Tibet – Un viaggio sul tetto del mondo sfiorando le nuvole con le dita

Tibet – Il Tibet è un Paese occupato dai cinesi
Cina – Un mondo svelato dalla Via della Seta
Cina – La Cina immaginata e quella della realtà

Con la Transtibetana, chiamato il “treno dei cieli”, alla scoperta di una cultura portata storicamente a prediligere l’essere all’avere. Nonostante si tratti di un Paese militarmente occupato dai cinesi, l’animo mistico di questo popolo lo si respira visitando gli affascinanti monasteri.

A Lahsa con la ferrovia più alta del mondo
Proseguo con la parentesi Tibetana il mio diario di un viaggio di approccio alla Cina e al Tibet. Un viaggio a volte faticoso a causa dell’altezza elevata: Lahsa è situata a 3600 metri e durante gli spostamenti si toccano i 5 mila. Dopo un periodo di acclimatazione di un paio di giorni ci si muove comunque di nuovo senza fatica.
Il treno che ci porterà nella capitale lo prendiamo a Xining, a 90 minuti di volo da Pechino. A 37 chilometri da Xining sorge Ta Er Si, Kumbum nella lingua del Paese delle Nevi, città natale di Tsong Kha pa (1357-1419) il fondatore del buddismo tibetano, a cui è dedicato un vasto monastero fondato nel 1560. Non lontano da quel luogo il 6 luglio 1935 è nato anche l’attuale capo religioso del Tibet, il XV Dalai Lama, in esilio in India e molto noto in occidente per aver vinto il premio Nobel per la pace.

Il treno dei cieli
Inizia con la visita di questo luogo sacro, con pellegrini che giungono da tutto il paese, il nostro itinerario tibetano, che ci porterà a Lahsa con la Transtibetana, la linea ferroviaria che collega Pechino alla capitale del Tibet. Soprannominato il “Treno dei cieli” questo capolavoro ingegneristico è frutto di un’idea del presidente Mao, ma è stato costruito recentemente ed inaugurato nel 2006, dopo cinque anni di lavori. È una ferrovia sul tetto del mondo: il suo percorso si snoda sempre sopra i 4 mila metri e a tratti supera i 5 mila. Una buona metà del tracciato poggia sul ghiaccio. Per evitare la deformazione dei binari, a causa del disgelo estivo, è stato necessario realizzare in molte tratte un sistema di raffreddamento con tubature sotterranee che mantengono il terreno ghiacciato durante tutto l’anno. Secondo il presidente cinese Hu Jintao quest’opera serve a “consolidare l’unità nazionale”, mentre a parere del Dalai Lama è solo un tassello della politica di cinesizzazione del Tibet. Al di là di queste tristi considerazioni politiche il viaggio sulle carrozze pressurizzate della Transtibetana è estremamente suggestivo. Soprattutto quando per una decina di ore si attraversa un vastissimo altipiano ricco di piccoli villaggi rurali, dove l’attività principale è costituita della pastorizia. Dai finestrini si vedono migliaia di yak, una mucca locale, pascolare in paesaggi mai monotoni ed in continuo divenire. Ai confini della smisurata pianura, attraversata da fiumi e laghi d’inverno gelati, si intravedono le cime innevate delle montagne, che toccano i 7 mila metri. Durante il percorso in treno sono rimasto come un bimbo per ore e ore con il naso incollato al finestrino, incantato da quel paesaggio tanto differente dal nostro, anche se di alta montagna. Prima di giungere in Tibet si passa un territorio desertico, non abitato, e quindi meno interessante, anche se ci ha permesso di osservare alcuni animali selvatici. Dopo 24 ore di treno da Xining e una notte trascorsa nelle cuccette si arriva a Lahsa.

La mistica Lahsa
Tra anonimi viali a più corsie e squallidi quartieri dormitorio sopravvivono interessanti monumenti del passato. Il luogo più piacevole della città è senza dubbio il cosiddetto Barkhor, il quadrilatero di animatissime stradine su cui si affaccia un coloratissimo mercato che circonda il Jokhang, l’edificio sacro più venerato del paese. Come fa giustamente notare l’autore della guida Lonely Planet, “si tratta di una zona che non ha eguali in tutto il Tibet per il modo straordinario in cui le più sincere espressioni di fede si armonizzano con le manifestazioni di un’improvvisata economia di mercato”, simpaticamente espressa da bancarelle e negozietti che hanno resistito a qualsiasi infiltrazione del mondo moderno. Così come sembra appartenere ad altre epoche la religiosità dei numerosi pellegrini che pregano con tutto il corpo e si prostrano gettandosi a terra davanti al tempio, tanto da aver lucidato nel corso dei secoli le grosse pietre del selciato. In questo quartiere si respira ancora la magica atmosfera di un tempo, malgrado la minacciosa presenza di giovani militari cinesi catapultati dal potere politico in un mondo a loro estraneo. La sera, di ritorno dalle gite fuori città, si torna sempre volentieri in questo centro storico, dove è bello lasciarsi trascinare lungo il cammino percorso in senso orario dalla massa di pellegrini che si recano al Jokhang, il tempio che ospita la statua del Buddha più venerata del Tibet. La visita di questo luogo sacro è una delle esperienze più autentiche che si possono vivere in questo paese.

Potala tesoro tibetano
Ma il simbolo del “Tetto del Mondo” è il Potala, considerato uno dei tesori più preziosi dell’intera architettura asiatica. Era il cuore pulsante e il punto di riferimento religioso, sociale e culturale di tutto lo sterminato “Paese delle Nevi”. Prima di entrarvi i pellegrini lo circoambulano con deferenza. Si tratta di un’imponente struttura seicentesca, simile per molti aspetti a un’inviolabile fortezza, che non mancherà di stregarvi. È stata per molti secoli sede del governo tibetano e dimora di tutti i Dalai Lama che si sono susseguiti. Dopo aver salito a fatica gli scalini che vi portano ai tredici piani di questo monumento è deludente notare come sia ormai privo di pathos: è infatti stato trasformato in museo dai cinesi, persino nella sua parte religiosa (Il Palazzo Rosso), dove al posto dei monaci vi accolgono guardie armate.
Decisamente più vissuto è invece il Drepung, situato a 8 chilometri dalla capitale. Un tempo, con i suoi 8 mila monaci, era considerato il più grande monastero al mondo. Fu costruito nel XV secolo ed i Dalai Lama esercitarono da queste mura il loro potere religioso prima di trasferirsi nel Potala. Visto da lontano assomiglia a un piccolo villaggio con i suoi edifici bianchi ammassati sul fianco della collina. Quando lo abbiamo visitato, la settimana precedente il capodanno tibetano, era frequentatissimo da pellegrini, che giungevano dalla campagna. Questo monastero, come quello di “Sera”, che dista pochi chilometri, era famoso per i suoi colleghi dove si insegnava il buddismo.

