Ungheria – Le città e i villaggi, la corona di Budapest

Ungheria – In campagna tra chiese e castelli
Slovacchia – Con Bratislava amore a prima vista

Il percorso proposto esclude la capitale, alla scoperta di quella che potremmo chiamare l’altra Ungheria, una destinazione poco gettonata dal turismo internazionale, ma forse per questo particolarmente interessante.

Budapest, come Londra per la Gran Bretagna o Parigi per la Francia, è il fulcro attorno a cui ruota la vita dell’Ungheria. È una splendida città, meta ideale per un fine settimana prolungato. L’itinerario che vi propongo si articola escludendo la capitale, alla scoperta di quella che potremmo chiamare l’altra Ungheria. Si tratta di una destinazione solitamente poco gettonata e forse proprio per questo interessante. Durante il nostro soggiorno abbiamo incontrato molti turisti locali, ma pochi che venivano dall’estero. Salvo quando ci si avvicinava a Budapest, come a Visegrad o Szentendre. Certo, se non siete mai stati nella capitale, sarebbe davvero un peccato non dedicarle alcuni giorni, ma tenete conto che è facilmente raggiungibile, sia in aereo, sia via Danubio da Praga e da Vienna.
Il percorso qui descritto è facilmente praticabile partendo da casa con la propria vettura, perché per raggiungere la frontiera ungherese non occorrono più di sette ore passando per il Friuli. Non si vedono cose eccezionali, ma si trascorre una piacevole settimana visitando simpatiche cittadine e villaggi, castelli ricchi di tradizione e monumenti religiosi antichi quanto la storia di questo paese.

Quattro cittadine e la dominazione turca
Tra le città e cittadine visitate durante questo itinerario nell’altra Ungheria, cioè oltre Budapest, quella che più mi ha affascinato è senz’altro Sopron, incuneata all’interno del territorio austriaco. In effetti il Trattato del Trianon, con cui gli Alleati vittoriosi nel 1920 dopo la prima guerra mondiale ridisegnarono a Versailles l’Europa, assegnava questa cittadina all’Austria. Un anno più tardi i suoi abitanti chiamati alle urne optarono però risolutamente per ritornare ungheresi. Per celebrare questo avvenimento sulla piazza principale del centro storico si erge la Porta della Lealtà con una decorazione che mostra l’Ungheria circondata da cittadini inginocchiati e lo stemma di Sopron che da allora include il titolo di “Civitas Fidelissima”. Gli Austriaci vi si recano per fare acquisti, per cenare nei numerosi ristoranti e per le cure odontoiatriche: ci sono studi dentistici ovunque! Per noi turisti, invece, Sopron con i suoi 115 monumenti e 240 edifici antichi, può essere considerata a giusta ragione “la città più storica dell’Ungheria”. Non essendo mai stata devastata dai Mongoli o dai Turchi, il centro storico ha infatti conservato il suo impianto medievale con una commistione di gotico e barocco. La seconda guerra mondiale ha provocato gravi danni, ma la città antica è stata restaurata con molto garbo. Circondato dai quartieri moderni il centro storico è costruito a ferro di cavallo attorno alla piazza principale (Fö Ter). Si articola su quattro vie pavimentate a grossi ciottoli e fiancheggiate da abitazioni dipinte con colori pastello. Passeggiando per le strette viuzze pedonalizzate, sia di notte come di giorno, si ha l’impressione di tornare indietro nel tempo.
Un’altra cittadina molto caratteristica e affascinante è Szentendre. Appare come un villaggio romantico che si estende sulla riva destra del Danubio a 19 chilometri da Budapest. Numerosi artisti hanno trovato in questi luoghi una fonte di ispirazione. La “Montmartre del Danubio” – così l’ha definita Claudio Magris – si presenta come un delizioso complesso di case dai colori autunnali, con giardini segreti e vicoletti che si snodano fino alle chiese in cima alle colline. Accanto a luoghi di culto cattolici se ne trovano anche di ortodossi, eretti da cittadini serbi che erano riparati qui nel lontano ‘600 quando i Turchi avevano invaso il loro paese.
Sebbene sia considerata da molti come la più bella città d’Ungheria, dopo la capitale, sono rimasto invece parzialmente deluso da Pecs, che si trova a sud del paese. La sfortuna ha voluto che la visitassi di lunedì, giorno in cui i suoi numerosi e interessanti musei sono chiusi. In particolare mi sono perso il Csontvary Muzeum, dedicato alle opere dell’omonimo grande artista nato nel 1853, lo stesso anno di Van Gogh, con cui non ha avuto in comune solo la data di nascita, ma anche un’esistenza altrettanto tragica. Apprezzato in Francia, ma non nel suo paese, oppresso da una personalità instabile e ossessiva che sconfinava nella malattia mentale, morì a Budapest solo e senza un soldo. La sua opera, messa all’asta dai parenti, venne acquistata quasi in blocco da un giovane architetto, che ne riconobbe la genialità. Picasso, scoprendo questo artista in occasione di una mostra a Parigi, affermò con poca modestia: “Non sapevo, che oltre a me, ci fosse un altro grande pittore in questo secolo”.
Situata in un avallamento e protetta dai venti, questa città dal clima mediterraneo è famosa, oltre che per la cultura (di cui fu eletta capitale europea nel 2010), anche per i suoi vini. Buona parte del centro storico è pedonalizzato e passeggiare è piacevole. Molto suggestiva la piazza dove sorge la cattedrale e quella che ospita il Belvarosi Templon: un’antica moschea costruita verso il 1580 dai Turchi utilizzando le pietre recuperate dalla demolizione di una chiesa cattolica medievale. Alla partenza dei Saraceni, quest’edificio è stato trasformato in chiesa cattolica, dopo aver abbattuto il minareto. Un episodio che bene esprime il trauma vissuto da questo paese durante la dominazione turca.
Anche Eger, una cittadina situata nel nord-est del paese, ha una storia legata al periodo dell’occupazione ottomana. Condotti da Istvan Dobo, un eroe nazionale, 2000 soldati nel 1552 resistettero per un mese a un esercito di oltre 100 mila Turchi. La leggenda narra che il comandante ungherese sostenne le truppe sfinite grazie ai poteri magici di un vino locale. Siccome i soldati non si asciugavano educatamente la bocca, i Turchi pensarono che bevessero sangue di toro. A quel punto gli invasori abbandonarono impauriti il campo e il vino locale assunse il nome di Bikaver, cioè sangue di toro. Aneddoti a parte, la cittadina, dominata da un imponente castello molto ricostruito, è piuttosto deludente, salvo una piazza e alcune belle vie che salgono al maniero, affiancate da costruzioni antiche.

Due villaggi rurali molto diversi fra loro
Kozeg, annidata sulle alture subalpine lungo il confine austriaco, propone uno dei centri storici più belli d’Ungheria. È una Sopron in miniatura, sia per la sua posizione, sia per la sua bellezza. Le sue case barocche e l’ambiente riflettono secoli di influenza austriaca e tedesca, quando era chiamata Güns. Come Sopron è disposta a ferro di cavallo e si articola su poche arterie principali collegate da stradine su cui si affacciano case e palazzi antichi dai colori tenui. Come Eger è famosa per la sua eroica resistenza ai Turchi durante l’assedio del 1532: per un mese il sultano Solimano, diretto a Vienna con 100 mila soldati, fu tenuto in scacco da 400 combattenti guidati dal capitano Miklos Jurisics. Dopo diciannove assalti il sultano abbandonò la campagna fino all’anno successivo, quando Vienna era ormai pronta a difendersi.
Di natura completamente diversa è invece lo splendido villaggio di Hollokö, considerato il più bello d’Ungheria e dichiarato patrimonio dell’Umanità dall’Unesco. Situato su un’altura in mezzo a un paesaggio cosparso di vigneti, pur essendo realmente abitato assomiglia a un museo etnografico all’aperto. È una sorta di Corippo ungherese. Molte delle sue case sono state adibite a museo, altre sono state acquistate da intellettuali della capitale per salvare questo luogo più volte distrutto da incendi, ma sempre ricostruito con le tecniche antiche, salvo i tetti che nel passato erano in paglia. Le strutture portanti delle case sono in legno e gli interni sono decorati come una volta. Isolato dalle aree di sviluppo economico – l’acqua e l’elettricità sono giunte qui solo nel 1959 – il villaggio è stato protetto dalle trasformazioni e può vantare oggi un aspetto quasi incontaminato. Era abitato da una minoranza etnica di origine slovacca chiamata Paloc, per la quale la gerarchia familiare era molto importante e si esprimeva anche nell’ubicazione delle abitazioni. La prima casa di una famiglia, dove abitava il ramo più anziano, era collocata sul bordo di una delle due strade principali su cui si articola il villaggio. I discendenti costruivano in seguito le loro case sulla stessa parcella, che si estendeva perpendicolarmente alla strada.

