Camerun – Tutta l’Africa in un solo paese

Camerun – Dove il tempo sembra essersi fermato
Camerun – Stregato dalla gente e dai colori nel mio primo viaggio in Africa
Camerun Un medico ticinese nel Camerun, il ricordo di Giuseppe Maggi

Dalle foreste alle montagne, dai fiumi ai laghi, dalle dorate spiagge oceaniche ai verdi altopiani, dalla brulla savana al pre-deserto. Perché andare proprio qui? Perché è un continente in miniatura. Salvo le dune di sabbia, propone tutte le caratteristiche tipiche di questa terra

Perché piuttosto che andare in Kenya, Senegal, Etiopia, Tanzania o Mali dovrei recarmi proprio in Camerun? “Perché – risponde Stefano Nori, autore della guida “Polaris” (Firenze 2008) su questo paese – la sua ricchezza e la sua varietà umana e naturalistica sono immense e preziose, uniche e senza uguali in tutto il continente; perché qui un viaggio riserva tante soprese e situazioni inaspettate; perché mille documentari e reportage televisivi non potranno mai rendere giustizia a quanto visto direttamente sul campo. Infine, perché se l’esperienza ha ancora un valore, pur avendo visitato ben 26 stati africani, non mi sono più allontanato da questo bellissimo paese, sin dalla prima volta in cui ci andai, nel novembre 1987”. E anche perché – aggiungiamo noi – in un continente dilaniato da guerre e da pericoli per il viaggiatore, è un’isola di pace e di sicurezza.
Il nostro itinerario, organizzato da Kel 12, prevede una breve tappa a Douala, la capitale economica, per ripartire il mattino seguente verso l’estremo nord, che costituisce un triangolo incuneato tra Nigeria a ovest e Ciad ad est.
Douala, uno dei luoghi con maggiori precipitazioni di tutto il continente, è importante per il suo porto commerciale che serve tutta l’Africa occidentale. È una città particolarmente brutta con i suoi trasandati locali e negozi in stile europeo, che ricordano i tristi periodi dell’epoca coloniale: dall’Occidente sembra infatti aver preso solo il peggio. La sera a cena incontriamo due coppie di italiani che lavorano per aziende europee. Ci raccontano dell’estrema corruzione che regna in Camerun – è considerata la nazione più corrotta al mondo – e di quanto sia sgradevole vivere in questa città, dove gli europei conducono ancora vita separata, come durante il colonialismo. Questa immagine del paese stride profondamente con quella che ci faremo nei giorni successivi, che coincide invece con la descrizione citata sopra di Stefano Nori.
Il nostro volo interno del mattino seguente parte puntuale. Breve sosta tecnica a Yaounde, la capitale, per poi proseguire a nord verso Maroua, che raggiungiamo in un paio d’ore. Maroua, la cittadina più grande del settentrione, si presenta squadrata, con grandi viali urbanisticamente bene ordinati, con basse costruzioni e con un forte carattere di villaggio africano. La sua maggiore attrazione è costituita dal mercato centrale coperto suddiviso in due parti. Una artigianale per turisti, dove si viene aggrediti dai venditori, ed una, per la gente del luogo, suddivisa a seconda delle varie attività, dove spiccano le botteghe dei sarti. In altre zone della cittadina si visitano il quartiere dei fabbri, che producono oggetti riciclando ferro usato, e quello puzzolente delle concerie.

Piccoli regni all’interno dello stato
Una giornata del nostro viaggio è dedicata alla visita della “Chefferie” di Oudjilla, abbarbicata su una collina delle Mandara Mountains. Dista una cinquantina di chilometri da Maroua, ma ci scontriamo subito con uno dei mali del Camerun: le strade. Una gran parte del tragitto odierno si svolge su un’arteria asfaltata, ma cosparsa non di buchi bensì di crateri, tanto da costringere i veicoli quasi a fermarsi per superarli. Abbiamo visto camion fermi ai lati della careggiata in panne a causa delle condizioni stradali, tali da costringerci a tenere una media di 20-25 chilometri orari. Quando poi si giunge alla pista che monta sulla collina, le nostre 4×4 stentano a salire, tanto è cosparsa di sassi. Forse a piedi saremmo stati più veloci, ma i raggi del sole sono troppo cocenti. Sulla strada incontriamo diversi villaggi costituiti da assembramenti di “saré”, cioè di capanne rotonde collegate tra loro per ospitare un nucleo familiare. Con i loro tetti in paglia ed i muri in mattoni di banco (costituiti di terra, paglia e sterco di animale) sembrano appartenere al paesaggio. La “Chefferie” conta 25 villaggi e circa 30 mila abitanti. Ma prima di continuare la mia descrizione è necessario spiegare che cosa è una “chefferie”. È una sorta di regno all’interno dello stato e riconosciuto dal governo centrale. Questi regni, con compiti simili a quelli dei nostri comuni, giocano un ruolo fondamentale nella vita culturale e politica del Camerun. Lo stato, oltre a riconoscerli, basa gran parte della sua struttura sociale sull’autorità morale degli “Chef”, che sono accettati dai cittadini e che tramandano il loro potere ai discendenti di sangue. Esercitano funzioni giuridiche, politiche e spirituali, come vedremo nella Chefferie di Oudjilla, con un’autorità che si estende su tutti i campi della vita quotidiana. Il centro simbolico di questo potere è il palazzo. Ed allora entriamo nel “palazzo” di Oudjilla.

Visita al palazzo reale di Oudjilla
Ad accoglierci c’è il vecchio regnante, stravaccato su un lettino in legno con uno scopino in mano per difendersi dalle mosche, davanti a un vecchio televisore spento. Sostiene di avere già compiuto i cento anni, ma francamente sembra più giovane. Fa fatica ad alzarsi e ci saluta sdraiato. Ha 50 mogli e 113 figli. Parla a stento il francese, ma uno dei figli funge da traduttore. Alle nostre domande risponde evasivamente. Non così il principe ereditario – il secondo genito, poiché secondo la tradizione il primogenito è considerato meno intelligente – che nel frattempo ci ha raggiunti. Veste una tuta blu da meccanico, nonostante stesse lavorando nei campi, e parla perfettamente il francese. Ci accoglie con calore, anche perché da oltre un mese non riceve visite da turisti, e ci introduce nel palazzo. È costituito da un enorme assembramento di capanne simili a quelle prima descritte. Basti pensare che ognuna delle 50 mogli ha diritto a quattro unità, ma molto anguste: una per dormire, una per cucinare e due come deposito per il miglio.
La prima sala del palazzo è dedicata alle udienze. Lo chef svolge infatti un ruolo simile al nostro giudice di pace. Dirime dissidi legati soprattutto a divorzi e a questioni ereditarie, mentre i reati più gravi vengono demandati ai tribunali dello stato. Proseguiamo la nostra visita ed entriamo in una stalla molto buia, dove viene custodito il bue sacro. Per tre anni vive lontano dalla luce in uno spazio angusto affinché ingrassi, sino al sacrificio rituale che avviene nel periodo della raccolta del miglio tra novembre e dicembre. Nella capanna successiva sono conservate le urne funerarie degli antenati. Si accede quindi al quartiere delle mogli, che sono governate dalla prima consorte. Lo “chef” non dorme mai nelle loro stanze, ma sono le donne che a turno si recano nella sua abitazione posta all’esterno del “saré”, così come quelle dei figli adulti. Il “palazzo” è provvisto di corrente elettrica, ma non di acqua. Ed i pozzi sono lontani.
Ci incamminiamo con il principe ereditario verso una collina da cui si gode una splendida vista sulla campagna e sulle montagne circostanti. Tra i tanti tetti in paglia ne spiccano alcuni in lamiera. Gli chiediamo come vede il futuro della sua comunità. Non sarà infatti facile conciliare la conservazione di quel patrimonio etnico-culturale con i veloci e continui mutamenti della società, che stanno cominciando a giungere anche lassù. Con espressione preoccupata risponde di voler rimanere fedele alle tradizioni, ma di rendersi conto che dovrà fare i conti con il modernismo. Sarà quindi necessario, aggiunge, accettare molti compromessi. Ma la sua speranza è che Oudjilla venga in futuro considerata patrimonio mondiale dell’Unesco, perché è convinto che questo riconoscimento gli procurerebbe i mezzi necessari per conservare le tradizioni, con il rischio però, aggiungiamo noi, di diventare una sorta di riserva o di museo all’aperto.

Le attività ai bordi della strada
Se le strade sono sconnesse, i panorami che presentano valgono bene la scomodità del tragitto. E, soprattutto, sono luogo di vita. Così attraversando un ponte ci imbattiamo in un gruppetto di ragazzini che fanno il bagno nudi in un pozzo d’acqua e si divertono quando mostriamo le foto dei loro tuffi. Poco più avanti ci fermiamo per osservare un gruppetto di giovani donne che travasano da un recipiente all’altro i grani di miglio facendoli cadere dall’alto per ripulirli. Ripetono quel movimento più volte facendo sembianza di non vederci, ma quando ci avviciniamo ci sorridono e accennano qualche parola in francese. La gente in questo paese è molto dolce e disponibile: credo siano questi incontri l’esperienza più ricca del nostro viaggio. Attraversando i villaggi si notano bancarelle in cui si vende di tutto, anche se solitamente il mercato si svolge in un giorno ben preciso della settimana. Si commercia anche carne appena macellata. Sui bordi della strada assistiamo alla cruenta macellazione di uno zebù, una sorta di bue africano. Vediamo le interiora dell’animale sgozzato giacere sulla pelle distesa per terra come una tovaglia. Due giovani si accaniscono con una mazza sulla povera bestia, che viene ridotta in pezzi da vendere al vicino mercato.

