Birmania, dilemma etico per il turista

Birmania – In fuga lontano dalla globalizzazione
Birmania – Un passo nella storia
Birmania – Un lago, un mondo
Birmania – Un paese sospeso tra storia e futuro

Riteniamo che sia troppo presto per il turismo, gli investimenti e gli aiuti… – affermava nel 1995, dopo il colpo di stato militare, il premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi. Finché arriva denaro, lo Slorc (ndr. il partito dei militari) non sarà mai incentivato al cambiamento“.
Nutro un profondo rispetto per la Signora (così viene chiamata Aung San Suu Kyi in Myanmar), ma non sono d’accordo con lei – scriveva nel 2004 un sostenitore della Lega Nazionale per la Democrazia. Se avessi modo di parlarle so che mi ascolterebbe. Il boicottaggio generale non è possibile”. Purtroppo la Signora è tuttora perseguitata dalla giunta militare, le è impedito di partecipare alla vita politica. I militari sono al potere da quasi cinquant’anni. Nel 1990 concessero le elezioni, ma quando la Lega Nazionale per la Democrazia di Aung San Suu Kyi vinse con l’82 per cento dei voti non rispettarono il verdetto del popolo.
E allora, data questa situazione, è il caso di visitare la Birmania? È il problema di coscienza con cui mi sono scontrato prima di decidere di partire per questo splendido ma sfortunato paese. La guida Lonely Planet nelle prime pagine del volume dedicato al Myanmar, si pone lo stesso interrogativo e spiega le ragioni della pubblicazione. “Pensiamo – si legge nelle pagine iniziali – che il viaggio sia uno dei mezzi più potenti che il mondo abbia a disposizione per la diffusione della tolleranza, della comprensione reciproca e della democrazia… È vero, nel 1995 Aung San Suu Kyi affermò che il paese non era pronto per il turismo, ma aggiunse che ‘i turisti possono aprire il mondo alla gente del Myanmar proprio come la gente del Myanmar può aprire gli occhi dei turisti sulla situazione del proprio paese, se sono interessati a conoscerla’. Siamo d’accordo”, conclude l’autore della guida.
Scorriamo brevemente gli argomenti pro e contro ben riassunti da Lonely Planet. Iniziamo da quelli contrari. Il governo è ricorso ai lavori forzati per costruire le infrastrutture turistiche. Visitare il Myanmar può essere interpretato come una forma di approvazione della dittatura. È impossibile evitare che parte del denaro dei turisti finisca nelle tasche della giunta, che, d’altra parte, mostra ai visitatori solo ciò che vuole. Ecco invece le ragioni dei favorevoli. La maggioranza della popolazione vede di buon occhio i turisti. Nelle zone frequentate dagli stranieri è più difficile che avvengano abusi riguardo ai diritti umani. Se non si viaggiasse in Myanmar, il governo potrebbe decidere di imprimere un ulteriore giro di vite alla repressione. Per la popolazione locale chi visita il paese è fonte di reddito e un mezzo per comunicare con il mondo esterno. Non so quale delle due tesi sia la più corretta, ma molto dipende dalla mentalità, dal modo con il quale ci si avvicina a questo come ad altri paesi con regimi totalitari. “I visitatori che giungono nel nostro paese – ha affermato Aung San Suu Kyi in un’intervista – possono risultare utili a seconda di quello che fanno e di come lo fanno”. Ho trovato in Myanmar gente deliziosa, che ha piacere di incontrare gli stranieri. Da tutte le persone che si sono aperte al dialogo, il governo mi è sembrato mal tollerato e assolutamente impopolare, mentre della Signora tutti parlano con venerazione e rispetto. È vero, i turisti non hanno accesso a tutte le regioni, ma dove arrivano con la giusta mentalità possono portare un’immagine di rispetto e di tolleranza. Questo è il turismo in cui credo.

Birmania – Un paese sospeso tra storia e futuro

Birmania – In fuga lontano dalla globalizzazione
Birmania – Un passo nella storia
Birmania – Un lago, un mondo
Birmania – Birmania, dilemma etico per il turista

È con la cultura che si innesca il progresso, perché senza di essa l’uomo è condannato a vedere nell’altro sempre e solo un nemico”. Questa frase del sociologo algerino K.F. Allam, mi sembra spieghi bene il senso del viaggiare e soprattutto di un viaggio in Birmania, un paese che non è stato ancora colonizzato dalle mode straniere e che ha salvaguardato una propria identità, la ‘birmanità’. Ed è proprio questo il motivo per cui vale la pena di visitare la Birmania.
Sette persone su dieci in Myanmar lavorano la terra. L’11% circa dei 52 milioni di abitanti vive nella capitale, dove non si conosce ancora il fenomeno della migrazione di massa verso la grande città. La vasta pianura centrale con il suolo più fertile del paese solcato dalle acque del fiume Ayeyarwady, lungo oltre duemila chilometri, è sempre stata dominata dal gruppo che nelle varie epoche si è rivelato il più forte: i Bamar o Birmani che con il 68% costituiscono la maggioranza della popolazione. Si ritiene siano migrati anticamente dall’Himalaya e già nell’XI secolo dominavano buona parte del territorio dalla loro capitale Bagan, una delle meraviglie di questo paese. In Myanmar gli etnologi riescono a distinguere ben 135 gruppi etnici differenti, mentre una ricerca fatta negli anni Quaranta aveva recensito 242 lingue e dialetti diversi. Tutti questi popoli si sono stanziati lungo il fiume Ayeyarwadi, sovrapponendosi gli uni agli altri senza però mai meticciarsi completamente e conservando ognuno le proprie identità culturali e linguistiche. L’orgoglio e i pregiudizi tra le varie etnie della Birmania sono spesso causa di tensioni, tanto che una delle maggiori difficoltà incontrate dai governi che si sono succeduti nel paese è sempre consistita nel mantenere la pace e la stabilità dei confini. Anche gli Inglesi, durante la loro dominazione coloniale (1824-1948) riuscirono a stento a mantenere l’ordine, alternando promesse di semi-autonomia all’uso della forza. Come fanno notare gli autori della guida turistica Lonely Planet, “benché sia passato oltre un secolo e il governo sia cambiato, la situazione è rimasta pressoché invariata. Gli scontri tra le truppe a maggioranza Bamar e i gruppi etnici minoritari, protrattisi nei quattro decenni successivi all’indipendenza, sono stati ormai quasi tutti sedati. Le etnie che hanno firmato accordi di cessate il fuoco con le autorità hanno ottenuto in cambio una limitata autonomia economica, mentre quelle che continuano a combattere contro il governo vengono trattate con brutalità”. Diverse regioni considerate ancora ‘calde’ (definite dai locali ‘zone nere’, le più pericolose, e ‘zone marroni’, le meno bellicose) sono tuttora chiuse al turismo. Recentemente però alcune sono state aperte perché il governo ha trovato un compromesso con le tribù locali.
Tutte le persone che ho incontrato si augurano che il governo cambi al più presto, ma quando si parla del futuro molti si dicono preoccupati per l’unità del paese e temono che il Myanmar si possa dividere come è avvenuto tragicamente in Jugoslavia dopo la caduta del regime. Una delle regioni storicamente più autonomiste è quella abitata dall’etnia Shan, a sua volta suddivisa in diverse tribù con lingue e religioni differenti. Si tratta di una terra splendida e con un sottosuolo ricchissimo. È stata la prima destinazione del mio viaggio in Birmania e mi ha permesso, di visitare diversi villaggi di montagna dove si ha davvero l’impressione che il tempo si sia fermato. La stessa atmosfera la si trova anche a Bagan e nelle altre città imperiali e sul lago Inle.