Itinerario
Locarno – Kutas (921 km)
Kutas – Pecs – Kutas (200 km)
Kutas – Gödöllo – Eger /365 km)
Eger – Belapatfalva – Szilvasvarad – Lillafüred (50 km)
Lillafüred – Eger – Hollöko – Szentendre – Visegrad (245 km)
Visegrad – Esztergom – Pannonhalma – Bratislava (215 km)
Bratislava – Fertörakos – Sopron (85 km)
Sopron – Fertöd – Köszeg – Tatzmannsdorf (105 km)
Tatzmannsdorf – Locarno (Via Udine) (874 km)

Bibliografia
Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia Le Guide Routard, Milano 2008
Ungheria Touring Editore, Milano 2011
Ungheria Le Guide Mondadori, Milano 2009
Budapest e l’Ungheria La Guida verde Michelin, Milano 2009
Ungheria The Rough Guide, Vallardi, Milano 2007
Ungheria Lonely Planet, Torino 2009
Slovacchia Touring Editore, Milano 2010
Bratislava Morellini Editore, Milano 2009

Slovacchia – Con Bratislava amore a prima vista

Ungheria – Le città e i villaggi, la corona di Budapest
Ungheria – In campagna tra chiese e castelli

Sono arrivato a Bratislava in Slovacchia una calda sera di tarda estate ed è stato amore a prima vista. È una di quelle città che ti affascinano: pur non possedendo monumenti di eccezionale valore, è vivace, offre un gradevole centro pedonalizzato ricco di storia e di magnifiche bellezze architettoniche, animato dalla presenza di molti giovani che affollano i numerosi locali a tutte le ore del giorno e della notte. A Bratislava bere birra è un’abitudine per le persone di ogni età. La si gusta a colazione, a pranzo e a cena ed è molto difficile convincere gli slovacchi che sorseggiare un caffé possa essere altrettanto piacevole. L’architettura della città, differente dallo stile classico di Praga, è costituita da edifici gotici, barocchi e rococò. Il grigiore del periodo comunista è stato cancellato da un crescente benessere che attira le giovani generazioni. La città sembra ormai totalmente integrata nell’Europa più moderna, grazie anche alla vicinanza con Vienna, che dista solo 60 chilometri. Molti viaggiatori già nei secoli scorsi visitavano Bratislava per il Grand Tour, perché si trovava sulla via per o da Praga, Budapest e Vienna. Oggi un numero sempre maggiore di turisti ha scoperto che la città è una meta di grande valore. Eppure questa capitale stenta a scrollarsi di dosso il complesso della sorella minore rispetto alla vicina Praga. La sua visita, sebbene si trovi in Slovacchia, si inserisce perfettamente nell’itinerario in Ungheria, trovandosi a poca distanza da alcune delle mete più interessanti del viaggio. Oltre che città-simbolo dell’hockey su ghiaccio (la nazionale slovacca è stata campione del mondo nel 2002), tra giugno e settembre Bratislava diventa anche una capitale internazionale della musica, grazie al prestigioso Summer Cultural Festival, inaugurato nel 1975 e molto cresciuto nel corso degli anni, tanto che oggi conta 200 spettacoli su più di 20 palcoscenici, un cast di oltre 1500 persone provenienti da venti Paesi e attira oltre 70 mila spettatori.
La posizione della città sul confine di tre Paesi è una delle cause del suo travagliato passato. Bratislava è stata infatti costantemente contesa tra Austria e Ungheria e anche i re polacchi avanzarono talvolta pretese. La rivalità tra Austria e Ungheria continuò fino al 1526, quando i turchi sconfissero gli ungheresi e occuparono Buda. Il regno di Ungheria fu così annesso alla casa degli Asburgo e nel 1536 Bratislava (che allora si chiamava Pressburg) divenne la capitale d’Ungheria. Ecco un altro motivo per cui questa visita si inserisce bene nell’itinerario ungherese. La città fu capitale del regno d’Ungheria per oltre due secoli, fino al 1784 con il nome magiaro di Pozsony. La Dieta ungherese si riunì a Bratislava fino al 1848 e anche l’autorità religiosa risiedette fino al 1820 nella vicina Trnava. Per tornare ad essere capitale, Bratislava dovette attendere il 1992, quando, dopo la caduta dell’impero sovietico (1989), la Cecoslovacchia si divise in due Stati indipendenti: Cechia e Slovacchia di cui Bratislava è la capitale.Sono alcuni antichi palazzi e l’atmosfera che si respira per le strade la maggiore attrattiva del centro storico di Bratislava, in gran parte pedonalizzato. Un’area non grande, che si può visitare a piedi perdendosi nelle anguste stradine del centro e visitando i numerosi palazzi e musei, tra cui il duomo di San Martino, che per secoli ha fatto da scenario alle cerimonie di incoronazione dei sovrani ungheresi. Salendo all’imponente castello (in via di restauro), da dove si gode una splendida vista sulla città, si possono visitare gli interni che ospitarono la corona ungherese nel periodo in cui Bratislava fu capitale del regno magiaro.

Ungheria – In campagna tra chiese e castelli

Ungheria – Le città e i villaggi, la corona di Budapest
Slovacchia – Con Bratislava amore a prima vista

Prosegue il nostro itinerario nell’Ungheria meno nota, alla scoperta di castelli, di luoghi di culto e di alcuni paesaggi da cartolina. In quei territori tanto amati dall’imperatrice Sissi, come il Palazzo Reale di Gödöllö dove amava rifugiarsi lontano dai frastuoni della capitale dell’impero.

L’itinerario magiaro che vi proponiamo esclude la capitale, alla scoperta di quella che potremmo chiamare l’altra Ungheria. Si tratta solitamente di una destinazione poco gettonata e forse proprio per questo interessante. Il percorso qui descritto è facilmente praticabile partendo da casa con la propria vettura, perché per raggiungere la frontiera ungherese non occorrono più di sette ore passando per il Friuli. Nella prima parte vi abbiamo proposto la visita alle principali città (Sopron, Szentendre, Pecs ed Eger) e a due graziosissimi villaggi rurali (Kozeg e Hollokö). Di seguito vi proponiamo invece la scoperta di due splendidi castelli rivali, di due monumenti religiosi molto differenti tra loro in quanto uno rappresenta il potere della Chiesa, mentre l’altro la spiritualità e di alcuni luoghi noti per il loro paesaggio come il lago Ballaton e il punto in cui il Danubio, alle porte di Budapest, compie una vertiginosa svolta.

Due castelli rivali
I palazzi Gödöllö, situato 30 chilometri a nord-est della capitale, e Esterhazy, vicino al confine con l’Austria, si contendono il primato di più bel castello barocco del paese. Il primo è legato alla memoria dell’imperatore Francesco Giuseppe e dell’imperatrice Elisabetta, la celebre Sissi. Il secondo è famoso per aver ospitato per ben trent’anni Joseph Haydn quale direttore dell’orchestra di corte.
Soprannominato “piccola Versailles” o “Versailles ungherese” palazzo Esterhazy fu costruito dal principe Miklos “il Vanitoso” nella seconda metà del Settecento con la convinzione che “ogni cosa che può fare il Kaiser io posso farla meglio”. L’edificio, in stile rococò, conta 126 camere e si affaccia su un parco di 300 ettari con giardino alla francese. Era famoso per le meravigliose feste organizzate dal principe Miklos, in cui si mescolavano la musica, la danza, i giochi, la caccia, i balletti e i pasti abbondanti. I festeggiamenti proseguivano fino a notte inoltrata sotto il fragore dei fuochi d’artificio (mostrati in un video all’entrata). Miklos ricevette ospiti illustri come la regina Maria Teresa e lo scrittore tedesco Goethe e con lui lavorò per 30 anni Haydn, che così commenta quel periodo: “il mio principe era soddisfatto di tutti i miei lavori e ricevevo la sua approvazione; messo a capo di un’orchestra potevo dedicarmi a istruttive esperienze, osservare ciò che produce l’effetto o il calo d’interesse e, di conseguenza, correggere, aggiungere, in breve osare; isolato dal resto del mondo, nessuno poteva tormentarmi o farmi dubitare delle mie capacità ed ero quindi spinto a diventare orginale”.
Il Palazzo Reale di Gödöllö fu invece costruito nello stesso periodo dalla dinastia dei Grassalkowich, un’altra importante famiglia nobile ungherese, e acquistato nel 1867 dallo Stato per offrirlo all’imperatore d’Austria Francesco Giuseppe e all’imperatrice Elisabetta in occasione della loro incoronazione come sovrani d’Ungheria. La famiglia reale, e Sissi in modo particolare, amavano molto il castello, lontano dal protocollo della corte di Vienna. La regina conquistò ben presto gli abitanti del posto. “In occasione dei suoi soggiorni a Gödöllö – scrive Jean Paul Bled nel libro Rodolfo e Mayerling (edizioni Fayard) – si forma attorno all’imperatrice una corte completamente diversa da quella di Vienna. Elisabetta non è sottomessa alle regole vincolanti che ormai detesta. Inoltre, dato che Francesco Giuseppe soggiorna solo per brevi periodi, Sissi è l’astro attorno al quale tutto gravita”. Nel castello, che dispone di uno splendido parco di 28 ettari, si possono visitare i saloni e gli appartamenti reali, comprese le stanze segrete che Sissi fece costruire per godere di qualche momento di privacy, lontano dalla frenetica vita pubblica.

Potenza e spiritualità della chiesa ungherese
Budapest esclusa, la cattedrale di Esztergom e il monastero benedettino di Pannonhalma sono i due luoghi più significativi del cattolicesimo ungherese. La cattedrale con la sua imponente mole e il suo ruolo storico simboleggia gli aspetti meno simpatici della Chiesa, quelli legati al potere. Nell’abbazia di Pannonhalma, che sorge in un luogo idilliaco, si respirano invece i valori della spiritualità religiosa.
L’enorme cupola blu – 33 metri di diametro, 71 di altezza, coronata da 24 colonne – della cattedrale di Esztergom è visibile da lontano, quasi a dimostrare che da oltre un millennio costituisce il fulcro del cattolicesimo ungherese. L’attuale struttura ottocentesca sostituisce la cattedrale di Sant’Adalberto del XII secolo, distrutta nel Settecento dai Turchi in ritirata. Costruita su una scarpata molto ripida che domina il Danubio, non ha grande valore architettonico, ma si impone per la sua enorme mole, mentre al suo interno custodisce un piccolo gioiello: la cinquecentesca cappella Bakòcz, risparmiata dai Turchi. Di puro ed elegante stile rinascimentale toscano in marmo rosso, fu smontata in 1600 pezzi per far posto alla cattedrale ottocentesca e quindi ricostruita al suo interno. Nella cripta della cattedrale sono sepolti i cardinali di mille anni di storia magiara.
Anche la storia dell’abbazia di Pannonhalma è antica quanto quella dell’Ungheria. La località è sede abbaziale dal 1002, anno in cui Santo Stefano, primo sovrano magiaro, convertì il suo popolo al cristianesimo. Il monarca fece appello ai monaci affinché l’aiutassero a cristianizzare il paese. I religiosi, venuti da Cluny, edificarono sulla collina un’abbazia retta dalla regola di San Benedetto.
Nel corso dei secoli la chiesa e gli edifici ad essa annessi furono rasi al suolo, ricostruiti e restaurati parecchie volte. Di conseguenza il complesso giunto a noi è caratterizzato da una commistione di stili architettonici estremamente eterogenei. Di particolare pregio un portale gotico che dalla chiesa si apre su uno splendido chiostro del XIII secolo. Il momento più suggestivo della visita è costituito dalla magnifica biblioteca in stile Impero, con 400 mila volumi, dove si può ammirare il più antico manoscritto ungherese. L’abbazia è circondata da splendidi vigneti, le cui uve vengono vinificate in una moderna cantina, dove si può degustare il nettare dei monaci.