Itinerario

1° giorno
Italia-Douala

2° giorno
Douala-Maroua

3° giorno
Maroua (il mercato settimanale) – Maga

4° giorno
Maga-Pouss (il mercato settimanale) – Waza

5° giorno
Waza-Oujilla-Col di Koza-Mokolo

6° e 7° giorno
Mokolo-Tourou (il mercato settimanale) – Roumsiki

8° giorno
Roumsiki-Mayo Plata (il mercato settimanale) – Maroua

9° giorno
Maroua-Douala-Parigi

Bibliografia
Camerun, il paese dei mille villaggi Polaris, Firenze 2008
Costa d’Avorio, Ghana, Togo, Benin, Nigeria, Cameroun Lonely Planet, Torino 2010

Camerun – Dove il tempo sembra essersi fermato

Camerun – Tutta l’Africa in un solo paese
Camerun – Stregato dalla gente e dai colori nel mio primo viaggio in Africa
Camerun Un medico ticinese nel Camerun, il ricordo di Giuseppe Maggi

Tra gli alberi ed enormi massi erranti, in un paesaggio che sembra un presepe vivente, sbucano i tetti in paglia di agglomerati di capanne cinte da un muro per garantire l’intimità famigliare. Sulle piste si incontrano donne incamminate verso i mercati. Nei villaggi lo stregone svolge ancora un ruolo sociale.

Proseguiamo il nostro itinerario nell’estremo nord del Camerun ai confini tra Nigeria e Tchad, organizzato da Kel 12, dirigendoci verso le Mandara Mountains, in una zona sperduta tra le colline percorrendo piste sconquassate, ma attraverso paesaggi dove il tempo sembra essersi fermato. Tra gli alberi ed enormi massi erranti sbucano i tetti in paglia di rotonde capanne collegate tra loro e circondate da muri in sasso per proteggere l’intimità familiare. Sembrano appartenere a un presepe vivente. La mia curiosità per conoscere la vita che si svolge all’interno di quelle mura (“saré”) è enorme. Ci fermiamo con le nostre jeep davanti a diversi gruppi di capanne. La gente è gentile ma non ci invita ad entrare, come vorremmo. Più avanti abbiamo però la possibilità di visitare un nucleo ormai disabitato.
Entrati nel muro di cinta si nota una sorta di gazebo in legno, sopra il quale viene essicato il miglio, e sotto, all’ombra, mangia il capofamiglia. Le donne ed i bambini consumano invece i pasti al coperto di un’altra tettoia in paglia situata davanti alla prima capanna, che appartiene al capofamiglia ed è dominata da una statua del suo dio personale, una sorta di angelo custode. Fino all’età di 7 anni i bimbi dormono assieme alla madre, in seguito tutti assieme. Dopo i 15 anni i maschi si trasferiscono fuori dal “saré”, mentre le ragazze, in attesa di prendere marito, occupano un’altra capanna interna. Negli spazi intimi che si creano tra le capanne, i membri della famiglia si lavano. Chi se lo può permettere dedica uno spazio coperto anche al bue sacro, che viene ingrassato per tre anni senza che possa mai uscire o vedere la luce del giorno. Siccome nel corso del tempo raggiunge proporzioni ragguardevoli per trasferirlo al luogo del sacrificio diventa necessario demolire una parete. La sua carne viene quindi cucinata, mentre le donne preparano la birra di miglio. La festa dura tre giorni e viene condivisa con gli abitanti del villaggio. Proseguiamo la nostra visita all’interno del “saré”. Un’ulteriore capanna, dove al centro si trova un ampio granaio per la conservazione del miglio, è destinata alla prima moglie, che dispone pure di uno spazio attiguo dove vengono custoditi gli animali di piccola taglia: soprattutto capre e pecore. Una successiva capanna è destinata alla seconda consorte e una ulteriore, con due granai per le scorte, alla mogle più giovane, che prima di iniziare la vita familiare viene qui segregata per tre giorni. Un ultimo spazio è consacrato alla cucina, dove le varie mogli si alternano ai fornelli.
Gli animali più grandi dormono all’aperto, ma all’interno delle mura, dove dispongono di una abbeveratoio. Accanto si trova una pietra sulla quale viene esposta la statua di un dio, al quale ci si rivolge quando sorgono problemi tra i membri della famiglia, naturalmente dopo avere consultato lo sciamano (stregone) del villaggio. A seconda del suo responso viene sacrificato un pollo sbattendogli la testa sul sasso e facendogli colare il sangue sulla pietra. La cerimonia termina con preghiere dopo avere mangiato tutti assieme l’animale sacrificato e bevendo l’immancabile birra di miglio.

Lo stregone del granchio
A proposito di sciamani, abbiamo avuto occasione di incontrarne uno a Roumsiki. È ormai diventato un’attrazione turistica, ma la gente del posto continua a recarsi da lui per ricevere consigli. Lo chiamano stregone del granchio, perché interloquisce con questo animale. Dopo avere ascoltato la domanda del suo interlocutore sistema dei legnetti posati su una coltre di terra all’interno di un’anfora. Quindi, dopo aver debitamente parlato con il granchio, lo introduce nell’anfora e lo lascia agire per una trentina di secondi. Interpretando il modo in cui sono stati scompigliati i legnetti formula la risposta. Io gli ho chiesto come prevedeva l’evoluzione della situazione economica europea. Senza scomporsi ha interloquito con il granchio per rispondermi che andrà sempre un po’ meglio, ma il progresso sarà lento.
Roumsiki è un villaggio fuori dal mondo, ma in grande trasformazione, dove si trovano alcuni simpatici oggetti artigianali e dove sopravvivono alcune antiche tradizioni. Come quella di trovarsi sotto i cosiddetti fichi della parola – uno destinato ai saggi, uno ai giovani ed uno alle donne – per discutere di questioni pubbliche.
Il paesaggio attorno è molto spettacolare: propone picchi di roccia vulcanica alti decine di metri che spuntano dal terreno distanti uno da uno dall’altro, ricordando lontanamente la californiana Monument Valley.

Itinerario

1° giorno
Italia-Douala

2° giorno
Douala-Maroua

3° giorno
Maroua (il mercato settimanale) – Maga

4° giorno
Maga-Pouss (il mercato settimanale) – Waza

5° giorno
Waza-Oujilla-Col di Koza-Mokolo

6° e 7° giorno
Mokolo-Tourou (il mercato settimanale) – Roumsiki

8° giorno
Roumsiki-Mayo Plata (il mercato settimanale) – Maroua

9° giorno
Maroua-Douala-Parigi

Bibliografia
Camerun, il paese dei mille villaggi Polaris, Firenze 2008
Costa d’Avorio, Ghana, Togo, Benin, Nigeria, Cameroun Lonely Planet, Torino 2010

Laos – La sua linfa vitale è il fiume Mekong

Laos – Il Laos “no stress” tra passato e presente
Cambogia – L’estasi davanti ai templi di Angkor
Cambogia – Un angelo svizzero medico in Cambogia

Un itinerario sorprendente che permette la scoperta del Paese asiatico navigando il suo fiume storico da Huay Xai, al confine con la Thailandia, fino a Luang Prabang, la graziosa antica capitale protetta dall’Unesco e prediletta dai turisti.

Il fiume Mekong ha costituito per millenni la linfa vitale del Laos, uno dei paesi più poveri al mondo, dove l’80 per cento degli abitanti vive di agricoltura. Ancora oggi circa 60 milioni di persone dipendono dalle risorse delle sue acque e da quelle dei suoi affluenti. Questo fiume, che nasce in Tibet e attraversa Cina, Birmania, Thailandia, Cambogia e Vietnam, ha profondamente inciso sulla storia del Laos, al punto che quasi tutto il paese si è sviluppato lungo le sue rive. Per questo, il nostro itinerario realizzato da Kel 12, prevede la scoperta del Laos navigando il suo fiume storico, laddove è possibile: da Huay Xai, al confine con la Thailandia, fino a Luang Prabang, la graziosa cittadina protetta dall’Unesco e prediletta dai turisti. Oltre non si può navigare a causa di ripide e cascate. Proseguiremo pertanto verso la capitale Vientiane in aereo. Il nostro viaggio continuerà quindi in Cambogia alla scoperta degli affascinanti templi di Angkor, immersi nella foresta e abbracciati dalle magiche radici dei suoi alberi.