Oman – Nel sultanato dove la natura regna sempre sovrana

Oman – Quattro giorni tra mare, deserto e montagne

Splendide spiagge di finissima sabbia bianca, un mare superbo, forti e castelli, i baluardi delle oasi, e nel deserto dune indimenticabili.

Quando dici a qualcuno che vai in Oman, o non conosce il paese, oppure nel migliore dei casi pensa che sia il luogo ideale per trascorrere una settimana al caldo durante l’inverno. E’ vero che questo paese ha splendide spiagge di sabbia bianca finissima e un mare superbo con fondali che sono il sogno di ogni sub, ma offre molto altro ancora. Potete scoprire forti e castelli situati in splendide oasi, moschee antiche e moderne, grotte, valli, montagne inserite in paesaggi lunari e le indimenticabili dune di uno dei deserti più impervi al mondo. Le infrastrutture alberghiere sono di ottimo livello, la gente è mite, cordiale e tollerante nei confronti dei costumi e delle tradizioni straniere, pur senza essere giustamente disposta a sacrificare la propria identità nazionale. “Sono giunto alla conclusione di respingere l’idea che il patrimonio culturale debba avere una posizione subordinata nel mondo moderno. Il nostro patrimonio nazionale è ricco e necessita unicamente di essere leggermente ritoccato per adattarlo alla realtà del giorno d’oggi in modo bilanciato, così che un elemento non prevalga sull’altro”. Sono parole del sultano Qabus, un principe illuminato che in 38 anni di governo ha cambiato i destini del suo paese, fino al 1970 ancora immerso nel Medioevo. Il monarca è stimato a livello internazionale e dal suo popolo. Il suo paese è tanto pulito, ordinato e sicuro che viene considerato la Svizzera della Penisola Arabica. L’Oman sta vivendo un rapido sviluppo economico, ma tutte le iniziative devono rispettare principi ecologici. Questi principi vengono applicati con tale scrupolo che l’Oman è stato il primo stato arabo ad essere premiato dall’Unesco “per gli sforzi internazionali compiuti in nome dell’ambiente”. “Il cambiamento è necessario – ha spiegato il sultano in un’intervista a “Repubblica” (27 maggio 1994). La vita dei miei sudditi aveva bisogno di essere semplificata e resa più confortevole, ma era importante non perdere il contatto con il passato, la cultura e la civiltà propria di queste terre e di questa gente. Così, per esempio, ci siamo preoccupati che le nuove costruzioni seguissero un criterio unico per dimensioni e colori delle facciate, in armonia con il clima e la tradizione”. Percorrendo l’Oman non troverete infatti quella pacchiana rincorsa al modo di vivere occidentale che incontrate invece in altri paesi del Golfo.
Circa l’80 per cento degli omaniti si riconosce nel gruppo musulmano degli ibaditi, che professa un islamismo rigoroso e severo. La legge stabilisce comunque la libertà di pensiero e di credo religioso. Il popolo, d’altra parte, è tendenzialmente pragmatico nell’interpretazione della religione, tollerante nei confronti di altri movimenti islamici e permette agli stranieri di seguire il proprio culto.

Muscat
Una città fedele a sé stessa, moderna ma ancora ‘antica’
La guida che mi aspetta all’aeroporto di Muscat, la capitale dell’Oman, indossa la tradizionale veste bianca degli uomini omaniti, la cosiddetta dishdasha. Mentre il taxi con aria condizionata sfreccia sull’autostrada a sei corsie verso il centro della capitale passiamo davanti ai lucenti palazzi della politica e della finanza del quartiere residenziale di Riwi. E’ la capitale del nuovo corso, moderna, efficiente, pulita come una città svizzera. Ma è a Mutrah, il quartiere del porto, che si incontra lo spirito antico della civiltà araba. Sulla splendida insenatura naturale, ricavata in un anfiteatro di rocce scure, si affacciano i due forti di Jalali e Mirani, che ricordano il periodo dell’occupazione portoghese durata 150 anni (dall’inizio del 1500 alla metà del 1600). E’ qui che potete immergervi nella piacevole atmosfera caotica del tradizionale mercato arabo (suk). Tra le solite botteghe di souvenir per turisti, tessuti, ferramenta, oro e argento trovate anche alcuni negozi di antiquariato. La contrattazione è d’obbligo, ma gli sconti concessi sono minimi.
Il mattino, non molto distante dal suk, non mancate di visitare l’animatissimo mercato del pesce, dove potrete ammirare anche alcuni splendidi esemplari di squali. Vi accorgerete allora che questa parte della città, nonostante sia la principale zona portuale della capitale, abbia più l’aspetto di un villaggio di pescatori. Ed è proprio questo il fascino di Muscat, di essere rimasta fedele a se stessa senza occidentalizzarsi.
Ma il cuore della città è costituito dal minuscolo quartiere cinto da mura e munito di porte che dà il nome alla capitale. Oggi ospita il palazzo del sultano, altri edifici governativi e alcuni musei, tra cui il modernissimo e didattico Bait al Baranda, che illustra la storia della città. Molto interessante l’ampia parte dedicata alla cosiddetta “rinascita”, cioè il periodo degli ultimi 38 anni del paese sotto la guida illuminata dal sultano Qabus.
Non si può lasciare Muscat senza aver visitato (aperta per i turisti dalle 9 alle 11) la nuovissima e imponente Grand Mosque, donata alla nazione dal sultano per il trentesimo anniversario del suo regno. E’ uno splendido esempio di architettura islamica moderna. I suoi interni sbalordiscono per la ricchezza delle decorazioni ispirate dalle varie regioni di diffusione della religione musulmana. Il tappeto persiano della sala principale è il più grande del mondo (70 metri per 60) ed è stato realizzato in quattro anni in Iran da 600 tessitrici.