La svolta verso Budapest del bel Danubio blu
Dal profilo naturalistico non ho francamente trovato l’Ungheria particolarmente interessante. Il lago Ballaton e le zone boschive dei Monti Matra e del Parco nazionale del Bükk, famose per le loro risorse termali, per chi abita una regione come la nostra sono piuttosto deludenti. Affascinante, per contro, la cosiddetta Dunakanyar, la curva compiuta dal Danubio prima di raggiungere Budapest.
Luogo privilegiato da cui ammirare il lago Balaton è il grazioso, ma molto turistico, villaggio di Tihany. In particolare dall’abbazia che sovrasta l’abitato la vista sulle acque del lago più grande d’Europa – ma non si direbbe – è davvero splendida. Sono rarissimi i borghi che si affacciano sulle rive, ma numerose le zone balneabili. Siccome la profondità media è di 2 metri e mezzo, in estate la temperatura dell’acqua è molto gradevole. È il luogo privilegiato di vacanza degli Ungheresi, assieme alle regioni boschive del nord-est del paese, dove si trova il Parco nazionale del Bükk, percorso da suggestive strade panoramiche, che attraversano fittissimi boschi di faggio (bükk), e da svariati trenini a scopo turistico.
I monti Matra, più collinosi e meno boschivi, ospitano la montagna più alta del paese: 1014 metri. Dall’alto della torre della televisione, nelle giornate di bel tempo, si gode una vista su tutta l’Ungheria.
È difficile non rimanere affascinati dalla vista del Danubio, splendida dallo storico castello reale di Visegrad, ridotto in rovine dai Turchi. Dall’alto di quella collina ricca di avvenimenti storici si osserva il bel Danubio blu – il fiume cosmopolita che parte dalla Foresta Nera e collega l’Occidente all’Asia – svoltare a novanta gradi verso Budapest in un suggestivo paesaggio. Quale modo migliore per concludere un itinerario in terra magiara?

Itinerario
Locarno – Kutas (921 km)
Kutas – Pecs – Kutas (200 km)
Kutas – Gödöllo – Eger /365 km)
Eger – Belapatfalva – Szilvasvarad – Lillafüred (50 km)
Lillafüred – Eger – Hollöko – Szentendre – Visegrad (245 km)
Visegrad – Esztergom – Pannonhalma – Bratislava (215 km)
Bratislava – Fertörakos – Sopron (85 km)
Sopron – Fertöd – Köszeg – Tatzmannsdorf (105 km)
Tatzmannsdorf – Locarno (Via Udine) (874 km)

Bibliografia
Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia Le Guide Routard, Milano 2008
Ungheria Touring Editore, Milano 2011
Ungheria Le Guide Mondadori, Milano 2009
Budapest e l’Ungheria La Guida verde Michelin, Milano 2009
Ungheria The Rough Guide, Vallardi, Milano 2007
Ungheria Lonely Planet, Torino 2009
Slovacchia Touring Editore, Milano 2010
Bratislava Morellini Editore, Milano 2009

Francia – In Provenza sulle tracce di Vincent van Gogh

Francia – In Provenza sulle orme di van Gogh e Cézanne
Francia – In Provenza nei paesaggi cari a Paul Cézanne
Francia – Aix, la città “ingrata” di Paul Cézanne

Il nostro viaggio si sviluppa tra Arles e St. Rémi, attraversando la splendida catena montuosa delle Alpilles tra paesaggi indimenticabili alla ricerca dei luoghi in cui Vincent piantò il suo cavalletto per interpretare a suo modo quella natura esuberante.

Vincent van Gogh è il pittore che suscita in me le emozioni più forti. Davanti ai suoi quadri non devo pensare. Sono diretti. Comunicano con i miei sensi. Mi trasportano nel suo mondo, dove la natura ha un ruolo predominante. I suoi fiori, i cipressi e gli ulivi, i campi di grano, le notti stellate ci parlano. Ma quale rapporto hanno con la realtà queste opere straordinarie? Per cercare di intuirlo ho organizzato un itinerario in Provenza, dove Vincent ha realizzato molti dei suoi dipinti più significativi, attratto da quel sud in cui molti artisti del suo tempo vedevano il luogo ideale per sviluppare il proprio potenziale creativo.

La scoperta della luce nella Francia del sud
Il nostro viaggio nella Provenza di van Gogh si sviluppa tra Arles e St. Rémi attraversando la splendida catena montuosa delle Alpilles, che offre paesaggi indimenticabili proponendo una sorta di Alpi in miniatura, dove le cime non superano mai i 700 metri di altezza. La nostra guida ci conduce tra quei panorami straordinari alla ricerca dei luoghi in cui van Gogh piantò il suo cavalletto per interpretare a modo suo quella natura esuberante. Ma oltre alla guida ci accompagnano gli scritti di Vincent, che ho riletto preparando questo viaggio e scrivendo questo “diario”. Mi hanno appassionato come la lettura di un romanzo e mi hanno rivelato un Vincent letterato che non conoscevo. Qui di seguito, per quanto possibile, descriverò il nostro itinerario dando la parola a van Gogh, pescando liberamente alcuni passaggi significativi tra le innumerevoli lettere al fratello Theo, alla sorella, a Gauguin e ad altri amici, per descrivere la sua Provenza, dove arriva nel febbraio del 1888, quando “ci sono dovunque almeno 60 centimetri di neve. (…) Ma ben presto il tempo è cambiato e si è fatto più mite – ho così avuto modo di conoscere questo mistral”, il vento provenzale che solitamente porta il bel tempo, pulisce l’aria e dona profili nitidi alla natura. “Poiché mai ho avuto una simile fortuna, qui la natura è straordinariamente bella. Tutta la cupola del cielo è ovunque di un azzurro meraviglioso, il sole ha un irraggiamento di zolfo pallido ed è dolce e affascinante come la combinazione dei celesti e dei gialli nei Van der Meer di Delf. (…) Comincio a sentirmi del tutto diverso rispetto al momento in cui sono venuto qui, non ne dubito, non ho più esitazioni nell’iniziare qualcosa, e questa situazione potrebbe evolvere ulteriormente. Ma che natura! (…) Al tramonto, ieri ero in una brughiera pietrosa dove crescono querce piccole (nella regione di Arles ndr.) e contorte, sullo sfondo una rovina in cima a un colle, e nella valle campi di grano. Non poteva essere più romantico. (…) E tutte le linee erano belle, l’insieme di una nobiltà incantevole. (…) Stando qui a lungo credo che diverrei completamente del paese. (…) Sto lavorando accanitamente, perché gli alberi sono in fiore e volevo fare un giardino di Provenza di straordinaria gaiezza”.
Ma la sua malattia mentale purtroppo si scatena in occasione di un lungo soggiorno dell’amico Paul Gauguin ad Arles, quando Vincent manifesta propositi omicidi e per punirsi si taglia il lobo di un orecchio. Lo va in seguito ad offrire alla prostituta di un bordello che frequentava assieme a Gaugin. Dopo quel tragico episodio sarà lui stesso a chiedere di essere internato in un manicomio. Finisce così l’epoca del soggiorno ad Arles (febbraio 1888-maggio 1889) per iniziarne un’altra a pochi chilometri di distanza nella casa di cura di Saint-Paul-de-Mausole, un antico monastero francescano adibito a ospedale psichiatrico nei pressi di Saint-Remy. Vincent vi soggiorna un anno per poi trasferirsi a Auvers-sur-Oise dove il 27 luglio 1890, in preda a una crisi, si toglie la vita sparandosi un colpo di rivoltella al petto.
Ad Arles rimangono poche tracce di van Gogh. La casa gialla che si affacciava su piazza Lamartine abitata dall’artista è andata distrutta durante la seconda guerra mondiale. Rimane invece l’ospedale, immortalato in un celebre dipinto, in cui il pittore fu ricoverato dopo essersi ferito all’orecchio. Altri luoghi in città sono stati ritratti da Vincent, ma ovviamente, sia l’agglomerato urbano sia la campagna, in un secolo sono molto mutati. Non così è stato invece per i luoghi attorno alla casa di cura, nella campagna di Saint-Remy, che sono rimasti assolutamente intatti e dove si possono ancora ammirare gli alberi secolari interpretati da Vincent. Ma diamogli di nuovo la parola attraverso le sue lettere.