La grande madre
Il nostro viaggio inizia da Milano-Malpensa, dove un volo diretto Thai airways ci porta a Bangkok, da cui si riparte per Chiang Rai nel nord della Thailandia. Da qui in un’ora di pulmino si raggiunge Chieng Khong, un porto fluviale considerato “la porta dell’Indocina”. Il Mekong, la “Madre di tutti i fiumi”, che segna il confine tra l’antico impero siamese e il Laos, è davanti a noi. Il nostro viaggio entra nel vivo. Un’imbarcazione ci attende per attraversare il fiume. Prima di raggiungerla passiamo sotto un arco di dubbio gusto, considerato appunto “la porta dell’Indocina”. Giunti sull’altra sponda, a Huey Xai, espletiamo sul posto le pratiche per il visto e ci incamminiamo verso il modesto albergo dove passeremo la notte, ospitato in un’antica casa coloniale francese.
Prima di cena visitiamo un tranquillo villaggio di etnia Lenten, che si affaccia sul Mekong a una trentina di chilometri da dove alloggiamo. Le abitazioni sono plurifamiliari con tetti in foglie di palma e bambù, come tutti gli altri villaggi in cui sosteremo nei giorni seguenti lungo il Mekong. Siamo nel cosiddetto Triangolo d’oro, noto per la coltivazione del papavero da oppio. Nel villaggio in cui ci troviamo sembra che lo coltivino non per commerciarlo, ma solo per consumarlo. Le donne indossano vestiti blu e neri, non hanno sopracciglia (vengono depilate all’età di 15 anni) e nei capelli lisci portano una moneta d’argento. L’atmosfera è tranquilla. Gli uomini giocano alle pétanque: il gioco delle bocce che i Francesi hanno introdotto durante la loro dominazione (1893-1953).
Rientriamo a Huey Xai. La via principale è un susseguirsi di guesthouse, negozi e agenzie di viaggio. Anche qui l’atmosfera è rilassata e la passeggiata piacevole.
Il mattino seguente una lunghissima barca in legno ci aspetta per una crociera che durerà due giorni. La nostra meta è Luang Prabang, l’antica capitale del Laos, che dista circa 300 chilometri. Per la notte faremo tappa a Pakbeng in un grazioso resort che si affaccia sulle rive del Mekong.
La navigazione lungo il fiume è piacevole. Il nostro barcone scivola sull’acqua a una velocità media di 20 km/h aiutato dalla corrente del fiume che a tratti è intensa. Siamo nel mese di febbraio e l’acqua è bassa. Sulle rive si sono pertanto create improvvisate spiaggette di sabbia bianchissima, simile a quella del mare. La foresta incombe a pochi metri. Ma per lunghi tratti le sponde sono rocciose, con forme appuntite. Il fiume è molto selvaggio. I rari villaggi si affacciano sulle acque, a volte nascosti dalla folta vegetazione. Si intuisce la loro esistenza dalle barche ormeggiate lungo le rive, coltivate a patate, e dall’animazione: bimbi che giocano, donne che lavano i panni, altre che setacciano la sabbia cercando povere pagliuzze d’oro, uomini che pescano pesci o alghe, animali che si abbeverano, buoi di fiume che si immergono. Il Mekong per tutta questa gente è una fonte di vita: fornisce cibo e acqua per irrigare i terreni e rappresenta la via di comunicazione principale. In alcuni villaggi, dove si fermano i barconi dei turisti, le donne tessono la seta per arrotondare le scarse entrate.
A un paio d’ore da Luang Prabang un’imponente parete rocciosa si erge sulla riva destra del fiume. Qui, nelle grotte di Pak Ou, che si aprono in alto, si trova un commovente e suggestivo luogo di culto, caratterizzato dalla semplicità della fede popolare. Sotto la volta, nelle sacre caverne, è ospitata un’innumerevole quantità di statuette, alcune povere e grezze, offerte dalle popolazioni che risiedono lungo il fiume e nelle aspre montagne che lo costeggiano.

Un magico equilibrio
Il colpo d’occhio che ci offriva – scriveva all’inizio del secolo scorso l’esploratore Francis Garnier – era fra i più pittoreschi e animati … I tetti, l’uno accanto all’altro, si allineavano in file parallele lungo il fiume e serravano da ogni lato una montagna che si elevava come una cupola coperta di verde. Alla sommità della montagna un that o dagoba (monumenti religiosi ndr) slanciava la sua acuta cuspide sulla vegetazione, formando il tratto dominante del paesaggio”.
La città laotiana prediletta dai Francesi durante il protettorato e oggi la più amata dai turisti, dopo oltre un secolo da quando furono scritte queste parole, appare ancora così.
Una vera gioia per gli occhi, scriveva più o meno nello stesso periodo il diplomatico parigino Auguste Pavie. Con i suoi fiumi, la città e le montagne intorno, questo è indiscutibilmente il più bel posto del Laos”.
Le ville del periodo coloniale francese oggi sono state trasformate in alberghi o in eleganti negozi, ma lo spirito di questa cittadina, inserita nel 1995 dall’Unesco sulla lista del Patrimonio mondiale dell’Umanità, non è stato alterato. Sorge a 700 metri di quota, racchiusa da una cerchia di montagne, e propone un magico equilibrio tra il suo stupendo quadro ambientale e le opere d’arte che l’uomo ha creato per celebrare la profonda fede buddista, di cui si ha una testimonianza ogni mattina all’alba se ci si apposta su una delle vie principali. I monaci passano con la loro ciotola protesa a ricevere il cibo per la giornata e lunghe file di persone li attendono inginocchiate sui bordi della strada per protendere i loro doni. Al tramonto rimbombano invece i suoni dei tamburi che rammentano l’insegnamento del Budda e richiamano alla meditazione.
Luang Prabang ospita più di trenta monasteri. Ognuno con la sua particolarità. Sarebbe ingiusto e difficile stilarne una graduatoria, ma il più solenne è certamente Vat Xieng Thong, perché qui un tempo risiedeva il grande Venerabile, la guida spirituale di tutti i monaci. È anche uno dei più antichi della città – risale al XVI secolo – ed è stato risparmiato dal saccheggio avvenuto nel 1887 ad opera delle Bandiere Nere thailandesi, che distrussero tutti gli altri luoghi di culto.
Nel Palazzo reale adibito a museo si può ammirare il Pha Bang, una statua che rappresenta il simbolo di legittimazione buddista della monarchia laotiana e che ha dato il nome alla città. Curiosa celebrazione in uno stato in cui sopravvive una delle ultime dittature comuniste e dove la monarchia ha abdicato da ormai oltre 35 anni.
Prima di lasciare Luang Prabang vale la pena di visitare il variopinto mercato artigianale serale, che si svolge ogni giorno in centro città.

Vientiane, la capitale
Secondo gli autori della guida Lonely Planet dedicata al Laos, Vientiane “può fregiarsi del titolo di capitale più tranquilla di tutto il pianeta”. Percorrendola si incontrano numerosi stili architettonici che rammentano la sua animata storia: dal laotiano al thailandese, dal cinese all’americano, dal sovietico al francese. Ma lungo i larghi viali alberati spiccano soprattutto gli eleganti edifici coloniali francesi. Per non parlare di una goffa imitazione dell’Arco del trionfo parigino, che in città viene ironicamente chiamato “la pista verticale”, perché fu costruito con i soldi concessi dagli Americani per costruire un nuovo aeroporto. Nessun grattacielo sovrasta le pagode, più numerose degli edifici pubblici. Ci si può rendere conto dell’elevata devozione popolare entrando a caso in uno dei tanti monasteri per assistere a semplici e sincere cerimonie religiose, celebrate ad hoc per piccoli gruppi di fedeli, da giovani monaci.
La sera la gioventù si riversa sull’ombreggiata passeggiata lungo il Mekong e nelle piazzette esegue esercizi di ginnastica al ritmo di musica moderna. I turisti possono passeggiare senza timori per le vie della città e sul lungofiume, dove viene proposto un simpatico mercatino dell’artigianato.
Anche Vientiane, come Luang Prabang, è stata rasa al suolo dalla furia dei Siamesi (attuali Thailandesi) nel 1828. Tra i monasteri solo il Wat Si Saket è stato risparmiato dagli invasori, sembra per l’affinità architettonica con gli edifici del loro paese. La particolarità di questo monumento consiste nelle mura interne punteggiate da piccole nicchie che contengono migliaia di statuette del Budda.
Ma il monumento più importante della città e dell’intero Laos, simbolo della religione buddista e della sovranità del paese, è il Pha That Luang, le cui guglie dorate sono visibili da lontano e rappresentano l’orgoglio della nazione. Raffigura la metafora dell’elevazione umana, che passa dall’ignoranza all’illuminazione del buddismo, realizzata proponendo piattaforme quadrate sovrapposte e degradanti: la prima simboleggia la terra, le successive i petali di loto per giungere all’apice con il bocciolo del fiore sacro in forma allungata.

