Stati Uniti – Grand Canyon e Monument Valley

Stati Uniti – Bryce Canyon e Death Valley
Stati Uniti – Da San Francisco a Los Angeles
Stati Uniti – Quando la natura diventa artista, ecco il fascino dei grandi parchi
Stati Uniti – I nostri legami con la California attraverso la storia degli emigranti

I parchi nazionali del “Far West” negli Stati Uniti offrono certamente alcuni dei paesaggi più spettacolari e straordinari al mondo. L’itinerario che tocca gli stati della California, dell’Arizona, dello Utah e del Nevada richiede tra i 15 e i 20 giorni per visitare velocemente anche Los Angeles, San Francisco e la suggestiva costa atlantica che collega queste due metropoli molto particolari.
Un volo Swiss diretto collega Zurigo a Los Angeles in tredici ore all’andata e undici al ritorno. Si arriva nella metropoli californiana la sera e il mattino seguente si può iniziare subito l’itinerario, rimandando la visita di Los Angeles alla fine del viaggio, oppure si può fare il contrario.

Da Los Angeles a Palm Springs
Lasciata Los Angeles ci inoltriamo quasi subito nel deserto e in un paio d’ore – 200 chilometri circa – si raggiunge Palm Springs, una sorta di oasi di lusso assurta agli onori della cronaca negli anni Sessanta quando veniva scelta come meta di vacanza da artisti famosi come Frank Sinatra ed Elvis Presley. Da allora molte persone facoltose hanno costruito le loro ville in quartieri con strade perpendicolari che paiono tracciate con il righello. Prima dell’arrivo degli Yankee la zona era abitata dalle tribù indiane dei Cahuilla (oggi gestiscono le case da gioco della valle) attratte dalle acque che scendono dalle San Jacinto Mountains, che costituiscono il vero punto di interesse del luogo. In dieci minuti, con una funivia di fabbricazione svizzera e rotante su sé stessa – per garantire la splendida vista a tutti gli occupanti – si sale fino a 3 mila metri, passando dal deserto a una vegetazione alpina e compiendo un’escursione termica equivalente a quella che si registra spostandosi in automobile dal Messico al Canada. Il panorama spazia dal deserto all’oasi di Palm Springs punteggiata da campi da golf e da centri di villeggiatura d’élite, che contrastano con i pini caratteristici dei percorsi escursionistici che si diramano dalla vetta. Ma per noi è ora di proseguire verso la regione del Grand Canyon. Facciamo tappa per la notte a Kingman in Arizona, un anonimo agglomerato di stazioni di servizio e di motel, in uno dei quali ci fermiamo posteggiando la nostra automobile sotto la camera che ci ospiterà per la notte: proprio come si vede nei film americani.
Il mattino seguente partiamo per il Grand Canyon percorrendo un lungo tratto della mitica Route 66, quella che il romanziere John Steinbeck chiamò la “Mother Road”, la madre di tutte le strade, costruita nel 1926 per collegare Chicago con la lontana Los Angeles. Ricordate il film “On the road” in cui il protagonista percorre questa storica arteria a bordo di una Harley Davidson?
Città di riferimento del famoso parco è Grand Canyon Village, solito centro squadrato e senz’anima, ricco di motel e stazioni di servizio, che raggiungiamo in fine mattinata. Se si prenota con molto anticipo si ha forse la fortuna (che noi non abbiamo avuto) di trovare posto a El Tovar hotel, una struttura in legno d’inizio Novecento situata sui bordi del precipizio del Grand Canyon.

Grand Canyon l’arte della natura
Nessuna fotografia e nessuno testo può descrivere ciò che si vede e si prova di fronte al Grand Canyon. È un’esperienza che va vissuta di persona e che vi consiglio caldamente di fare. Ogni descrizione rischia di essere banale. Posso solo dire che mentre camminavamo per circa quattro ore lungo il precipizio e ci si presentavano visioni sempre diverse con colori continuamente differenti, esaltati dalle diverse posizioni del sole, pensavo che nessun essere umano riuscirà mai ad eguagliare la straordinaria potenzialità artistica della natura.
Ci sono voluti quasi due miliardi di anni per creare questa meraviglia, una fessura lunga 445 chilometri, larga 16 e profonda circa 1600 metri, con centinaia di canyon laterali. All’alba e al tramonto la luce colora in modo intenso e magico le pareti rocciose: strisce di verde, blu, porpora, rosa, arancione, oro, giallo e bianco definiscono una successione di antichi strati, che permettono di effettuare uno straordinario viaggio geologico a ritroso nel tempo.
Questo luogo affascina i visitatori sin dai primi anni della rivoluzione industriale, quando giungevano nel canyon alla ricerca dell’ideale romantico della natura selvaggia per abbracciare il concetto di bellezza sublime. Oggi è visitato annualmente da cinque milioni di turisti provenienti da ogni angolo del mondo. In automobile si giunge fino al Visitor center del versante sud (quello nord è raramente visitato), da cui si prosegue con un efficiente servizio gratuito di bus navetta che collega i vari punti panoramici. Una comoda passeggiata di circa 12 chilometri a picco sul precipizio collega i “view points” più spettacolari del lato sud-ovest. Vale la pena di percorrerla in 3-4 ore perché i panorami si modificano davanti a voi come in un caleidoscopio. Sul fondo si scorge dall’alto il tranquillo percorso del fiume Colorado, che ha scavato il canyon nel corso di milioni di anni. I più allenati possono anche scendere al fiume, ma l’escursione richiede due giorni, dato l’elevato dislivello (oltre 1600 metri) e le temperature del periodo estivo, che soprattutto in basso superano facilmente i 40 gradi.