La casa di cura di Saint-Rémy
Credo proprio che Peyron (il medico che lo ha in cura ndr.) abbia ragione quando dice che non sono pazzo propriamente parlando, perché il mio pensiero è assolutamente normale e chiaro nel frattempo e perfino più che in precedenza. Ma nelle crisi è tuttavia terribile e allora perdo conoscenza di tutto. Ma ciò mi spinge al lavoro e alla serietà come un carbonaio sempre in pericolo si affretta in ciò che fa. (…) Il lavoro mi distrae infinitamente più di ogni altra cosa e se un giorno potessi metterci dentro tutta la mia energia sarebbe probabilmente la migliore medicina. (…) Con un altro anno di lavoro forse arriverò a una sicurezza di me dal punto di vista artistico. Ed è sempre qualcosa che vale la pena di cercare. Ma bisogna che abbia un po’ di fortuna”.
Dopo le crisi Vincent è costretto in camera – se ne può visitare una simile a quella da lui occupata – e allora dipinge il paesaggio che vede dalla sua finestra attraverso le sbarre di ferro. Ecco la descrizione del quadro: “In primo piano un campo di grano devastato e sbattuto a terra da una tempesta. Un muro di recinzione e al di là il verde-grigio di qualche ulivo, delle casupole e delle colline. Infine, nella parte alta della tela, una grande nuvola bianca e grigia immersa nell’azzurro. È un paesaggio di una semplicità estrema anche di colorazione”.
Nei periodi in cui la salute glielo consente vive all’aperto. “Non avendo tela in questi ultimi giorni ho percorso in lungo e in largo il paese e comincio a sentire di più l’insieme della natura nella quale vivo. In futuro ritornerò forse anche spesso sugli stessi motivi di Provenza”. Racconta allora di lavorare negli uliveti e di ritrarli “con duro e grossolano realismo”. E poi parla dei cipressi “così caratteristici del paesaggio della Provenza” e descrive le sue emozioni. “Fino a ora non ho potuto farlo come lo sento; di fronte alla natura mi prendono emozioni che giungono fino allo svenimento e allora per quindici giorni non sono più capace di lavorare”.
Un altro tema affrontato da Vincent è quello dei campi di grano. Ecco la descrizione di una tela: “Lo studio è interamente giallo, terribilmente impastato, ma il modello era bello e semplice. Vidi allora in quel falciatore – vaga figura che lotta come un ossesso in piena canicola per terminare il suo lavoro – vidi in lui allora l’immagine della morte, nel senso che l’umanità sarebbe il grano che viene falciato. Se vuoi, è dunque l’opposto di quel seminatore che avevo tentato qualche tempo fa. Ma in questa morte, niente di triste, tutto accade in piena luce con un sole che inonda tutto con una luce d’oro fino”.
Vincent non manca di immortalare anche gli splendidi paesaggi delle Alpilles. “Per il momento ho in cantiere un quadro di un sentiero fra le montagne con un piccolo ruscello che scorre tra le pietre. Le pietre sono di un lilla compatto, grigio e rosa, con, qua e là, cespugli di bosso e alcune specie di ginestre che, in autunno, prendono ogni sorta di colore, verde, giallo, rosso, bruno. In primo piano il ruscello è bianco, fa la schiuma come se avesse sapone; più in là riflette l’azzurro del cielo”.
A Saint-Remy van Gogh lavora anche sul soggetto dell’autoritratto. “Si dice – e io lo credo volentieri – che sia difficile conoscere se stessi, ma non è neppure facile dipingere se stessi. Così io attualmente lavoro a due miei ritratti – in mancanza di altri modelli – perché è tempo che faccia qualche figura. Uno l’ho iniziato il primo giorno che mi sono alzato, ero magro, pallido come un diavolo. È azzurro-viola scuro e la testa biancastra con capelli gialli, dunque un effetto di colore. Ma poi ne ho cominciato un altro di tre quarti su fondo chiaro”.

Bibliografia
Paul Gauguin, Vincent e Theo van Gogh, Sarà sempre amicizia tra noi, Milano 2002
Vincent van Gogh, 150 lettere a cura di Marco Goldin, Linea d’Ombra 2012
Druick e Zegers, van Gogh e Gaugin Lo studio del Sud, Milano 2002
E. H. Gombrich, La storia dell’arte Milano 1998
Provenza La guida verde Michelin, Milano 2008

Francia – In Provenza sulle orme di van Gogh e Cézanne

Francia – In Provenza sulle tracce di Vincent van Gogh
Francia – In Provenza nei paesaggi cari a Paul Cézanne
Francia – Aix, la città “ingrata” di Paul Cézanne

Coniugare la Provenza, una delle più belle regioni di Francia, con l’arte di due pittori che più di ogni altro hanno celebrato le sue bellezze naturali è stato il tema di una settimana di viaggio. Abbiamo percorso due itinerari: uno sulle orme di Cézanne nella regione di Aix e l’altro sulle tracce di van Gogh tra Arles e Saint-Rémy attraversando le Alpilles e passando per il romantico villaggio di Baux. La preparazione del viaggio mi ha consentito di riscoprire le lettere in cui Vincent van Gogh esprimeva al fratello Theo e ai suoi familiari e amici tutte le sue speranze. “La corrispondenza di questo pittore umile e quasi autodidatta – come scrive Ernst H. Gombrich nella sua “Storia dell’arte” (Milano 1998) – ignaro della celebrità che lo attendeva, è fra le più commoventi e interessanti di ogni letteratura”. Queste sue lettere, che cito ampiamente nell’itinerario, testimoniano della sua inconsapevolezza di ciò che stava diventando per l’umanità intera: uno dei più grandi pittori di tutti i tempi e forse il più amato perché “bramava un’arte scevra di cerebralismi – è ancora Gombrich che parla – che non richiamasse soltanto l’attenzione dei ricchi intenditori, ma desse gioia e consolazione a ogni creatura umana”. “Io come pittore – scriveva sconsolato van Gogh nel maggio del 1889 al fratello Theo – non esprimerò mai niente di importante”. Squattrinato, doveva risparmiare anche sull’uso dei colori. Sempre al fratello confidava: “se avessi più denaro ne spenderei di più per fare colorazioni molto ricche”. E più tardi si interrogava: “mi sembra una follia fare pittura che tanto costa e che non fa guadagnare niente, neppure rimborsa le spese. Mi sembra una cosa del tutto irragionevole”. Sulla strada di ritorno dalla Provenza, con la tristezza nel cuore dopo aver letto queste confessioni, ci siamo fermati a Genova, dove la scorsa primavera si teneva una grande mostra dedicata a van Gogh e a Gauguin. Per riuscire a entrare abbiamo dovuto attendere in coda un’ora e mezza e le sale erano affollatissime. Per la prima volta in vita mia sono rimasto in coda quasi con piacere, perché mi sembrava di rendere omaggio alla sfortunata esistenza di quel genio della pittura che offre tante emozioni a un pubblico così vasto. Come avrei voluto, mentre attendevo di entrare, che Vincent fosse lì a vedere quanto la gente di ogni estrazione sociale lo ama! Seguendo la Provenza di Cézanne e di van Gogh si ha anche occasione di visitare alcuni tra i luoghi turistici più interessanti della regione. Aix, addossata alla montagna di Sainte-Victoire, la cui aspra bellezza ha ispirato alcune delle migliori opere di Cézanne, si presenta con le nobili facciate del cours Mirabeau e con un’atmosfera rilassata e “charmante” tipica delle città della Francia meridionale. La regione compresa tra Arles e la graziosa Saint-Rémy è pure ricca di spunti interessanti, ad iniziare dalle Alpilles, piccole alpi in miniatura le cui cime non superano i 700 metri di altezza. Les Baux-de-Provence, con il castello in rovina e le case disabitate, poggia su uno sperone roccioso che appartiene a questa suggestiva catena montagnosa. Per lunghi secoli questa fortezza fu l’inespugnabile sede di potenti signorie feudali. Oggi è un luogo di visita gettonatissimo. Pure immersa nello spettacolare quadro delle rocciose Alpilles la città romana di Glanum, con le sue rovine considerate tra le meglio conservate della Roma antica. Altri importanti monumenti di quest’epoca sono l’arena, il teatro antico e la necropoli che si trovano nella magica Arles, dove van Gogh ebbe il suo primo impatto con il sud della Francia.

In Provenza nei paesaggi cari a Paul Cézanne

Francia – Aix, la città “ingrata” di Paul Cézanne
Francia – In Provenza sulle orme di van Gogh e Cézanne
Francia – In Provenza sulle tracce di Vincent van Gogh

L’artista era attratto soprattutto dalla natura e dai paesaggi provenzali, molti dei quali sono rimasti quasi intatti rispetto all’epoca del grande maestro, oggi universalmente riconosciuto come il pittore della pittura moderna.

Goethe sosteneva che se si vuole veramente conoscere un artista bisogna visitare i luoghi in cui ha vissuto. Ad indurmi a programmare un viaggio sulle orme di Cézanne nella sua Provenza e nella sua città natale di Aix è però stato il collega Rudy Chiappini (ex responsabile culturale a Locarno e Lugano) autore di una stimolante esposizione, nella prestigiosa sede di Palazzo Reale, dedicata dalla città di Milano al maestro francese. La moderna audioguida di quella mostra, sfruttando la mutimedialità, mostrava infatti accanto alle opere lo splendido paesaggio del sud della Francia.
Come scrive Denis Coutagne, coautore della mostra di Milano assieme a Chiappini, “Cézanne, al pari di Courbet, sa di poter dipingere solo i luoghi che ha percorso con i propri piedi. Ha bisogno di conoscere l’odore della terra, il calore delle rocce, di sentire il vento tra i pini”. Il maestro amava moltissimo la sua Provenza e sentiva di appartenere a quei paesaggi penetranti: “Ci sarebbero dei tesori da svelare in questo paese – scriveva a un amico nel 1886 – che non hanno ancora trovato un interprete all’altezza delle ricchezze che offre”. E pochi mesi prima di morire confessava con amarezza: “Non riesco a raggiungere l’intensità che si dispiega davanti ai miei sensi. Non ho la ricca magnificenza dei colori che anima la natura”.
Cézanne con la sua città natale ha sempre avuto un rapporto molto difficile, perché non è mai stato capito e apprezzato dai suoi concittadini se non in tempi relativamente recenti. Infatti Aix non compare mai sui suoi quadri, così come le sue opere esposte in questa città si contano sulle dita di una mano. D’altra parte l’artista era attratto soprattutto dalla natura e dai paesaggi provenzali, molti dei quali sono rimasti quasi intatti rispetto all’epoca del maestro. L’itinerario che abbiamo percorso parte inevitabilmente dalla città, dove Cézanne è nato e ha vissuto. Ci si sposta quindi nella campagna alla ricerca dei soggetti delle sue opere: la montagna Sainte-Victoire, le cave di Bibémus, la residenza estiva di Jas de Bouffon, il suo ultimo atélier ai bordi della città, la valle dell’Arc.