Verso il Nepal
Lasciamo Lahsa il mattino di buonora per una gita di due giorni in torpedone lungo l’antica strada che porta verso Kathmandu nel Nepal. Attraversiamo paesaggi lunari, brulli, color della pietra, dove tutto ad un tratto sbuca un ghiacciaio. Le case dei contadini sono in sasso. Il piano terreno è solitamente adibito a stalla, sopra abita la famiglia. Data l’assenza assoluta di legna, per riscaldare gli ambienti durante l’inverno, si utilizza lo sterco d’animale seccato a forma di mattonelle durante la bella stagione e ordinatamente sistemato in bella vista davanti alle abitazioni. Dopo alcune ore di viaggio raggiungiamo un piccolo pianoro a quota 4794 metri da cui si gode una splendida vista sul lago Yamdrock dall’insolita forma tortuosa e con la superficie ghiacciata. A sud svettano le alte montagne innevate dell’Himalaya. Si notano piccoli terrazzamenti che nella bella stagione sono coltivati ad orzo, cereale che cresce anche sopra i 4000. Il lago è considerato sacro dai tibetani. Credono sia la dimora delle divinità irate, ma ospita anche la maggiore centrale idroelettrica del paese. Proseguiamo e di tanto in tanto sulle vette scorgiamo i cosiddetti cavalli del vento, corde a cui sono appese bandierine colorate che recano preghiere stampate, trasportate simbolicamente di montagna in montagna e di valle in valle dal vento che qui non manca mai. Dopo aver superato il passo più alto del viaggio a quota 5200 metri raggiungiamo Gyantse, un’affascinante cittadina cinta dalle mura e dominata da un imponente castello, considerata anticamente la porta del Nepal. Circondato da un uno splendido anfiteatro di monti aridi che lo proteggono naturalmente, sorge il grande complesso architettonico del monastero del Pelkor Chode, che accoglieva quindici monasteri in cui coesistevano tre diversi ordini del buddismo tibetano. È certamente uno dei siti più suggestivi visitati durante il soggiorno in Tibet, per la sua autenticità e l’elevato numero di pellegrini che si recano in quel luogo per pregare. Il sito ospita un tempio quattrocentesco, unico al mondo, costruito con la forma di un mandala a 108 facce e composto da 112 cappelle riccamente affrescate, che i fedeli percorrono in senso orario pregando.
In serata raggiungiamo Xigatse, dove trascorriamo la notte e il mattino seguente visitiamo un altro suggestivo monastero, Tashilhunpo, molto frequentato dai credenti. È la discussa sede ufficiale dei Panchen Lama: l’undicesimo scelto dai cinesi risiede qui a Pechino. È considerato oggi la più grande sede monastica del Tibet. Fondato alla metà del Quattrocento è perfettamente conservato e appare ai visitatori come un’imponente città fortificata. Custodisce, oltre alle tombe dei Panchen Lama, la più grande statua dorata al mondo. Raffigura il Buddha del futuro e per realizzarla sono stati impiegati 300 chilogrammi d’oro.
La nostra parentesi tibetana è terminata. Rientriamo a Lahsa per una strada in gran parte non asfaltata, che percorre due valli disabitate e offre paesaggi lunari. Giungiamo nella capitale troppo tardi per visitare la residenza estiva del Dalai Lama – Norbulingka – da cui nel 1959 fuggì travestito da soldato tibetano l’attuale leader religioso in esilio.

Itinerario

1° giorno
Milano-Pechino

2° giorno
Pechino e Tempio del cielo, che per cinque secoli ha rappresentato il cuore dei cerimoniali e del simbolismo imperiale

3° giorno
Tomba dei Ming – Grande Muraglia, un’impresa ingegneristica sbalorditiva, lunga 6.350 chilometri

4° giorno
La città proibita, una vera e propria città nella città con oltre 800 edifici – Crociera sul lago Kumming

5° giorno
Xining – Monastero di Kumbum – Lhasa

6°giorno
Ferrovia tibetana – Lhasa, nota anche come “Tibet Express”, oltre 1.100 km per collegare Cina e Tibet

7° giorno
Lhasa – Palazzo Potala – Tempio Jokhang

8° giorno
Monastero di Drepung

9° giorno
Lago Yamdrok – Gyantse

10° giorno
Xigatse, sorge alla confluenza del Yarlung e del Nyangchu

11° giorno
Lhasa, capitale della Regione Autonoma del Tibet. In passato anche residenza tradizionale del Dalai Lama

12° giorno
Da Chengdu, punto di snodo per i trasporti e le comunicazioni della Repubblica popolare cinese, a Shanghai, una delle città più popolose al mondo

13° giorno
Shanghai, con oltre 18.5 milioni di abitanti

14° giorno
Shanghai-Milano

Cina – La Cina immaginata e quella della realtà

Cina – Un mondo svelato dalla Via della Seta
Tibet – Un viaggio sul tetto del mondo sfiorando le nuvole con le dita
Tibet – Il Tibet è un Paese occupato dai cinesi

Immaginavo la Cina diversa da come l’ho trovata. Certo, un breve viaggio non permette sicuramente di conoscere un paese, fornisce però stimoli di riflessione, provoca sensazioni e pone interrogativi.
La prima sensazione è la vastità del territorio con campagne sconfinate e città popolatissime: quelle di 2 milioni sono considerate piccole, sopra i 5 medie, oltre i 10 grandi. La seconda impressione riguarda l’enorme disparità di tenore di vita tra le città e le zone rurali. Il segno distintivo di qualsiasi metropoli cinese sono i grattacieli, solitamente anonimi ma talvolta di grande pregio architettonico, come quelli di Pechino e soprattutto di Shanghai. Si vedono gru ovunque. L’esodo dalle campagne verso le città è elevatissimo. Nelle zone rurali la popolazione vive in casupole in sasso o in mattoni di terracotta e le condizioni di vita sono spesso da terzo mondo, mentre nei centri delle metropoli si respira un’atmosfera occidentale, con la presenza di negozi di gran lusso – Armani, Rolex, Gucci, ecc. – e di grandi magazzini simili a quelli europei o americani. Le modernissime vie dei centri cittadini sono percorse da vetture di lusso, BMW, Audi, Mercedes e molte, molte VW. È ovvio che i contadini siano attratti da questo benessere. Come è accaduto in Occidente nel dopoguerra, i giovani abbandonano la campagna e si trasferiscono nelle città, dove trovano lavoro nelle fabbriche solitamente di proprietà dello stato. Le paghe sono basse e la vita costosa. Grazie alla politica dei bassi salari la Cina è diventata la seconda potenza economica dopo gli Stati Uniti.
Se dalle sensazioni passiamo alle riflessioni e agli interrogativi, visitando questo paese ci si chiede fino a quando gli operai accetteranno una situazione che favorisce i funzionari e una classe media emergente. Riuscirà la Cina a gestire in modo indolore il passaggio di centinaia di milioni di cittadini da una civiltà rurale antiquata a una società moderna? Il capitalismo di stato sarà in grado di vincere questa sfida, che comporterà inevitabilmente anche aperture politiche e sociali oggi difficilmente immaginabili? Sono domande a cui non so dare una risposta, ma che scaturiscono spontanee da un viaggio in questo paese.
L’itinerario, organizzato da Mondial Tours, offre un rapido approccio alla Cina e al Tibet, che suo malgrado fa parte della Cina. Dico suo malgrado perché visitandolo si ha l’impressione di entrare in un paese occupato. Fu Mao Tse Tung nel 1950 a occuparlo e ad imporre il modello comunista cinese nel paese del Dalai Lama, dove il credo buddista ha radici profonde diffuse in tutta la società. Percorrendo le strade che dalla capitale Lhasa portano ai principali monasteri si attraversano zone rurali che stridono fortemente con la civiltà degli splendidi grattacieli di Pechino o di Shanghai disegnati dai grandi architetti americani. Mentre i contadini tibetani si recano nei templi buddisti con abiti identici a quelli dei loro avi, le classi agiate a Pechino e Shanghai o a Xian fanno shopping da Armani o da Gucci e i giovani vestono Zara.
L’itinerario del nostro viaggio passa bruscamente dal Tibet, dalla cultura portata a prediligere l’essere all’avere, alla realtà metropolitana cinese, che non presenta solo gli aspetti più spinti del consumismo occidentale, ma anche i patrimoni storici di una civiltà antichissima, che ha sempre affascinato l’Occidente.