Uzbekistan – La via della seta

Uzbekistan – Lungo la mitica via della seta

Sulle orme delle antiche carovane, tra oasi e steppe desertiche, un suggestivo itinerario in Uzbekistan, sospesi a metà strada tra la Cina e l’Occidente.

Il nostro itinerario nell’Asia centrale, in Uzbekistan, organizzato dall’agenzia turistica Kel12 di Milano, si snoda lungo la mitica “Via della seta” e ha come mete principali le città di Bukhara e di Samarcanda, che rappresentavano nell’antichità strategici punti di sosta a metà del percorso tra la Cina e l’Occidente. Lungo il tragitto sorsero così numerosi caravanserragli che offrivano alloggio, stalle e magazzini alle carovane e che diedero vita a un’attività commerciale senza precedenti. La “Via della seta” non si sviluppò mai lungo un unico percorso, ma era costituita da una fragile rete di itinerari carovanieri intercontinentali. Le città che si trovavano lungo questi tragitti conobbero un grande sviluppo. Le devastazioni e i disordini provocati da Gengis Khan e da Tamerlano, che incontreremo più volte lungo il nostro itinerario, resero sempre più insicure queste vie e portarono come conseguenza alla crisi economica della regione. L’ultimo e definitivo colpo inferto all’ormai agonizzante “Via della seta” fu poi rappresentato dall’apertura delle rotte commerciali marittime tra Europa e Asia, che rendevano superflue le fatiche delle carovane. Si concludeva così un capitolo fondamentale nella storia dell’umanità: per la prima volta infatti, attraverso questi itinerari, si era sviluppato un interscambio di idee, tecnologie e convinzioni religiose, grazie ai contatti tra realtà culturali estremamente diverse.
Il diario di viaggio che segue si sofferma sulle tappe principali di un itinerario, effettuato in torpedone, che percorre tutto l’Uzbekistan, passando da un’oasi all’altra e attraversando l’inospitale steppa che separa alcune perle dell’Islam come Khiva, Bukhara e Samarcanda.

Khiva, città-museo 
La nostra visita all’Uzbekistan inizia da Khiva, venerdì 24 ottobre. Il 23 siamo volati da Roma a Tashkent, la capitale del paese, che dista sei ore di aereo. Giungiamo in serata a causa del fuso orario (5 ore). Il tempo per un breve sonno e il mattino di buonora ripartiamo in volo in direzione ovest per Urgench, da dove in mezz’ora di torpedone raggiungiamo la città-museo di Khiva, diventata tale nel corso di un programma di conservazione sovietico.
La prima immagine è quella delle sue pittoresche mura di fango lunghe due chilometri e mezzo, che circondano tutto il centro storico. Il nostro albergo (hotel Asia Khiva), situato davanti alla porta principale, è una struttura nuova con camere più che dignitose. Preso possesso della camera partiamo a piedi per la visita della città. Tutti i monumenti sono a portata di mano. Si respira un’atmosfera orientale: minareti, moschee dalle cupole verdi, palazzi dei visir, madrasse e naturalmente il mercato.
La nostra visita inizia proprio dal souk, che caratterizzò questa città nel corso della storia per un fiorente mercato degli schiavi durato più di tre secoli, fino al 1873. Era il più grande dell’Asia centrale. Nelle pareti sono ancora visibili le nicchie dove venivano esposti gli sventurati in vendita. Il souk attuale è animato soprattutto da gente del posto. Di turisti se ne vedono pochi. La merce esposta, destinata soprattutto agli indigeni, è molto variopinta, di cattivo gusto e dominata dai materiali sintetici. Non c’è traccia del ricco artigianato di un tempo. Non si vende seta, nonostante questa città si trovasse anticamente proprio sulla “Via della seta”, e nemmeno cotone, sebbene qui attorno tutti vivano della coltura del cotone. Regnano i tessuti sintetici: persino i fiori sono di plastica. Come spesso accade, la parte più bella del souk è quella dedicata alla frutta, alla verdura e alle spezie. Per la prima volta vedo alcune bancarelle vendere solo pasta: di ogni tipo e di ogni forma.
Khiva fu distrutta nel 1740 dai Persiani e in seguito ricostruita. La maggior parte dei suoi monumenti risale pertanto al XVIII secolo. La città, storicamente, era tristemente nota per la ferocia dei suoi regnanti, di cui si visitano due fastosi palazzi decorati con magnifiche ceramiche. Come spiega la nota viaggiatrice ginevrina Ella Maillart (“Vagabonda in Turkmenistan”, Torino 2002) “per il mongolo nomade il lusso consisteva nell’applicare parati e tessuti ricamati alle pareti della sua tenda. Quando fissò la sua dimora volle che i suoi palazzi e le sue moschee gli restituissero con le loro decorazioni di ceramica la stessa sensazione”. Ma a questa raffinatezza si accompagnava nei visir di Khiva una ferocia incredibile. Arminius Vambéry, un viaggiatore ungherese dell’Ottocento, racconta di aver assistito nel 1863 all’esecuzione di trecento prigionieri impiccati o decapitati. “I loro capi con i capelli grigi erano invece distesi a terra in attesa di essere ammanettati, quando il boia si inginocchiò sui loro petti e cavò loro gli occhi, pulendo il coltello insanguinato sulle loro barbe. Tentarono di rialzarsi, ma sbatterono alla cieca gli uni contro gli altri e crollarono al suolo agonizzanti”.
Questi truci racconti non si conciliano con il mio stato d’animo mentre visito questa città dall’atmosfera quasi ibernata, che ti fa sentire ai margini del mondo. La sua architettura è armoniosa. Il colore delle costruzioni, così come quello delle mura costruite in mattoni di argilla e paglia, è quello della terra e si mimetizza perfettamente con il paesaggio mettendo in risalto i verdi e i blu delle smaglianti maioliche. Queste immagini mi rimarranno impresse nella memoria per la loro diversità, per l’armonia e per le tinte dolci soprattutto al momento del tramonto.