Casa, scuola e famiglia
Nel 1904, due anni prima della morte di Cézanne, il suo allievo Emile Bernard arriva in treno a Aix per incontrare il maestro senza conoscere il suo indirizzo. Chiede per le strade dove abita il pittore e mostra ai passanti persino una sua fotografia, ma nessuno lo conosce. Eppure a Parigi, Bruxelles e Berlino il suo nome cominciava a essere noto, soprattutto tra le giovani generazioni di pittori che riconoscevano in lui un innovatore. Nel corso degli ultimi decenni Aix ha finalmente scoperto il talento del suo concittadino. Oggi, partendo dall’ufficio turistico, è indicato un percorso a piedi illustrato da un prospetto e segnalato sul suolo cittadino con dadi in metallo, che permette di ripercorrere le tappe principali della sua vita: la casa in cui è nato al numero 23 di rue de l’Opera, la chiesa della Sainte-Madeleine dove è stato battezzato, il negozio del padre sul Cours Mirabeau con sopra l’abitazione della famiglia, il collegio Bourbon dove è nata l’amicizia con Emile Zola, il Musée Granet che ha sempre rifiutato le sue opere. Tutti luoghi che hanno fortemente indirizzato la vita di Cézanne.
Il padre Louis-Auguste era una persona molto ambiziosa che apparteneva a una famiglia di immigrati italiani (originaria di Cesana Torinese) dediti al commercio, giunta ad Aix quattordici anni prima della nascita di Paul. Qui Luois-Auguste apre una piccola fabbrica di cappelli di feltro in cui lavora come operaia Anne-Elisabeth Honorine Aubert, madre del pittore. Quando Paul ha nove anni, il padre, uomo pragmatico e autoritario, rileva una banca in fallimento assieme a un socio. Inizia così per la famiglia un periodo di prosperità finanziaria, che permetterà a Cézanne di dedicarsi per tutta la vita alla pittura senza avere l’assillo di guadagnarsi da vivere. Il denaro di famiglia gli darà questa grande libertà che si rivelerà fondamentale per la sua opera, perché gli permetterà di non piegarsi a compromessi commerciali.
La famiglia Cézanne, considerata di nuovi ricchi dall’aristocratica Aix, non è amata né apprezzata in città. D’altra parte il giovane Paul non si conforma allo status che la sua condizione economica imporrebbe e assume atteggiamenti provocatori, come farà per tutta la vita anche nella sua attività artistica. Henri Pontier, direttore del museo Granet, disprezza la sua arte a tal punto da affermare che finché gli acquisti li farà lui nessun quadro di Cézanne entrerà mai a far parte della collezione. Una posizione condivisa dall’establishment artistico di allora, ostile all’opera innovativa e rivoluzionaria del maestro, considerato il padre della pittura moderna. Cézanne rimarrà fedele alle sue convinzioni per tutta la vita, anche nei momenti più difficili, ma soffrirà sempre per questo atteggiamento di chiusura nei suoi confronti. Si narra addirittura che uno degli ultimi pensieri prima di morire andò proprio a quel Henri Pontier, che tanto aveva osteggiato la sua arte.
Un’altra vittima della chiusura mentale della Aix di inizio Ottocento fu Emile Zola, uno dei più noti e amati scrittori francesi del XIX secolo. Anch’egli di origini italiane giunge in città con il padre ingegnere che aveva progettato una diga. I compagni di classe al collège Bourbon lo escludono salvo il giovane Paul, con il quale nascerà un’amicizia fraterna, che durerà trent’anni fino a quando uscirà il romanzo “L’Oeuvre”. È la storia di un pittore incapace di disciplinare il suo talento, che finisce per suicidarsi davanti a un dipinto che non riesce a portare a termine. Cézanne rimane profondamente ferito dal pensiero che il suo migliore amico lo consideri un genio abortito e rompe la relazione.

Dipingere la natura nella natura
“Mio caro Emile – scrive all’amico Bernard nel 1866 – ogni quadro realizzato all’interno, in studio, non varrà mai quello fatto all’aperto. Dipingendo all’aperto il contrasto tra le figure e gli sfondi è sorprendente, e il paesaggio è magnifico. Ci sono cose veramente superbe, bisogna che mi decida a lavorare esclusivamente all’aperto”.
La campagna provenzale attorno alla città di Aix rimane di grande bellezza. La residenza estiva della famiglia Cézanne – Jas de Buffan – sorge a due chilometri dal centro e oggi fa ormai parte dell’agglomerato urbano. Varcando il cancello della proprietà, che anticamente apparteneva al governatore della Provenza, e imboccando il lungo viale di platani ci si immerge però in un altro mondo, dove il paesaggio cézanniano è stato salvaguardato. Fu questo il primo studio dell’artista, un luogo magico dove ha dipinto per quarant’anni. I personaggi dei famosi quadri dedicati ai giocatori di carte erano i contadini di questa tenuta.
A una decina di chilometri dalla città si trova un luogo dove il tempo sembra essersi fermato. Si tratta delle cave di Bibémus, che hanno ispirato al maestro alcuni dei suoi quadri più suggestivi con le rocce color ocra che contrastano il verde della vegetazione e l’azzurro del cielo. Erano state scoperte dai romani. Dal XVI al XVIII secolo le pietre erano poi servite per costruire i palazzi signorili di Aix. Quando Cézanne veniva qui a dipingere, tra il 1890 e il 1904, il luogo era ormai abbandonato e lasciato in preda alla natura. Sebbene l’intervento umano sia pesante, perché la montagna è tagliata a strati, quei paesaggi assomigliano a un quadro astratto. L’ambiente suscita forti emozioni, che il maestro ha saputo interpretare nelle sue tele in maniera magistrale.
Torniamo ad Aix per raggiungere l’atélier dei “Lauves”, l’ultimo del pittore, costruito dopo aver venduto la tenuta di Jas de Buffan in seguito alla morte della madre. Tutto è intatto: gli oggetti, i cavalletti, le pareti grigie. Sembra che l’artista l’abbia lasciato da poco. È invece passato oltre un secolo. Anche qui la città si è espansa, ma il luogo non è stato compromesso. Vi si può giungere a piedi, come faceva Cézanne, in quindici minuti dal centro città. E da qui, proseguendo lungo la collina oggi densamente edificata, in un altro quarto d’ora si arriva su un promontorio – les Marguérites – dove il maestro si recava con il cavalletto in spalla per dipingere la montagna magica di Sainte-Victorie. La prospettiva è la stessa di allora. Gasquet, autore di una biografia del maestro, presta a Cézanne parole spesso riprese tanto dai critici quanto dal pittore stesso: “Osservate questa Sainte-Victoire. Che impeto, che sete imperiosa di sole, e che malinconia, la sera, quando tutta questa pesantezza si placa… Questi blocchi erano di fuoco. C’è ancora del fuoco in essi”.
Una piacevole gita in automobile, passando per la valle dell’Arc tanto cara a Cézanne, permette di raggiungere la base della montagna per averne una prospettiva diversa, mai dipinta dall’artista. Se si prosegue girandole attorno, sul versante opposto, si trova il luogo dove Pablo Picasso ha chiesto di essere seppellito, dopo avere acquistato una vasta proprietà che si estende lungo le pendici della Sainte-Victoire: un gesto di affetto e di riconoscenza per il suo grande maestro con cui non si è mai confrontato dipingendo la sua montagna magica.

Bibliografia
Paul Cézanne Les Ateliers du Midi, Milano 2012
Flaminio Gualdoni, Cézanne Milano 2011
Émile Bernard, Mi ricordo Cézanne Milano 2011
Les sites de CézanneAix en Provence 2011
Ernst Gombrich, La storia dell’arte Milano 1998
Provenza La guida verde Michelin, Milano 2008

Francia – Aix, la città “ingrata” di Paul Cézanne

Francia – In Provenza nei paesaggi cari a Paul Cézanne
Francia – In Provenza sulle orme di van Gogh e Cézanne
Francia – In Provenza sulle tracce di Vincent van Gogh

Più che un pittore Cézanne era la pittura stessa divenuta vita. Non c’era un istante in cui egli vivesse al di fuori di essa: era come se, tra le dita, egli tenesse sempre il suo pennello. A tavola, si fermava ogni momento per studiare le nostre figure in rapporto agli effetti di luce e ombra; ogni piatto, ogni frutto, ogni bicchiere, qualsiasi oggetto eccitavano i suoi commenti, la sua riflessione. L’indice puntato tra gli occhi, mormorava: Ecco così ho una netta visione dei piani”. Questa istantanea è contenuta nell’affettuoso libretto “Mi ricordo Cézanne” (Skira 2011) scritto dal suo allievo Emile Bernard, dopo aver trascorso alcuni mesi assieme a lui a Aix-en-Provence. “Ho giurato di morire dipingendo – scriveva Cézanne all’amico Bernard il 21 settembre 1906 – piuttosto d’abbandonarmi all’impotenza avvilente che minaccia i vecchi. Vittime delle passioni umilianti dei sensi”. Meno di un mese più tardi, sorpreso da un temporale mentre dipingeva all’aperto veniva colto da una congestione. La sua salute già malferma non resistette. Il 20 ottobre, in una lettera al figlio del maestro, la sorella di Cézanne riassumeva drammaticamente la situazione: “Tuo padre si è ammalato lunedì… È rimasto fuori sotto la pioggia per parecchie ore; l’hanno condotto a casa sul carro di un lavandaio e due uomini hanno dovuto metterlo a letto. L’indomani mattina prestissimo è andato in giardino a lavorare a un ritratto di Vallier, sotto un tiglio: ne è venuto via moribondo”. Il giorno seguente moriva.

