Era un bel sogno”.

Itinerario
1° giorno Locarno – Milano Malpensa – Denver
2° giorno Visita di Denver
3° giorno Denver – Grand Lake (164 km) / Parco – Torrington (279 km) / Torrington – Fort Laramie (32 km) / Fort Laramie – Scotts Bluff (84 km)
4° giorno Scotts Bluff – Pine Ridge – Wounded Knee Massacre

Per saperne di più
Usa ovest La Guida Verde Michelin, Milano 2010
Wyoming Edimar Editrice, Milano 1995

Il Far West – Nelle terre dell’emarginazione degli indiani del nord America

Il Far West – Nelle terre degli indiani d’America
Il Far West – Quando la storia è scolpita nella montagna
Il Far West – A Yellowstone, nel Parco delle meraviglie
Il Far West – Nella cittadina di Buffalo Bill si rivive il grande sogno Usa

La conquista del West da parte dei visi pallidi ai danni degli indiani, il lento scorrere delle carovane che si spostavano da est verso ovest attratte dalla speranza di una vita migliore, gli epici scontri tra la tribù dei Sioux e il Settimo cavalleggeri del generale Custer, la corsa all’oro tanto gravida di conseguenze, fanno da sfondo storico all’itinerario nel nord ovest degli Stati Uniti.
Due popoli, due culture, si sono affrontati e scontrati: da una parte guerrieri sobri e ascetici, scolpiti dal vento, figli dei monti e delle praterie, dall’altra l’avanzare del progresso, laico, borghese, mercantile, industriale e democratico, forgiato e scolpito nell’acciaio e animato dal carbone. Persero i pellerossa che concepivano una vita dipendente e sottomessa alla natura, ritmata dalle stagioni e da tradizioni secolari. Vinsero gli uomini bianchi, che volevano dominare e sfruttare il territorio: con ogni mezzo e ad ogni costo. Quando la ferrovia portò il progresso e l’ordine sociale venne imposto dai tribunali che applicavano le leggi dell’uomo bianco, gli ultimi guerrieri indiani furono rinchiusi nelle riserve. Riserve destinate ai nativi americani che esistono ancora oggi.
Quando ci si inoltra in questi territori si entra in un altro mondo: povero, caratterizzato da auto sgangherate, da abitazioni trasandate, da persone emarginate. Segno che a distanza di un secolo e mezzo da quel confronto impari, l’integrazione degli indiani nella civiltà americana non è compiuta.
I rapporti tra l’uomo bianco e i nativi americani per lungo tempo furono pacifici. Questo avvenne fino a quando i visi pallidi erano rappresentati da un numero contenuto di esploratori, “trapper” o “mountain man” (uomini sensibili alla natura come gli indiani), pacifici missionari (“black rober”, vesti nere), artisti in cerca di ispirazione. Ma quando il numero di emigranti iniziò ad aumentare a dismisura e, soprattutto, quando le terre sacre degli indiani furono invase da cacciatori di pellicce e da cercatori d’oro senza scrupoli, le relazioni amichevoli si trasformarono in ostilità; dopo il 1860 le tribù indiane iniziarono ad attaccare le carovane di pionieri che si dirigevano verso ovest. Era lo scontro tra due civiltà: una radicata da secoli nel territorio e profondamente attenta alle leggi della natura, l’altra preoccupata soprattutto di conseguire guadagni senza preoccuparsi della distruzione di quegli equilibri naturali che per secoli avevano garantito cibo e attività vitali agli indiani.
La svolta decisiva fu rappresentata dal “Gold Rush” (la corsa all’oro); il governo degli Stati Uniti, che in un primo tempo cercò di contenere l’aggressività dei cercatori d’oro, nel 1875 decise di voltare le spalle agli indiani rimangiandosi importanti promesse fatte. Questo portò alla vivace reazione dei pellerossa che decimarono il Settimo Cavalleggeri a Little Big Horn (1876) e alla successiva vendetta dell’uomo bianco, che culminò quattordici anni dopo nel massacro di Wounded Knee, dove, come scrisse più tardi il condottiero Alce Nero “morì il sogno di un popolo”.

Il Far West – Quando la storia è scolpita nella montagna

Il Far West – Nelle terre degli indiani d’America
Il Far West – A Yellowstone nel parco delle meraviglie
Il Far West – Nelle terre dell’emarginazione degli indiani del nord America
Il Far West – Nella cittadina di Buffalo Bill si rivive il grande sogno Usa

Le “sacre” Black Hills, luogo simbolo dello scontro tra indiani e visi pallidi. Il Badlands National Park, con i suoi bizzarri pinnacoli, è una meraviglia della natura e forse la tappa più spettacolare del viaggio. I presidenti degli Stati Uniti e Cavallo Pazzo si affrontano, “immortalati” nella roccia.