Antelope Canyon e Monument Valley
Il mattino seguente percorriamo in automobile il lato sud-est, che propone altri belvedere con panorami spettacolari. In tre ore (220 km) raggiungiamo la cittadina di Page, da dove parte un’escursione organizzata (è necessario prenotare, anche via internet), per visitare l’Antelope Canyon, uno straordinario corridoio tra due pareti rocciose in arenaria considerato il paradiso dei fotografi e riprodotto in migliaia di immagini, ma stranamente trascurato dalle principali guide turistiche. L’escursione in fuoristrada attraversa alcuni chilometri di deserto in una riserva della tribù indiana Navajo prima di giungere al profondissimo e strettissimo canyon – in alcuni punti ci passa a malapena una persona – illuminato dalla luce che penetra dall’alto creando immagini molto particolari. La roccia è levigata e propone tutte le tonalità dal rosa al rosso porpora. Le fotografie che mostrano le sue venature e forme strane, esaltate dalla luce zenitale tenue, ricordano opere di scultura moderna. Lo spettacolo mi fa di nuovo riflettere sulle potenzialità artistiche della natura.
Usciti dal canyon, ci troviamo vicino al Lake Powell, un vastissimo lago artificiale navigabile. Ha sommerso una vallata e offre visioni surreali con spuntoni di roccia che emergono minacciosi e imponenti dalle acque tranquille. Lo si visita noleggiando imbarcazioni a bordo delle quali si possono trascorrere alcuni giorni. Il nostro programma di viaggio non prevede purtroppo questa opportunità, per cui proseguiamo verso la Monument Valley, che raggiungiamo nel tardo pomeriggio dopo altre due ore e mezzo di automobile (180 km). Si trova in una riserva indiana dei Navajo situata a cavallo tra gli stati dell’Arizona e dello Utah, dove cambia anche il fuso orario: è un’ora più avanti. Decidiamo di rimandare la visita del Parco nazionale all’indomani mattina anche perché alloggiamo al Goulding’s Lodge, un albergo storico che propone un piccolo museo sulla storia cinematografica del luogo, dove si può visitare la camera di John Wayne e assistere, in una piccola sala cinematografica, alle proiezioni di opere indimenticabili come “Il massacro di Fort Apache” del 1948 o “I cavalieri del Nord Ovest” dell’anno seguente che furono girati qui. Dal 1938, quando il celeberrimo regista John Ford girò in questi luoghi “Ombre rosse” con uno sconosciuto John Wayne nel ruolo di Ringo Kid, la Monument Valley divenne infatti il set prediletto dei film western. Il piccolo museo è un po’ trasandato e decadente, ma è forse proprio questo il suo fascino. Le fotografie ingiallite sono numerosissime e presentano gli attori che hanno alloggiato al Goulding’s. Molti anche i cartelloni di quei film che per me hanno rappresentato l’immagine dell’America del West.
La mattina alle 9 parte la nostra gita organizzata della durata di circa quattro ore in fuoristrada lungo le piste della Monument Valley guidati da un Navajo. Nudi contrafforti in arenaria e impervi pinnacoli di roccia si ergono fino a 300 metri di altezza da un terreno desertico relativamente piatto di sabbia rossa. Il sole basso del mattino esalta con una luce sorprendentemente intensa i colori della roccia. Con l’immaginazione vedo John Wayne cavalcare veloce in quel paesaggio da sogno, sicuramente tra i più spettacolari di tutta l’America.
Queste terre non vanno però purtroppo ricordate solo per i racconti epici dei film western, bensì anche in quanto teatro di una delle vicende più vergognose della storia statunitense: il trasferimento forzato di alcune migliaia di Navajo, noto come Long Walk (lunga marcia), per 500 chilometri verso il New Mexico. Dopo quattro anni di stenti fu infine concesso loro di tornare nelle loro terre. Oggi qui vivono ancora circa 100 mila nativi americani che parlano la propria lingua, un linguaggio così complesso che è stato usato come codice segreto dall’esercito statunitense durante la seconda guerra mondiale.