Tibet – Il Tibet è un Paese occupato dai cinesi

Tibet – Un viaggio sul tetto del mondo sfiorando le nuvole con le dita
Cina – Un mondo svelato dalla Via della Seta
Cina – La Cina immaginata e quella della realtà

Le mie camminate, i miei viaggi sono stati e sono ancora oggi, in fondo, una fuga: non la fuga da sé stessi, l’eterna fuga dell’interiorità verso l’esterno, ma proprio il contrario: un tentativo di fuga da questo tempo della tecnica e del denaro, della guerra e dell’avidità, da un tempo che pretende avere splendore e grandezza, ma che la parte migliore di me non può né accettare né amare, al massimo sopportare”. Questa riflessione dello scrittore tedesco Hermann Hesse può essere una buona introduzione per un viaggio alla scoperta della cultura tibetana, storicamente portata a prediligere l’essere all’avere, ma duramente minacciata dall’ “occupazione” cinese, che allo spiritualismo del Dalai Lama contrappone il suo materialismo.
Prosegue, dunque, con la parentesi tibetana, il mio diario di un viaggio di approccio alla Cina e al Tibet. Senza nessuna presunzione di dire cose nuove, propongo unicamente alcune sensazioni e riflessioni politiche ispirate dal viaggio.
Giungendo in Tibet avete la netta impressione di trovarvi in un paese occupato. I militari cinesi, che invasero il paese nel 1950 all’indomani dell’ascesa al potere di Mao in Cina, si trovano ovunque. Alla fine di febbraio, pochi giorni prima del capodanno tibetano, quando si è svolta la nostra visita, i turisti erano pochissimi e a partire dal primo marzo l’ingresso al paese era vietato agli stranieri, perché si temevano manifestazioni di protesta contro gli occupanti. Il clima era gelido in tutti i sensi, ma i monasteri agibili erano frequentati da moltissimi contadini impossibilitati a coltivare le terre proprio a causa del gelo. La potente Cina, immersa nel pragmatismo dopo aver perso la sua fede nel comunismo, si trova in difficoltà a gestire la profonda religiosità di questo popolo, che non potrà certo sconfiggere con la forza. Sta tentando di risolvere il problema “cinesizzando” il Tibet, con una politica che premia la migrazione verso il cosiddetto tetto del mondo nell’intento – sostengono – di “modernizzarlo”. Ed i tibetani sono già diventati una minoranza in casa propria. Anche la costruzione della modernissima ferrovia che collega il Paese delle Nevi alla Cina è considerata dal Dalai Lama in esilio come un importante strumento di questa politica di cinesizzazione, mentre il presidente Hu Jintao l’ha trionfalmente presentata come un importante tassello per consolidare l’unità nazionale. D’altra parte la Cina sta cercando di museizzare i principali monasteri, considerati turisticamente interessanti ma pericolosi se favoriscono la religiosità locale non controllata. Sembra provocatorio che i pellegrini debbano addirittura pagare il biglietto d’entrata per recarsi a pregare. Dopo la morte di Mao, comunque, l’esercizio del culto non è più proibito. La politica cinese nei confronti del Tibet, non a caso è stata denominata “genocidio culturale” da diversi studiosi occidentali.
Questa politica di cinesizzazione ha invaso anche la sfera religiosa tentando di controllarla. Dopo la morte, nel 1989, del decimo Panchen Lama, che deteneva una carica considerata al secondo posto nella gerarchia delle autorità spirituali tibetane, toccava al Dalai Lama in esilio identificare la reincarnazione del prossimo Panchen Lama. Così vuole la tradizione. Nel 1995 lo ha individuato in un bambino di sei anni: Gedhun Choeky Nyima. Nel giro di un mese le autorità cinesi lo hanno fatto sparire “per proteggerlo” e di lui – considerato il più giovane prigioniero politico al mondo – si sa solo che è ancora vivo, ma non dove si trovi. Il governo di Pechino ha chiesto in seguito ai Lama anziani del monastero di Tashilhhunpo di effettuare una nuova nomina gradita al governo. È stato scelto un figlio di genitori iscritti al Partito comunista. Una mossa importante per i cinesi, perché alla morte dell’attuale Dalai Lama spetterà al Panchen Lama in carica l’identificazione del successore.

Armenia – La tragedia del genocidio all’inizio del Novecento

Armenia – Monasteri e fortezze immersi in una natura selvaggia
Armenia – La rinascita iniziò dalla laguna veneta
Armenia – L’amara verità storica del genocidio armeno
Armenia – La letteratura del viaggiatore

Il territorio, nei secoli, è stato invaso e suddiviso tra diversi imperi, da quello romano a quello persiano, da quello russo a quello ottomano. Una cultura millenaria che conserva tracce e presenze di tutte le civiltà continentali. Secondo la leggenda gli abitanti sono discendenti di Hayk, bisbisnipote di Noé.

Non si può non provare una simpatia istintiva per il popolo armeno, sopravvissuto nel corso di millenni a innumerevoli tentativi di conquista, assimilazione, conversione e annientamento. Eppure ha superato tutte queste prove atroci restando ancorato a due capisaldi: la fede cristiana, abbracciata nel 301, e la millenaria cultura fondata su una lingua, che si sviluppò in seguito all’invenzione di un proprio alfabeto nel 404. Il giovane stato armeno, nato nel 1991 dopo lo sfaldamento dell’Unione sovietica, occupa solo una piccola parte, circa un decimo dell’antica Armenia geografica, che i Romani chiamavano il Regno dei Tre Mari, siccome si estendeva dal Mar Nero, al Mar Caspio sino al Mediterraneo. L’Armenia odierna conta poco più di 3 milioni di abitanti, a fronte degli oltre 8 milioni di armeni sparsi in tutto il mondo. Il suo governo democratico è ancora giovane e presenta ampi margini di miglioramento – la corruzione sembra diffusa – ma per la popolazione il collante rimane la religione. Alla mia precisa domanda su quali sono i rapporti tra stato e chiesa, Vahé, la nostra colta guida locale non ha avuto esitazioni a rispondere che il punto di riferimento principale rimane la religione, talmente radicata nell’anima del popolo per cui essere armeni è sinonimo di essere cristiani.
Un viaggio in Armenia è interessante perché permette di ripercorrere, grazie a numerose testimonianze, le tappe della sua tormentata storia a contatto con culture e civiltà diverse che hanno influenzato arte, lingua, cucina, usi e tradizioni popolari.

Il Grande Male, iniziò nel 1915
All’alba del 24 aprile 1915 la polizia turca irrompe nelle case degli intellettuali armeni di Costantinopoli per arrestarli. È l’inizio del genocidio che nel giro di sette anni porterà all’eliminazione di oltre un milione e mezzo di persone: uomini, donne, anziani, bambini.
A Yerevan, la capitale armena, sulla Collina delle Rondini un suggestivo e imponente monumento ricorda questo crimine contro l’umanità. Un muro in basalto lungo 100 metri, che reca i nomi di città e province dove si sono svolti i massacri, conduce al memoriale composto da una stele alta 44 metri e divisa in due per rappresentare le regioni occidentale e orientale del paese, ma al contempo è una sola per enfatizzare l’unità del popolo. Vicino alla stele 12 lastre ripiegate verso il centro, dove arde una fiamma perenne, ricordano le regioni perse dell’Armenia occidentale. Il 24 aprile di ogni anno giungono fin lassù armeni provenienti da ogni parte del mondo con un fiore in mano. Nella memoria di ognuno di loro esiste un tragico ricordo. Questo monumento è stato costruito nel 1967 in epoca sovietica. Accanto, quattro anni dopo l’indipendenza raggiunta nel 1991, è stato edificato un museo circolare. Documenta le atrocità commesse dai turchi seguendo un preciso piano di sterminio del popolo armeno. Durante la visita sentite un pugno nello stomaco. Le foto e i filmati presentati ricordano un’altra vergogna della storia: l’olocausto degli ebrei. E gli storici rammentano come Hitler, nel 1939, in procinto di invadere la Polonia, rispose alle obiezioni di suoi collaboratori scettici sull’intervento: “Qualcuno parla forse ancora dello sterminio degli armeni”? Purtroppo aveva ragione, l’annientamento di un intero popolo sembrava destinato all’oblio a causa del cinismo della realpolitik di molti stati. Eppure non era mancato chi, al momento dei massacri, aveva rischiato la propria vita per denunciare in modo documentato quanto stava accadendo. A costoro e ad altri che hanno aiutato le vittime sono dedicate lapidi e iscrizioni all’interno del museo. Faccio un solo nome, quello del medico tedesco Armin Wegner, collaboratore dell’esercito turco, che lasciò il fronte portando con sé una documentazione fotografica sconvolgente. Ricordo una sua foto esposta al museo del genocidio in cui si vede un soldato turco mostrare sprezzante un tozzo di pane a un gruppo affamato di bimbi cadaverici, che non hanno più nemmeno la forza di alzarsi per afferrarlo.
Il genocidio del 1915-22 non è purtroppo un episodio isolato. Già nel 1894-96 si stima che vennero sterminati due-trecentomila armeni residenti nell’Anatolia orientale, ai quali vanno sommate le centinaia di migliaia di persone che dovettero fuggire o furono costrette a convertirsi all’Islam per avere salva la vita (secondo alcune stime armene questi loro antenati islamizzati che attualmente vivono in Anatolia orientale, in gran parte mischiati coi curdi, superano addirittura i 2 milioni). Nel 1909 seguirono altri massacri di 30 mila persone in Adana e in Cilicia. Non solo i turchi si accanirono contro questo popolo. Anche le purghe di Stalin fecero migliaia di vittime, dopo che nel 1920 la giovane Repubblica armena nata nel 1918 fu assoggettata all’Unione sovietica.