Prosegue il nostro itinerario attraverso il mitico Far West, quello delle praterie sterminate, delle brulle pianure disseminate di bufali, dei territori abitati dalle tribù indiane minacciate dal progresso dell’uomo bianco, quello dei cercatori d’oro e delle loro squallide città, caratterizzate dai saloon e dai bordelli, quello dei giocatori d’azzardo, dei rodei e dei cow boy alla Buffalo Bill.
Ci inoltriamo nelle Black Hills, cuore autentico del Sud Dakota e luogo simbolo dello scontro tra pellerossa e visi pallidi. Questa terra, considerata luogo sacro e centro del mondo dai nativi americani, fu loro assegnata dal trattato di Laramie del 1868 con la garanzia che nessun uomo bianco l’avrebbe mai profanata. Ma solo 6 anni dopo, nel 1874, il governo di Washington non mantenne quella promessa e organizzò una spedizione condotta dal generale Custer, per esplorare le Black Hills. “Mi aspetto di visitare – scriveva Custer prima della partenza – una regione del paese non ancora vista da occhi umani ad eccezione degli indiani, che la descrivono come straboccante di selvaggina di ogni genere, ricca di interessi scientifici e di una bellezza insuperabile come scenario naturale”. Durante il suo viaggio il generale, oltre a tutto questo, scoprì anche la presenza di oro e la notizia rimbalzò immediatamente sulla stampa. Un giornale di Chicago scrisse: “Tutta la terra delle Black Hills è impregnata d’oro dalle radici d’erba in giù”. Questa informazione scatenò le brame dei cercatori del prezioso metallo, che si precipitarono in quelle terre tanto care agli indiani invadendone le dolci colline. Il governo americano dapprima cercò di scoraggiarli, ma nel 1875 rinunciò a far rispettare quanto promesso ai pellerossa nel trattato di Laramie. La vigorosa reazione indiana culminò nella battaglia di Little Big Horn, dove venne decimato il Settimo Cavalleggeri.
La parte più bella della regione è quella compresa nel “Custer State Park”, attraversato da due spettacolari strade panoramiche: Wild Loop Road (29 km) e Needles High Way Scenic Drive (23 km). Il paesaggio è caratterizzato da un altipiano intervallato da armoniose colline, dove pascolano placidamente numerosi bisonti, e da montagne rocciose composte di spettacolari guglie e pinnacoli. Oltre il Parco, le Black Hills giustificano il loro nome di “Colline nere” con una fitta vegetazione di boschi scuri. Uno dei panorami più idilliaci è certamente quello del Sylvan Lake situato nei pressi dell’ingresso nord del Parco.
Il nostro itinerario prosegue verso Badlands National Park, un’altra meraviglia paesaggistica: forse la più spettacolare di tutto il viaggio. Partendo dalla località Scenic si percorre dapprima la Sage Creek Road e quindi la Badlands Loop Road, dove le praterie lasciano spazio a scenografiche colline rocciose, che a seconda delle ore del giorno assumono i colori pastello di una variopinta tavolozza: varie tonalità di rosa e rosso, azzurrognolo, verderame, sabbie color castano, ossido di ferro arancione e cenere vulcanica bianca. Le forme di queste montagnette sono bizzarre: pinnacoli, guglie che sembrano spuntare come cactus dall’arido terreno, creste seghettate. E lo spettacolo si protrae per una sessantina di chilometri con numerosi View Points, dai quali partono passeggiate di ogni genere.
Il giorno seguente ci rituffiamo nella storia. Iniziamo da “Mount Rushmore National Park”, nelle Black Hills, dove batte il cuore dei patrioti a stelle e strisce. Dal 1927 al 1941 l’artista americano Gutzon Borglum, con l’aiuto di 400 minatori ed esperti di esplosivo, ha scolpito nella montagna i visi di quattro storici presidenti americani: George Washington, il primo inquilino della Casa Bianca, Thomas Jefferson, autore della Dichiarazione di indipendenza, Abraham Lincoln, che pose fine alla schiavitù e Theodore Roosevelt, promulgatore di riforme chiave di politica ambientale ed economica. Il luogo scelto per realizzare questa monumentale opera per celebrare lo stato americano non è davvero dei più appropriati se si pensa alla storia delle Black Hills e ai torti commessi da quello stesso stato nei confronti dei nativi americani. Per sottolinearlo, a mezz’ora di strada, “per far sapere all’uomo bianco che anche i pellerossa hanno i loro eroi”, nel 1948 i Sioux hanno incaricato l’artista di origine polacca Korczak Ziolkowski di scolpire, in un’altra montagna delle Black Hills, Cavallo Pazzo (il condottiero di Little Big Horn) in sella al suo cavallo con il dito puntato verso “la mia terra, dove sono sepolti i miei morti”. Ma se a Mount Rushmore la ‘scultura’ è stata realizzata in 14 anni, il “Crazy Horse Memorial” dei Sioux dopo 65 anni è riuscito a scolpire appena il volto del capo indiano, anche perché orgogliosamente non vengono accettati aiuti statali. Un chiaro segnale che il passato non è ancora stato dimenticato!
Nella vicina città di Rapid City, fondata come luogo base di approvvigionamento per i cercatori d’oro, si può visitare il modernissimo e molto didattico “Journey Museum”, dedicato alla vita delle tribù indiane delle Blck Hills e alla conquista del West, con una sezione sulla spedizione del generale Custer ed una sulla costruzione della ferrovia.
Proseguiamo verso il tipico villaggio di Deadwood, altra creazione del Gold Rush, ed alle sue porte, a Lead, ci fermiamo a un view point per osservare “Homestake Gold Mine”, una miniera d’oro aperta nel 1876 e rimasta in attività fino al 2001: impressionante il varco di 1300 metri di lunghezza, 400 di larghezza e 150 di profondità scavato dall’uomo alla ricerca del metallo prezioso. Sulla Main Street di Deadwood si allineavano ai tempi 53 saloon e 33 bordelli, dove i cercatori d’oro potevano spendere le loro fortune. Al numero 10 l’Old Style Saloon è rimasto intatto, sebbene restaurato. Fu in questo locale che avvenne l’assassinio di Wild Bill Hickok uno dei pistoleri più veloci di tutto il West. Sceriffo, scout dell’esercito e giocatore professionista si trasferì a Deadwood nel 1876. per spennare i cercatori d’oro. Solitamente non si sedeva mai con la schiena rivolta verso l’entrata, ma quella sera lo fece e venne freddato mentre giocava a poker e teneva in mano una doppia coppia nera di assi e di otto. Da allora quella venne definita “la mano del morto” e da alcuni anni nella cittadina ogni sera alle 20 l’assassinio viene rievocato con tanto di attori, che poi si trasferiscono nel luogo in cui fu processato il colpevole.
Circa quattro ore di automobile, su strade diritte come quelle che si vedono nei film “on the road” attraverso un paesaggio piano ma mai monotono, ci separano dal “Theodore Roosevelt National Park”, eremo di uno di quei quattro presidenti di cui abbiamo visto il viso scolpito nella roccia a Mount Rushmore. Il Parco è suddiviso in due parti, sud e nord, distanti un centinaio di chilometri l’una dall’altra ed entrambi attraversate da strade panoramiche. Il tormentato paesaggio è di una desolata bellezza. Altipiani verdi e praterie si alternano a dirupi scoscesi, gole vertiginose, trafori e merletti preziosi modellati nel corso dei secoli dal vento, dall’acqua e dal ghiaccio.
Proseguiamo e in cinque ore di viaggio raggiungiamo “Little Bighorn Battlefield National Monument”, il luogo in cui il generale Custer, alla testa del suo mitico Settimo Cavalleggeri, perse la vita in battaglia contro gli indiani riportando un’umiliante sconfitta: 272 militi rimasero sul campo. Sul luogo diversi pannelli illustrano le strategie militari delle casacche blu e dei pellerosse.
Proseguiamo per Cody, la città fondata nel 1895 da Buffalo Bill (la sua figura è illustrata nell’articolo in penultima pagina), l’uomo che creò ad arte il mito del Far West, con il suo spettacolo, che portò in giro per il mondo. La città, molto turistica, gli dedica uno splendido museo in cui si racconta come questo precursore delle più moderne teorie del marketing costruì il mito del lontano West. In un’altra parte del museo, immersi in un ambiente di luci soffuse con cantilene indiane in sottofondo, si viene invece sapientemente guidati nella realtà culturale dei Sioux e di altre tribù. Ma non solo, un’ampia sezione è dedicata alla presenza indiana nella cultura a stelle e strisce. A Cody si può anche visitare un tipico villaggio del West di fine Ottocento ricostruito con antichi edifici, provenienti da varie parti della regione, sul luogo in cui sorsero le prime abitazioni volute da Buffalo Bill. Last but non least, ogni sera in estate, a partire dalle 20 si può assistere a uno spettacolo di rodeo.