La figura e l’arte di Cézanne erano state proposte in modo stimolante in una recente mostra, di cui avevo riferito in questa rubrica, realizzata a Palazzo Reale a Milano e curata dal ticinese Rudy Chiappini. Nell’esposizione il visitatore era accompagnato da un’audioguida multimediale che presentava i luoghi dipinti dall’artista. Un’iniziativa che invitava a visitare quei siti della Provenza. Quell’invito mia moglie ed io lo abbiamo raccolto. Approfondendo la figura di questo grande precursore dell’arte moderna, fa riflettere e amareggia l’incomprensione della cultura dell’Ottocento nei confronti della sua opera: le sue tele furono infatti sempre rifiutate ai concorsi ufficiali. Atteggiamento che andava a rafforzare un già esagerato spirito autocritico del maestro. Un mese prima di morire scriveva, sempre a Bernard: “Vivo in uno stato di malessere diffuso. Tale stato durerà fino a quando le mie ricerche non saranno arrivate in porto… La mia costante preoccupazione è per la meta da raggiungere. Lavoro sempre davanti alla natura e mi sembra di fare lenti progressi”. Un anno prima al critico d’arte Roger Marx aveva scritto: “La mia età e le mie condizioni non mi permetteranno di realizzare il sogno d’arte che ho inseguito per tutta la vita. Ma sarò eternamente riconoscente al pubblico d’intelligenti amatori che ha avuto – al di là delle mie esitazioni – l’intuizione di ciò che ho voluto tentare per rinnovare la mia arte”.

Paul Cézanne è oggi universalmente considerato il padre della pittura moderna, colui che ha saputo sintetizzare la tradizione in forme geometriche e allusive, aprendo la strada al cubismo e alle altre avanguardie. Nonostante le frequentazioni con gli intellettuali e gli artisti parigini, ha condotto una ricerca personale e in qualche modo isolata approdando tuttavia a soluzioni che saranno imprescindibili per l’intero Novecento pittorico. Come scrive Ernst H. Gombrich nella sua “Storia dell’arte” (Milano 1998) “non stupisce che Cézanne giungesse spesso sull’orlo della disperazione e che lavorasse incessantemente senza mai interrompere gli esperimenti. Il vero miracolo è che abbia potuto ottenere nei suoi quadri un risultato apparentemente impossibile”. Nell’arte è così, osserva ancora Gombrich, “a un tratto l’equilibrio si produce e nessuno sa come e perché”. E conclude: “Cézanne aveva deciso di non accettare per dato nessun metodo pittorico tradizionale, ha voluto ricominciare daccapo, come se non fosse esistita pittura prima di lui”.

Tenerife – Sulla cima di Spagna, ma alle Canarie

La Gomera

Un viaggio alla scoperta di una Tenerife discosta dai centri più rinomati. Nei suoi splendidi parchi nazionali, a cominciare dai paesaggi lunari del vulcano del Teide, la montagna più alta di Spagna, per poi scendere verso le scogliere selvagge ad est e ad ovest dell’isola.

Non dimenticate di mettere gli occhiali da sole se arrivate per la prima volta sulla punta sud occidentale di Tenerife. Ne avrete bisogno per proteggervi non solo dal sole accecante, ma anche per non restare abbagliati dalle insegne al neon, dalla sabbia bianca (importata dal Sahara) e dai turisti nordeuropei rossi come gamberi. Grandi resort pieni di piscine e con buffet all-you-can-eat hanno trasformato questa sonnolenta costa di pescatori in uno dei più importanti motori economici di Tenerife”. La guida Lonely Planet presenta così le spiagge più famose – Los Cristianos, Playa de las Americas e Adeje – della costa sud che hanno reso celebre l’isola nel mondo ed ogni anno ospitano 10 milioni di turisti. Senza nulla voler togliere a chi opta per una settimana di sole e mare per allontanarsi dal freddo dei nostri inverni, esiste anche un’altra Tenerife, molto meno nota, ma straordinaria, con paesaggi particolarmente suggestivi. È alla scoperta di questa Tenerife, discosta dai centri più rinomati e per fortuna non ancora invasa dal cemento armato degli enormi alberghi e apparthotel, che ho organizzato un viaggio l’autunno scorso. L’itinerario prevedeva anche la visita della vicina isola di La Gomera. Ne è nata una vacanza meravigliosa, al di là delle mie aspettative, che consiglio a chi ama immergersi in una natura incontaminata tra mare e montagne.

Il vulcano del Teide, un paesaggio lunare
Eravamo molto delusi quando dalla costa nord dell’isola guardavamo in alto la strada che attraversando la valle di Orotava sale verso il Teide, la montagna più alta di Spagna (3718 metri). Ma dato che avevamo prenotato per la notte al Parador de la Canada del Teide, a quota 2’200 metri, siamo saliti in ogni caso. Dopo aver attraversato una densissima nebbia, che non avremmo mai associato con il clima delle Canarie, tutt’a un tratto siamo sbucati in un paesaggio lunare con un cielo blu molto terso. Iniziava lo spettacolo. Davanti a noi sua maestà il vulcano, all’interno del quale gli indigeni dell’isola anticamente credevano vivesse il diavolo Guyota, che un bel giorno decise di uscire dalla sua tana sotterranea e vide il sole. Ingelosito dalla sua luce, lo rubò per nasconderlo nel suo covo, portando morte, distruzione e oscurità su tutta l’isola. I Guanci pregarono allora Chaman, il dio del sole, che sconfisse Guyota e riportò la luce. Questa leggenda è legata a un’eruzione che avvenne nel XIII secolo, quando una nube di cenere oscurò il sole e l’unica luce che gli abitanti potettero vedere per giorni è quella che veniva dalla bocca del vulcano. Ciò li indusse a credere che il sole fosse intrappolato al suo interno. Terminata l’eruzione, la cenere si depositò sul terreno e il sole tornò a splendere.
Il Parco Nazionale del Teide è di una bellezza mozzafiato. Le guide spiegano che qui si trova più dell’ottanta per cento delle formazioni vulcaniche del mondo, con terreni, rocce e pinnacoli di lava di ogni colore e forma. Il nostro primo impatto è stato ancora più incantevole perché era l’ora del tramonto, con il cielo che si illumina di tutte le tonalità dal giallo, all’arancione, al rosso fuoco riflettendo i suoi colori sulle rocce cangianti. Quando piomba la notte invece si gode lo spettacolo delle stelle.
Il mattino seguente ci siamo alzati di buonora per camminare lungo i sentieri che i Guanci prima e i pastori spagnoli poi percorrevano per portare al pascolo le capre. Si tratta delle “cañadas”, ossia i sette “sentieri dei greggi al pascolo”, detti anche “strettoie” o gole. Una gita pianeggiante di circa 17 chilometri ai piedi del vulcano, della durata di 5 ore, che collega i due punti di informazione del Parco (bisogna partire entro le 9 per poter rientrare con il bus delle ore 15). Lungo il tragitto il paesaggio muta in continuazione. Sulla destra si ergono montagne rocciose levigate e lavorate dal vento. Sulla sinistra domina imponente la vista del Teide, una montagna multicolore, dove si vedono ancora le colate rosso scuro dell’ultima eruzione avvenuta nel Settecento. La montagna è brulla, ma ospita un po’ di sterpaglia che arricchisce di qualche tonalità di verde una gamma che in autunno varia dal color sabbia, passando per tutte le gradazioni del marrone e terminare al rosso scuro delle colate di lava. Tra il sentiero che corre lungo le rocce e il Teide si estendono vasti campi lavici molto scuri, alcuni nero cupo con componenti luccicanti che brillano ai raggi del sole. Pochi gli arbusti. Alcuni verdi, la maggior parte bruni. Qua e la spiccano originali pennacchi simili a code di volpe, tipici della zona, e rocce dalle forme singolari. A tratti sembra di intravedere forme modellate da un artista, ma è tutta opera della natura. Quando giungiamo al termine del percorso siamo stanchi, ma anche delusi che lo spettacolo a cui abbiamo assistito sia terminato.
Questi sentieri sono deserti: in una giornata abbiamo incontrato solo due altri turisti. Non è così per salire in teleferica (made in Switzerland) sul Teide. Ogni anno trasporta 4 milioni di persone. Già per la prima corsa alle 9 di mattina si fa la coda. Arrivati in cima, la vetta è riservata a sole 150 persone al giorno: bisogna essere in possesso di un permesso speciale (che si può scaricare da internet). La salita richiede mezz’ora. Più ci si avvicina alla bocca del vulcano addormentato, più si sente un forte odore di zolfo. Dall’alto si può godere lo spettacolo della vallata vulcanica estendersi maestosamente sotto di noi e le isole di La Gomera, La Palma ed El Hierro emergere dall’Atlantico.

Da una punta dell’isola all’altra
Oltre al Parco Nazionale del Teide, Tenerife offre al viaggiatore altre due meraviglie: le punte ovest ed est dell’isola decretate “parchi rurali”, quindi zone protette.
Le spiagge di sabbia, che hanno reso celebre Tenerife a livello internazionale, terminano a Los Gigantes, una località turistica sulla costa ovest, a partire dalla quale inizia una zona scogliosa che si protrae fino alla splendida punta del Teno. Da Los Gigantes la strada sale verso Santiago del Teide, da cui prendendo a sinistra si entra in un paesaggio montagnoso a picco sul mare con splendidi panorami fino al villaggio di Masca, diventato molto turistico perché facilmente raggiungibile dalle spiagge più affollate. Da qui un percorso panoramico molto spettacolare porta a Buenavista, da cui si può raggiungere la Punta del Teno, oltrepassando cartelli indicatori che intimano di fermarsi, ma che nessuno osserva. Montagne solitarie si ergono come giganti verso l’interno, mentre le onde poderose dell’oceano si infrangono contro gli scuri scogli lavici e sulla nera spiaggia vulcanica. Solo un faro ricorda la presenza dell’uomo.
In un paio d’ore di automobile si può raggiungere la punta opposta di Tenerife, quella a est. Una comoda autostrada conduce fino all’antica capitale, San Cristobal de la Laguna. Viaggiando in direzione del Parque Rural di Anaga la strada inizia a salire e si attraversa una zona di boschi di lauro con splendidi “mirador” (punti panoramici) sulle vallate e sul mare. Vale la pena di ridiscendere fino a Benijo, dove il paesaggio marino ricco di scogli è di una bellezza indimenticabile. La costa in questa zona colpisce per la sua struttura frastagliata e per le bizzarre formazioni laviche che spuntano dal mare e vengono investite con violenza dalle impetuose onde dell’Oceano. La regione è ricca di sentieri, ma non sempre ben segnalati.