Una storia tormentata
Le leggende narrano che gli armeni sono i discendenti di Hayk, bisbisnipote di Noè, la cui Arca si arenò sul Monte Ararat dopo il diluvio universale. In onore a questa tradizione gli armeni chiamano infatti la loro nazione Hayastan. Gli storici fanno invece risalire le origini di questo popolo alla seconda metà del II millennio a.C. quando in Anatolia orientale sorse uno stato unitario chiamato Urartu, che raggruppava varie tribù dislocate su un vasto territorio e che raggiunse il suo periodo di massimo splendore tra il IX e il VII secolo a.C. Ma per incontrare la prima dinastia armena, quella degli Orontidi, dobbiamo attendere fino al VI secolo a.C. L’Armenia raggiunse comunque la sua massima espansione (estese i suoi confini fino alla Cappadocia e a Gerusalemme) nel primo secolo a.C. sotto il regno di Tigrane II della dinastia degli Artassidi, che ottennero l’indipendenza grazie all’appoggio dei Romani. Il Paese fungeva infatti da stato cuscinetto tra romani e parti. Sotto la dinastia degli Arsacidi, sentendo la pressante minaccia di assimilazione culturale da parte dei persiani, ebbero luogo due avvenimenti che segneranno irrimediabilmente la storia di queste terre: la conversione al Cristianesimo nel 301 e la creazione dell’alfabeto armeno un secolo più tardi, nel 404. Saranno questi i due punti di riferimento costanti che salveranno nel corso dei secoli l’identità e la cultura di questo popolo nonostante le vicissitudini storiche avverse. L’Armenia fu dunque la prima nazione al mondo ad adottare il Cristianesimo come religione di stato. Gli arabi invasero l’Armenia per la prima volta attorno al 645. A partire da questa data iniziarono le pressioni per convincere il popolo a convertirsi all’Islam, ma venne poi raggiunto un accordo che permetteva agli armeni di continuare a professare il Cristianesimo. Nel corso del XIII secolo i Mongoli di Tamerlano distrussero gran parte del territorio. Alcuni monasteri isolati e fortificati, giunti fino ai nostri giorni e principale meta dei viaggi turistici, furono risparmiati e svolsero, come già in passato, una fondamentale funzione di formazione culturale e sociale. Dall’inizio del XVI secolo il territorio fu conteso per lungo tempo da due stati musulmani nemici: l’Impero ottomano sunnita, e la Persia sciita. Tre secoli più tardi l’esercito russo conquistò la maggior parte dell’Armenia persiana. Da allora una parte della popolazione rimase assoggettata all’Impero ottomano (Armenia occidentale) e una parte alla Russia zarista (Armenia orientale), con una piccola propaggine in Iran. Durante la prima guerra mondiale il popolo armeno era quindi diviso sui due fronti in guerra. Circostanza che diede il pretesto ai turchi per tentare di eliminare gli armeni, la cui presenza intralciava il grande progetto del panturchismo, con il quale si volevano unire tutti i popoli di origine turca del continente asiatico.

Una sintesi di civiltà diverse
Come si può notare da questo breve e sommario excursus storico il territorio armeno nel corso dei secoli è stato ripetutamente invaso e suddiviso tra diversi imperi che si sono succeduti: da quello romano a quello persiano, da quello russo a quello ottomano, solo per citare i più importanti. “Nella cultura armena – come fa notare Nadia Pasqual, di lontane origini armene, sulla migliore guida in italiano di questo paese – sono presenti i lasciti di tutte queste civiltà, che si ritrovano nell’arte, nella lingua, nella cucina, negli usi e nelle tradizioni popolari. Il contatto e la convivenza con popolazioni di lingua e religioni diverse hanno arricchito il patrimonio culturale armeno, ma non l’hanno modificato nei suoi fondamenti più profondi, che rimangono legati ai valori cristiani e al forte senso di appartenenza alla loro terra. Gli armeni – conclude Nadia Pasqual – si sono sempre riconosciuti come popolo e anche durante i lunghi periodi di assoggettamento straniero hanno coltivato il proprio patrimonio nazionale sviluppando una produzione culturale e artistica originale, della quale sono giustamente fieri e che oggi offrono con gioia ai visitatori”. Per questi motivi, ben sintetizzati in questa citazione, l’Armenia merita di essere visitata.

Itinerario

1° giorno
Lugano-Zurigo-Yerevan

2° giorno
Yerevan-Garni-Geghard

3° giorno
Agarak-Aruch-Dashtadem-Harich-Gyumri

4° giorno
Odzun-Haghpat-Sanahin-Tumanyan

5° giorno
Dilijan-Lago Sevan

6° giorno
Noraduz-Selim-Noravank-Yerevan

7° giorno
Echimiadzin-Metsamor

8° giorno
Erebuni-Artashat-Dvin

9° giorno
Hovanavank-Saghmosavan-Amberd

10° giorno
Yerevan-Zurigo-Lugano

Bibliografia

Armenia Polaris, Firenze 2010
Georgia, Armenia, Azerbaigian Lonely Planet, Milano 2008
Armenia Braot, Bucks (England), 2003
Claude Murafian et Ericc van Lauwe, Atlas Historic de l’Arménie, Paris 2001

Armenia – Monasteri e fortezze immersi in una natura selvaggia

Armenia – La tragedia del genocidio all’inizio del Novecento
Armenia – La rinascita iniziò dalla laguna veneta
Armenia – L’amara verità storica del genocidio armeno
Armenia – La letteratura del viaggiatore

L’itinerario parte dalla capitale Yerevan ricca di musei che testimoniano una storia difficile ma ricca e prosegue in uno spettacolare territorio montagnoso alla scoperta di antichissime chiese e monasteri, di fortezze e caravanserragli situati lungo la Via della Seta.