Itinerario
4° giorno (196 km) Pine Ridge – Red Cloud – Hot Springs e Visita Custer State Park
5° giorno Sylvan Lake – Crazy Horse Memorial (20 km) / Crazy Horse Memorial – Mount Rushmore (25 km) / Mount Rushmore – Rapid City (40 km) / Rapid City – Homestake Gold Mine (80 km) / Homestake Gold Mine – Deadwood (5 km)
6° giorno Deadwood – Badlands National Park (90 km)
e Visita Badlands National Park
7° giorno Cedar Pass – Medora (513 km) e Visita del parco
8° giorno Medora – North Unit Visitor Center (110 km) / Visita del parco / Nord Unit Visitor Center – Hardin (500 km)
9° giorno Hardin – Custer Battlefield (35 km) / Custer Battlefield – Cody (285 km)

Per saperne di più
North&South Dakota Edimar Editrice, Milano
Stati Uniti occidentali Lonely Planet, Torino

Il Far West – Nella cittadina di Buffalo Bill si rivive il grande sogno Usa

Il Far West – Nelle terre degli indiani d’America
Il Far West – Quando la storia è scolpita nella montagna
Il Far West – A Yellowstone, nel parco delle meraviglie
Il Far West – Nelle terre dell’emarginazione degli indiani del nord America