Bukhara città sacra 
Lunga trasferta in torpedone da Khiva a Bukhara, la città sacra. La strada percorre una zona desertica e disabitata lungo il confine con il Turkmenistan. La steppa è monotona e il viaggio dura quasi una giornata. Ben si può capire quanto fosse irraggiungibile questa città per gli eserciti che la volevano conquistare. Molti perdettero la maggior parte dei loro soldati e dei cammelli in queste steppe inospitali. Sabato in serata giungiamo a Bukhara, che “per più di mille anni – come osserva Tiziano Terzani (“Buona notte signor Lenin, Milano 1992) – nel mondo mussulmano fu considerata equivalente alla Mecca come importante centro di studi, per lo splendore delle sue moschee e il livello intellettuale delle sue madrasse, le scuole coraniche”. Tanto che gli storici arabi la definirono “il paradiso del mondo”. Ci si può bene immaginare come dovessero rimanere incantati i carovanieri che percorrevano la “Via della seta”, quando dopo giorni di lunga e monotona marcia percorsi nella steppa giungevano all’ombra dei sontuosi monumenti di questa città sacra.
Anche qui come a Khiva gli emiri erano sanguinari. Esisteva una prigione, il cosiddetto “pozzo degli scarafaggi”, dove venivano allevati insetti che scarnificavano i prigionieri. Un colonnello britannico vi passò alcuni mesi prima di essere giustiziato per essere entrato a cavallo nell’Ark, la città regale, dove solo l’emiro poteva cavalcare. L’Ark era una città nella città, abitata dal quinto secolo fino a quando Bukhara cadde in mano all’Armata Rossa. La sua visita è di grande interesse, così come il famosissimo minareto Kalon, uno dei simboli della città. Si narra che Gengis Khan, quando nel 1220 espugnò e distrusse Bukhara al grido “Io sono il castigo di Dio per i vostri peccati”, rimase talmente esterrefatto alla vista di questo monumento che ordinò di risparmiarlo. È giunto fino a noi ben conservato con le sue quattordici fasce decorative, diverse l’una dall’altra, a testimonianza del primo utilizzo delle lucenti piastrelle blu che si diffusero in tutta l’Asia centrale sotto Tamerlano. Ai tempi dell’emiro i condannati a morte venivano messi in un sacco e lanciati dal minareto alto 47 metri, soprannominato dai bolscevichi “Torre della morte”. Tiziano Terzani fa notare come gli abitanti di Bukhara, nonostante il dispotismo degli emiri, parlino oggi di quell’epoca come di tempi d’oro. “La Bukhara mussulmana – osserva Colin Thurbon (“Il cuore perduto dell’Asia”, Milano 1994) – era cinta da 12 chilometri di mura e di porte fortificate e le sue moschee e medresse erano innumerevoli. I bukharioti erano considerati gli abitanti più distinti e civilizzati dell’Asia centrale. I loro modi e il loro abbigliamento divennero un parametro dell’eleganza orientale…Tutto questo splendore – prosegue lo studioso inglese – nascondeva però a malapena l’intimo squallore… Chi faceva il bagno o beveva nelle piscine pubbliche contraeva la ributtante filaria della Medina, che soltanto un barbiere esperto era in grado di estrarre dalla carne incidendo la pelle con una lama e attorcigliando il verme – a volte lungo più di un metro – su un ramoscello”.
Un altro edificio di rara bellezza giunto dal X secolo fino a noi è il mausoleo di Ismail Samani: “uno degli edifici più eleganti dell’Asia centrale – secondo la guida turistica Lonely Planet – che cambia gradualmente ‘carattere’ nel corso della giornata man mano che mutano le ombre”. L’abile intreccio dei mattoni in terracotta presenta una sorta di affascinante ricamo, che alleggerisce questo sobrio monumento, giunto fino a noi grazie a un espediente dei bukharioti. “Quando gli abitanti videro gli invasori mongoli bruciare e distruggere tutta la città – spiega ancora Tiziano Terzani – corsero al mausoleo di Samani e seppellirono l’intera costruzione sotto una collina di terra perché gli uomini di Gengis Khan non la vedessero”.
Nella piazza Lyabi-Hauz, costruita nel 1620 attorno a una vasca, all’ombra di gelsi antichissimi, abbiamo gustato ottimi spiedini al grill, una specialità del luogo. Ma Bukhara è famosa in tutto il mondo anche per i suoi tappeti, che costituiscono per noi il modello classico della nostra idea di “tappeto orientale”. Eseguito su fondo rosso di tutte le tonalità, propone una composizione costituita da un susseguirsi di forme essenziali, rigorosamente geometriche: ottagoni tagliati diagonalmente da un disegno bianco e nero sempre uguale. 

Samarcanda – Lungo la mitica “via della seta”

Uzbekistan – La via della seta

Alessandro Magno quando conquistò Samarcanda esclamò: “Tutto quello che ho udito di Markanda è vero, tranne il fatto che è più bella di quanto immaginassi”.

Lunedì 27 ottobre, giornata di trasferimento da Bukhara alla mitica Samarcanda. Partiamo il mattino di buonora per Shakhrisabz, città natale di Tamerlano, che richiede una deviazione rispetto al percorso più diretto. Attraversiamo la lunga periferia di Bukhara, particolarmente squallida. Le case sono alte solo un piano, ma molto trascurate. Man mano che ci allontaniamo dalla città ricompare il deserto con la sua monotonia, ma anche con la sua armonia. Di tanto in tanto si incontra un’oasi: non quelle idilliache, bensì insignificanti agglomerati di case trascurate. Sul tragitto passiamo anche davanti a due impianti di vitale importanza per il paese: uno per l’estrazione dal sottosuolo di gas e l’altro di petrolio. Giunti nella città natale di Tamerlano, che il regime autoritario di Karimov sembra avere adottato come eroe nazionale, ci imbattiamo subito nel monumento dedicato al condottiero. Molte persone sono radunate attorno ad esso, diverse orchestrine suonano motivi uzbeki. È una giornata freddissima, ma le giovani spose avvolte in leggerissimi e scollati abiti bianchi non rinunciano a una foto ricordo davanti alla statua del nuovo eroe, che ha sostituito quella di Lenin.
Condottiero valoroso e intelligente, Tamerlano riuscì a costituire un impero che aveva il suo confine orientale in India, mentre verso occidente arrivava ad affacciarsi sul Mediterraneo. Si creò la fama di uomo spietato e sanguinario, perché le sue campagne consistevano essenzialmente in guerre di occupazione e di saccheggio, piuttosto che nell’organizzazione sistematica, amministrativa e politica dei territori conquistati. Nel suo paese fu però anche un grande mecenate, un protettore di artisti: Samarcanda rimane la sua opera più duratura. Eppure è probabile che Shakhrisabz, la sua città natale, prima di essere distrutta nel XVI secolo dall’emiro di Bukhara, mettesse in ombra la stessa Samarcanda. Del palazzo reale, che richiese 24 anni di lavoro e fu probabilmente il progetto più ambizioso di Tamerlano, rimangono solo alcuni frammenti del gigantesco ingresso alto 40 metri. Oggi si può soltanto immaginare ciò che doveva essere il resto dell’edificio per grandezza e splendore. Proseguiamo la nostra visita incamminandoci verso il mausoleo dove è custodito il corpo di Jehangir, figlio prediletto di Tamerlano morto a 22 anni per una caduta da cavallo e descritto dalla tradizione locale come un eroe mancato. Il monumento è decorato con dipinti della fine del XIV secolo di particolare finezza.
Riprendiamo il nostro tragitto verso Samarcanda scegliendo la strada meno diretta che aggira le montagne. Il percorso è particolarmente suggestivo. Piove e siamo verso sera, d’autunno. Le poche foglie che rimangono sugli alberi sono ingiallite. Il terreno è arido, desertico, ma abitato. Mi colpisce l’armonia di quei paesaggi collinari. Le case sono costruite in argilla e ricoperte da tetti in paglia. Gli uomini si spostano a dorso d’asino o a cavallo. Le donne portano abiti colorati e i bimbi al passaggio del nostro torpedone salutano affettuosamente. Capre e pecore sono ovunque. Quà e la qualche mucca. La luce del crepuscolo, la stagione che annuncia il freddo inverno alle porte e forse il mio stato d’animo mi danno la sensazione di assistere a un presepio vivente, tale è l’armonia dei colori e delle forme. A poco a poco cala la notte e quel paesaggio magico si spegne davanti ai miei occhi. Ma siamo ormai alle porte di Samarcanda, che ci accoglie con le sue smaglianti luci cittadine, per la verità poco affascinanti.