Nonostante le continue occupazioni e i tentativi di assimilazione, di conversione e di annientamento l’etnia armena è sopravvissuta alle vicende storiche avverse fondandosi sulla fede cristiana e sulla millenaria cultura espressa in una lingua con un alfabeto proprio. Dalle avversità storiche ha saputo trarre anche aspetti positivi assimilando nel vocabolario, nell’arte, nella cucina, negli usi e costumi l’essenza delle civiltà di cultura e religione diverse con cui la sua popolazione è venuta suo malgrado in contatto. Visitando oggi l’Armenia come turisti si percepisce questa ricchezza.
L’architettura religiosa, dato l’alto significato del Cristianesimo nella storia armena, costituisce certamente l’elemento caratterizzante di questo paese. Chiese e monasteri sono spesso appollaiati sopra dirupi o situati in magnifiche vallate, dove il corso delle acque ha scavato profondi canyon. Ma sono interessanti anche le visite alle fortezze, erette in luoghi impervi per difendere il territorio dalle continue invasioni, e ai caravanserragli, siti di sosta per i commercianti che percorrevano la mitica Via della Seta. Al di fuori della capitale Yerevan, dove vive un terzo degli oltre 3 milioni di abitanti (all’estero se ne contano quasi 9 milioni), il paesaggio è agreste, spesso senza vegetazione, dato che ci si trova sovente sopra i 2000 metri di altezza. Dietro qualsiasi curva della strada bisogna essere pronti a frenare perché molto spesso le mandrie di mucche o di pecore scambiano l’asfalto per il pascolo. Zona vulcanica ad alto rischio sismico l’Armenia in molte regioni offre visioni lunari. Il lago Sevan (il terzo lago più alto del pianeta, situato, con i suoi 110 km2 di superficie, a 1900 metri) offre uno dei paesaggi più suggestivi: di un color azzurro scuro si contrappone al marrone delle montagne desertiche. Il tragitto che lo collega a Yerevan, attraverso il passo Selim, è particolarmente affascinante. Si attraversano profonde pareti rocciose per raggiungere paesaggi desertici e poi, ad un tratto, spuntano villaggi verdissimi, simili ad oasi, in mezzo a montagne spettrali. I paesini sono rurali e molto poveri, ma il territorio, salvo durante il rigido inverno, è molto fertile. E di spazio non ne manca. A tratti abbiamo attraversato zone viticole. Per affrontare temperature che scendono di molti gradi sotto lo zero i contadini, una volta colta l’uva, devono interrare i tralci per dissotterrarli in primavera. Il paesaggio forse più straordinario è la vallata in cui si trova il monastero di Noravank. Si attraversa per 8 chilometri un canyon con pareti altissime di color rosso e giunti nel fondovalle si scorge il monastero in uno spettacolare scenario di rocce rosate.

Radici del passato a Yerevan
Nella capitale i grigi palazzi dell’epoca sovietica convivono con i grattacieli moderni di stampo occidentale. Abbondano i musei che illustrano la ricca e tormentata storia di questo popolo. Su due colline situate ai due estremi della città sorgono due monumenti simbolo: il Memoriale per le vittime del genocidio con l’annesso museo e l’imponente e fiera statua della Madre Armenia, che sostituì quella di Stalin la notte stessa in cui giunse la notizia della sua morte. Ma il sacrario della cultura armena è considerata la grande biblioteca di manoscritti Matenadaran, che si erge come una cattedrale in cima al viale più importante di Yerevan. Dedicata all’inventore dell’alfabeto armeno, Mesrop Mashtots la cui statua troneggia all’entrata, custodisce 17 mila manoscritti, in gran parte armeni, e 100 mila documenti medievali e moderni. All’interno una fiera scritta avverte il visitatore: “Seppur siamo una piccola nazione, anche noi abbiamo compiuto opere di prodezza e di valore che crediamo meritino di essere ricordate”. L’orgoglio con cui la nostra apprezzatissima guida locale, Vahé, ci mostra quei preziosi manoscritti salvati dalle malvagità della storia è commovente.
Nella neoclassica e suggestiva Piazza della Repubblica, restaurata con garbo, accanto alla sede del governo e di alcuni ministeri, un edificio imponente ospita il museo statale di Storia armena, che illustra le principali tappe dal paleolitico all’epoca moderna. Le sale più suggestive sono quelle iniziali dove sono esposti reperti di eccezionale qualità artistica, che attestano l’elevato grado di questa civiltà nell’antichità, sin dall’epoca urartea risalente al primo millennio a.C. Ma l’oggetto esposto forse più eccezionale è una scarpetta, la più antica mai scoperta al mondo, che risale a 5500 anni fa, recentemente rinvenuta in una grotta.

Gli edifici religiosi
Il poeta russo Osip Mandelstam definì questa terra, dove ogni pietra narra la storia del suo popolo, “regno di pietre urlanti”. Ed in effetti tutti gli edifici sono costruiti in basalto, perché offriva maggiore resistenza alle devastazioni. L’architettura religiosa, con le sue soluzioni originali che avrebbero influenzato notevolmente lo stile degli edifici religiosi in tutta Europa, è senz’altro quella che più caratterizza l’Armenia. Come fa notare lo storico dell’arte italiano Alpago Novello, l’architettura sacra armena si distingue per semplicità e chiarezza, per la presenza di volumi geometrici elementari organizzati in modo simmetrico. Tanto da far associare a Cesare Brandi, in un famoso articolo intitolato “Le chiese di cristallo”, questi volumi di forme elementari “organizzati secondo assi simmetrici con una rigorosa logica di tipo geometrico-matematico, alle formazioni cristalline naturali”.
Per capire queste costruzioni bisogna distinguere due periodi. Dal VII al IX secolo l’architettura medievale presenta due aspetti originali: da una parte l’inserimento della cupola al centro della chiesa ricorrendo a soluzioni statiche interessanti e spesso ardite, dall’altra un certo contrasto tra un esterno monumentale e quadrangolare e un interno molto lineare e luminoso.
Dal IX al XIV secolo, invece, sorgono importanti monasteri che riprendono i motivi architettonici precedenti, ma con l’aggiunta di nuove esperienze. È in questo periodo che nasce il cosiddetto “gavit”, elemento tipico dell’architettura armena, tanto che non esiste una traduzione italiana di questo termine. Si tratta di una sala collocata davanti all’entrata che fungeva da vestibolo, luogo di sepoltura riservato ai notabili e di ritrovo per i cittadini. Non solo i cristiani, ma anche gli infedeli potevano incontrarsi qui e discutere, socializzare e commerciare. L’ingresso in chiesa era invece consentito solo a chi era battezzato.
“La scelta di costruire i complessi monastici in posizione dominante in fondo a profonde valli o sulla cima di altopiani difficilmente accessibili – scrive Nadia Pasqual, autrice della miglior guida in italiano sull’Armenia – garantiva la sicurezza di questi edifici che avevano la fondamentale funzione di produrre e conservare il patrimonio culturale nazionale e che in alcuni casi divennero anche importanti centri politici. Questi ambienti impervi e isolati facilitavano inoltre il raccoglimento e la concentrazione necessari ai religiosi per coltivare la profonda spiritualità che ancora oggi ammanta questi luoghi carichi di suggestioni”.
Un altro simbolo dell’Armenia sono i khatchkar: letteralmente significa croci di pietra. Si tratta di lastre di pietra finemente scolpite per rappresentare simboli cristiani, spesso la croce. Sono presenti in quasi tutti gli edifici religiosi – chiese, monasteri, cimiteri – incastonati nelle pareti o piantati nel terreno. In tutto il paese ne sono state censite oltre 30 mila, ma mi sono rimaste in particolare nella mente le numerosissime presenti nel suggestivo cimitero di Noraduz, che sorge sulle rive del lago Sevan. Camminare tra queste tombe sepolcrali indorate dai licheni in una giornata di sole in riva al lago incoronato dalle montagne è un’esperienza davvero indimenticabile.