A Cody, la città fondata nel 1895 dal colonnello William Frederick Cody, il mitico Buffalo Bill, si respira un’atmosfera particolare e molto caratteristica. Qui si coniugano perfettamente le tradizioni legate alla figura del cowboy con la modernità della gestione turistica, il rispetto del passato e dei suoi riti con il desiderio di proporsi come punto di riferimento culturale grazie al modernissimo museo dedicato a Bill e ai nativi americani. All’origine di tutto questo stanno proprio le idee del colonnello Cody, un visionario, un precursore del moderno marketing, che creò il mito del “selvaggio West” grazie al suo spettacolo. Una sorta di circo, che portò in giro per tutto il mondo, Europa compresa, con le storie incredibilmente affascinanti del Nuovo Mondo, con diligenze e fuorilegge, cowboy e cavalli imbizzarriti. E naturalmente c’era anche lui, Cody Buffalo Bill, accompagnato da Annie Oakley, la pistolera più veloce dell’Ovest, e più tardi anche da “Sitting Bull”, il leggendario Toro Seduto che sconfisse il generale Custer a Little Big Horn.
La maggior parte dei suoi lauti guadagni Cody la destinò generosamente alla costruzione della sua città, dove aprì anche The Irma Hotel – tuttora attivo ma purtroppo un po’ decadente – così chiamato in onore di una figlia. Ma questo eroe del West aveva un punto debole: non sapeva gestire il denaro. Morì così in povertà a Denver.
Nonostante questa fine ingloriosa, egli visse una vita intensa e avventurosa frequentando non solo mitici pionieri come Kit Carson o Jim Bridger, ma anche capi di Stato, tra cui il presidente Theodore Roosevelt e la regina d’Inghilterra, e uomini di cultura come Mark Twain.
La sua figura rappresenta il tipico personaggio della prateria e propone l’incarnazione di quell’intraprendenza che appartiene al cittadino americano: da mendicante a re, attraverso il coraggio e l’iniziativa. È questo il messaggio che Buffalo Bill ha cercato di trasmettere.
La sua biografia è intensissima e ispirò ben 800 libri. A otto anni salvò la vita al padre, pugnalato a un comizio contro la schiavitù, trasportandolo per 56 chilometri in sella a un cavallo. Il suo primo impiego lo ottenne a soli 11 anni come “pony express”, un precursore a cavallo del moderno Dhl. Lavorò quindi con le casacche blu del generale Custer come esploratore. Diventò in seguito cacciatore di bisonti – da qui il suo nome – e in soli otto mesi ne abbatté 4280. All’età di 26 anni iniziò la sua carriera nello spettacolo che lo portò alcuni anni più tardi a fondare il Wild West Show riscuotendo consensi e successi in tutto il mondo.
Il suo atteggiamento verso i pellerossa fu contradditorio. Dopo la morte di Custer a Little Big Horn uccise il capo Yellow Hand (Mano Gialla) e, si racconta, alzò il suo scalpo al grido: “Il primo scalpo per Custer!”. Ma prima di morire, grazie forse all’amicizia con Toro Seduto, dichiarò: “Nove volte su dieci, quando sorgono problemi tra uomini bianchi e indiani, la colpa è dell’uomo bianco…”.

Stati Uniti – Grand Canyon e Monument Valley

Stati Uniti – Bryce Canyon e Death Valley
Stati Uniti – Da San Francisco a Los Angeles
Stati Uniti – Quando la natura diventa artista, ecco il fascino dei grandi parchi
Stati Uniti – I nostri legami con la California attraverso la storia degli emigranti

I parchi nazionali del “Far West” negli Stati Uniti offrono certamente alcuni dei paesaggi più spettacolari e straordinari al mondo. L’itinerario che tocca gli stati della California, dell’Arizona, dello Utah e del Nevada richiede tra i 15 e i 20 giorni per visitare velocemente anche Los Angeles, San Francisco e la suggestiva costa atlantica che collega queste due metropoli molto particolari.
Un volo Swiss diretto collega Zurigo a Los Angeles in tredici ore all’andata e undici al ritorno. Si arriva nella metropoli californiana la sera e il mattino seguente si può iniziare subito l’itinerario, rimandando la visita di Los Angeles alla fine del viaggio, oppure si può fare il contrario.

Da Los Angeles a Palm Springs
Lasciata Los Angeles ci inoltriamo quasi subito nel deserto e in un paio d’ore – 200 chilometri circa – si raggiunge Palm Springs, una sorta di oasi di lusso assurta agli onori della cronaca negli anni Sessanta quando veniva scelta come meta di vacanza da artisti famosi come Frank Sinatra ed Elvis Presley. Da allora molte persone facoltose hanno costruito le loro ville in quartieri con strade perpendicolari che paiono tracciate con il righello. Prima dell’arrivo degli Yankee la zona era abitata dalle tribù indiane dei Cahuilla (oggi gestiscono le case da gioco della valle) attratte dalle acque che scendono dalle San Jacinto Mountains, che costituiscono il vero punto di interesse del luogo. In dieci minuti, con una funivia di fabbricazione svizzera e rotante su sé stessa – per garantire la splendida vista a tutti gli occupanti – si sale fino a 3 mila metri, passando dal deserto a una vegetazione alpina e compiendo un’escursione termica equivalente a quella che si registra spostandosi in automobile dal Messico al Canada. Il panorama spazia dal deserto all’oasi di Palm Springs punteggiata da campi da golf e da centri di villeggiatura d’élite, che contrastano con i pini caratteristici dei percorsi escursionistici che si diramano dalla vetta. Ma per noi è ora di proseguire verso la regione del Grand Canyon. Facciamo tappa per la notte a Kingman in Arizona, un anonimo agglomerato di stazioni di servizio e di motel, in uno dei quali ci fermiamo posteggiando la nostra automobile sotto la camera che ci ospiterà per la notte: proprio come si vede nei film americani.
Il mattino seguente partiamo per il Grand Canyon percorrendo un lungo tratto della mitica Route 66, quella che il romanziere John Steinbeck chiamò la “Mother Road”, la madre di tutte le strade, costruita nel 1926 per collegare Chicago con la lontana Los Angeles. Ricordate il film “On the road” in cui il protagonista percorre questa storica arteria a bordo di una Harley Davidson?
Città di riferimento del famoso parco è Grand Canyon Village, solito centro squadrato e senz’anima, ricco di motel e stazioni di servizio, che raggiungiamo in fine mattinata. Se si prenota con molto anticipo si ha forse la fortuna (che noi non abbiamo avuto) di trovare posto a El Tovar hotel, una struttura in legno d’inizio Novecento situata sui bordi del precipizio del Grand Canyon.