Itinerario
1° giorno
Milano-Bangkok
2° giorno
Bangkok-Chiang Rai-Chieng Khong-Huey Xai
3° giorno
Navigazione da Huey Xai a Pakbeng
4° giorno
Navigazione da Pakbeng a Luang Prabang
5° giorno
Luang Prabang
6° giorno
Luang Prabang-Vientiane
7° giorno
Vientiane-Phnom Penh
8° giorno
Phnom Penh-Sambor Prei Kuk-Siem Reap (Angkor)
9° giorno
Siem Reap (Angkor)
10° giorno
Siem Reap (Angkor)-Bangkok-Milano

Bibliografia
Laos Lonely Planet, Torino 2007
Laos Polaris, Firenze 2009

Birmania – In fuga lontano dalla globalizzazione

Birmania – Un passo nella storia
Birmania – Un lago, un mondo
Birmania – Birmania, dilemma etico per il turista
Birmania – Un paese sospeso tra storia e futuro

Un paese che non è stato ancora del tutto colonizzato dalle mode straniere, che ha salvaguardato una propria identità, la Birmania. Ed è proprio la Birmania il motivo per cui si visita questo paese. Un viaggio con Kel12, tra le popolazioni di montagna del Triangolo d’Oro, dove si coltiva l’oppio.

A causa del suo isolamento più o meno autoimposto – si legge sulla guida Lonely Placet – il Myanmar non è stato ancora del tutto colonizzato dalle mode straniere”. “Confrontato con Vietnam, Cambogia, Tailandia, Cina e col resto del Sud-Est Asiatico – si legge nel documento di Kel12, l’agenzia che ha organizzato in modo ineccepibile il nostro viaggio – è il paese meno stravolto nello stile di vita dai modelli occidentali. Se da una parte il suo rinchiudersi in sé stesso non ha consentito lo svilupparsi di forme di reale partecipazione popolare nella gestione della cosa pubblica, dall’altra ne ha salvaguardato l’identità, la ‘birmanità’. E la ‘birmanità’ è il motivo per cui si visita questo paese”.
E la ‘birmanità’, cioè una forte identità, la si percepisce in tutto il paese, dalla metropoli di Yangon ai villaggi sperduti del nord-ovest, dove vive la ribelle etnia Shan. A differenza di molti paesi in via di sviluppo, il Myanmar non ha ancora conosciuto il fenomeno della migrazione di massa verso le grandi città. Yangon non offre molte possibilità di lavoro. Uomini e donne vestono ancora il tradizionale ‘longyi’, una sorta di gonna lunga molto confortevole nei climi tropicali. In tutto il paese le donne si tingono ancora le guance con una crema naturale chiamata ‘Thanaka’. Se entrate in un grande magazzino della metropoli, trovate un clima assolutamente occidentale, anche se le marche dei prodotti sono diverse, che stride con quanto vedete a due passi dal centro, per esempio nel vastissimo quartiere cinese.
Dopo l’arrivo a Yangon, il nostro itinerario si sviluppa all’interno del paese, alla scoperta delle popolazioni di montagna, di quelle che vivono attorno al lago Inle e delle città imperiali, testimonianza di un passato di cui rimangono suggestivi monumenti soprattutto di architettura religiosa.
Un valore fondamentale della ‘birmanità’, che percepite appena posate piede su questo territorio, è la gentilezza e l’ospitalità innate. In città, come in campagna o nei villaggi di montagna, la gente vi invita a partecipare alla sua quotidianità, senza farvi sentire estranei. A Yangon, durante la visita a una pagoda a cui è annessa la facoltà di teologia, nella mensa dell’università una famiglia facoltosa di commercianti offriva il pranzo ai monaci (è una consuetudine in questo paese). Non appena ci hanno visti, ci hanno invitati a sederci per condividere il pasto con loro. Poco distante, mentre visitavamo un monastero per i novizi (ogni giovane buddista trascorre alcune settimane o mesi in un monastero) dove si teneva un’importante cerimonia, siamo stati invitati a partecipare. Il ricco commerciante che offriva doni a un folto gruppo di novizi orfani ci ha chiesto di distribuire i regali assieme a lui. Così come sulle montagne, quando vi accostate a una casa dove stanno festeggiando una ricorrenza vi invitano ad entrare e vi offrono il loro distillato di riso, molto simile alla nostra grappa. Noi, poco abituati a questo tipo di ospitalità, rimaniamo commossi da tanta generosità, comune a tutte le etnie che popolano questo paese vasto due volte l’Italia, ma con più o meno lo stesso numero di abitanti: circa 60 milioni.

Le popolazioni delle montagne
Da Yangon volo a Kyaing Tong, nello stato Shan al nord-est del paese vicino al confine con la Thailandia. I voli interni non sono diretti, ma fanno scalo nelle varie località. Chi è arrivato a destinazione scende, chi prosegue rimane a bordo: come sul bus. Osservando il paesaggio dall’alto noto che le strade sono pochissime e i villaggi pure. Il fattore di principale richiamo della valle dove siamo diretti e che si trova a 1200 metri di altitudine, è rappresentato dal suo estremo isolamento (si registrano 30 abitanti per chilometro quadrato). È meta ideale per brevi trekking nei villaggi molto distanti tra loro e popolati da tribù Shan. Un’etnia dal punto di vista etnico, culturale e linguistico molto affine alla popolazione thailandese che vive oltre confine. Questa terra è ricchissima: abbondano oro, argento, zinco, pietre preziose, piombo, ferro. Si tratta di una zona aperta al turismo solo a partire dal 2004. Lo forti spinte autonomiste sono state represse, dapprima con le armi e poi concedendo a questa regione uno statuto speciale. Si tratta di una zona calda perché situata nel cosiddetto ‘triangolo d’oro’, tristemente noto per le piantagioni di papavero da cui si ricava l’oppio. Oggi la produzione di questa sostanza nel Myanmar è notevolmente diminuita, perché ufficialmente proibita. Si sa però che in queste zone il papavero viene ancora coltivato.
La popolazione Shan vive di agricoltura ed è storicamente suddivisa in tribù, con costumi e idiomi molto diversi tra loro. Luogo ideale per rendersi conto di questa varietà è il mercato di Kyaing Tong, che attira dalle colline circostanti un coloratissimo afflusso di etnie, merci e artigianato della regione. La guida locale che ci accompagna sulle montagne, acquista cibo, medicine naturali e shampoo da portare in omaggio agli abitanti dei villaggi. Si è dimostrata una buona idea perché nessuno ci ha chiesto soldi e tutti erano molto soddisfatti. Più le nostre mete sono lontane da Kyaing Tong e dalle rare strade, più sono interessanti, perché poco frequentate dai pur pochi turisti che visitano questa zona. Visitando questi villaggi, salendo un dislivello di alcune centinaia di metri, si ha l’impressione che il tempo si sia fermato. Le capanne in cui vive la popolazione hanno la struttura in legno di bambù e le pareti di paglia e fogliame. Sono solitamente costruite su palafitte e non lontano, ben sollevato da terra c’è il deposito per il riso. All’interno, il locale di lavoro e di soggiorno è separato da quello dove si dorme. Nella tribù Akha, di religione animista, uomini e donne dormono in spazi separati e non hanno diritto di avere rapporti sessuali in casa. I numerosi animali da cortile – cani, maiali, galline, oche, eccetera – vivono al suolo e ‘passeggiano’ indisturbati per le vie del borgo. Un’abitazione importante, nei villaggi animisti, è quella dello stregone, dal quale ci si reca per tenere a bada gli spiriti. In qualche paesino meno discosto si notano anche rarissime case in muratura. Sono considerate le residenze dei ricchi: solitamente commercianti di prodotti agricoli o di oppio.
Il discorso sulla religione è alquanto complesso. In un villaggio sperduto su una montagna abbiamo trovato tre ‘quartieri’: uno buddista, uno cristiano e uno animista. La convivenza evidentemente è possibile, ma sembra non risulti sempre facile, perché queste tre religioni hanno credi profondamente diversi. In Myanmar anche i buddisti più praticanti amano Buddha, ma temono i cosiddetti Nat. Storicamente ogni Nat incarnava lo spirito di qualche celebre e leggendario personaggio storico, morto generalmente in modo drammatico. Moltissime pagode propongono le statue dei Nat, ai quali i fedeli chiedono conferme e favori.
Normalmente nei paraggi di ogni villaggio si trova una scuola, ma i genitori di religione animista spesso non permettono ai loro figli di frequentarla perché considerano lo studio una perdita di tempo. I giovani maestri, prima di poter insegnare in città, devono fare un’esperienza di alcuni anni in villaggi discosti. Abbiamo visitato più di una scuola e siamo sempre stati accolti con interesse.
Gli abiti variano di villaggio in villaggio. Gli uomini non vestono il ‘longji’, ma pantaloni molto larghi e una casacca scura. Assai più spettacolare e colorato è l’abbigliamento delle donne, che portano copricapi molto originali tramandati spesso di generazione in generazione. Ogni villaggio che si rispetti ha poi un luogo dove si distilla il riso. Queste tribù sono spesso in festa, soprattutto in coincidenza con le notti di plenilunio. A Kiaing Tong abbiamo assistito a un’affollatissima festa con canti, balli e lotterie. A un certo momento il cielo si è illuminato con una miriade di lanterne che volteggiavano nell’aria in direzione della luna piena. Uno spettacolo suggestivo e indimenticabile!