I principali siti archeologici
Essendo il nostro viaggio organizzato dalla Società archeologica ticinese, un’attenzione particolare è stata dedicata alla visita dei principali siti archeologici. La maggior parte si trova negli immediati dintorni della capitale. Il più antico è Agarak, scoperto di recente. Risale al 2800-2600 a.C. e sorge su una base naturale in basalto. Sembra si trattasse di un luogo di culto, che si estendeva su un’area molto vasta.
Il sito forse più affascinante, Metsamor, appartiene invece all’epoca urartea attorno al 1200 a.C. Il luogo era noto come centro metallurgico – si vedono ancora le fornaci – e soprattutto per le sue attività astronomiche. Sembra che gli studiosi dell’epoca avessero individuato le costellazioni, fossero riusciti a suddividere l’anno in dodici periodi e conoscessero la stella Sirio che decretava l’inizio del nuovo anno. Conoscenze che venivano utilizzate per il culto, ma certamente preziose anche per l’agricoltura e quindi per organizzare la vita economica. Il museo annesso presenta i reperti trovati durante gli scavi, soprattutto nelle tombe, dove i notabili venivano seppelliti con i loro schiavi. La presenza di una splendida ranocchia in pietra e di un sigillo di fattura mesopotamica indicano come il commercio fosse già molto sviluppato.
Pure di epoca urartea è Erebuni, situata alle porte dell’attuale Yerevan e fondata nel 782 a.C. in un’epoca di relativa stabilità politica. Della città rimangono le fondamenta della muraglia, del palazzo reale, dei vasti magazzini, dei quartieri militari e dell’area sacra. Nel museo annesso si possono vedere le tubature in pietra completamente chiuse che servivano per trasportare l’acqua dalla montagna lontana 40 chilometri.
Con la visita di Garni ci spostiamo invece in epoca romana. L’edificio più suggestivo, in parte ricostruito dai sovietici, risale al 77 d.C. Fu edificato in basalto, caratteristica che lo differenzia dagli altri templi romani, con il denaro che Tiridate I d’Armenia ricevette dall’imperatore Nerone.

Itinerario

1° giorno
Lugano-Zurigo-Yerevan

2° giorno
Yerevan-Garni-Geghard

3° giorno
Agarak-Aruch-Dashtadem-Harich-Gyumri

4° giorno
Odzun-Haghpat-Sanahin-Tumanyan

5° giorno
Dilijan-Lago Sevan

6° giorno
Noraduz-Selim-Noravank-Yerevan

7° giorno
Echimiadzin-Metsamor

8° giorno
Erebuni-Artashat-Dvin

9° giorno
Hovanavank-Saghmosavan-Amberd

10° giorno
Yerevan-Zurigo-Lugano

Bibliografia

Armenia Polaris, Firenze 2010
Georgia, Armenia, Azerbaigian Lonely Planet, Milano 2008
Armenia Braot, Bucks (England), 2003
Claude Murafian et Ericc van Lauwe, Atlas Historic de l’Arménie, Paris 2001

Armenia – La rinascita iniziò dalla laguna veneta

Armenia – La tragedia del genocidio all’inizio del Novecento
Armenia – Monasteri e fortezze immersi in una natura selvaggia
Armenia – L’amara verità storica del genocidio armeno
Armenia – La letteratura del viaggiatore

Sull’isola di San Lazzaro poco distante da Piazza San Marco, un abate armeno nel XVIII secolo fondò un convento dove lavorare in silenzio per salvare l’Armenia non con le mani, ma attraverso la valorizzazione della sua cultura.

Una minuscola isola, situata nella laguna di Venezia, da cui si gode una splendida vista sulla Serenissima, ha svolto un ruolo determinante per la salvaguardia dell’identità armena e per la rinascita di questo popolo nel XVIII secolo, proprio mentre il territorio della madre patria era conteso, come ormai avveniva da secoli, tra russi, ottomani e persiani. Quando si temeva che tutto dovesse andare per il peggio, a San Lazzaro una comunità di religiosi condotta dall’abate Mechitar lavorava in silenzio per salvare la cultura, la lingua e la religione di una civiltà che sembrava destinata a scomparire. Il fondatore della congregazione con sede a Venezia era convinto di poter salvare l’Armenia non con le armi, ma attraverso la valorizzazione della sua cultura.
Era questa una delle tante comunità armene che si erano costituite all’estero. La tragica storia di questo popolo ha infatti portato ad un esodo nel corso dei secoli. L’attuale Armenia, costituitasi come stato indipendente dal 1991, conta circa 4 milioni di abitanti. La maggioranza degli armeni – si calcola oltre 8 milioni – vive però al di fuori dei confini nazionali: in Georgia, negli Stati Uniti, in Russia (soprattutto a Mosca), in Francia e in altri paesi europei, in Libano, in Siria, in Iran, in Turchia, in Australia, in America meridionale. In Italia abitano diverse comunità, che in tutto contano tra le 2 mila e le 3 mila persone, sparse in varie regioni. Ma quella storicamente più importante si trova tuttora sull’isola di San Lazzaro, nella laguna veneziana. La nostra guida armena Vahé Lazarian, che ci ha fatto conoscere e amare il suo paese, ha studiato armenologia per ben dodici anni a San Lazzaro. Durante un suo soggiorno in Italia ci ha condotti alla scoperta dell’isola e della sua storia.

Mechitar era nato in Armenia e a ventiquattro anni si era trasferito a Costantinopoli seguito da alcuni discepoli decisi a salvare il proprio paese risvegliando la fede, la cultura e la lingua del loro popolo. Ma ben presto i turchi si accorsero dei suoi intenti e Mechitar nel 1701 fu costretto a fuggire con i suoi seguaci. Riparò in Grecia, a Modone, una cittadina controllata dai veneziani. I turchi arrivarono anche lì e Mechitar nel 1715 si trasferì a Venezia, che in quei tempi era uno dei centri editoriali più importanti al mondo. Non poteva capitare meglio, data la sua intenzione di pubblicare in lingua armena le traduzioni di numerose opere riguardanti i campi più svariati della cultura. Le numerose isolette della laguna ospitavano monasteri ed i veneziani non erano propensi ad accettare una nuova congregazione. Ma gli armeni erano influenti e ben visti in città, perché abili commercianti che garantivano il collegamento con le Indie, con la Persia e con il resto dell’Europa. Tanto che, secondo un detto veneziano, ci vorrebbero ben sette ebrei per fare un armeno. Dopo due anni di permanenza in città la congregazione ottenne il permesso di trasferirsi sull’isola di San Lazzaro, ormai disabitata da due secoli, dapprima in affitto e in seguito come proprietaria. Riuscirono a resistere perfino all’ordine di Napoleone di sopprimere tutte le congregazioni religiose. San Lazzaro rimane così l’unica isola nella laguna veneta ad aver conservato, unitamente a San Francesco del Deserto, la sua antica funzione conventuale. Sul modo in cui la congregazione armena riuscì ad evitare l’ordine napoleonico esistono diverse spiegazioni, di cui alcune romanzesche. Le abilità diplomatiche dei sacerdoti mechitaristi sembrano comunque essere fuori discussione. La congregazione, anche da un profilo religioso, gode infatti da sempre di uno statuto speciale: è infatti riconosciuta sia dalla chiesa cattolica romana, sia da quella armena e da secoli funge da anello di congiunzione, da ponte tra le due religioni. La prospettiva culturale di Mechitar si rivela così caratterizzata da una rara ampiezza di vedute, soprattutto nel saper integrare il patrimonio spirituale e teologico dell’Oriente con quello dell’Occidente. Come scrive lo studioso italiano Claudio Gugerotti, “Mechitar diede alla cultura armena uno slancio inedito e certamente straordinario proprio perché comprese, con intelligenza rara, che si poteva essere cosmopoliti senza snaturarsi”.
L’influsso culturale della congregazione venne riconosciuto dagli storici armeni sin dall’Ottocento. Nel secolo successivo lo scrittore Arshag Tchobanian affermò che “nessuna istituzione armena ebbe un influsso così originale, così profondo e permanente sugli armeni nel diffondere lo spirito, il gusto, i costumi occidentali quanto la Casa di Mechitar”. Lo storico Arakel Babachanian scrisse addirittura che l’opera di Mechitar “segna l’inizio di un’epoca tutta nuova nella storia del nostro progresso spirituale” al punto da proporre di “denominare quell’epoca (cioè fin oltre la metà dell’Ottocento ndr.) come epoca mechitariana”.