L’architettura canaria a Laguna e Orotava
Dal 1999 La Laguna è stata inserita dall’Unesco nell’elenco dei luoghi Patrimonio dell’Umanità. E in effetti il suo centro storico è un gioiello ricco di edifici pittoreschi, di sontuose ville, di strette viuzze. La sua struttura risale agli inizi del Cinquecento, quando gli spagnoli, dopo avere conquistato l’isola alla fine del secolo precedente, vi costituirono la capitale che in seguito fu adottata come modello urbanistico per molte altre città coloniali nelle Americhe.
Un’altra cittadina coloniale degna di nota è certamente Orotava, uno dei siti più apprezzabili in stile “canario” di tutto l’arcipelago, con i suoi palazzi dotati dei tipici balconi in legno. La cittadina è molto bella anche dall’alto. In particolare dal mirador dedicato al viaggiatore tedesco del Settecento Alexander von Humboldt, che si dice cadde in ginocchio sopraffatto dalla bellezza di questo paesaggio – oggi purtroppo molto costruito – affermando: “Devo confessare di non aver mai visto altrove un’immagine così armoniosa, varia e affascinante, caratterizzata da un alternarsi di verde e roccia”.

Bibliografia
Spagna del Sud La Guida Verde, Milano 2006
Isole Canarie Lonely Planet, Torino 2008
Spagna del Sud Touring Club It., Milano 2004
Canarie Le Guide Mondadori, Milano 2011
Canarie Traveller, Milano febbraio 2003
Attilio Gaudio, Canarie Milano 1991
Tenerife Low Cost, Milano 2008
Tenerife Ada Pocket, Modena 1993

La Gomera – L’isola di Cristoforo Colombo

Tenerife

Boschi incantati che ti danno l’impressione di entrare in una fiaba, valli lussureggianti, scogliere impenetrabili interrotte da piccole spiagge incontaminate, formazioni rocciose che sembrano enormi sculture.

Boschi incantati che ti danno l’impressione di entrare in una fiaba, valli lussureggianti, scogliere impenetrabili interrotte da piccole spiagge incontaminate, formazioni rocciose che sembrano enormi sculture prodotte dall’antica attività vulcanica, bianchi paesini molto pittoreschi, una storia legata alle grandi imprese di Cristoforo Colombo: la poco conosciuta isoletta La Gomera, appartenente all’arcipelago delle Canarie, è tutto questo! Qui il turismo dei grandi numeri non arriva, salvo in una spiaggia a sud, nella Valle del Gran Rey. Fino agli anni Cinquanta, quando venne inaugurato un piccolo molo che apriva la strada al trasporto in traghetto e al commercio, quest’isola era stata isolata dal mondo ed era praticamente autosufficiente. Oggi è stata riconosciuta patrimonio dell’umanità dall’Unesco per i suoi boschi magici, che fanno parte del Parco Nazionale de Garajonay, e per un particolare linguaggio fischiato, il “silbo”, grazie al quale gli abitanti comunicavano tra loro da una vallata all’altra. Si può partire da questi due riconoscimenti per descrivere le particolarità di questo piccolo paradiso immerso nelle acque dell’oceano Atlantico.
Iniziamo dal “silbo”, questo antico linguaggio più simile al modo di comunicare degli uccelli che a quello degli umani. In condizioni ideali i messaggi fischiati potevano essere uditi fino a 4 chilometri di distanza risparmiando agli isolani la fatica di andare su e giù per i ripidi pendii soltanto per portare un messaggio a un vicino. Nato probabilmente per segnalare pericoli, con il tempo il “silbo” si è sviluppato fino a diventare un vero e proprio linguaggio. È certamente stata la conformazione del paesaggio gomero ad aguzzare l’ingegno dei suoi abitanti per elaborare questo singolare modo di comunicare a distanza. Se si guarda infatti l’isola dall’alto appare come una fortezza impenetrabile con montagne al centro che degradano verso il mare proponendo ripide scogliere. Strade strettissime e serpeggianti corrono tra pareti rocciose e gole disseminate di bianchi villaggi aggrappati a dirupi apparentemente inaccessibili.
Anche le peculiarità del Parco Nazionale servono a spiegare l’esistenza di questa isola, dove Cristoforo Colombo fece scalo durante le sue quattro spedizioni prima di affrontare l’Oceano verso le Americhe. Cercava viveri, ma soprattutto acqua. Sì perché La Gomera è ricca d’acqua. Come mai? Gli alisei, quegli stessi venti che fecero veleggiare le caravelle di Colombo alla scoperta del Nuovo Continente, avvicinandosi all’isola incontrano l’ostacolo della montagna e salendo trovano aria più fredda che si condensa sotto forma di nebbia. Queste nuvole accarezzano le foreste di lauri di cui sono ricchi i boschi e provocano le condizioni ideali affinché sugli alberi si formino delle muffe, che ricoprono completamente i tronchi e i rami creando un’atmosfera magica. Grazie a queste muffe l’umidità viene catturata e trasformata in goccioline che penetrano delicatamente nel terreno e si trasformano in graziosi ruscelli.

Strade panoramiche a strapiombo sul mare
Il modo migliore per visitare La Gomera è certamente quello di percorrerla in auto e di fare tappa agli innumerevoli “miradores” per godersi panorami eccezionali. Per apprezzare l’isola ci vogliono almeno due giorni: uno dedicato al giro del suo territorio, un altro al Parco Nazionale. La Gomera è raggiungibile in aereo dai copoluoghi dell’arcipelago oppure con la nave in un’ora di navigazione dalla spiaggia di Los Cristianos a Tenerife. Offre uno splendido Parador con ottima cucina a prezzi contenuti (fa parte della catena di alberghi gestita dallo Stato spagnolo) e una magnifica vista sul mare.
L’escursione del giro dell’isola richiede un’intera giornata su strade molto agevoli, che portano dal mare alla montagna e viceversa nel giro di pochi minuti. Salendo si gioca a nascondino con le nuvole, poi, quando ci si avvicina al mare il sole torna a splendere come per incanto. I panorami sono da mozzafiato: sul mare, sulle ridenti vallate che scendono verso l’Oceano, sulle montagne brulle e su altre di un verde rigoglioso. A ogni curva lo scenario si modifica e diventa sempre più avvincente. È una gita che non si vorrebbe finisse mai, tanto sono spettacolari i paesaggi attraversati.
Ho girato tante isole, ma raramente ho trovato strade panoramiche tanto affascinanti. La Gomera è bella nel suo insieme, non offre villaggi o spiagge particolari, ma merita davvero di essere visitata. Anche per scoprire il suo Parco Nazionale. Camminare nel Parco è un’emozione. Attraversando i boschi di lauro sembra di inoltrarsi in un racconto di fantascienza. Le piante paiono non avere tronco, perché sono completamente ricoperte di muschio: in alcuni luoghi piatto, in altri rigonfio per cui ne raddoppia il diametro. Anche i rami vengono completamente ricoperti di verde, che in certi casi si trasforma in una sorta di barba ballonzolante. È difficile esprimere a parole le emozioni che si provano, così come nessuna foto riesce a descrivere il mistero di questi boschi. Per apprezzarne la magia bisogna viverli, percorrerli per ore lasciandosi condurre da Riccardo, che ne conosce gli angoli più suggestivi.
Se avrete fortuna potete incontrare Luis, un personaggio molto alternativo e uno dei pochi sull’isola in grado di interpretare il “silbo”, il linguaggio segreto di questi luoghi. Abbiamo incontrato Luis in un ristorante sulla graziosa piazzetta di Vallehermoso. Ci ha spiegato e dimostrato, sotto gli occhi dei turisti attoniti, la filosofia di quel modo di comunicare che lui ha appreso da suo nonno e che teme stia scomparendo nonostante sia protetto dall’Unesco. Mentre ci dirigevano verso l’auto parcheggiata ad alcune centinaia di metri ci accompagnava il suo saluto, interpretato fischiando in tutte le lingue.

Tutto ricorda Colombo
Nel capoluogo dell’isola, San Sebastian de La Gomera, tutto ricorda Cristoforo Colombo. Un piccolo museo nella Casa de la Aguada ripercorre le tappe della scoperta del Nuovo Mondo. Sopra il pozzo che si trova nel patio, dove secondo la tradizione Colombo si rifornì di acqua prima di affrontare l’Oceano, si legge la scritta: “Con quest’acqua fu battezzata l’America”. Nella graziosa chiesetta della Virgen de la Asuncion viene ricordato che Colombo e i suoi uomini si recarono a pregare prima di mettersi in viaggio. Poco distante sorge la Casa de Colon, costruita nel luogo in cui si suppone abbia alloggiato il celebre navigatore durante la sua permanenza sull’isola, che sembra non fosse dettata solo dalla necessità di imbarcare acqua e provviste, ma anche da una piccante storia sentimentale con Beatrice di Bobadilla. La bella moglie del crudele governatore spagnolo Hernan Peraza non fece girare la testa solo a Colombo, ma persino al re di Spagna Ferdinando il Cattolico, suscitando l’odio della regina Isabella.

Bibliografia
Spagna del Sud La Guida Verde, Milano 2006
Isole Canarie Lonely Planet, Torino 2008
Spagna del Sud Touring Club It., Milano 2004
Canarie Le Guide Mondadori, Milano 2011
Canarie Traveller, Milano febbraio 2003
Attilio Gaudio, Canarie Milano 1991

Francia – Nel Languedoc-Roussillon vicino alla frontiera spagnola

Francia – Nelle terre dove si consumò la tragedia degli eretici catari
Francia – L’armonia di Toulouse tra passato e presente

Un viaggio nel cuore dei territori che diedero i natali o ospitarono personaggi chiave della cultura francese come Molière, Toulouse-Lautrec, Matisse e Gauguin. Alla scoperta di città che hanno saputo conciliare tradizione storica e sviluppo industriale. Sulla splendida Côte Vermeille che al tramonto si colora di rosso.