Grand Canyon l’arte della natura
Nessuna fotografia e nessuno testo può descrivere ciò che si vede e si prova di fronte al Grand Canyon. È un’esperienza che va vissuta di persona e che vi consiglio caldamente di fare. Ogni descrizione rischia di essere banale. Posso solo dire che mentre camminavamo per circa quattro ore lungo il precipizio e ci si presentavano visioni sempre diverse con colori continuamente differenti, esaltati dalle diverse posizioni del sole, pensavo che nessun essere umano riuscirà mai ad eguagliare la straordinaria potenzialità artistica della natura.
Ci sono voluti quasi due miliardi di anni per creare questa meraviglia, una fessura lunga 445 chilometri, larga 16 e profonda circa 1600 metri, con centinaia di canyon laterali. All’alba e al tramonto la luce colora in modo intenso e magico le pareti rocciose: strisce di verde, blu, porpora, rosa, arancione, oro, giallo e bianco definiscono una successione di antichi strati, che permettono di effettuare uno straordinario viaggio geologico a ritroso nel tempo.
Questo luogo affascina i visitatori sin dai primi anni della rivoluzione industriale, quando giungevano nel canyon alla ricerca dell’ideale romantico della natura selvaggia per abbracciare il concetto di bellezza sublime. Oggi è visitato annualmente da cinque milioni di turisti provenienti da ogni angolo del mondo. In automobile si giunge fino al Visitor center del versante sud (quello nord è raramente visitato), da cui si prosegue con un efficiente servizio gratuito di bus navetta che collega i vari punti panoramici. Una comoda passeggiata di circa 12 chilometri a picco sul precipizio collega i “view points” più spettacolari del lato sud-ovest. Vale la pena di percorrerla in 3-4 ore perché i panorami si modificano davanti a voi come in un caleidoscopio. Sul fondo si scorge dall’alto il tranquillo percorso del fiume Colorado, che ha scavato il canyon nel corso di milioni di anni. I più allenati possono anche scendere al fiume, ma l’escursione richiede due giorni, dato l’elevato dislivello (oltre 1600 metri) e le temperature del periodo estivo, che soprattutto in basso superano facilmente i 40 gradi.

Antelope Canyon e Monument Valley
Il mattino seguente percorriamo in automobile il lato sud-est, che propone altri belvedere con panorami spettacolari. In tre ore (220 km) raggiungiamo la cittadina di Page, da dove parte un’escursione organizzata (è necessario prenotare, anche via internet), per visitare l’Antelope Canyon, uno straordinario corridoio tra due pareti rocciose in arenaria considerato il paradiso dei fotografi e riprodotto in migliaia di immagini, ma stranamente trascurato dalle principali guide turistiche. L’escursione in fuoristrada attraversa alcuni chilometri di deserto in una riserva della tribù indiana Navajo prima di giungere al profondissimo e strettissimo canyon – in alcuni punti ci passa a malapena una persona – illuminato dalla luce che penetra dall’alto creando immagini molto particolari. La roccia è levigata e propone tutte le tonalità dal rosa al rosso porpora. Le fotografie che mostrano le sue venature e forme strane, esaltate dalla luce zenitale tenue, ricordano opere di scultura moderna. Lo spettacolo mi fa di nuovo riflettere sulle potenzialità artistiche della natura.
Usciti dal canyon, ci troviamo vicino al Lake Powell, un vastissimo lago artificiale navigabile. Ha sommerso una vallata e offre visioni surreali con spuntoni di roccia che emergono minacciosi e imponenti dalle acque tranquille. Lo si visita noleggiando imbarcazioni a bordo delle quali si possono trascorrere alcuni giorni. Il nostro programma di viaggio non prevede purtroppo questa opportunità, per cui proseguiamo verso la Monument Valley, che raggiungiamo nel tardo pomeriggio dopo altre due ore e mezzo di automobile (180 km). Si trova in una riserva indiana dei Navajo situata a cavallo tra gli stati dell’Arizona e dello Utah, dove cambia anche il fuso orario: è un’ora più avanti. Decidiamo di rimandare la visita del Parco nazionale all’indomani mattina anche perché alloggiamo al Goulding’s Lodge, un albergo storico che propone un piccolo museo sulla storia cinematografica del luogo, dove si può visitare la camera di John Wayne e assistere, in una piccola sala cinematografica, alle proiezioni di opere indimenticabili come “Il massacro di Fort Apache” del 1948 o “I cavalieri del Nord Ovest” dell’anno seguente che furono girati qui. Dal 1938, quando il celeberrimo regista John Ford girò in questi luoghi “Ombre rosse” con uno sconosciuto John Wayne nel ruolo di Ringo Kid, la Monument Valley divenne infatti il set prediletto dei film western. Il piccolo museo è un po’ trasandato e decadente, ma è forse proprio questo il suo fascino. Le fotografie ingiallite sono numerosissime e presentano gli attori che hanno alloggiato al Goulding’s. Molti anche i cartelloni di quei film che per me hanno rappresentato l’immagine dell’America del West.
La mattina alle 9 parte la nostra gita organizzata della durata di circa quattro ore in fuoristrada lungo le piste della Monument Valley guidati da un Navajo. Nudi contrafforti in arenaria e impervi pinnacoli di roccia si ergono fino a 300 metri di altezza da un terreno desertico relativamente piatto di sabbia rossa. Il sole basso del mattino esalta con una luce sorprendentemente intensa i colori della roccia. Con l’immaginazione vedo John Wayne cavalcare veloce in quel paesaggio da sogno, sicuramente tra i più spettacolari di tutta l’America.
Queste terre non vanno però purtroppo ricordate solo per i racconti epici dei film western, bensì anche in quanto teatro di una delle vicende più vergognose della storia statunitense: il trasferimento forzato di alcune migliaia di Navajo, noto come Long Walk (lunga marcia), per 500 chilometri verso il New Mexico. Dopo quattro anni di stenti fu infine concesso loro di tornare nelle loro terre. Oggi qui vivono ancora circa 100 mila nativi americani che parlano la propria lingua, un linguaggio così complesso che è stato usato come codice segreto dall’esercito statunitense durante la seconda guerra mondiale.