Samarcanda, l’incomparabile
“Samarcanda l’incomparabile”, così titola il capitolo dedicato alla “città dorata” Ella Maillart, la nota viaggiatrice ginevrina che visitò questi luoghi negli anni Trenta, in piena era staliniana. Martedì 28 ottobre dedichiamo l’intera giornata alla visita di questo gioiello dell’Islam. E se ci fosse stato un po’ più di tempo sarebbe stato meglio! Perché Samarcanda è davvero quella città mitica che immaginavo e che sognavo. I suoi monumenti, anche se ormai immersi nel tessuto di una città moderna, sono davvero degni della loro fama. Questa è stata certamente la giornata più straordinaria di tutto il viaggio. Anche Alessandro Magno, quando nel 329 a.C. la conquistò, esclamò: “Tutto quello che ho udito di Markanda è vero, tranne il fatto che è più bella di quanto immaginassi”.
Nessun nome richiama alla mente la “Via della seta” quanto quello di Samarcanda, che si trovava al crocevia delle strade che conducevano le carovane in Cina, India e Persia. Quando Gengis Khan la distrusse completamente nel 1220 avrebbe potuto essere la fine della sua storia, ma nel 1370 Tamerlano decise di fare di Samarcanda la sua capitale e nei successivi 35 anni forgiò una nuova città, che diventò “giardino dell’anima” , “specchio del mondo” e assurse a epicentro culturale ed economico dell’Asia centrale. Tamerlano (1336-1405) è infatti il personaggio attorno a cui ruota tutta la storia dell’epoca d’oro di questa città e dei suoi monumenti. Persino di quelli postumi a Tamerlano. Penso alle due madrasse del Registan, la piazza principale, costruite due secoli più tardi copiando lo stile della Samarcanda di Tamerlano.
Il nostro itinerario inizia il mattino con la visita del mausoleo Guri Amir, che ospita la tomba di Tamerlano, nonché quelle del suo nipote e del suo maestro preferiti. “Chiunque aprirà questa tomba – recava un’iscrizione – sarà sconfitto da un nemico più terribile di me”. Gli archeologi comunisti non si fecero però fermare da questa avvertenza e aprirono il sarcofago per sapere se era vero che Tamerlano, “la tigre zoppa”, era claudicante a causa di una ferita ricevuta in battaglia e per verificare se a suo nipote Ulughbek, quando fu deposto, venne mozzata la testa. Ebbene i due interrogativi ebbero conferma positiva, ma il giorno dopo la scoperta, il 22 giugno 1941, Hitler attaccò l’Unione Sovietica.
Ulughbek successe al trono dello zio e regnò fino al 1449, quando venne deposto da un complotto di fondamentalisti islamici (già allora imperversavano), che non gradivano le sue scoperte scientifiche in campo astronomico. Più famoso come astronomo che come sovrano, trasformò la città in un centro intellettuale e costruì un centro di ricerca astronomico articolato su tre piani con un immenso astrolabio per l’osservazione della posizione delle stelle. È sopravvissuta solo la parte interrata. Il resto è stato distrutto.
Ma eccoci alla visita del luogo certamente più suggestivo di questa incredibile città: Shahr-iZindah, un viale di tombe. Lastricate di maiolica all’interno e all’esterno, disposte in lungo, così da creare un percorso lungo una via, questi sepolcri ricoperti di piastrine che vanno dal blu al verde rendono questo luogo di un fascino incredibile. Tamerlano fece seppellire qui alcune delle persone a lui più care. Il posto era sacro perché ospitava già la tomba di un cugino del profeta Maometto. “La leggenda vuole che il santo – racconta Terzani (op. cit.) – venuto qui a combattere gli infedeli, fosse catturato e decapitato. Ma lui non se ne fece un cruccio. Raccattò la testa che gli avevano appena mozzata, se la mise sotto il braccio e andò a stare in fondo a un pozzo che era lì nei pressi. Il pozzo c’è ancora e la gente dice che il Re Vivente (da qui il nome del luogo) è sempre laggiù che dorme e aspetta l’occasione per uscire e riprendere la sua guerra contro gli infedeli”. Questa destinazione è meta di pellegrinaggi per i musulmani di tutto il mondo: tre viaggi qui equivalgono a uno alla Mecca.
Prima del pranzo visitiamo ancora il museo di Afrosiab. Ospita i frammenti di alcuni affreschi interessanti del VII secolo, che raffigurano scene di caccia, un corteo di ambasciatori e visite di regnanti locali.
Dopo il pranzo a base di spiedini – specialità del luogo – ci rechiamo a visitare la moschea Bibi-Khanim, fatta costruire da una moglie di Tamerlano come regalo-sorpresa durante un’assenza del marito. La moschea, molto ricostruita, è particolarmente imponente e nota per una leggenda, secondo cui l’architetto progettista s’innamorò pazzamente della regina e rifiutò di terminare il lavoro a meno che lei non gli desse un bacio. Tale gesto lasciò un segno sulla guancia della donna e quando Tamerlano lo vide fece giustiziare l’architetto, condannò la moglie a essere murata viva nel suo mausoleo e ordinò che le donne portassero il velo per non rappresentare una tentazione per gli altri uomini al di fuori del matrimonio.
Accanto alla moschea si trova il frenetico e pittoresco, ma particolarmente ordinato, mercato agricolo coperto. Poco distante il souk con la sua offerta di vestiti, scialli, cappelli, turbanti di ogni genere e ogni altra sorta di oggetti. Dulcis in fundo il Registan, la piazza principale di Samarcanda. Nel medioevo era il centro commerciale della città e l’intera piazza era probabilmente occupata dal bazar. Oggi è dominata da tre palazzi e al centro offre ampi spazi. L’edificio principale è la Madrassa di Ulughbek del XV secolo, ai lati altre due madrasse edificate due secoli più tardi riprendendo i modelli architettonici dell’era di Tamerlano.

