Tibet – Un viaggio sul tetto del mondo sfiorando le nuvole con le dita
Cina – Un mondo svelato dalla Via della Seta
Cina – La Cina immaginata e quella della realtà
“Le mie camminate, i miei viaggi sono stati e sono ancora oggi, in fondo, una fuga: non la fuga da sé stessi, l’eterna fuga dell’interiorità verso l’esterno, ma proprio il contrario: un tentativo di fuga da questo tempo della tecnica e del denaro, della guerra e dell’avidità, da un tempo che pretende avere splendore e grandezza, ma che la parte migliore di me non può né accettare né amare, al massimo sopportare”. Questa riflessione dello scrittore tedesco Hermann Hesse può essere una buona introduzione per un viaggio alla scoperta della cultura tibetana, storicamente portata a prediligere l’essere all’avere, ma duramente minacciata dall’ “occupazione” cinese, che allo spiritualismo del Dalai Lama contrappone il suo materialismo.
Prosegue, dunque, con la parentesi tibetana, il mio diario di un viaggio di approccio alla Cina e al Tibet. Senza nessuna presunzione di dire cose nuove, propongo unicamente alcune sensazioni e riflessioni politiche ispirate dal viaggio.
Giungendo in Tibet avete la netta impressione di trovarvi in un paese occupato. I militari cinesi, che invasero il paese nel 1950 all’indomani dell’ascesa al potere di Mao in Cina, si trovano ovunque. Alla fine di febbraio, pochi giorni prima del capodanno tibetano, quando si è svolta la nostra visita, i turisti erano pochissimi e a partire dal primo marzo l’ingresso al paese era vietato agli stranieri, perché si temevano manifestazioni di protesta contro gli occupanti. Il clima era gelido in tutti i sensi, ma i monasteri agibili erano frequentati da moltissimi contadini impossibilitati a coltivare le terre proprio a causa del gelo. La potente Cina, immersa nel pragmatismo dopo aver perso la sua fede nel comunismo, si trova in difficoltà a gestire la profonda religiosità di questo popolo, che non potrà certo sconfiggere con la forza. Sta tentando di risolvere il problema “cinesizzando” il Tibet, con una politica che premia la migrazione verso il cosiddetto tetto del mondo nell’intento – sostengono – di “modernizzarlo”. Ed i tibetani sono già diventati una minoranza in casa propria. Anche la costruzione della modernissima ferrovia che collega il Paese delle Nevi alla Cina è considerata dal Dalai Lama in esilio come un importante strumento di questa politica di cinesizzazione, mentre il presidente Hu Jintao l’ha trionfalmente presentata come un importante tassello per consolidare l’unità nazionale. D’altra parte la Cina sta cercando di museizzare i principali monasteri, considerati turisticamente interessanti ma pericolosi se favoriscono la religiosità locale non controllata. Sembra provocatorio che i pellegrini debbano addirittura pagare il biglietto d’entrata per recarsi a pregare. Dopo la morte di Mao, comunque, l’esercizio del culto non è più proibito. La politica cinese nei confronti del Tibet, non a caso è stata denominata “genocidio culturale” da diversi studiosi occidentali.
Questa politica di cinesizzazione ha invaso anche la sfera religiosa tentando di controllarla. Dopo la morte, nel 1989, del decimo Panchen Lama, che deteneva una carica considerata al secondo posto nella gerarchia delle autorità spirituali tibetane, toccava al Dalai Lama in esilio identificare la reincarnazione del prossimo Panchen Lama. Così vuole la tradizione. Nel 1995 lo ha individuato in un bambino di sei anni: Gedhun Choeky Nyima. Nel giro di un mese le autorità cinesi lo hanno fatto sparire “per proteggerlo” e di lui – considerato il più giovane prigioniero politico al mondo – si sa solo che è ancora vivo, ma non dove si trovi. Il governo di Pechino ha chiesto in seguito ai Lama anziani del monastero di Tashilhhunpo di effettuare una nuova nomina gradita al governo. È stato scelto un figlio di genitori iscritti al Partito comunista. Una mossa importante per i cinesi, perché alla morte dell’attuale Dalai Lama spetterà al Panchen Lama in carica l’identificazione del successore.