Itinerario

1° giorno
Zurigo-Los Angeles

2° giorno
Los Angeles

3° giorno
Los Angeles-Palm Springs (194 km)
Palm Springs-Kingman (386 km)

4° giorno
Route 66
Kingman-Seligman (140 km)
Seligman-Grand Canyon (160 km)

5° giorno
Grand Canyon-Page (220 km)
Page-Monument Valley (180 km)

6° giorno
Monument Valley-Arches Np (270 km)

Stati Uniti – Da San Francisco a Los Angeles

Stati Uniti – Grand Canyon e Monument Valley
Stati Uniti – Bryce Canyon e Death Valley
Stati Uniti – Quando la natura diventa artista, ecco il fascino dei grandi parchi
Stati Uniti – I nostri legami con la California attraverso la storia degli emigranti

San Francisco si è rivelata completamente diversa da come me la immaginavo. Come la Grande Mela è un insieme di città, di quartieri ben distinti, ognuno con un carattere proprio. Se non si temono le ripide salite, il centro è facile da girare a piedi. Le aree commerciali sono piccole e concentrate per lo più nella zona del centro che si estende attorno a Union Square, mentre il resto della città è composto principalmente da quartieri residenziali con arterie commerciali spesso simpatiche e pure facili da esplorare camminando. Esiste un servizio di bus turistici, con spiegazioni in tutte le lingue, che sosta nei quartieri più interessanti, dove ci si può fermare prima di riprendere il percorso con il veicolo seguente (le navette passano a intervalli di 10 minuti).
San Francisco è considerata la città più liberale degli Stati Uniti. Oggi capitale mondiale gay, negli anni Cinquanta occupò le prime pagine della stampa internazionale in occasione della nascita della Beat Generation e negli anni Sessanta quando scoppiò la protesta e la ribellione del movimento hippy, accompagnato dalla sua splendida musica e, purtroppo, anche da un uso sfrenato di droghe. In alcuni quartieri, come Haight, sono ancora evidenti le tracce di questa epoca.
La città, fondata nel 1776 con il nome di Yerba Buena, si sviluppò nella seconda metà dell’Ottocento quando scoppiò la febbre dell’oro e poco più tardi con la scoperta di una vena argentifera nel Nevada. I profitti degli investitori inondarono San Francisco, che nel 1906 venne però in gran parte distrutta da un terremoto, seguito da un vastissimo incendio durato tre giorni. La città risorse in tempi record con opere di altissima ingegneria come il celeberrimo Golden Gate, il ponte simbolo della metropoli. Negli ultimi decenni San Francisco è stata teatro della repentina rivoluzione della “web economy”: nella cosiddetta Silicon Valley, alle porte della città, hanno sede Apple, Google e Facebook solo per citare i nomi più famosi.
Il cuore della metropoli è Union Square, che deve il proprio nome alla funzione di luogo di riunione che assunse durante la guerra civile americana: era qui che si tenevano i comizi. Oggi i tram sferragliano attorno alla gente che va per negozi, a teatro, o frequenta i numerosi alberghi di lusso del quartiere. I grattacieli in vetro e acciaio del Financial District confinano a nord con il centro. Qui si trova l’edificio più alto, diventato un altro simbolo della città, il Transamerica Pyramid Center, naturalmente a forma di piramide. A pochi passi dal centro del business, frequentato da eleganti uomini d’affari in giacca e cravatta, si raggiunge Chinatown, dove si ha l’impressione di tuffarsi in una disordinata città-mercato cantonese con i suoi negozi di souvenir, gioielli, artigianato, erbe e tè, macchine fotografiche ed elettronica, nonché i mercati di pollame e pesce. Il quartiere italiano, dove negli anni Cinquanta si dava appuntamento la Beat Generation, confina con quello cinese. Dalla Coit Tower, che si trova in questa zona, si ha una delle migliori viste sul complesso della metropoli. Non lontano si può ammirare un’altra immagine da cartolina di San Francisco: Lombard Street, la fotografatissima strada nel centro città che scende a serrati e fioriti tornanti. Sempre a piedi si può raggiungere la zona del porto. Il Fisherman’s Wharf è una vera calamita per l’animazione che vi regna. Si tratta di un molo costruito in legno con negozi e simpatici ristorantini. Dal molo 33 dell’Embarcadero partono invece i battelli per Alcatraz, il carcere di massima sicurezza, chiuso nel 1963, dove ‘soggiornarono’ ospiti illustri come Al Capone. Vale la visita. Altri punti di interesse sono il Civic Center, il centro governativo con imponenti edifici stile Beaux Arts, il Golden Gate Park, il parco urbano più grande degli Stati Uniti, alcuni quartieri residenziali come quello di Haight, con le sue splendide residenze d’inizio Novecento e, naturalmente, il ponte Golden Gate: sono tutti luoghi che si possono raggiungere con il bus turistico. I musei non li abbiamo dimenticati, ma nell’economia del nostro itinerario abbiamo dovuto rinunciare a visitarli, così come quelli di Los Angeles: due settimane per i parchi nazionali, San Francisco, la costa e Los Angeles sono davvero troppo poche.