Il ritorno alla normalità
Mercoledì 29 ottobre lascio a malincuore Samarcanda per l’ultima tappa di trasferimento in torpedone verso la moderna capitale Tashkent, una metropoli di oltre 2 milioni di abitanti, tipica città dell’ex impero sovietico. Il traffico è caotico, ma i numerosi parchi e viali alberati la ingentiliscono. Il centro è monumentale, arredato da palazzi stile regime, fontane e statue di cattivo gusto rappresentanti la madre patria e, naturalmente, l’eroe nazionale Tamerlano. Visitiamo la pulitissima e ordinatissima metropolitana, opera del regime sovietico negli anni Settanta. È monumentale, di stile simile a quella di Mosca e ogni stazione è caratterizzata da un tema legato alla propaganda politica sovietica. È l’unica testimonianza che rimane di quei tempi, oltre al regime di Karimov, che sembra incarnare tutti i difetti di un’epoca terminata solo a parole. Visitiamo alcune moschee e madrasse seicentesche, che sembrano molto ricostruite. Ma dopo Samarcanda il discorso con l’arte islamica è chiuso. Il mattino seguente all’alba parte il nostro volo per Roma e Milano.

Turchia – Ai confini dell’Europa tra luoghi della Bibbia e popoli in fuga

Questo itinerario, che si articola nel centro e nel sud-est della Turchia, presenta due centri di interesse particolare: la suggestiva montagna di Nemrut, simbolo della Turchia orientale, con le sue enigmatiche statue giganti risalenti a duemila anni fa e la Cappadocia con i suoi spettacolari paesaggi unici al mondo. Non presenta solo questo, ma anche le città bibliche (Harran e Sanliurfa) in cui visse Abramo, la capitale dei curdi Diyarbakir, la città di Konya, dove nel 1200, Mevlâna Gialâl Ud-Din Rûmi fondò l’ordine monastico dei Mevlevi, conosciuti in Occidente come Dervisci danzanti.

Il nostro viaggio inizia da Sanliurfa. La città è costituita da antiche case in calcare, costruite una a ridosso dell’altra per proteggere nella stagione calda i passanti dal sole cocente. Ne nasce un dedalo di viuzze particolarmente affascinanti nei pressi dell’animato bazar, che occupa buona parte del centro storico. Dalla fortezza (Kale), da cui si gode una splendida vista sulla tranquilla città, secondo la leggenda, precipitò Abramo, nativo di Urfa. Per la religione islamica Abramo è infatti un grande profeta. Secondo la leggenda distrusse alcune divinità pagane nell’antica Urfa provocando l’ira di Nimrod, il re assiro locale, il quale ordinò che fosse immolato su una pira funeraria. Dio però intervenne e trasformò il fuoco in acqua e i carboni ardenti in pesci. Abramo precipitò nel vuoto dalla collina su cui sorge la fortezza e fu accolto sano e salvo su un letto di rose. In quel luogo sacro si trovano un magnifico roseto e due vasche rettangolari “abitate” da carpe satolle e intoccabili. Attorno alcuni edifici religiosi.
La città è davvero accogliente. I suoi abitanti sono ospitali e cercano il dialogo. Ci si sente a proprio agio nello splendido e curatissimo giardino situato sotto la fortezza. Per chi ama i bazar arabi sarà poi piacevolissimo perdersi per le pacifiche viuzze di questo immenso mercato voluto da Solimano il magnifico nel Cinquecento.
A una trentina di chilometri da Sanliurfa, poco distante dal confine con la Siria, si trova Harran, la città di Abramo. Ciò che maggiormente affascina sono le cosiddette case ad alveare, il cui modello risale al III secolo a.C. Si tratta di una sorta di trulli in terra e paglia, dove la gente viveva fino a pochi anni fa. Oggi fungono da ripostigli o da bar e negozi per i turisti.
Gli abitanti si sono trasferiti in anonime, ma più comode abitazioni moderne. Particolarmente suggestive sono le rovine della fortezza (Kale), costruita sul culmine di una collina e della moschea (Ulucami) dell’VIII secolo.

Nella Turchia dei Curdi
La seconda giornata del nostro itinerario è piuttosto impegnativa. Se ne avete la possibilità sarebbe meglio suddividerla in due tappe, fermandosi a Diyarbakir per la notte. Si parte il mattino presto per Mardin (175 km). Questa antica città, sovrastata da un castello, domina le vaste pianure assolate della Mesopotamia, che si estendono fino alla Siria. Le sue vie fiancheggiate da
case in pietra dal colore del miele, che digradano lungo il fianco della collina, come fa notare la guida Lonely Planet, ricordano vagamente gli antichi quartieri della città di Gerusalemme. La parte antica della città si estende su una lunghezza di circa 1 km. Una delle attrattive principali di Mardin è costituita dall’ampio e disordinato bazar, che purtroppo però di domenica, quando noi siamo arrivati, è chiuso. Interessante la visita delle moschee, delle scuole coraniche e dell’ufficio
postale ricavato da un caravanserraglio. Si prosegue per Diyarbakir, costruita sulle sponde del fiume Tigri, che dista circa 100 chilometri. Con le sue mura in basalto offre un’atmosfera tipicamente orientale. La città è nota in Turchia soprattutto per
essere stata il centro del movimento di resistenza curdo, attivo soprattutto tra il 1980 e il 1990, ma recentemente di nuovo rivendicativo. La città nel corso degli ultimi decenni si è sviluppata a dismisura diventando una metropoli popolata da diverse etnie e tribù.
La principale attrattiva di Dyarbakir è costituita dalla sua grande muraglia in basalto, eretta probabilmente in epoca romana. Le mura oggi visibili, lunghe quasi 6 chilometri, risalgono però all’inizio dell’era bizantina (330 – 500 d.C) e sono straordinarie, sia viste dal basso, sia ammirate dall’alto dei bastioni. Si dice siano seconde solo alla Grande Muraglia cinese. Il massiccio
perimetro murario di basalto nero è intervallato da numerosi bastioni. L’atmosfera che si respira qui è ben diversa da quella
della tranquilla Sanliurfa. Nel breve tempo di una visita abbiamo assistito a vari episodi di violenza, che riguardavano però gli abitanti del luogo, non i turisti. Due giovani si sono presi a sassate, un adulto – forse derubato – ha estratto una rivoltella per minacciare un ragazzo, alcuni bimbi a cui abbiamo dato delle monete, si sono azzuffati per appropriarsene. Purtroppo, essendo domenica, anche qui il bazar era chiuso, ma le guide assicurano che passeggiandovi “si captano immagini, suoni, fragranze e corpi in movimento, che sembrano preludere all’universo brulicante del continente asiatico”.
Si prosegue quindi per Katha (170 km). La strada indicata su molte carte geografiche ancora in circolazione non esiste più. È stata inondata dopo la costruzione della diga Hataturk, che ha permesso di irrigare vastissime zone della pianura mesopotamica. Si deve quindi attraversare in traghetto (che parte circa ogni ora) il fiume Eufrate per raggiungere la sponda opposta e proseguire per Katha.