Itinerario

1° giorno
Zurigo-Los Angeles

2° giorno
Los Angeles

3° giorno
Los Angeles-Palm Springs (194 km)
Palm Springs-Kingman (386 km)

4° giorno
Route 66
Kingman-Seligman (140 km)
Seligman-Grand Canyon (160 km)

5° giorno
Grand Canyon-Page (220 km)
Page-Monument Valley (180 km)

6° giorno
Monument Valley-Arches Np (270 km)

Stati Uniti – Bryce Canyon e Death Valley

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Prosegue il nostro itinerario attraverso i parchi nazionali dell’America dell’Ovest. Dopo il Grand Canyon, l’Antelope Canyon e la Monument Valley ci dirigiamo nello Utah verso l’Arches National Park. Il trasferimento richiede poco più di tre ore d’automobile (270 km) attraversando paesaggi desertici tanto incantevoli che il governo degli Stati Uniti sta pensando di trasformare in Parco nazionale l’intero stato dello Utah. La città di riferimento dell’Arches National Park è Moab, un villaggio minerario (si estraeva uranio fino agli anni Cinquanta) con strade perpendicolari, sviluppatosi soprattutto negli ultimi anni per accogliere i turisti che visitano Arches e Canyonlands.

Arches National Park, architettura naturale
La nostra visita inizia nel tardo pomeriggio e prosegue il mattino seguente. Percorriamo dapprima la strada asfaltata di circa 30 chilometri che serpeggia attraverso il Parco: unica traccia umana in un territorio lunare composto da dune pietrificate e massicci speroni di arenaria dalle forme più disparate. Nella roccia milioni e milioni di anni di erosione provocati da acqua, sole, vento e gelo, hanno scolpito oltre ottocento archi naturali di varie forme e dimensioni. I colori della pietra vanno dal verde all’ocra, dal bianco al rosso e si mescolano con il verde scuro dei ginepri. Il più spettacolare, a mezz’ora di cammino dalla carrozzabile, è il Landscape Arch, che con i suoi 93 metri di diametro figura tra i più ampi al mondo. Ma il monumento naturale più bello del parco è certamente il “Delicate Arch”, un piccolo arco del trionfo in roccia abbarbicato sull’orlo di un profondo canyon. Nessuno potrebbe mai immaginare che sia solo opera della natura. Lo si può raggiungere con una lunga passeggiata o ammirare da un belvedere più lontano camminando per mezz’ora. Imponente il “Double Arch”: una coppia di archi robusti che si sostengono a vicenda. È situato in una zona facilmente accessibile (Window), dove si trova la maggiore concentrazione di archi del parco.
Il nostro viaggio delle meraviglie prosegue verso un altro luogo di grande suggestione e di fama mondiale: il Bryce Canyon, dal quale ci separano oltre 400 chilometri, circa 7 ore di automobile, durante le quali si passa sorprendentemente da splendidi paesaggi desertici a una vegetazione di tipo alpino quando si sale a quasi 3000 metri. La strada panoramica HWY 12 prevede anche l’attraversamento del Capitol Reef National Park, caratterizzato da rocce variopinte che contrappongono la loro imponenza all’amenità delle fresche oasi ricche di piante da frutta che costeggiano il serpeggiante corso del Fremont River.

L’anfiteatro del Bryce Canyon
Il Bryce in effetti non è un canyon, ma un anfiteatro in pietra immerso in un vasto altopiano ammantato di fitto bosco a un altezza di 2400 metri. Lo spettacolo che offre è costituito da un tripudio di guglie e pinnacoli dai colori diversi e tutti caldi, che vanno dal giallo, al rosso e all’arancione. Queste straordinarie sculture naturali sono state erose nell’arenaria fangosa dal connubio fra inverni gelidi (qui la temperatura scende al di sotto dello zero per duecento notti all’anno) e precipitazioni estive. I pinnacoli presentano un cappello di roccia dura che si forma quando il fusto, più soffice, viene dilavato dalle piogge. Gli indiani Paiute, che vivevano in questa regione, diedero al luogo il complesso nome di “rocce rosse in piedi come uomini, in un canyon a forma di scodella”. Per i primi coloni che si dedicavano invece all’allevamento questo era considerato “un diavolo di posto dove perdere una mucca”.
Una strada panoramica di circa 30 chilometri percorre il parco e dà accesso a numerosi belvedere da cui ammirare l’incredibile anfiteatro naturale. I view points più spettacolari sono certamente il Bryce Point e, a poca distanza, i due punti Sunset e Sunrise che sono collegati tra loro da un sentiero che corre sul bordo superiore del Bryce Amphitheater, vicino al Visitor center. Se si ha la fortuna di trovare una stanza in uno dei semplici ma simpatici bungalow del Bryce Canyon Lodge si alloggia nel cuore di questo spettacolare belvedere. Ma la parte più emozionante e da non perdere della visita è una passeggiata di due ore scarse che scende in mezzo alle guglie e segue un sentiero che collega Sunset e Sunrise. Percorrendolo si ha l’impressione di passeggiare in un paesaggio surreale e incantato, indescrivibile a parole e pure con le immagini. Provare per credere!