Lasciate alle spalle la Costa Azzurra e la Provenza, oltrepassato il Rodano, si prosegue verso sud lungo la costa mediterranea fino al confine con la Spagna catalana per scoprire un mondo meno turistico che vi sorprenderà. Ci troviamo nel Languedoc-Roussillon. Le rocche catare ricordano le sanguinose battaglie del medioevo, ma anche il tempo in cui la lingua d’oc univa la storia e la letteratura di questa terra per raccontare la sua leggenda. Fondata sull’antico latino del clero, ma più viva, più docile e galante, la lingua dei trovatori del XII secolo compì il miracolo di unificare le genti del Sud e di incantare le corti vicine con la sua poesia. La Languedoc ama tuttora conservare la sua eredità occitana, così come il Roussillon, possedimento spagnolo fino al trattato dei Pirenei (1659), mantiene forti accenti d’influenza catalana. Questa terra appassionata, bruciata dal sole e ricca di tradizioni, ha fatto parte della Catalogna per secoli. Francese sulla carta resta profondamente catalana nell’animo, con la sua lingua, con le sue fiestas in cui la sangria scorre a fiumi e con la sua danza folcloristica chiamata sardana.
Il Languedoc-Roussillon offre una ricchezza immensa di natura, storia, arte e cultura, ma anche le grandiose officine che hanno visto nascere il supersonico Concorde e i modernissimi Airbus. Per visitare tutte le città e i luoghi degni di nota ci vorrebbero settimane. Il nostro itinerario, che si articola su nove giorni, è frutto di scelte impietose, dettate da interessi storici – castelli e conventi che furono protagonisti della tragica vicenda della corrente cattolica dissidente dei Catari – e artistici per quanto riguarda le città.

Albi, città natale di Toulouse-Lautrec
La terra si tinge di rosso, man mano che ci si avvicina ad Albi, dello stesso colore dei mattoni con cui sono costruiti i monumenti e le case di questa città, come quelli della vicina Toulouse, che dista una settantina di chilometri. Su uno sperone di roccia che domina il fiume Tarn svetta maestosa la cattedrale di Santa Cecilia. È circondata da verdi poggi che creano un suggestivo contrasto con il vermiglio dei mattoni. A vederla da lontano ricorda una fortezza vittoriosa a testimonianza dello spietato potere della Chiesa che tra il XII e il XIII secolo annientò il movimento eretico dei catari, chiamati anche albigesi perché ebbero le loro origini in questa città. Capolavoro del gotico meridionale è considerata una delle cattedrali architettonicamente più importanti di Francia. Massiccia e severa all’esterno, internamente è ingentilita da un recinto marmoreo che delimita il coro, così abilmente scolpito nel calcare bianco da apparire come un ricamo.
Sulla stessa piazza si affaccia l’ex sede arcivescovile, un maestoso palazzo seicentesco che ospita la più ricca collezione al mondo di opere di Toulouse-Lautrec. Il pittore del Moulin Rouge, narratore sagace, brillante e quasi impertinente d’un preciso contesto storico, cioè l’alba della Bella Èpoque, nacque ad Albi nel 1864 da una ricca famiglia nobile. Fragile, sgraziato, minato dal nanismo morì a 37 anni alcolizzato e malato di sifilide. Pittore alieno dai falsi pudori e da ogni moralismo, incompreso dalla famiglia che gli chiedeva di firmarsi con uno pseudonimo, ebbe un’esistenza infelice nonostante il successo della sua opera. Le sue composizioni sono animate da facoltosi signori e prostitute d’alto rango: al centro si trova spesso una donna con i capelli tinti di biondo o di rosso, uno sguardo invitante, il trucco pesante, l’aria sfrontata; gli uomini sono in seconda fila: buoni, s’intuisce, solo per il loro denaro.

Toulouse, patria del Concorde, ma…
Toulouse è una città affascinante e per me è stata una scoperta. Si racconta che la “ville rose” sia rosa all’alba, dorata a mezzogiorno e fiammeggiante al tramonto, una magia prodotta dalle tonalità che assumono i mattoni d’argilla del fiume Garonna con cui sono costruiti i palazzi, i muri, le splendide chiese del settimo centro urbano di Francia. Nonostante abbia una popolazione di oltre mezzo milione di abitanti e sia sede dell’industria aeronautica francese ed europea si offre al visitatore con un’atmosfera rilassata e simpatica che lo fa sentire a proprio agio. Passeggiando per le antiche vie del centro storico si percepisce una vitalità moderna e al tempo stesso la tradizione di questa città che fu capitale dell’antico Languedoc e vide nascere all’inizio del XIV secolo la più antica società letteraria europea per perorare la causa della langue d’oc, la lingua della Francia meridionale. Il papato considerava Toulouse una roccaforte per consolidare il suo potere temporale, per riconquistare la Spagna sottraendola ai musulmani e per estirpare l’eresia catara. Nel XVI secolo la città conobbe un momento di splendore perché depositaria del segreto dell’ “oro blu”, un colore ottenuto dal pastel, una pianta il cui fogliame macerato e lavorato dava una tintura azzurra indelebile. Un secolo più tardi un visionario costruì il Canal du Midi per collegare Toulouse al Mediterraneo. Nell’ottocento arrivò il collegamento con l’Atlantico tramite il Canal de la Garonne. Anche la storia dell’aviazione deve molto a questa città, oggi capitale europea dell’aeronautica con gli enormi stabilimenti, ogni anno visitati da centinaia di migliaia di persone, dove vengono costruiti i prestigiosi Airbus.
La maestosa cattedrale di St. Sternin, la più grande chiesa romanica d’Europa, sta a testimoniare l’importanza attribuita dal papato a Toulouse. Costruita tra la fine del XI e la metà del XIII secolo costituiva una tappa d’obbligo per i pellegrini che seguivano il cammino verso Santiago di Compostela. Sostavano qui per venerare l’inestimabile raccolta di reliquie di santi ospitate nel deambulatorio.
Precorre invece di quasi due secoli la costruzione delle volte acute proposte dal tardo gotico la soluzione escogitata dall’architetto nel convento dei Jacobins per unire due chiese con un’ardita volta a nervature composta da 22 archi radiali.
Da non perdere inoltre la ricca collezione di sculture e capitelli romanici del XII esposte nel Musée des Augustins.

Dalla Pézenas, di Molière…
Passeggiando per le vie lunghe e strette di Pézenas si incontrano dimore signorili e residenze seicentesche adorne di eleganti balconi in ferro battuto ed elaborati portali che riportano indietro nel tempo. La cittadina ha mantenuto la sua struttura antica. Place Gambetta non è probabilmente cambiata molto rispetto al seicento, quando il grande commediografo francese Jean-Baptiste Poquelin detto Molière (1622-1673) si sedeva nella bottega del barbiere Gély per ascoltare le chiacchiere dei clienti e trarne ispirazione per le sue pièce, che proponevano una critica feroce alla morale dell’epoca, mettendo in luce gli aspetti comici della vita mondana del tempo. Attento osservatore della realtà, Molière può essere considerato un precursore del teatro moderno. Nel palazzo Peyrat viene proposto uno spettacolo con filmati tridimensionali che percorre le tappe principali della vita del grande commediografo, partendo dall’infanzia quando il nonno materno gli trasmise la passione per il teatro, passando per i momenti difficili della carriera per giungere al trionfo dell’attore-autore, grande conoscitore dei gusti del pubblico e apprezzato dal sovrano Luigi XIV.

…alla Collioure di Matisse e Derein
La Côte Vermeille deve il suo nome al colore rosso-rosato che assume al tramonto. Inoltrandosi nella campagna ai piedi dei Pirenei tra vigneti e coltivazioni di mandorli e fichi si può salire verso un’emozionante “Haute corniche”. Larga poco più di un’automobile costeggia il mare, evidenziandone tutta la gamma dei blu, e offre indimenticabili vedute sulla costa scogliosa e sui suoi villaggi. Quando si scende e si percorre la litoranea quelle borgate che si affacciano sul mare perdono lo charme che avevano osservati dall’alto, salvo Collioure. Questa affascinante cittadina si affaccia su due porticcioli separati dal castello del XIII secolo e offre un piacevole lungomare che porta a una seicentesca chiesina fortificata da cui si dipartono viuzze dai balconi fioriti e pittoresche scalinate su cui si annidano i caffè all’aperto. “Nessun cielo di Francia è più bello di quello di Collioure. Mi basta aprire le imposte della mia stanza per avere davanti a me tutti i colori del Mediterraneo”. Così scriveva Henri Matisse (1869-1954) nell’estate del 1905 al collega pittore André Derain (1880-1954) per convincerlo “che un soggiorno qui è assolutamente necessario per il suo lavoro”. Derain lo raggiungerà e quell’estate i due colleghi lavoreranno fianco a fianco davanti al mare di Collioure: il colore deflagrerà violento dalle loro tele per dare vita al “fauvisme”, un movimento senza regole e senza divieti, ribelle e anarchico, rivoluzionario, che contrapponeva la verità dell’emozione alla consueta verità della visione. La violenza di quella luce del sud cancellava la profondità, appiattiva i volumi, sopprimeva le ombre e, soprattutto esaltava i colori facendoli esplodere sulla tela “come cartucce di dinamite”.

Itinerario

1° giorno
Locarno-Castillon du Gard (646 km)

2° giorno
Castillon du Gard-Albi

3° giorno
Albi-Tolosa-Carcassone (135 km)

4° giorno
Carcassone-Fontfroide-St. André de Roquelongue (70 km)

5° giorno (Castelli Catari)
St. André de Roquelongue-Termes- Ch. Aguilar-Ch. Queribus-Ch. Peyrepertuse-Cucugnan (130 km)

6° giorno (Conventi)
Cucugnan-St. Antoine-Serratone-St. Michel-Moltig (135 km)

7° giorno (La Côte Vermeille)
Moltig-Collioure (150 km)

8° giorno
Collioure-Pézenas-Salon de Provence (326 km)

9° giorno
Salon de Provence-Locarno (635 km)