Quella pagoda che vale il viaggio
Ritengo non vi sia nulla di così stupefacente al mondo” commentava Ralph Fitch, il primo inglese a raggiungere il Myanmar nel 1558. “È un mistero dorato sull’orizzonte, una meraviglia che splende nel sole”, aggiungeva Kypling nelle sue ‘Lettere dall’Est’ pubblicate nel 1889. Sir Somerset Maugham descrisse invece la pagoda “come un’improvvisa speranza nelle tenebre dell’anima”. Non c’è davvero nessuna esagerazione in questi autorevoli pareri. Non saprei descrivere la Pagoda Shwedagon in altro modo che come un sogno ad occhi aperti. Avevo letto di questo monumento prima di partire, ma la mia immaginazione non era andata tanto lontano. Quando arrivate lassù su quella vastissima piattaforma (280 per 220 metri) è come guardare in un magico caleidoscopio: davanti a voi un immenso stupa a forma di cono e ovunque volgete lo sguardo trovate una miriade tabernacoli, tempietti, statue di Buddha e altre divinità, immagini di animali, edicole e decine di altri stupa di tutte le dimensioni. Visibile da qualsiasi punto della città, questo monumento ne è diventato il simbolo e da solo vale il viaggio in Myanmar. È uno dei luoghi buddisti con maggior significato religioso e ogni birmano spera di visitarlo almeno una volta nella sua vita. I pellegrini si radunano qui per pregare, per incontrarsi e per assaporare la pace incredibile che si sprigiona in questo luogo.
Secondo la leggenda, questo tempio avrebbe 2500 anni, ma secondo gli archeologi risale invece a un’epoca tra il VI e il X secolo. Ha subito l’impeto di ben otto terremoti. Il più violento, nel 1768, comportò un importante restauro che ce lo ha consegnato così come lo vediamo oggi.
Ho voluto visitarlo più volte per ammirarlo con le varie luci del giorno e della notte e non avrei mai voluto andarmene. Sarei rimasto lì per ore ad osservare la gente raccolta in piccoli gruppi a pregare o in meditazione, la magia di quei templi e dei loro tetti che si stagliano nel cielo. Ho avuto la fortuna di essere presente la notte in cui si celebra la festa delle luci. Gli ori dei templi, illuminati da una miriade di candele in contrasto con il blu scuro della notte sono diventati ancora più scintillanti. E’ stato uno spettacolo commovente. Molte famiglie sistemavano una stuoia sul pavimento e si preparavano per trascorrere la notte sotto la luna piena. Arrivava sempre più gente. Nessuno beveva, nessuno spingeva. Quando ci guardavano sorridevano e noi non ci sentivamo intrusi, ma partecipi di quella festa indimenticabile!

Birmania – Un passo nella storia

Birmania – In fuga lontano dalla globalizzazione
Birmania – Un lago, un mondo
Birmania – Birmania, dilemma etico per il turista
Birmania – Un paese sospeso tra storia e futuro

Oltre 3 mila monumenti religiosi, patrimonio mondiale dell’Unesco, sorgono su una pianura di 40 chilometri quadrati e sembrano appartenere più alla natura che all’umanità. Un viaggio con Kel12 nella storia delle principali dinastie che nel corso dei secoli dominarono il paese.

L’appuntamento è per le 5.30 alla réception. Il bussino attende puntuale. Ci trasporta in una zona di campagna. Quando arriviamo alla nostra meta, i tre teloni che una volta gonfiati si trasformeranno in altrettante mongolfiere sono ancora distesi inermi sul terreno. I cestelli in vimini che ci ospiteranno sono pronti. I comandanti inglesi pure. Uno stuolo di inservienti si apposta attorno ai teloni, che vengono velocemente gonfiati con aria calda e poi, quando sono quasi su, con idrogeno a suon di boati di gas. Ci fanno salire. Siamo pronti per partire. Il sole si affaccia timidamente all’orizzonte. Non avevo ancora visto Bagan, perché ero arrivato in aereo di notte. La mongolfiera sale dolcemente e lo spettacolo che appare ai miei occhi è indescrivibile. Avevo letto moltissimo su quel luogo, patrimonio mondiale dell’Unesco, ma è ancora più straordinario di quanto mi aspettassi. Una miriade di monumenti religiosi attorno a noi – sembra siano più di 3 mila in un territorio di 40 chilometri quadrati – appare lentamente illuminata dai primi tenui e caldi raggi dell’alba. Sembrano appartenere alla natura più che all’umanità. Costruiti in mattoni con lo stesso colore della terra hanno un aspetto profondamente mistico, ma non sembrano edifici. Lassù capisco cosa intendeva Eugenio Montale quando affermava che “bisogna andare in Oriente, vera sede delle religioni, per capire cos’è la religione”.
Durante la giornata visitiamo i monumenti principali, quelli che sono stati di modello per l’architettura buddista in Birmania. Verso sera, all’ora del tramonto, saliamo su un calesse e ci inoltriamo in quelle stradine sterrate di campagna che il mattino avevamo visto dall’alto. Visitiamo i monumenti meno nobili, quelli che non hanno influenzato la storia dell’arte, ma che ci commuovono per la loro spontaneità. I raggi del tramonto, tinteggiandoli di rosso-viola li rendono ancora più suggestivi. La storia, la brama, il potere. Non resta più nulla, solo questi gusci vuoti di infinita bellezza e romanticismo, che si sono conservati per secoli grazie al clima secco. Quelle immagini mi rimarranno dentro per sempre! È questo certamente uno dei posti più belli che ho visitato nella mia vita!

Il periodo d’oro durò 243 anni
Il periodo d’oro di Bagan ebbe inizio con l’ascesa al trono del re Anawratha nel 1044 e si concluse nel 1287 con l’invasione dei Mongoli condotti da Kublai Khan. Appena salito al trono Anawratha intraprese immediatamente un grandioso programma edilizio: alcuni tra i più significativi edifici di Bagan risalgono al periodo del suo regno. In particolare la stupenda Shwezigon Paya, considerata il prototipo di tutti i successivi stupa (tipici monumenti buddisti in forma conica) birmani, oppure l’Amanda Pahto, un’altra meraviglia con i suoi corridoi ricchi di nicchie contenenti innumerevoli immagini del Buddha. Anche dopo la morte del primo sovrano i suoi successori proseguirono a sviluppare pressoché ininterrottamente il paese durante tutto il periodo d’oro di Bagan. “Alla fine di 15 giorni di viaggio – scrive Marco Polo nel suo ‘Il Milione’ – arrivai in una città chiamata Mein (antico nome di Bagan) grandiosa e splendente, la capitale del regno”. È difficile immaginare come fosse in passato perché, come altre città reali birmane, soltanto gli edifici religiosi più importanti furono costruiti con materiali destinati a durare nel tempo. I palazzi dei re furono invece edificati in legno, così come quasi tutti i monasteri. Quello che oggi rimane non è dunque che una pallida ombra del passato splendore.
La città di Bagan custodisce inoltre la raccolta più imponente di pitture murali del sud-est asiatico, con affreschi datati fra l’XI e il XIV secolo. Secondo gli studiosi, in quel periodo, tutti i templi della città erano riccamente decorati al loro interno e sulle volte, con soggetti didattici che cercavano di spiegare ai fedeli l’essenza della dottrina buddista.