A Las Vegas via Zion Park
Circa cinque ore di automobile – oltre 400 chilometri – separano la pace del Bryce Canyon dal frastuono di Las Vegas, la capitale mondiale del gioco d’azzardo. Ma prima di raggiungere questa incredibile città immersa nel deserto, dopo due ore di guida, giungiamo allo Zion National Park, che attraversiamo e visitiamo velocemente. Creato nel 1919, fu uno dei primi parchi nazionali americani. Si tratta di un canyon lungo 13 chilometri, largo e profondo 800 metri, una gola spettacolare incastrata fra imponenti pareti rocciose che amplificano il rumore delle fresche cascate. A valle delle alte falesie si trova un’oasi lussureggiante in cui scorre il Virgin River. In estate i collegamenti tra i punti più belli del parco sono affidati a un efficiente servizio navetta gratuito, che parte a intervalli regolari dal Visitor center. L’offerta escursionistica è amplissima, ma il nostro itinerario non prevede passeggiate, anche perché si tratta di un tipo di paesaggio a noi più familiare rispetto ai precedenti.
In altre tre ore raggiungiamo Las Vegas: caotica, affollata, caldissima. È un’altra America rispetto a quella dei giorni precedenti e di quelli che ci attendono. Si fatica a credere che un tempo fosse una città normale e che l’attuale fastoso Boulevard fosse un’arteria polverosa costeggiata dai soliti motel di periferia. Oggi ospita alberghi lussuosissimi e kitchissimi, come la piramide a 36 piani del Luxor o il castello pseudomedievale con tanto di ponte levatoio e torri merlate dell’Excalibur. Propone ricostruzioni esuberanti e meticolose della Grande Mela al New York–New York, di Venezia con tanto di campanile di San Marco, Palazzo dei Dogi e Ponte del Rialto al Venetian, della Tour Eiffel, ridotta a metà delle dimensioni, al Paris, dell’idilliaco villaggio sul lago di Como al Bellagio. Al Caesars Palace si è serviti da centurioni romani mezzi nudi e al Mirage si assiste ogni 15 minuti alle eruzioni di un vulcano. Ovunque macchinette mangiasoldi e tavoli verdi dove si può tentare la fortuna assieme a un popolo effervescente. Sbalorditi e storditi torniamo in camera non troppo tardi perché il giorno seguente ci attende una delle tappe più interessanti del viaggio: la Death Valley.

Il caldo torrido della Death Valley
È una delle zone più calde e incontaminate del pianeta. In estate la temperatura supera facilmente i 50 gradi. Un termometro lasciato esposto al sole può salire rapidamente oltre i 65 e letteralmente esplodere. Gli americani ci vengono dall’inizio di febbraio ad aprile, ma noi stranieri non ci lasciamo sfuggire anche in altre stagioni una visita in questo luogo che evoca tutto ciò che nella nostra immaginazione associamo ai deserti: paesaggio inospitale, caldo infernale, solitudine totale. Questo territorio ha rappresentato un ostacolo insormontabile per le carovane di emigranti che nell’Ottocento attraversavano l’America. Deve il suo nome proprio a un gruppo di disperati che nel 1849 cercò per settimane una via d’uscita da questa valle. Quando la trovarono, una donna si voltò ed esclamò “Good–bye, death valley”. Per noi turisti europei appare invece come un luogo incantato con gigantesche dune di sabbia, canyon marmorizzati, crateri di vulcani estinti, oasi ombreggiate, che si contrappongono a montagne di oltre 3 mila metri. Una straordinaria vista panoramica dall’alto si gode dal Dante’s View a quota 1668, che si raggiunge in automobile.
Gli appassionati di cinema ricorderanno l’indimenticabile “Zabriskie Point” di Michelangelo Antonioni, quando due giovani alla ricerca di se stessi fanno l’amore tra queste dune di sabbia pietrificate, dal nome appunto di Zabriskie Point. Una strada asfaltata conduce a Badwater, uno dei luoghi più bassi del pianeta, situato 86 metri sotto il livello del mare, sulle rive di un bianchissimo lago salato. Due piste a senso unico (Twenty Mule Team Canyon e Artists Drive) permettono di penetrare in un paesaggio desolato tra dune e colline con sfumature dal rosso cupo, al marrone e al color sabbia: si ha l’impressione di trovarsi fuori dal mondo, soprattutto se la sera prima si era a Las Vegas. Se si trova posto, vale la pena alloggiare nello storico Furnace Creek Inn, che accoglie turisti sin dal lontano 1927.
Il nostro itinerario tra i parchi nazionali volge al termine, ma ci attendono ancora una breve visita allo Yosemite e una piacevole sorpresa.