Alba indimenticabile sul Monte Nemrut
Durante la notte si sale con piccoli autobus e poi a piedi sul Monte Nemrut, per assistere all’alba, con il sole nascente che illumina le imponenti statue di pietra. Si tratta di uno dei momenti più suggestivi del viaggio. Questo luogo costituisce la principale attrattiva della Turchia orientale. Le enigmatiche statue che campeggiano sulla cima del monte sono diventate un simbolo di questo paese. Lo straordinario paesaggio circostante, i reperti storici e l’innegabile aura di misticismo che
aleggia sul sito fanno di questo parco archeologico un luogo imperdibile. Con il piccolo bus, in un’ora circa, si arriva a 600 metri dalla vetta, che si raggiunge poi in 20 minuti a piedi. “La cima – spiega la guida Lonely Planet – assunse la sua forma attuale quando un re megalomane dell’età pre romana commissionò la costruzione di due ampie terrazze artificiali e vi fece costruire diverse statue monumentali che lo raffiguravano insieme alle divinità (sue ‘parenti’) ed in mezzo un tumulo di massi di roccia alti 50 metri. È ipotizzabile che sotto queste tonnellate di pietra si trovino le tombe del re e di tre membri femminili della sua famiglia, ma nessuno può dirlo con certezza. I terremoti hanno decapitato gran parte delle statue e oggi molti di questi busti colossali siedono davanti alle loro teste, alte 2 metri, che si trovano in basso”. Si tratta di un’esperienza davvero emozionante. Quando arrivate sulla cima è ancora notte e vi trovate di fronte massi di pietra assolutamente insignificanti. Man mano che passano i minuti quelle pietre si animano. Emergono dal buio della notte per presentarsi con tutto il loro fascino assorbendo i colori dell’alba.
Terminato questo spettacolo si scende per riprendere la strada verso Katha. Ma le sorprese non sono finite. Dopo pochi chilometri si visita Eski Kale (Arsamela). Un sentiero porta ad alcune stele, di cui una perfettamente conservata raffigurante Mitra (o Apollo), dio del sole, con un copricapo dal quale si irradiano i raggi. Raggiunta la cima piatta della collina, da cui si gode una magnifica vista, si scorgono i resti delle fondamenta della capitale di Mitridate. Proseguendo in direzione di Katha a Yeni Kale si ammirano da lontano le rovine di un misterioso castello dei mamelucchi del XII secolo, costruito sulla cresta di una roccia con la quale si è perfettamente mimetizzato. Dopo pochi chilometri la strada attraversa il fiume Cendere su un moderno ponte. Sulla sinistra si ammira invece un imponente ponte romano a schiena d’asino, risalente al II secolo a.C., costruito in onore dell’imperatore Settimo Severo. Raggiunta Katha vi attende ancora una lunga trasferta (circa 7-8 ore) prima di arrivare in Cappadocia, altra meta spettacolare del nostro viaggio. Le strade sono scorrevoli, i paesaggi montagnosi affascinanti.

In Cappadocia tra i “camini delle fate”
Alla visita della Cappadocia, meta principale del nostro viaggio, dedichiamo tre giorni: il tempo appena necessario per visitare in torpedone i luoghi principali di questo spettacolare angolo di terra. Dopo questa visita avrete voglia di ritornare per percorrere a piedi queste valli incantate. I tour “mordi e fuggi” normalmente si trattengono in Cappadocia un solo giorno.
Nel cuore della Turchia si estende questo paesaggio lunare, uno scenario surreale di antiche chiese e case ricavate nella roccia, villaggi pittoreschi ricchi di tradizioni. Lo splendido paesaggio è costituito da friabile tufo vulcanico scolpito dall’acqua e dall’erosione nel corso dei millenni. Anche la luce è spettacolare e regala struggenti sfumature dal bianco abbagliante al senape, passando per il rosso mattone, con la cima innevata del Monte Argeo, che si staglia sullo sfondo.
La Cappadocia, un tempo cuore dell’impero ittita, divenne un regno indipendente e infine una vasta provincia romana citata più volte nell’Antico Testamento.
Un’occasione da non perdere è l’escursione in mongolfiera, sebbene il costo sia piuttosto elevato: 150 euro per persona, per un’ora di volo. Si parte all’alba per ammirare i cosiddetti “camini delle fate” assorbire i colori del primo sole. L’abilità del conduttore di nazionalità inglese è davvero eccezionale: scende tra le rocce per sfiorarle e poi riprendere quota. Lo spettacolo è indescrivibile. Un’altra interessante proposta durante il soggiorno in Cappadocia consiste nella danza dei dervisci, che si tiene ogni sera nelle suggestive sale interne del carravanservaglio di Avanos. L’esibizione è interessante, composta e non eccessivamente turistica.

L’itinerario classico
Nel museo all’aperto di Göreme, dichiarato patrimonio dell’umanità dall’Unesco, potete ammirare un gruppo imperdibile di chiese, cappelle e monasteri bizantini scavati nella roccia. La visita richiede dalle due alle tre ore. Il villaggio di Uchisor è da manifesto turistico. Salendo verso la piazza principale si scopre un paesaggio entusiasmante. Dal castello la vista sulla valle, come scrive la Guide Bleu “vous coupera le peu de souffle qui vous restera après l’ascension”. Altra tappa imperdibile è Zelve, che dal IX al XIII secolo fu ritiro monastico. Venne quindi abitato dalla gente del luogo fino al 1952, data in cui la stabilità geologica della valle fu giudicata inadeguata per consentire l’insediamento umano. Oggi, con le sue abitazioni rupestri, le cappelle, le piccionaie e una spartana moschea provvista di minareto a colonnette, è un paesino museo, dal quale avete l’impressione che gli abitanti siano partiti il giorno prima.
Ma il luogo forse più suggestivo di questa prima giornata è la cosiddetta Valle delle Fate, dove potete passeggiare a lungo, perdendovi tra le rocce forgiate dall’acqua e dal vento, che costituiscono un incredibile museo di sculture naturali. Ne rimarrete incantati e vi pentirete di non avere più tempo da trascorrere in quel luogo fatato.