La splendida costa oceanica
Prima di raggiungere la costa facciamo una breve sosta alla Stanford University, che fu costruita a fine Ottocento dal magnate delle ferrovie Leland Stanford in memoria del figlio deceduto di tifo durante un viaggio in Europa. Oggi accoglie 14 mila studenti e negli ultimi decenni ha prodotto le menti che hanno reso celebri le industrie della Silicon Valley. Visitando l’università e il campus che la circonda si capisce quanta importanza gli Stati Uniti hanno dato e tuttora danno alla formazione dei giovani, che sono il futuro di qualsiasi società.
Proseguiamo verso la costa, che raggiungiamo a Monterey, una graziosa località di villeggiatura per i ricchi abitanti di San Francisco. Checché ne dicano le guide, non vale la pena di spenderci molto tempo, perché ci attende il grande spettacolo della costa oceanica. Un primo approccio lo si ha percorrendo il “17 mile drive”, una strada panoramica (a pagamento) che collega Monterey con la graziosa cittadina di Carmel e attraversa una ricca zona residenziale: ad ogni curva rivela una nuova vista da cartolina. L’itinerario è cosparso di punti panoramici da cui si gode lo spettacolo delle onde oceaniche che si infrangono sugli scogli. Qui, come vedremo il giorno seguente, incontriamo delle colonie di elefanti marini che se ne stanno spaparanzati sulla spiaggia al sole. Sono simpatici animali che possono raggiungere le due tonnellate. A vederli durante la siesta non lo si direbbe, ma sono in grado di tuffarsi in profondità (circa 1500 metri) e possono rimanere sott’acqua più a lungo di qualsiasi altro mammifero (oltre un’ora).
Il giorno seguente ci attendono altri 200 chilometri di questo incantevole paesaggio oceanico, ma purtroppo per un primo tratto incontriamo una fastidiosa nebbia, frequente nei mesi di luglio e agosto, lungo la costa (Big Sur). Quando in tarda mattinata scompare, i paesaggi tornano di una scabra bellezza.
In circa tre ore percorriamo i 160 chilometri che ci separano da Hearst Castle (per una visita è necessario prenotare), l’incredibile residenza di Wiliam Randolph Hearst che nella prima metà del Novecento riuscì a costituire un impero che controllava il 25 per cento dei quotidiani statunitensi e il 60 per cento di quelli californiani. Questo singolare personaggio, mirabilmente rappresentato nel celebre film “Quarto potere” di Orson Welles, si fece costruire un discutibile monumento – la facciata del palazzo riproduce quella di una cattedrale spagnola in stile Mudejar – dove ‘inserire’ le innumerevoli opere d’arte della sua collezione. Ne è scaturita un’operazione di pessimo gusto, perché non si distingue più ciò che è realmente antico da ciò che è finto.
Molto diversa, invece, la Villa Getty che abbiamo visitato il giorno seguente, dopo aver trascorso la notte a Santa Barbara, una simpatica località di villeggiatura con molte costruzioni in stile spagnolesco. In un’ora e mezza (130 chilometri) si raggiunge Malibù, dove in una vallata che conduce al mare il petroliere miliardario americano Jean Paul Getty ha fatto costruire un museo ispirato al modello di una villa romana sepolta dalla ceneri dell’eruzione del Vesuvio del 79 d.C., per ospitare la sua straordinaria collezione di opere d’arte antica (pure qui è necessario prenotare).