Un villaggio dimenticato
Senza molta convinzione seguiamo una deviazione raccomandata dalle guide verso Bodie State Historic Park e troviamo una piccola chicca: un antico villaggio minerario sperduto tra le montagne abbandonato all’inizio del Novecento. L’amministrazione dei parchi nazionali non è intervenuta con restauri, ma ha lasciato tutto com’era, senza nemmeno ordinare ciò che si trovava all’interno delle case, offrendo così ai visitatori uno spettacolo incredibile. Sembra di passeggiare sulla strada principale di uno di quei villaggi tipici dei film western con la chiesa, la scuola, la prigione, il saloon, l’albergo, il barbiere, eccetera. Mancano solo i cowboys, lo sceriffo e le ragazze al bancone che servono il whisky. Durante la corsa all’oro, nella seconda metà dell’Ottocento, questa cittadina aveva 10 mila abitanti e una pessima reputazione: si dice vi regnasse l’illegalità. Esaurito l’oro andò quindi decadendo e nel 1932 venne in gran parte distrutta da un incendio. Si sono salvati solo 150 edifici, che bastano però per far rivivere l’atmosfera ottocentesca dei periodi della febbre dell’oro.

Lo Yosemite, piccola Svizzera
Lo Yosemite è uno dei parchi più rinomati degli Stati Uniti – venne dichiarato Parco Nazionale dal Congresso nel lontano 1890 – e uno dei più amati dagli americani, ma per noi è meno sorprendente per i suoi paesaggi, splendidi ma familiari e molto simili a quelli alpini più idilliaci: prati verdi con le mucche al pascolo, foreste di conifere, placidi laghetti alimentati da romantici ruscelli. Offre innumerevoli possibilità di escursionismo ed è affollatissimo. Nei pressi di Yosemite Village il paesaggio diventa imponente, caratterizzato da mastodontiche pareti rocciose in granito, tra cui El Capitan, la rupe a picco ininterrotta più alta del mondo. La maggiore attrazione di questa zona è costituita da una sorprendente cascata che precipita per oltre 700 metri, dando vita a tre spettacolari salti. Purtroppo il tempo a disposizione è limitato e ci costringe ad operare delle scelte. Dedichiamo così poco, forse troppo poco tempo, alla visita di questo parco. Ci spostiamo per la notte nella zona sud, per avvicinarci ai boschi di sequoie giganti che abbiamo in previsione di visitare il mattino seguente, ma alle 9 il parcheggio è già esaurito e bisogna attendere. Decidiamo quindi di proseguire per la Napa Valley e per San Francisco che raggiungiamo passando dal mitico Golden Gate.

Itinerario

7° giorno
Moab-Bryce Canyon (440 km)
HWY12 (panoramica) Hanksville-Cannonville

8° giorno
Bryce Canyon-Las Vegas
– Bryce Canyon-Zion NP (150 km)
Zion NP-Las Vegas (270 km)

9° giorno
Las Vegas-Death Valley
Las Vegas-Furnace Creek (230 km)

10° giorno
Death Valley-Yosemite
Furnace Creek-Bodie (420 km)
Bodie-Fish Camp (200 km)

11° giorno
Yosemite-San Francisco
Fishcamp-Napa Valley (372 km)
Napa Valley-San Francisco (50 km)

Egitto – Al sud, tra Nilo e deserto

Egitto – La città di Luxor, l’antica Tebe
Egitto – Un’autostrada del turismo
Egitto – I diversi volti dell’Islam

I templi dell’epoca tarda (300-30 a.C.) di Aswan, Kom Ombo,Idfu e Esna. La diga degli anni Sessanta che ha cambiato la vita del paese. La spettacolare Abu Simbel, salvata dalle acque del Lago Nasser grazie all’intervento dell’Unesco

Quando si pensa alla civiltà egiziana ci si dimentica spesso che ci si riferisce a un periodo lunghissimo che va dal 3000 a.C., quando nasce la prima dinastia faraonica, fino al 30 a.C., quando l’Egitto diventa una provincia romana. Un periodo quindi di quasi tremila anni, che ha conosciuto alti e bassi. I momenti migliori hanno sempre coinciso con un forte potere centrale, quelli difficili sono invece stati caratterizzati da divisioni politiche e sociali del paese. Un altro elemento fondamentale per comprendere questa straordinaria civiltà è il ruolo del Nilo, che quando nel corso dell’estate straripava ricopriva le rive, su un’estensione di alcuni chilometri, depositando un prezioso limo che rendeva fertilissima la terra. La grande ricchezza di questo paese, stretto tra due deserti, era legata al suo fiume, sulle cui sponde pulsava la vita allora, come avviene ancora oggi.
Il nostro itinerario segue dunque il tragitto del Nilo, ma a ritroso nel tempo. Nel senso che partiamo dall’epoca tarda faraonica cioè dal 300 a.C. al 30 a.C., quando il paese aveva trovato una difficile convivenza tra la civiltà egizia e quella greca, e giungiamo al periodo aureo toccato durante la XVIII dinastia (1540-1292 a.C.) e l’inizio della XIX (1292-1186 a.C.). La visita dello straordinario museo egizio del Cairo e delle piramidi è prevista per un altro viaggio, che contemplerà anche il deserto e la mediterranea Alessandria fondata da Alessandro Magno.
Non si tratta quindi dell’itinerario classico, sia per quanto riguarda il tragitto, sia il mezzo di trasporto: l’automobile invece della crociera in nave sul Nilo. Il nostro percorso scorre da sud a nord, da Aswan – con una puntatina in aereo nell’estremo sud, nel deserto nubiano, per visitare Abu Simbel – a Luxor, per raggiungere più a nord anche gli splendidi templi di Abydos e Dendera.
La prima tappa del viaggio è Aswan, che raggiungiamo in aereo da Milano, facendo scalo al Cairo. Qui visitiamo il Tempio di File e poi verso nord quelli di Kom Ombo, Idfu e Esna. Si tratta di monumenti risalenti all’epoca tolemaica (300 a.C. – 30 a.C.) frutto di un’interazione tra due grandi culture: quella egizia e quella greca. Come scrive Ernst H. Gombrich nella sua storia dell’arte “i maestri greci andarono alla scuola degli egizi, e noi tutti siamo allievi dei greci. Per questo l’arte egizia assume per noi un’importanza incalcolabile”.