Città sotterranee di 4’000 anni fa
La seconda e la terza giornata sono invece dedicate alla scoperta di una Cappadocia meno turistica. Il secondo giorno inizia con la visita delle due città sotterranee di Kaymakli e di Derinkuyu. In Cappadocia sembra che siano state scoperte a tutt’oggi un’ottantina di città sotterranee. Le più antiche risalgano all’epoca ittita, ossia a 4000 anni fa. Sembra comunque sicuro che fossero occupate già nel VII secolo a.C. Ne parla anche lo storico greco Senofonte. In tempo di pace gli abitanti di questa regione vivevano in superficie coltivando la terra, ma quando correvano il pericolo di un’invasione si rifugiavano nelle loro abitazioni trogloditiche, dove potevano vivere in tutta sicurezza anche per sei mesi consecutivi. Kaymakli è scavata su otto livelli, di cui cinque accessibili, Derinkuyu è invece costruita su sette livelli. Proseguiamo in direzione di Nigde per raggiungere il monastero di Eski Gümüsler. È scavato nella roccia e vanta alcuni affreschi bizantini, realizzati tra il VII e l’XI secolo, tra i meglio conservati della Cappadocia.
Si continua verso Yesilhisar, dove si svolta a destra per Soganli, un luogo di grande suggestione, ma discosto dai più frequentati itinerari turistici. La visita delle due vallate, con le loro antiche chiese rupestri, che in epoca romana ospitarono alcune necropoli e in epoca bizantina furono abitate da monaci, richiederà un paio d’ore. Si prosegue quindi fino a Damsa, passando per Kocali e Suves. Sul tragitto si incontrano alcuni “camini delle fate” e alcune chiese rupestri. A Damsa, in una bella oasi, si ammirano la moschea e un edificio diroccato dell’epoca selgiuchide, probabilmente una medersa (scuola coranica). A Cemil si visita la chiesa di St. Etienne. Si giunge infine a Mustafapasa. Fino alla prima guerra mondiale fu un insediamento greco-ottomano. Si tratta di una località piacevolmente tranquilla con belle dimore scavate nella pietra e diverse chiesette rupestri. Di particolare interesse la chiesa di San Basilio del XII secolo, arroccata sulla cima di un dirupo.

I caravanserragli alberghi d’altri tempi
Ultima giornata in Cappadocia. Partiamo in direzione di Konya, ma giunti ad Aksaray raggiungiamo, a 45 chilometri, la valle di Ihlara: una zona remota, che un tempo si chiamava Peristrema e rappresentava uno dei luoghi di ritiro preferiti dai monaci bizantini. Di quell’epoca sono sopravvissute decine di chiese rupestri decorate con dipinti. Percorriamo solo la parte centrale della valle che collega i villaggi di Ihlara e di Belisirma. Ci vogliono circa tre ore a piedi. Informatevi sullo stato della strada prima di partire. Proseguiamo in direzione di Konya, che si trova a circa 150 chilometri. A 42 chilometri da Aksaray, nel desolato villaggio di Sultanhani, si visita l’omonimo caravanserraglio selgiuchide. Fu costruito nel 1229, durante il regno del sultano selgiuchide Alaettin Keykubad I, e dopo i restauri, effettuati nel 1278 in seguito a un incendio, divenne il più grande caravanserraglio della Turchia. Di caravanserragli è cosparso il paese. Si trattava di una sorta di albergo, dove i commercianti che trasportavano merci dall’Europa all’Oriente e viceversa potevano sostare gratuitamente e al sicuro per la notte con i loro animali da trasporto (cammelli, muli, asini e cavalli).

Konya, la capitale dei Dervisci danzanti
Ed eccoci giunti a Konya, storica capitale dei Selgiuchidi e città del Mevlâna. Agli inizi del 1200 la dinastia selgiuchida contenne definitivamente i crociati sulle coste. Raggiunse un accordo con i bizantini, egemonizzò i propri concorrenti e fondò un sultanato autonomo scegliendo Konya – città esistente all’epoca romana – come propria capitale. Nel 1200 il mistico persiano Mevlâna Gialâl Ud-Din Rûmi scelse di fermarsi a Konya, dove fondò l’ordine monastico dei Mevlevi, conosciuti in occidente come Dervisci danzanti, sciolti da Atatürk nel 1925. Figura di rilievo del mondo islamico Mevlâna fu il portatore di una corrente mistica che conseguiva la sublimazione dell’anima con una danza rituale resa frenetica dal ritmo delle percussioni. Punto cruciale della visita il Museo Mevlâna, che ospitava un tempo il convento dei Dervisci rotanti, che è visibile da una certa distanza per la sua inconfondible cupola ricoperta di splendide maioliche turchesi. Di particolare interesse anche la tomba di Mevlâna, che risale all’epoca Selgiuchide. Konya offre anche altri interessanti monumenti, come la moschea Alaettin di origine selgiuchida, il museo Karatay (attualmente in restauro) con la sua straordinaria collezione di ceramiche, la scuola di ceramica Sircali con le sue splendide maioliche turchesi e il museo archeologico con il suo particolare sarcofago romano di Sidamara (250 d.C.), che presenta straordinari rilievi raffiguranti le fatiche di Ercole. Interessante anche la visita del bazar, che mantiene un certo fascino, malgrado la modernizzazione della città.

Guide consigliate
– Le Guide Mondadori, Turchia, Milano 2004
– Touring Club Italiano, Guide d’Europa, Turchia, Milano 2003
– Touring Club Italiano, L’Europa e i paesi del Mediterraneo, Turchia, Cipro, Malta, Milano 2006
– Qui Touring Speciale Mondo, Turchia, Milano 2005
– Lonely Planet, Turchia, Torino 2005
– Les Guides Bleus, Turquie, Paris 1978
– Clup. Guide, Turchia, Milano 1994

Itinerario
1° giorno: Volo Milano-Istanbul-Gaziantep. Trasferta a Sanliurfa in torpedone.
2° giorno: Sanliurfa e Harran.
3° giorno: Spostamento in torpedone a Mardin (175 km da Sanliurfa), quindi a Diyarbaki. Si prosegue per Katha.
4° giorno: Visita del monte Nemrut. Si prosegue per la Cappadocia.
5° giorno: Visita della Cappadocia.
6° giorno: Visita della Cappadocia.
7° giorno: Visita della Cappadocia.
8° giorno: Konya.
9° giorno: Konya-Istanbul-Milano.