San Lazzaro degli Armeni, che si raggiunge in quindici minuti di vaporetto da San Marco, è un pezzo di Oriente trapiantato nella Laguna. La visita è consentita ogni giorno dalle 15 alle 17.
Quando i sacerdoti mechitaristi arrivarono sull’isola nel 1717 trovarono solo una piccola chiesa e alcune capanne. Iniziarono quindi l’edificazione dell’attuale monastero e l’ampliamento della superficie dell’isola. L’ultima tappa fu ultimata nel 1850.
Dal pontile, situato a fianco della darsena ottocentesca, si gode una splendida vista sulla Serenissima. Il giardino che circonda il monastero è un’oasi di pace. Ispirò il poeta inglese Lord Byron che trascorse alcuni periodi a San Lazzaro, dove apprese la lingua armena, “un idioma ricco, che ripagherebbe chiunque della fatica di impararlo”.
Attraverso il giardino si entra nel convento. L’architettura non è orientale, salvo le decorazioni della chiesa. Visitato il refettorio, un interessante ambiente settecentesco dominato da un’imponente Ultima Cena di Pier Antonio Novelli, si attraversano numerosi corridoi adornati di dipinti donati al monastero e si sale al primo piano decorato da stucchi settecenteschi dove si trova la biblioteca, che costituisce la grande attrattiva della visita. Ospita oltre 200 mila volumi, di cui la grande maggioranza antichi. La scelta delle opere è stata concepita da Mechitar come raccolta degli strumenti necessari alle attività di ricerca, che spaziavano dalla teologia alla filosofia, dalle scienze alla storia, alla letteratura. Nel contempo l’abate ha impegnato la Congregazione nella raccolta di antichi manoscritti, con l’invio di confratelli in Oriente e in America e, quando non era possibile acquisire alcuni esemplari, venivano copiati. Il convento ospitava fino a pochi anni fa anche una tipografia che in 250 anni di attività ha stampato oltre 4 mila volumi frutto di ricerche o traduzioni in lingua armena prodotte dai padri della comunità, che oltre a praticare la preghiera si dedicano tuttora al lavoro intellettuale a favore della cultura armena. Dai tipi della casa editrice di San Lazzaro sono però uscite numerose altre opere stampate in ben 36 lingue. Dal 1967 i preziosissimi manoscritti sono custoditi in un nuovo edificio circolare a prova di fuoco, che li ha risparmiati da un furioso incendio divampato nel 1975.

Armenia – L’amara verità storica del genocidio armeno

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Armenia – La letteratura del viaggiatore

Alcuni anni fa, durante un viaggio in Turchia con un gruppo di amici, approfittai di un lungo trasferimento in torpedone per promuovere una discussione con la nostra guida, un intellettuale turco. Lessi due brani: uno sulla questione curda e il secondo sul genocidio armeno. Terminata la mia lettura, che voleva certamente essere provocatoria, il nostro accompagnatore esclamò adirato: “Mi è capitato raramente di ascoltare tante sciocchezze in così poco tempo”. L’ambiente si raggelò e solo dopo qualche giorno riuscimmo a spiegarci. La sua reazione era chiaramente difensiva, nonostante fosse critico verso il suo governo. In quell’occasione capii che molti turchi non sono ancora pronti a discutere su certi argomenti e il genocidio armeno figura tra quelli più tabù.
Quest’anno, nell’ambito di un viaggio in Armenia organizzato dall’Associazione Archeologica Ticinese, ho visitato con grande interesse a Yerevan il museo del genocidio e mi è tornato alla mente quello scontro con la guida turca. La barbarie di quella tragedia, iniziata nell’aprile del 1915, che ha portato all’eliminazione nel giro di sette anni di oltre un milione e mezzo di armeni – uomini, donne, anziani e bambini – è ampiamente documentata. Eppure Ankara si ostina a negare quei fatti: perché?
Ai tempi del genocidio il territorio armeno era spartito tra Impero ottomano, Russia zarista e Persia. Nel corso della prima guerra mondiale Russia e Turchia combattevano su fronti opposti. Accadde così che ci furono armeni arruolati nei due eserciti in guerra tra loro. Secondo la storiografia ufficiale turca gli armeni ottomani, manipolati dai russi, non sarebbero stati soldati leali, ed avrebbero anzi costituito una presenza nemica all’interno dello stesso esercito ottomano assassinando numerosi turchi. Le autorità sarebbero pertanto state costrette a deportare questi soldati per ragioni di sicurezza interna. Questo non può comunque in nessun caso giustificare l’eliminazione di un intero popolo, donne, anziani e bambini compresi. La realtà è probabilmente un’altra. Questi episodi di “antiturchismo” armeno furono sfruttati come pretesto per eliminare un’importante presenza cristiana in Turchia, considerata un ostacolo alla realizzazione del panturchismo, favorevole all’unione di tutti i popoli asiatici di origine turca. Oggi il governo di Istanbul ha una posizione più sfumata e mette in dubbio il numero di vittime denunciate dagli armeni per evitare di dover riconoscere che si sia trattato di un genocidio, cioè del tentativo di eliminare un popolo. D’altra parte alcuni intellettuali turchi hanno recentemente chiesto al loro governo di arrendersi di fronte all’evidenza. La mancata ammissione del genocidio costituisce pure un ostacolo per l’accettazione della Turchia nella Comunità europea.
Ma perché allora ostinarsi a negare questa verità, seppur scomoda?
Non è certamente facile per uno Stato ammettere che la sua storia ufficiale vada riesaminata. Anche perché se è vero che il genocidio è avvenuto prima di Atatürk, il padre della Turchia moderna, è altrettanto vero che tra i collaboratori dell’eroe nazionale figuravano anche ideologi del panturchismo e dello sterminio degli armeni. La storiografia ufficiale celebra infatti politici che – qualora il genocidio venisse riconosciuto – dovrebbero essere considerati da un giorno all’altro criminali per avere commesso atrocità contro gli Armeni. Inoltre Yerevan potrebbe chiedere riparazioni territoriali, economiche o di altra natura, sebbene sostenga di non volerlo fare. A livello internazionale il genocidio è riconosciuto da una ventina di Stati, tra cui anche la Svizzera. Si tratta quindi effettivamente di una situazione di non facile soluzione per Ankara, che può ben spiegare il nervosismo della guida turca di cui parlavo all’inizio.