I Greci in Egitto
Dopo oltre due millenni di storia sul trono dei faraoni, a partire dal VII secolo a.C., sedettero sovrani stranieri, che in molti casi cercarono di rispettare la cultura egizia. È quanto accadde alla dinastia dei tolomei (300 – 30 a.C.), che salì al potere dopo la conquista dell’Egitto da parte di Alessandro Magno e la sua incoronazione a faraone. Alla morte del grande condottiero, uno dei suoi amici più fedeli, il greco Tolomeo si proclamò re d’Egitto e fondò una dinastia che sarebbe durata tre secoli donando al paese una tarda fioritura anche nel mondo dell’arte e dell’architettura. Il tempio di File ad Aswan e quelli di Kom Ombo, Idfu e Isna, che si incontrano in quest’ordine lungo la strada che sale a nord verso Luxor, appartengono a quest’epoca.
Dedicato alla dea Iside il Tempio di File si trova su una suggestiva isola sul Nilo, che si raggiunge in barca. Per evitare che venisse sommerso dalle acque dopo la costruzione della grande diga costruita da Nasser negli anni Sessanta fu letteralmente smontato in 42 mila blocchi numerizzati e rimontato. Questo intervento, realizzato con l’aiuto dell’Unesco, ha richiesto otto anni di lavoro.
Iniziato nel IV secolo a.C. il luogo di culto fu abbellito dagli ultimi faraoni e ultimato durante l’impero romano. Il suo grado di conservazione è eccezionale e ci propone alto e bassorilievi di grande pregio artistico dedicati alla leggenda di Iside, sorella e consorte di Osiride, che venne ucciso dal fratello ma fu riportato in vita grazie a un battito d’ali della dea trasformatasi in uccello. Dalla loro unione nacque Horus, a cui è dedicato il tempio di Idfu, che è giunto a noi quasi intatto permettendoci quindi di penetrare dentro i misteri di un luogo di culto egizio. Cosa assolutamente proibita alla gente del tempo, costretta a rimanere nel cortile esterno, quindi lontana dal sacrario che si trovava nella parte posteriore e custodiva la statua d’oro del dio a cui era dedicato il tempio.
A Kom Ombo, immerso in uno splendido paesaggio in riva al Nilo attorniato da verdissimi campi coltivati a granturco e canna da zucchero, mi hanno particolarmente colpito alcuni bassorilievi che illustrano l’elevato livello raggiunto dalle arti mediche all’epoca dei faraoni. I sacerdoti presenti nei templi, oltre che a celebrare gli dei, praticavano infatti anche la medicina e l’astrologia. Di enorme interesse anche il cosiddetto nilometro, un marchingegno che permetteva di misurare il livello del Nilo durante le piene e dal quale dipendeva l’ammontare della tasse: minori se l’acqua era poca, maggiori se era molta.

Con le dighe cambia la vita
A partire dall’inizio del Novecento le piene del Nilo sono controllate dalle dighe: la cosiddetta Diga Vecchia fu costruita dagli inglesi nel 1902, la più recente risale invece agli anni Sessanta. Un’opera voluta da Nasser che ha permesso di aumentare del 30 per cento la superficie delle terre coltivabili, di raddoppiare le risorse energetiche e di regolarizzare l’irrigazione, consentendo un notevole sviluppo delle risaie e stabilizzando le acque del fiume favorendo in tal modo la navigazione permanente. Tutti questi vantaggi hanno però comportato un prezzo elevato per le popolazioni che vivevano lungo le rive del Nilo a nord di Aswan nella regione dove oggi si trova il lago Nasser. Le acque hanno infatti sommerso i villaggi dove vivevano 100 mila nubiani costretti a trasferirsi in altre parti del paese e in particolare in nuovi villaggi costruiti appositamente dal governo a nord, nei pressi di Kom Ombo, ma lontani dal Nilo. Un interessante museo di recente inaugurazione ad Aswan, presenta la cultura nubiana e il suo sviluppo nei secoli. A livello paesaggistico il lago, circondato dalle dorate sabbie del deserto, non sembra opera dell’uomo, ma una magia della natura.