Mandalay e le città del secondo impero
Per i duecento anni che seguirono la caduta di Bagan, la Birmania rimase frammentata nel caos di guerre etniche o tribali. Il secondo impero nacque nel XVI secolo, ma ebbe breve vita. Ad esso seguì un altro periodo confuso. Il terzo impero risale invece alla metà del XVIII secolo e durò fino all’inizio della dominazione coloniale inglese (1824), che occupò a tappe le varie regioni del paese nel giro di una sessantina di anni. Durante il periodo del terzo impero diverse capitali si sono succedute alla guida del paese: Mandalay, Amarapura, Ava, Mingun e Sagaing. Si affacciano tutte sul fiume Ayeyarwadi (lungo più di 2 mila chilometri), distano pochi chilometri una dall’altra e sono oggi praticamente tutte conglobate nella città di Mandalay, secondo centro del paese, con oltre 1 milione di abitanti.
Ogni volta che il re, dopo aver sentito il parere degli astrologi, spostava la sua residenza, il palazzo reale costruito in legno veniva smantellato e riassemblato nella nuova località. Lo stile dell’architettura reale in Myanmar rimase lo stesso per secoli.
Mandalay, con il suo traffico caotico dove le biciclette e le motorette hanno il sopravvento sulle automobili, è turisticamente interessante, ma i suoi dintorni lo sono anche più.
Il luogo più suggestivo è forse costituito da Ava, probabilmente perché distaccata dall’agglomerato urbano: si trova infatti su una sorta di isolotto attorniato dalle acque del fiume principale del paese. La si visita a bordo di sgangheratissmi calessi trainati da bronzini, che si spostano a fatica sulle strade sconnesse e sterrate. Offre due perle. All’interno di Bagaya Kyaung, un monastero ottocentesco fresco e buio, costruito in legno di tek, si respira un’atmosfera assai suggestiva che richiama alla mente tempi lontani. Perfettamente conservato è un altro monastero (Menu) in mattoni, abbandonato nella natura. Sembra che i monaci non vogliano abitarlo per la sua storia tragica e tribolata. Vicinissima ad Ava è la città imperiale di Amarapura, celebre soprattutto per il suo trafficatissimo ponte di 1200 metri considerato il più lungo al mondo realizzato in legno di tek. Un’altra attrattiva di questa antica città reale è il famoso monastero Mahagandayon, che ospita oltre mille monaci. È permesso assistere ai preparativi e al pranzo dei monaci. I turisti accalcati all’entrata impugnano gli apparecchi fotografici per attendere i monaci che entrano ordinatamente nella mensa in fila indiana. Anch’io scatto qualche immagine, ma mi sento fuori posto e mi vergogno di essere turista. Non siamo mica alla fossa degli orsi a Berna o allo zoo per assistere al pasto degli animali…
Una splendida passeggiata di un’ora in barca porta invece a Mingun. Lungo le rive del fiume la vita scorre lentamente. Alcune donne coltivano campi di riso, altre caricano imbarcazioni di sabbia utilizzata per le costruzioni in città, i pescatori vivono in capanne improvvisate. Tutte queste attività vengono cancellate durante la stagione delle piogge quando il livello del fiume sale di due o tre metri. Incrociamo immense zattere di bambù trainate da mezzi a motore. Ci spiegano che il trasporto di questo importante materiale con cui è costruita la maggior parte delle case rurali avviene via fiume.
Giunti a Mingun, come avviene in tutte queste città imperiali, uno stuolo di bellissimi bimbi attende i turisti e insistentemente offre loro oggetti di pessimo gusto.
Il tempio più famoso del luogo, Mingun Paya, è incompleto. Sarebbe stato il più grande del mondo se il re Bodawpaya non fosse morto prima di portarlo a termine. Avrebbe dovuto raggiungere un’altezza di 150 metri, mentre si è fermato a quota 50, ma da lassù la vista sul fiume e su innumerevoli stupa immersi in una vegetazione foltissima è splendida. Lo stesso re megalomane è comunque riuscito a far costruire una campana in bronzo di 90 tonnellate, considerata la più grande ancora in esercizio al mondo.
Dall’altra parte del fiume rispetto a Mandalay è la deliziosa Sagaing, che ospita 700 monasteri. Luogo di residenza di 6 mila fra monaci e monache, sembra sia la città dove si recano i buddisti birmani quando sono stressati. Oggi questa mistica collina, dove da lontano si vede spuntare una miriade di stupa dorati, è nota soprattutto come centro religioso.
Tutte queste città imperiali che ho appena descritto si possono ammirare se il tempo è bello e l’aria tersa dal Mandalay Hill, la splendida collina posta a 230 metri di altezza, da cui si domina la piattissima pianura sottostante solcata dal fiume Ayeyarwadi.
Il gioiello di Mandalay era costituito dalla cittadella reale che ospitava oltre un centinaio di palazzi, circondata per 3 chilometri da un’immensa cinta muraria alta 8 metri e protetta da un fossato largo 70 metri. Nel marzo del 1945, durante un violento combattimento fra le truppe anglo-indiane e le forze giapponesi, i palazzi reali hanno preso fuoco e sono andati quasi completamente distrutti. Oggi si visita la discutibile ricostruzione di uno di questi palazzi, quello del penultimo re birmano Shwe Nan Daw, mentre la cittadella è chiusa ai turisti perché abitata dai nefasti generali della giunta miliatare.
In questa regione vive il 60 per cento dei monaci di tutto il paese e in effetti Mandalay è famosa per due monumenti buddisti di grande significato. Il primo è Mahamuni Paya, uno dei siti religiosi più importanti del paese per la sua statua del Buddha alta 4 metri. Realizzata in bronzo, nel corso degli anni migliaia e migliaia di devoti l’hanno quasi sfigurata ricoprendola di foglie d’oro, che formano uno strato spesso 15 centimetri. Come a tutti i monumenti principali del paese, vi si accede da un lungo corridoio coperto, ai lati del quale è allineata una miriade di bancarelle che propongono ai pellegrini oggetti da offrire ai monaci. Durante la nostra visita questo monumento era affollatissimo, anche per l’arrivo di un generale della famigerata giunta militare, seguito da telecamere e microfoni.
Frequentatissima dai pellegrini a Mandalay è anche la Kuthodaw Paya, secondo monumento mistico di grande importanza, spesso definita il libro più grande al mondo. Attorno allo stupa principale sono state disposte 729 lastre di marmo, ciascuna conservata in un piccolo stupa, sulle quali sono incisi i testi dei 15 libri che compongono il Tripitaka, le scritture buddiste classiche.

Birmania – Un lago, un mondo

Birmania – In fuga lontano dalla globalizzazione
Birmania – Un passo nella storia
Birmania – Birmania, dilemma etico per il turista
Birmania – Un paese sospeso tra storia e futuro

A 900 metri di altitudine, sul lago Inle di una bellezza incomparabile. Una società fluttuante, dove la canoa non solo è un mezzo di trasporto, ma diventa anche spazio sociale. Un viaggio con Kel12 nelle tradizioni, nel credo, nei mercati e nell’artigianato di una società dove il tempo sembra essersi fermato.

Arriviamo al lago Inle all’ora del tramonto, dopo un breve spostamento in aereo. Una barca lunga e stretta, che sarà il nostro mezzo di trasporto per i prossimi giorni, ci sta aspettando per portarci all’albergo. Il sole sta per tramontare e i cielo assume tutte le sfumature dal rosso all’arancione, che si specchiano sull’acqua ferma. I contadini sulle loro barche piatte stanno remando per tornare dagli orti galleggianti alle loro case a palafitta nei villaggi. Qualche pescatore si attarda. La sua immagine allungata si riflette sulla superficie dell’acqua. Sembra un paesaggio irreale. È questa la prima immagine di questo lago, che è un mondo a sé. Siamo arrivati al nostro splendido albergo, che si affaccia sulla riva ed è gestito da un francese.
Situato a circa 900 metri di altezza e delimitato da due catene montuose il lago Inle, di una bellezza incomparabile, è lungo solo 22 chilometri e largo 11, ma da esso si dirama una vastissima ragnatela di canali navigabili. È famoso per il suo stile di vita. Una società fluttuante, dove la canoa non solo è mezzo di trasporto, ma diventa anche spazio sociale. La popolazione vive di agricoltura, di artigianato e di pesca. In birmano “in” significa lago, mentre “le” vuol dire quattro. In effetti i primi documenti risalenti al 1637 parlano di quattro villaggi. Oggi sulle rive se ne affacciano diciassette, abitati complessivamente da 70 mila persone. Ma l’intera regione, compreso chi abita sulla terraferma ma vive del lago, ne conta 130 mila.
Secondo la leggenda, nel 1359 due fratelli originari di Dawei nel sud del paese arrivarono in questa regione per lavorare al servizio di un cosiddetto “sao pha”, che significa “signore del cielo”, il titolo ereditario assegnato ai capi Shan. Fu talmente soddisfatto del duro lavoro e del comportamento dei due che chiese loro di far giungere altre trentasei famiglie da Dawei: tutti gli Intha, la principale etnia che popola le rive di queste acque, sarebbero loro discendenti. Gli Intha sono in effetti grandi lavoratori, conosciuti per la loro originale tecnica di remata, che consiste nell’utilizzare piccole imbarcazioni piatte, sospinte da un remo su cui si fa pressione con la gamba, avvantaggiandosi di una leva simile alla forca veneziana. La superficie del lago è in continua evoluzione a causa dei famosi orti galleggianti, fissati al fondo – la profondità oscilla tra due e tre metri – con un palo di bambù. Le isole e le penisole che si vengono così a formare sono collegate da una rete di canali che costituiscono le principali vie di trasporto e permettono di navigare per ore senza percorrere mai lo stesso tragitto.

Tutta la vita attorno al lago
Il mattino alle 8 la nostra barca ci attende per una splendida gita, che in tre ore lungo canali navigabili ci porterà verso sud, al villaggio di Sagar. È aperto al turismo da pochi anni, da quando il governo ha concesso uno statuto speciale alla tribù dei Pa O, di etnia Shan, che abita Sagar, ma vive soprattutto sulle montagne ed è famosa per il suo aglio, che sembra sia il migliore del paese. Per visitare il villaggio bisogna essere accompagnati da una loro guida. La tribù dei Pa O conta circa 500 mila persone e sembra bene organizzata, perché possiede un albergo e un ristorante sul lago e richiede un pedaggio a chi visita Sagar. Con queste entrate finanziano opere sociali.
La gita è particolarmente interessante per capire come queste popolazioni riescano a vivere sull’acqua. Siccome il lago è poco profondo ed è colmo di alghe, la nostra barca è dotata di un motore a scoppio con una strana elica che non affonda, ma gira a filo d’acqua causando uno spruzzo a forma di arco. Attraversiamo diversi pittoreschi villaggi con le case a palafitta. La gente vive sulle rive del lago e dei canali: i bimbi giocano con l’acqua, le donne lavano i panni, molti si lavano, altri coltivano i loro orti galleggianti a bordo delle canoe o trasportano merce, altri ancora pescano. Il paesaggio è verdissimo e cambia continuamente prospettiva. Lungo un canale incontriamo addirittura due bufali che nuotano. Finalmente arriviamo a Sagar, dove il mercato sta per chiudere. Gli abitanti ci accolgono con la consueta gentilezza, ci mostrano le loro case e ci offrono banane. La abitazioni hanno la struttura in canna di bambù e le pareti e i tetti in paglia o fogliame. Sono molto simili a quelle che abbiamo visto sulle montagne. Sulla riva visitiamo alcuni suggestivi stupa abbandonati (monumenti religiosi a forma di cono), che si specchiano nelle acque del canale. Le rare statue di Buddha sono naif e hanno uno sguardo meno dolce del solito.
Sulla via del ritorno notiamo diversi pescatori all’opera. Su minuscole canoe trasportano enormi ceste a forma di cono con un telaio in bambù avvolto da reti. Le posano sul fondo del lago rovesciate e piantano un palo di bambù per sapere dove si trovano. Quindi si spostano attorno e sbattono violentemente il remo della canoa sull’acqua per spaventare i pesci e orientarli verso la rete. Sembra che nel lago Inle ne vivano venticinque specie. Il nostro barcaiolo si avvicina alla canoa di un pescatore che ci mostra orgoglioso il suo bottino custodito sul fondo dell’imbarcazione.