Los Angeles, il mito del cinema
Il nostro viaggio volge purtroppo al termine e a Los Angeles possiamo dedicare poco più di una giornata, che non basta nemmeno per cominciare, perché questa splendida città meriterebbe un soggiorno ben più lungo. Rinunciamo ai grandi musei, alla visita delle case di produzione cinematografica trasformatesi in lunapark, a Disneyland e ci concentriamo su Hollywood, Beverly Hills e Santa Monica, il simpatico quartiere che si affaccia sulla spiaggia oceanica, dove alloggiamo e dove ho cercato invano le splendide bagnine bionde dello sceneggiato Baywatch.
Anche Los Angeles, come San Francisco e come New York, ci sorprende perché è completamente diversa da come ce la immaginavamo. È vastissima – si estende per oltre 100 chilometri – ma non dà l’impressione di una caotica metropoli. È un piacevole insieme di quartieri a misura d’uomo. Le case sono a due piani. I grattacieli pochissimi. Lo si nota bene dall’osservatorio del Griffith Park, da cui si gode di una splendida vista sull’agglomerato e sulle colline a nord, dietro le quali inizia il deserto. La scarsità di acqua bloccò lo sviluppo della città fino al 1913 quando venne costruito un importante acquedotto che convoglia le acque della Sierra Nevada.
Hollywood non è altro che un animato quartiere dell’immensa metropoli, che si è sviluppato negli anni Venti, quando l’industria cinematografica americana si è spostata qui da New York e da Chicago. Risalgono a quegli anni le prime lussuose ville costruite sulle colline retrostanti, il famosissimo Hollywood Boulevard, con la Walk of Fame, la passeggiata delle celebrità dove sul marciapiede sono incastonate 2500 stelle dorate dedicate a mitiche star come Marlon Brando, Michael Jackson, Elvis Presley, Frank Sinatra, John Wayne e molte altre. Sulla stessa via si trova pure il teatro dove ogni anno, fin dal 1927, vengono consegnati gli Oscar e una scalinata dove sono presentati “i migliori film” premiati con la celebre statuetta. Tour turistici propongono escursioni sulle colline e a Beverly Hills per curiosare tra le ville dei big dello spettacolo. Ci rimane ancora il tempo per una scappata nella splendida Beverly Hills, con le sue lussuosissime ville e Rodeo Drive, una delle vie più celebri e più filmate al mondo. Ricordate “Pretty Woman” il romantico film di Garry Marshall con Richard Gere e Julia Roberts? L’albergo in cui alloggiano i due protagonisti si trova qui, così come i negozi in cui la giovane ragazza fa il celebre shopping con la carta di credito del casuale partner.

Itinerario

12° giorno
San Francisco

13° giorno
San Francisco

14° giorno
San Francisco-Monterey
San Francisco-Palo Alto (50 km)
Palo Alto-Monterey (140 km)

15° giorno
Monterey-Santa Barbara
Monterey-Hearst Castle (160 km)
Hearst Castle-Santa Barbara (240 km)

16° giorno
Santa Barbara-Los Angeles (160 km)

Stati Uniti – I nostri legami con la California attraverso la storia degli emigranti

Stati Uniti – Grand Canyon e Monument Valley
Stati Uniti – Bryce Canyon e Death Valley
Stati Uniti – Da San Francisco a Los Angeles
Stati Uniti – Quando la natura diventa artista, ecco il fascino dei grandi parchi

In primavera, quando il volo per gli States era già stato prenotato, ho notato un certo fermento familiare attorno al computer. Mia moglie, che già ci lavora buona parte del giorno, si piazzava davanti allo schermo anche dopo la cena, momento solitamente consacrato alla conversazione, allo scambio di notizie, programmi e pareri. Aveva pure un fare un po’ misterioso. Facebook, ho pensato. Sta a vedere che si è lasciata incantare dai social network. Qualche giorno più tardi – e dopo molte ore a tu per tu con il Mac – mi annuncia trionfante che attraverso la rete ha ricostruito la storia dei suoi antenati emigrati in California e, addirittura, ha scoperto dei cugini americani con cui è riuscita a mettersi in contatto.
I fratelli di sua nonna, racconta, sono partiti da Vogorno all’inizio del Novecento, prima uno, poi l’altro un paio di anni dopo. Entrambi neanche ventenni, prima di allora usciti dalla Verzasca forse solo per qualche inverno da spazzacamino nella vicina Lombardia. Con qualche dato anagrafico ha trovato le loro tracce negli elenchi di Ellis Island, la grande porta d’entrata d’America, dove tutti gli immigrati venivano registrati (www.ellisisland.org). Purtroppo le ricerche sono complicate, mi confessa che ha impiegato tantissimo tempo: la grafia incerta dei nostri avi che avevano poca dimestichezza con la penna è spesso trascritta in modo approssimativo, fatto sta che Giuseppe è diventato Guiseppe, mentre Paolo si è trasformato in Caslo. Ha fatto molti tentativi, giocando un po’ con l’intuito. Ma ora sa quando e dove sono partiti, con quale nave, quando sono arrivati a New York. E, con il mazzetto di lettere che la nonna le ha affidato quand’era ragazza – quelle lettere che per qualche anno dopo la partenza i due hanno inviato a casa -, con i dati di internet, molta costanza e un po’ di fortuna, ecco che trova in California i discendenti di uno dei due fratelli. Il nostro viaggio ormai è programmato, ma un incontro bisogna proprio organizzarlo. E così diamo appuntamento ai cugini americani via mail e, nonostante il breve preavviso, tre si presentano con mariti e mogli. Una serata piacevole nella generale confusione di una conversazione multilingue: un po’ di inglese studiato tanti anni fa e mai praticato, un po’ di spagnolo che alcuni di loro conoscono perché siamo comunque poco lontano dal Messico, un po’ di dialetto ticinese. Eh, sì, perché il marito di una cugina, anch’esso discendente di emigranti ticinesi, ha imparato dal nonno qualche modo di dire tipico di qui… ed è strano per noi sentire quelle espressioni antiche, del dialetto di un Ticino che non c’è più. È un mondo che si apre al confronto. Ci raccontano dell’attaccamento che, nonostante siano di terza generazione, nutrono per la Svizzera, delle radici che conoscono poco, perché il nonno (e cioè il diciottenne partito da Vogorno) è morto giovane e non hanno ricordi di lui. Festeggiano il primo agosto ma sono americani fino al midollo, e amano pescare, il barbecue, Obama (alcuni sì, altri meno). Sono fieri di quelle origini lontane, del coraggio di quei giovani che hanno lasciato la terra natia per cercare di migliorare la loro vita.