Aswan, ponte tra le culture
La più meridionale delle città egiziane, famosa per il suo granito rosa, anticamente occupava unicamente l’isola Elefantina situata nel mezzo del Nilo in uno splendido paesaggio caratterizzato dalle sabbie del deserto. Storicamente sede di un importante mercato, ha favorito gli scambi economici e culturali tra il mondo arabo e l’Africa nera. Situata nei pressi della prima cataratta, una sorta di cascata, ha svolto un importante ruolo strategico, perché permetteva agli eserciti dei faraoni di controllare gli afflussi dalla regione della Nubia e quindi dall’Africa. Oggi è una graziosa cittadina, dove si può passeggiare lungo il Nilo, sulla cosiddetta Corniche in ricordo dell’epoca coloniale, ben rappresentata anche dal prestigioso hotel Old Cataract, purtroppo attualmente in restauro. Il vasto suk (mercato) ha in parte perso la sua tipicità. Sebbene di forte impronta turistica non si può rinunciare a una gita in feluca, dove “l’ozio acquisisce tutta la sua nobiltà”, mentre le vele spinte dal vento inoltrano i passeggeri in un paesaggio desertico e silenzioso, che permette di viaggiare con il pensiero ai tempi dei faraoni.

Indimenticabile Abu Simbel
Abu Simbel è una delle mete più interessanti del viaggio. Non ci troviamo più di fronte a monumenti dell’epoca tolemaica, ma risalenti a mille anni prima. Questo luogo di culto è stato costruito da Ramsete II (1279-1213 a.C.), uno dei più grandi faraoni della storia. Situato alle porte dell’Africa nel deserto nubiano è completamente scavato in uno sperone di roccia per un’altezza di 33 metri e una larghezza di 38. Nonostante queste dimensioni gigantesche gli scultori hanno saputo creare un’opera perfetta.
Ramsete II fu un grande costruttore, un grande guerriero, ma anche un uomo di pace, perché concluse con gli Ittiti forse il primo trattato scritto di pace della storia, che prevede numerose clausole, tra cui addirittura alcune dedicate alle estradizioni.
Due sono i monumenti che si visitano ad Abu Simbel: il Grande tempio, dedicato da Ramsete II a sé stesso e il Tempio di Hathor, offerto invece alla sua sposa preferita, la regina Nefertari, che in lingua egiziana antica significa la più bella tra le belle. Secondo alcuni storici il faraone costruì questo edificio maestoso per dimostrare la sua potenza ai possibili invasori provenienti dall’Africa.
L’atmosfera che si respira nei due templi è molto diversa. Quello di dimensioni più ridotte, dedicato alla moglie, è decisamente più leggero. Le figure di donna slanciate ed eleganti dipinte sulle pareti danno effettivamente l’impressione di entrare in un universo femminile. Più imponente e molto più ampio è invece il tempio grande. Sulle pareti sono rappresentate scene della famosa battaglia di Qadesh combattuta da Ramsete II contro gli Ittiti. Curioso il modo utilizzato per rendere l’idea del movimento: lo sdoppiamento dell’immagine. Due giorni all’anno – probabilmente quello del compleanno e quello dell’incoronazione del faraone – i raggi del sole penetrano attraverso un’angusta finestra illuminando sull’altare le figure del re sole e di Ramsete II, che si trovano accanto agli dei Amon-Ra e Ptah.
Impressionante immaginare che questo monumento sia stato smontato in mille blocchi e rimontato 62 metri più in alto per evitare di soccombere sotto le acque del lago Nassar.

Bibliografia
Egitto La Guida Verde Michelin, Milano 2002
Egitto Touring Club Italiano, Milano 2007
Egitto Lonely Planet, Torino 2008
Egitto Polaris, Firenze 2004
Hermann A. Schlegl, L’Antico Egitto Il Mulino, Bologna 2005
Sergio Donadoni, L’uomo egiziano Editori Laterza, Bari 2003

Oman – Nel sultanato dove la natura regna sempre sovrana

Oman – Quattro giorni tra mare, deserto e montagne

Splendide spiagge di finissima sabbia bianca, un mare superbo, forti e castelli, i baluardi delle oasi, e nel deserto dune indimenticabili.