Gli orti galleggianti
Siamo rimasti sul lago altri due giorni per visitare i mercati, i villaggi specializzati nell’artigianato, i luoghi di culto. Ogni giorno ci colpiva l’enorme diffusione degli orti galleggianti. Gli studiosi affermano che se si va avanti di questo passo nel giro di alcuni secoli il lago scomparirà. Creare un orto galleggiante è faticoso, ma relativamente semplice. Le piante di giacinto che crescono spontaneamente sul lago hanno infatti la proprietà di costituire piccole isole. Si tratta di staccare con grande fatica uno di questi isolotti, di trascinarlo con la canoa dove si desidera, di fissarlo con pali di bambù al fondo del lago (altrimenti fluttua e se ne va) e di ricoprirlo di alghe di cui il lago è colmo, che rendono il “terreno” fertilissimo. Questi isolotti vengono allineati in filari tra i quali i contadini entrano con le loro canoe strette e piatte. Oggi si coltivano soprattutto pomodori (ma anche fiori, frutta e altri ortaggi) che maturano ben tre volte all’anno. Quelli del primo raccolto sono di piccole dimensioni e vengono pertanto consumati localmente, ma i successivi vengono distribuiti in tutto il paese e coprono il 60 per cento del fabbisogno.

Buddha deformati dalla devozione
Le cinque statue di Buddha conservate nel tempio Phaung Daw Oo, che si affaccia sul lago, sono tra le più venerate in Myanmar. La devozione dei fedeli le ha addirittura sfigurate. In Birmania vige infatti l’usanza da parte dei pellegrini di applicare alle statue del Buddha sottilissimi lamine d’oro, che si acquistano in bustine (simili a quelle delle nostre figurine) nei luoghi di culto. Ebbene a furia di ricevere foglie d’oro queste cinque statue sono ormai sfigurate e non hanno più la parvenza del Buddha. Ogni anno, tra settembre e ottobre, quattro delle cinque statue vengono trasportate sul lago a bordo di una stupenda imbarcazione, seguita da centinaia di canoe di fedeli in festa, e accompagnate nei vari villaggi, dove trascorrono una notte di grande festa. La quinta statua, a partire dagli anni Settanta, non viene più spostata. Sembra che durante una tempesta la barca che trasportava le cinque statue si rovesciò: quattro furono ripescate, la quinta non fu ritrovata perché si trovava già al suo posto cosparsa di alghe. Da allora non viene più rimossa.
Il monastero Nag Phe Kyaung è noto per i suoi gatti saltatori, ma custodisce una splendida collezione di statue del Buddha realizzate in vari stili e in diverse epoche. I maligni sostengono che qualche volta anche i monaci buddisti si annoiano. Qualcuno di loro si è allora dedicato ad ammaestrare gatti, che sollecitati saltano dentro un cerchio, come fanno le tigri e i leoni al circo.
Un altro luogo mistico di grande fascino è Shwe Inn Thein, uno straordinario complesso di stupa del XVII secolo costruiti su una collina che purtroppo sono stati danneggiati dall’azione degli elementi naturali, ma finora non ancora sottoposti a restauro. Ed è proprio questo stato di abbandono a conferire a quel luogo un’atmosfera magica e di pace. Al sito si giunge percorrendo un cammino coperto sotto un colonnato lungo quasi due chilometri, che collega il luogo sacro al paese. Purtroppo il turismo ne ha in parte snaturato la magia, perché lungo il corridoio si allineano bancarelle che vendono chincaglierie di cattivo gusto. E dire che l’artigianato di qualità in questo paese non manca!

Un artigianato di qualità
In Myanmar in generale e al lago Inle in particolare si può ancora trovare un artigianato di elevata qualità, accanto a chincaglierie di cattivo gusto prodotte per turisti frettolosi. In questo paese l’industrializzazione non si è espansa al di fuori dei centri principali, per cui si costruiscono ancora molti oggetti artigianalmente e si sono conservate abilità manuali andate perse ormai quasi ovunque. I prodotti artigianali più preziosi del lago Inle sono certamente i tessuti ottenuti filando la fibra contenuta nel fusto del fior di loto. È l’unico posto al mondo dove avviene questa lavorazione, che richiede tempi lunghissimi. Ma qui la mano d’opera costa poco, troppo poco: una tessitrice non arriva a guadagnare 100 dollari al mese. Quasi in ogni casa è presente un telaio. Al lago Inle, come ad Amarapura, la città imperiale vicino a Mandalay si tesse il filato di seta proveniente dalla Cina, ottenendo stoffe di elevatissimo pregio. In altre parti del Myanmar, anche sulle montagne vengono invece prodotti teli variopinti in cotone con soggetti tradizionali di grande bellezza. I più belli si acquistano sul luogo di produzione.
Sul lago Inle esistono anche centri di lavorazione dell’argento, di produzione della carta fatta a mano e dei sigari con le foglie di tabacco coltivato negli orti.
Lungo una strada di Mandalay, alcune centinaia di chilometri a sud rispetto al lago Inle, un’intera via è dedicata agli atélier dove si lavora il marmo e si producono soprattutto Buddha di dubbio gusto. Bagan, la città che ospitò il primo impero birmano tra l’XI e il XIII secolo è invece famosa per i suoi preziosi oggetti in lacca, la cui lavorazione richiede alcuni mesi.

Una terra di mercati
Non puoi conoscere un paese senza visitare i suoi mercati. E questo vale soprattutto per una nazione poco industrializzata come il Myanmar. Il mercato forse più interessante e pittoresco che abbiamo visitato durante il viaggio è quello del villaggio di Nan Pan, il più grande che si tiene sulle rive del lago Inle, dove ogni giorno della settimana cambiano le sedi dei mercati. In questo luogo affluisce sia la gente che viene dal lago, sia quella che scende dalle vicine montagne. L’afflusso dalla riva è caotico perché le imbarcazioni sono moltissime ed è quasi impossibile ormeggiare. Una volta a terra il mercato è enorme e vi si trova di tutto. La parte dedicata ai turisti è per fortuna molto ristretta. Tutto il resto è per gli indigeni. Il più variopinto è il settore ortofrutticolo. È incredibile la varietà dei prodotti alimentari. Qui si utilizza tutto di tutto. Non si butta via niente. Lo abbiamo notato in tutti i mercati durante il viaggio. May, la nostra graziosa guida, che è anche una buongustaia, ci mostra tutti i cibi e ci spiega come si cucinano.
Praticamente ogni giorno durante il nostro itinerario in Myanmar abbiamo visitato mercati. I più interessanti sono quelli a cui affluiscono i contadini da varie parte della regione, come accade al lago Inle, ma anche a Kyaing Tong nel nord-est e a Bagan. Notissimo è anche il mercato di Yangon, dove si trova di tutto, ma non il fascino della campagna.

Uzbekistan – La via della seta

Uzbekistan – Lungo la mitica via della seta

Sulle orme delle antiche carovane, tra oasi e steppe desertiche, un suggestivo itinerario in Uzbekistan, sospesi a metà strada tra la Cina e l’Occidente.

Il nostro itinerario nell’Asia centrale, in Uzbekistan, organizzato dall’agenzia turistica Kel12 di Milano, si snoda lungo la mitica “Via della seta” e ha come mete principali le città di Bukhara e di Samarcanda, che rappresentavano nell’antichità strategici punti di sosta a metà del percorso tra la Cina e l’Occidente. Lungo il tragitto sorsero così numerosi caravanserragli che offrivano alloggio, stalle e magazzini alle carovane e che diedero vita a un’attività commerciale senza precedenti. La “Via della seta” non si sviluppò mai lungo un unico percorso, ma era costituita da una fragile rete di itinerari carovanieri intercontinentali. Le città che si trovavano lungo questi tragitti conobbero un grande sviluppo. Le devastazioni e i disordini provocati da Gengis Khan e da Tamerlano, che incontreremo più volte lungo il nostro itinerario, resero sempre più insicure queste vie e portarono come conseguenza alla crisi economica della regione. L’ultimo e definitivo colpo inferto all’ormai agonizzante “Via della seta” fu poi rappresentato dall’apertura delle rotte commerciali marittime tra Europa e Asia, che rendevano superflue le fatiche delle carovane. Si concludeva così un capitolo fondamentale nella storia dell’umanità: per la prima volta infatti, attraverso questi itinerari, si era sviluppato un interscambio di idee, tecnologie e convinzioni religiose, grazie ai contatti tra realtà culturali estremamente diverse.
Il diario di viaggio che segue si sofferma sulle tappe principali di un itinerario, effettuato in torpedone, che percorre tutto l’Uzbekistan, passando da un’oasi all’altra e attraversando l’inospitale steppa che separa alcune perle dell’Islam come Khiva, Bukhara e Samarcanda.

