New York – Alla riscoperta degli itinerari dei nostri antenati emigranti

di Carla Rezzonico Berri

New York – Le mille storie diverse che vivono in una sola città
New York – New York riassume il mondo moderno
New York – Due volti diversi per gli Stati Uniti

Il pellegrinaggio della memoria inizia a Manhattan, al molo di Battery Park, dove salpano i traghetti per le due isolette della baia dell’Hudson: Liberty Island e Ellis Island La “corona” della Statua della Libertà, miraggio per i viaggiatori di terza classe delle navi, è ritornata ad essere visitabile dopo otto anni di chiusura seguiti al tragico 11 settembre.

Anni ’60, in un villaggio della Valle Verzasca. Arriva la postina con la sua borsa di cuoio, si ferma davanti alla casa e bussa alla porta, che comunque non è mai chiusa a chiave. Lascia sul tavolo della cucina il quotidiano. Di lettere ne arrivano poche, ma questa mattina una busta di colore azzurrino, con un bordo blu e rosso, di carta leggerissima, spicca sopra il giornale. “Hanno scritto ‘quelli d’America’ ” , commenta mio padre.
Una scena così chissà in quante case ticinesi era consueta, quando cellulari e posta elettronica non avevano ancora invaso le nostre giornate e – soprattutto – quando i legami transoceanici creati dall’emigrazione non si erano ancora affievoliti. Sì, perché in ogni casa – o quasi – qualcuno, a fine Ottocento, a inizio Novecento, aveva solcato i mari inserendosi in quell’immenso flusso migratorio che svuotò le regioni più povere del Ticino (e dell’Europa) di forze giovani.
Erano lettere di emigranti che con lungimiranza e un incredibile lavoro di ricerca lo studioso e storico Giorgio Cheda riunì negli anni ’70, prima che quei legami si allentassero con le generazioni che si susseguono e la lingua comune che si perde – e le testimonianze finissero nel fuoco, nella spazzatura o presso qualche antiquario.
Ne avevo un mazzetto anch’io, custodite con cura dalla nonna per decenni e poi affidatemi forse perché le conservassi dopo di lei, a ricordo di quei fratelli andati lontano e mai più tornati.
E così, avendo l’opportunità di visitare New York, la mia “prima America”, non ho potuto fare a meno di andare a rileggerle. Certo, la magnifica porta degli States i miei antenati l’hanno appena intravvista prima di dirigersi verso la California dove erano attesi da parenti e compaesani. Scrive un fratello della nonna, partito appena diciannovenne: “19 novembre 1915. (…) siamo stati sull’acqua 15 giorni per arrivare a New Jork. (…) Quando siamo (s)barcati non abbiamo potuto scrivere perche siamo partiti subito col treno per San Francisco, ed abbiamo impiegato altri 6 giorni di treno”. Ma il viaggio sul mare è stato buono, aggiunge, quasi un divertimento. Non ha avuto i problemi dell’emigrante di Someo che racconta delle acque agitate, di dieci giorni di burrasca continua: “Il giorno 25 si ebbe lo sbarco a New Jork al primo mettere piede fermo in terra stentavo andare in piedi e dondollavo come un ubbriaco” (entrambe le lettere in G. Cheda, L’emigrazione ticinese in California, Dadò 1981).
New York per loro, per tanti emigranti, era solo un luogo di passaggio. Il grande porto che accoglieva milioni di persone in cerca di fortuna. Per noi oggi, alla ricerca di radici familiari, il pellegrinaggio della memoria inizia a Battery Park, dove salpano i traghetti che portano sulle due isolette situate nella baia, alla foce del fiume Hudson: Liberty Island, con la simbolica e celebre Statua della Libertà, e Ellis Island, per lunghi anni ingresso obbligato per chi sbarcava negli Stati Uniti.
Siamo in centinaia, di ogni nazionalità, sull’imbarcazione che percorre lentamente il tragitto che separa Liberty Island da Manhattan. L’emozione di tutti è palpabile: foto a raffica, mentre la grande statua (“Miss Liberty”, la chiamano, e qualche giorno più tardi la vedremo in una bella mostra al museo dei nativi americani rifatta a mo’ di bambola) si avvicina e alle nostre spalle i grattacieli si fanno più piccoli, con il caratteristico profilo che si staglia contro il cielo.