Quando dici a qualcuno che vai in Oman, o non conosce il paese, oppure nel migliore dei casi pensa che sia il luogo ideale per trascorrere una settimana al caldo durante l’inverno. E’ vero che questo paese ha splendide spiagge di sabbia bianca finissima e un mare superbo con fondali che sono il sogno di ogni sub, ma offre molto altro ancora. Potete scoprire forti e castelli situati in splendide oasi, moschee antiche e moderne, grotte, valli, montagne inserite in paesaggi lunari e le indimenticabili dune di uno dei deserti più impervi al mondo. Le infrastrutture alberghiere sono di ottimo livello, la gente è mite, cordiale e tollerante nei confronti dei costumi e delle tradizioni straniere, pur senza essere giustamente disposta a sacrificare la propria identità nazionale. “Sono giunto alla conclusione di respingere l’idea che il patrimonio culturale debba avere una posizione subordinata nel mondo moderno. Il nostro patrimonio nazionale è ricco e necessita unicamente di essere leggermente ritoccato per adattarlo alla realtà del giorno d’oggi in modo bilanciato, così che un elemento non prevalga sull’altro”. Sono parole del sultano Qabus, un principe illuminato che in 38 anni di governo ha cambiato i destini del suo paese, fino al 1970 ancora immerso nel Medioevo. Il monarca è stimato a livello internazionale e dal suo popolo. Il suo paese è tanto pulito, ordinato e sicuro che viene considerato la Svizzera della Penisola Arabica. L’Oman sta vivendo un rapido sviluppo economico, ma tutte le iniziative devono rispettare principi ecologici. Questi principi vengono applicati con tale scrupolo che l’Oman è stato il primo stato arabo ad essere premiato dall’Unesco “per gli sforzi internazionali compiuti in nome dell’ambiente”. “Il cambiamento è necessario – ha spiegato il sultano in un’intervista a “Repubblica” (27 maggio 1994). La vita dei miei sudditi aveva bisogno di essere semplificata e resa più confortevole, ma era importante non perdere il contatto con il passato, la cultura e la civiltà propria di queste terre e di questa gente. Così, per esempio, ci siamo preoccupati che le nuove costruzioni seguissero un criterio unico per dimensioni e colori delle facciate, in armonia con il clima e la tradizione”. Percorrendo l’Oman non troverete infatti quella pacchiana rincorsa al modo di vivere occidentale che incontrate invece in altri paesi del Golfo.
Circa l’80 per cento degli omaniti si riconosce nel gruppo musulmano degli ibaditi, che professa un islamismo rigoroso e severo. La legge stabilisce comunque la libertà di pensiero e di credo religioso. Il popolo, d’altra parte, è tendenzialmente pragmatico nell’interpretazione della religione, tollerante nei confronti di altri movimenti islamici e permette agli stranieri di seguire il proprio culto.

Muscat
Una città fedele a sé stessa, moderna ma ancora ‘antica’
La guida che mi aspetta all’aeroporto di Muscat, la capitale dell’Oman, indossa la tradizionale veste bianca degli uomini omaniti, la cosiddetta dishdasha. Mentre il taxi con aria condizionata sfreccia sull’autostrada a sei corsie verso il centro della capitale passiamo davanti ai lucenti palazzi della politica e della finanza del quartiere residenziale di Riwi. E’ la capitale del nuovo corso, moderna, efficiente, pulita come una città svizzera. Ma è a Mutrah, il quartiere del porto, che si incontra lo spirito antico della civiltà araba. Sulla splendida insenatura naturale, ricavata in un anfiteatro di rocce scure, si affacciano i due forti di Jalali e Mirani, che ricordano il periodo dell’occupazione portoghese durata 150 anni (dall’inizio del 1500 alla metà del 1600). E’ qui che potete immergervi nella piacevole atmosfera caotica del tradizionale mercato arabo (suk). Tra le solite botteghe di souvenir per turisti, tessuti, ferramenta, oro e argento trovate anche alcuni negozi di antiquariato. La contrattazione è d’obbligo, ma gli sconti concessi sono minimi.
Il mattino, non molto distante dal suk, non mancate di visitare l’animatissimo mercato del pesce, dove potrete ammirare anche alcuni splendidi esemplari di squali. Vi accorgerete allora che questa parte della città, nonostante sia la principale zona portuale della capitale, abbia più l’aspetto di un villaggio di pescatori. Ed è proprio questo il fascino di Muscat, di essere rimasta fedele a se stessa senza occidentalizzarsi.
Ma il cuore della città è costituito dal minuscolo quartiere cinto da mura e munito di porte che dà il nome alla capitale. Oggi ospita il palazzo del sultano, altri edifici governativi e alcuni musei, tra cui il modernissimo e didattico Bait al Baranda, che illustra la storia della città. Molto interessante l’ampia parte dedicata alla cosiddetta “rinascita”, cioè il periodo degli ultimi 38 anni del paese sotto la guida illuminata dal sultano Qabus.
Non si può lasciare Muscat senza aver visitato (aperta per i turisti dalle 9 alle 11) la nuovissima e imponente Grand Mosque, donata alla nazione dal sultano per il trentesimo anniversario del suo regno. E’ uno splendido esempio di architettura islamica moderna. I suoi interni sbalordiscono per la ricchezza delle decorazioni ispirate dalle varie regioni di diffusione della religione musulmana. Il tappeto persiano della sala principale è il più grande del mondo (70 metri per 60) ed è stato realizzato in quattro anni in Iran da 600 tessitrici.