Khiva, città-museo 
La nostra visita all’Uzbekistan inizia da Khiva, venerdì 24 ottobre. Il 23 siamo volati da Roma a Tashkent, la capitale del paese, che dista sei ore di aereo. Giungiamo in serata a causa del fuso orario (5 ore). Il tempo per un breve sonno e il mattino di buonora ripartiamo in volo in direzione ovest per Urgench, da dove in mezz’ora di torpedone raggiungiamo la città-museo di Khiva, diventata tale nel corso di un programma di conservazione sovietico.
La prima immagine è quella delle sue pittoresche mura di fango lunghe due chilometri e mezzo, che circondano tutto il centro storico. Il nostro albergo (hotel Asia Khiva), situato davanti alla porta principale, è una struttura nuova con camere più che dignitose. Preso possesso della camera partiamo a piedi per la visita della città. Tutti i monumenti sono a portata di mano. Si respira un’atmosfera orientale: minareti, moschee dalle cupole verdi, palazzi dei visir, madrasse e naturalmente il mercato.
La nostra visita inizia proprio dal souk, che caratterizzò questa città nel corso della storia per un fiorente mercato degli schiavi durato più di tre secoli, fino al 1873. Era il più grande dell’Asia centrale. Nelle pareti sono ancora visibili le nicchie dove venivano esposti gli sventurati in vendita. Il souk attuale è animato soprattutto da gente del posto. Di turisti se ne vedono pochi. La merce esposta, destinata soprattutto agli indigeni, è molto variopinta, di cattivo gusto e dominata dai materiali sintetici. Non c’è traccia del ricco artigianato di un tempo. Non si vende seta, nonostante questa città si trovasse anticamente proprio sulla “Via della seta”, e nemmeno cotone, sebbene qui attorno tutti vivano della coltura del cotone. Regnano i tessuti sintetici: persino i fiori sono di plastica. Come spesso accade, la parte più bella del souk è quella dedicata alla frutta, alla verdura e alle spezie. Per la prima volta vedo alcune bancarelle vendere solo pasta: di ogni tipo e di ogni forma.
Khiva fu distrutta nel 1740 dai Persiani e in seguito ricostruita. La maggior parte dei suoi monumenti risale pertanto al XVIII secolo. La città, storicamente, era tristemente nota per la ferocia dei suoi regnanti, di cui si visitano due fastosi palazzi decorati con magnifiche ceramiche. Come spiega la nota viaggiatrice ginevrina Ella Maillart (“Vagabonda in Turkmenistan”, Torino 2002) “per il mongolo nomade il lusso consisteva nell’applicare parati e tessuti ricamati alle pareti della sua tenda. Quando fissò la sua dimora volle che i suoi palazzi e le sue moschee gli restituissero con le loro decorazioni di ceramica la stessa sensazione”. Ma a questa raffinatezza si accompagnava nei visir di Khiva una ferocia incredibile. Arminius Vambéry, un viaggiatore ungherese dell’Ottocento, racconta di aver assistito nel 1863 all’esecuzione di trecento prigionieri impiccati o decapitati. “I loro capi con i capelli grigi erano invece distesi a terra in attesa di essere ammanettati, quando il boia si inginocchiò sui loro petti e cavò loro gli occhi, pulendo il coltello insanguinato sulle loro barbe. Tentarono di rialzarsi, ma sbatterono alla cieca gli uni contro gli altri e crollarono al suolo agonizzanti”.
Questi truci racconti non si conciliano con il mio stato d’animo mentre visito questa città dall’atmosfera quasi ibernata, che ti fa sentire ai margini del mondo. La sua architettura è armoniosa. Il colore delle costruzioni, così come quello delle mura costruite in mattoni di argilla e paglia, è quello della terra e si mimetizza perfettamente con il paesaggio mettendo in risalto i verdi e i blu delle smaglianti maioliche. Queste immagini mi rimarranno impresse nella memoria per la loro diversità, per l’armonia e per le tinte dolci soprattutto al momento del tramonto.

Bukhara città sacra 
Lunga trasferta in torpedone da Khiva a Bukhara, la città sacra. La strada percorre una zona desertica e disabitata lungo il confine con il Turkmenistan. La steppa è monotona e il viaggio dura quasi una giornata. Ben si può capire quanto fosse irraggiungibile questa città per gli eserciti che la volevano conquistare. Molti perdettero la maggior parte dei loro soldati e dei cammelli in queste steppe inospitali. Sabato in serata giungiamo a Bukhara, che “per più di mille anni – come osserva Tiziano Terzani (“Buona notte signor Lenin, Milano 1992) – nel mondo mussulmano fu considerata equivalente alla Mecca come importante centro di studi, per lo splendore delle sue moschee e il livello intellettuale delle sue madrasse, le scuole coraniche”. Tanto che gli storici arabi la definirono “il paradiso del mondo”. Ci si può bene immaginare come dovessero rimanere incantati i carovanieri che percorrevano la “Via della seta”, quando dopo giorni di lunga e monotona marcia percorsi nella steppa giungevano all’ombra dei sontuosi monumenti di questa città sacra.
Anche qui come a Khiva gli emiri erano sanguinari. Esisteva una prigione, il cosiddetto “pozzo degli scarafaggi”, dove venivano allevati insetti che scarnificavano i prigionieri. Un colonnello britannico vi passò alcuni mesi prima di essere giustiziato per essere entrato a cavallo nell’Ark, la città regale, dove solo l’emiro poteva cavalcare. L’Ark era una città nella città, abitata dal quinto secolo fino a quando Bukhara cadde in mano all’Armata Rossa. La sua visita è di grande interesse, così come il famosissimo minareto Kalon, uno dei simboli della città. Si narra che Gengis Khan, quando nel 1220 espugnò e distrusse Bukhara al grido “Io sono il castigo di Dio per i vostri peccati”, rimase talmente esterrefatto alla vista di questo monumento che ordinò di risparmiarlo. È giunto fino a noi ben conservato con le sue quattordici fasce decorative, diverse l’una dall’altra, a testimonianza del primo utilizzo delle lucenti piastrelle blu che si diffusero in tutta l’Asia centrale sotto Tamerlano. Ai tempi dell’emiro i condannati a morte venivano messi in un sacco e lanciati dal minareto alto 47 metri, soprannominato dai bolscevichi “Torre della morte”. Tiziano Terzani fa notare come gli abitanti di Bukhara, nonostante il dispotismo degli emiri, parlino oggi di quell’epoca come di tempi d’oro. “La Bukhara mussulmana – osserva Colin Thurbon (“Il cuore perduto dell’Asia”, Milano 1994) – era cinta da 12 chilometri di mura e di porte fortificate e le sue moschee e medresse erano innumerevoli. I bukharioti erano considerati gli abitanti più distinti e civilizzati dell’Asia centrale. I loro modi e il loro abbigliamento divennero un parametro dell’eleganza orientale…Tutto questo splendore – prosegue lo studioso inglese – nascondeva però a malapena l’intimo squallore… Chi faceva il bagno o beveva nelle piscine pubbliche contraeva la ributtante filaria della Medina, che soltanto un barbiere esperto era in grado di estrarre dalla carne incidendo la pelle con una lama e attorcigliando il verme – a volte lungo più di un metro – su un ramoscello”.
Un altro edificio di rara bellezza giunto dal X secolo fino a noi è il mausoleo di Ismail Samani: “uno degli edifici più eleganti dell’Asia centrale – secondo la guida turistica Lonely Planet – che cambia gradualmente ‘carattere’ nel corso della giornata man mano che mutano le ombre”. L’abile intreccio dei mattoni in terracotta presenta una sorta di affascinante ricamo, che alleggerisce questo sobrio monumento, giunto fino a noi grazie a un espediente dei bukharioti. “Quando gli abitanti videro gli invasori mongoli bruciare e distruggere tutta la città – spiega ancora Tiziano Terzani – corsero al mausoleo di Samani e seppellirono l’intera costruzione sotto una collina di terra perché gli uomini di Gengis Khan non la vedessero”.
Nella piazza Lyabi-Hauz, costruita nel 1620 attorno a una vasca, all’ombra di gelsi antichissimi, abbiamo gustato ottimi spiedini al grill, una specialità del luogo. Ma Bukhara è famosa in tutto il mondo anche per i suoi tappeti, che costituiscono per noi il modello classico della nostra idea di “tappeto orientale”. Eseguito su fondo rosso di tutte le tonalità, propone una composizione costituita da un susseguirsi di forme essenziali, rigorosamente geometriche: ottagoni tagliati diagonalmente da un disegno bianco e nero sempre uguale.