La statua, che celebra l’amicizia franco-americana – fu un dono al Nuovo Mondo della Francia –, è alta 46 metri (a cui si aggiungono 47 metri di piedistallo) e raffigura una donna incoronata che calpesta la tirannia simbolizzata da catene; nella mano sinistra regge la tavola con la dichiarazione dell’indipendenza (1776), con la destra alza la torcia con il fuoco della libertà. La corona ha sette punte, quanti i continenti e i mari verso cui irradia sentimenti di speranza e libertà. Costruita a Parigi, fu donata agli Stati Uniti nel 1883 e varcò l’oceano in casse: fu assemblata a New York e inaugurata nel 1886. Alla sua creazione parteciparono illustri personalità dell’epoca: Édouard René de Laboulaye ne fu l’ideatore, Frédéric Auguste Bartholdi il progettista, Gustave Eiffel, che costruì la famosa torre, partecipò all’impresa quale ingegnere. Costituita da un’armatura in acciaio rivestita da 300 placche in rame, con il tempo ha assunto il caratteristico colore. Negli anni Ottanta, in occasione del suo centesimo compleanno, è stata restaurata.
Per visitarla occorre prenotarsi per tempo. Se l’intenzione è di accedere solamente all’isola per vedere la Libertà da vicino, e da tutte le angolazioni, basta prenotare il traghetto online all’indirizzo www.statuecruises.com (si eviteranno così le code che possono essere assai lunghe). Se invece volete salire sul basamento o mirate addirittura in alto, alla corona, sappiate che le visite sono ridotte a poche centinaia di visitatori al giorno e i tempi di attesa possono essere di settimane.
Ci accontentiamo dell’isola. Un gruppo di turisti si improvvisa coro – niente male, per la verità – e intona canti di libertà. Fioccano gli applausi. Contempliamo a lungo questo simbolo con sentimenti contrastanti: America uguale libertà? Il discorso è lungo e aperto.
Risaliamo sul traghetto e in pochi minuti sbarchiamo a Ellis Island. Qui, dal 1892 al 1954, sono passati circa 20 milioni di persone provenienti da ogni dove, sbarcati in America da navi su cui avevano viaggiato in terza classe (i passeggeri di prima e seconda erano sottoposti a controlli meno severi prima dello sbarco). La struttura è composta di diversi edifici e dal 1990 ospita il museo dedicato all’immigrazione.
L’inizio del percorso museale è di grande impatto. Una catasta di valigie, ceste in vimini, bauli in legno, sacchi e fagotti legati alla bell’e meglio, uno sopra l’altro, di ogni dimensione, di ogni provenienza. Qui si arrivava con bagagli, pene, preoccupazioni, speranze. La chiamano l’isola delle lacrime. Dietro ad ogni arrivo c’è stata una partenza: i familiari lasciati, la casa, gli amici, il proprio paese. Grandi fotografie in bianco e nero mostrano uomini, donne, bambini, vecchi all’arrivo. Sguardi stanchi e timorosi. Occhi che interrogano il futuro. La trafila burocratica per avere accesso al suolo americano comprendeva dapprima una visita medica, in particolare un temutissimo esame degli occhi (si cercavano i segnali di una malattia contagiosa, il tracoma, in presenza della quale il rimpatrio era immediato). Chi non superava questo primo scoglio veniva segnato con un gesso: una X sulla spalla che significava ulteriori approfondimenti. Anziani, malati mentali e contagiosi potevano essere rimpatriati immediatamente (statistiche ufficiali parlano del 2% di esclusi); le immagini dei respinti sono strazianti.
Arriviamo nella vastissima sala di registrazione, la “Registry Room”, e proseguiamo attraverso le sale del museo che seguono i migranti nelle loro peripezie esponendo documenti, immagini, oggetti, testimonianze orali: le lunghissime file agli sportelli, i controlli, la registrazione dei dati anagrafici, il cambio della valuta, l’acquisto dei beni di ristoro e quello dei biglietti ferroviari. Un’avventura che per alcuni durava qualche ora, per altri alcuni giorni. Lasciata alle spalle Ellis Island e sbarcati a Manhattan, di avventura ne iniziava un’altra.
La nostra giornata sulle isole è stata una lezione di storia. Non potevamo non concluderla con una puntata all’American Family Immigration History Center. Con 5 dollari avete accesso ai computer medianti i quali potete cercare le tracce dei vostri antenati nella vastissima banca dati dove sono stati registrati i passaggi a Ellis Island. Si calcola che 100 milioni di americani abbiano qui qualcosa da trovare delle loro radici. Una semplice ricerca permette di avere notizie sui passeggeri qui transitati: dati anagrafici, età all’arrivo, data di arrivo, nome della nave, ecc. Si possono anche acquistare copie facsimile dei documenti. Ricerche simili si possono fare sul sito www.ellisisland.org.