Armenia – La letteratura del viaggiatore

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La letteratura costituisce certamente un forte incentivo a viaggiare. Chi non ha mai sognato di visitare i luoghi che fanno da scenario al suo romanzo preferito? A me piace, quando ciò si rivela possibile, concretizzare questi sogni e partire per vedere “dal vivo” i paesaggi dei libri che leggo. Qualche volta però succede il contrario: si visita un paese, si scoprono orizzonti fino a quel momento sconosciuti, si gustano cibi particolari, si ascoltano musiche nuove e nasce il desiderio di accostarsi alla letteratura. Come scrivono gli autori di quel paese? Come vedono la loro realtà? Quali i loro pensieri, il loro vissuto, i problemi che affrontano? Così è successo per l’Armenia. Dopo il viaggio, e soprattutto dopo la sconvolgente visita al museo del genocidio a Yerevan, mi sono trovato a cercare scritti su questo tema. E nella biblioteca di casa ecco un libro dalla copertina suggestiva che mi ha colpito: “La masseria delle allodole”. Quanta forza possano avere le pagine di un libro lo ha dimostrato proprio il successo di quest’opera, che ha segnato l’esordio narrativo di Antonia Arslan (Rizzoli 2004). Muovendosi con sensibilità nel territorio fertile di emozioni che si situa tra ricordi familiari, ricerca storica e invenzione poetica, la Arslan (in origine Arslanian) ha raccontato le vicende armene con tale intensità da attirare l’attenzione di un pubblico vasto, che si è allargato ancora di più quando dal romanzo è stato tratto un film diretto dai fratelli Taviani. Il genocidio armeno è giunto così nelle case dei lettori – e degli spettatori – con grande forza. Antonia Arslan è nata a Padova da una famiglia di origine armena. Laureata in archeologia, per molti anni ha insegnato presso l’università della sua città, pubblicando nel contempo saggi letterari, contribuendo alla traduzione dell’opera del poeta armeno Varuyan e curando opere inerenti la storia del genocidio. Il salto verso il narrativo è del 2004. “Non potevo farne a meno” ha più volte ripetuto. E forse la spinta è arrivata dai ricordi d’infanzia: quel nonno serio e severo che l’accompagna a trovare “il suo santo” nella basilica padovana, che nei suoi tardi anni condivide con lei le immagini mai cancellate della sua patria lontana. Quel nonno arrivato in Italia da ragazzino per frequentare il Collegio armeno di Venezia, prestigiosa scuola per i rampolli delle famiglie più importanti della piccola nazione, e che non aveva mai più potuto tornare nella sua terra d’origine. Quel nonno che aveva sognato di portare in Armenia la moglie italiana e i suoi figli, la famiglia che nel frattempo si era creato in Italia, un progetto a lungo accarezzato con il fratello rimasto a casa e bruscamente spezzato proprio dai fatti del 1915. I maschi Arslanian brutalmente uccisi, le donne e i bambini spinti con altre migliaia di armeni verso il deserto siriano in una marcia forzata che ogni giorno faceva le sue vittime tra fame, febbre e violenze. Rinuncerà il nonno – dopo questo orrore – al suo passato, concedendosi solo nei suoi ultimi anni la nostalgia per quella terra, per gli affetti familiari perduti, per i sapori e i colori della sua infanzia. Una nostalgia che passerà alla nipotina e che costituirà – molti anni dopo – il motore della ricerca alla base della Masseria delle allodole. I profumi dell’Oriente (quelli del pane, dello yoghurt, dei dolci), le abitudini particolari di un parentado che dopo la diaspora (qualcuno in effetti si salverà) si espande su diversi continenti, le parole del nonno che ricorda la casa antica sulle colline e le dolci giornate di vendemmia: l’eco di quella cultura si fa materia di studio – delle proprie origini, ma anche di pagine di storia che non possono cadere nell’oblio.

Birmania – Un passo nella storia

Birmania – In fuga lontano dalla globalizzazione
Birmania – Un lago, un mondo
Birmania – Birmania, dilemma etico per il turista
Birmania – Un paese sospeso tra storia e futuro

Oltre 3 mila monumenti religiosi, patrimonio mondiale dell’Unesco, sorgono su una pianura di 40 chilometri quadrati e sembrano appartenere più alla natura che all’umanità. Un viaggio con Kel12 nella storia delle principali dinastie che nel corso dei secoli dominarono il paese.

L’appuntamento è per le 5.30 alla réception. Il bussino attende puntuale. Ci trasporta in una zona di campagna. Quando arriviamo alla nostra meta, i tre teloni che una volta gonfiati si trasformeranno in altrettante mongolfiere sono ancora distesi inermi sul terreno. I cestelli in vimini che ci ospiteranno sono pronti. I comandanti inglesi pure. Uno stuolo di inservienti si apposta attorno ai teloni, che vengono velocemente gonfiati con aria calda e poi, quando sono quasi su, con idrogeno a suon di boati di gas. Ci fanno salire. Siamo pronti per partire. Il sole si affaccia timidamente all’orizzonte. Non avevo ancora visto Bagan, perché ero arrivato in aereo di notte. La mongolfiera sale dolcemente e lo spettacolo che appare ai miei occhi è indescrivibile. Avevo letto moltissimo su quel luogo, patrimonio mondiale dell’Unesco, ma è ancora più straordinario di quanto mi aspettassi. Una miriade di monumenti religiosi attorno a noi – sembra siano più di 3 mila in un territorio di 40 chilometri quadrati – appare lentamente illuminata dai primi tenui e caldi raggi dell’alba. Sembrano appartenere alla natura più che all’umanità. Costruiti in mattoni con lo stesso colore della terra hanno un aspetto profondamente mistico, ma non sembrano edifici. Lassù capisco cosa intendeva Eugenio Montale quando affermava che “bisogna andare in Oriente, vera sede delle religioni, per capire cos’è la religione”.
Durante la giornata visitiamo i monumenti principali, quelli che sono stati di modello per l’architettura buddista in Birmania. Verso sera, all’ora del tramonto, saliamo su un calesse e ci inoltriamo in quelle stradine sterrate di campagna che il mattino avevamo visto dall’alto. Visitiamo i monumenti meno nobili, quelli che non hanno influenzato la storia dell’arte, ma che ci commuovono per la loro spontaneità. I raggi del tramonto, tinteggiandoli di rosso-viola li rendono ancora più suggestivi. La storia, la brama, il potere. Non resta più nulla, solo questi gusci vuoti di infinita bellezza e romanticismo, che si sono conservati per secoli grazie al clima secco. Quelle immagini mi rimarranno dentro per sempre! È questo certamente uno dei posti più belli che ho visitato nella mia vita!

Il periodo d’oro durò 243 anni
Il periodo d’oro di Bagan ebbe inizio con l’ascesa al trono del re Anawratha nel 1044 e si concluse nel 1287 con l’invasione dei Mongoli condotti da Kublai Khan. Appena salito al trono Anawratha intraprese immediatamente un grandioso programma edilizio: alcuni tra i più significativi edifici di Bagan risalgono al periodo del suo regno. In particolare la stupenda Shwezigon Paya, considerata il prototipo di tutti i successivi stupa (tipici monumenti buddisti in forma conica) birmani, oppure l’Amanda Pahto, un’altra meraviglia con i suoi corridoi ricchi di nicchie contenenti innumerevoli immagini del Buddha. Anche dopo la morte del primo sovrano i suoi successori proseguirono a sviluppare pressoché ininterrottamente il paese durante tutto il periodo d’oro di Bagan. “Alla fine di 15 giorni di viaggio – scrive Marco Polo nel suo ‘Il Milione’ – arrivai in una città chiamata Mein (antico nome di Bagan) grandiosa e splendente, la capitale del regno”. È difficile immaginare come fosse in passato perché, come altre città reali birmane, soltanto gli edifici religiosi più importanti furono costruiti con materiali destinati a durare nel tempo. I palazzi dei re furono invece edificati in legno, così come quasi tutti i monasteri. Quello che oggi rimane non è dunque che una pallida ombra del passato splendore.
La città di Bagan custodisce inoltre la raccolta più imponente di pitture murali del sud-est asiatico, con affreschi datati fra l’XI e il XIV secolo. Secondo gli studiosi, in quel periodo, tutti i templi della città erano riccamente decorati al loro interno e sulle volte, con soggetti didattici che cercavano di spiegare ai fedeli l’essenza della dottrina buddista.

Mandalay e le città del secondo impero
Per i duecento anni che seguirono la caduta di Bagan, la Birmania rimase frammentata nel caos di guerre etniche o tribali. Il secondo impero nacque nel XVI secolo, ma ebbe breve vita. Ad esso seguì un altro periodo confuso. Il terzo impero risale invece alla metà del XVIII secolo e durò fino all’inizio della dominazione coloniale inglese (1824), che occupò a tappe le varie regioni del paese nel giro di una sessantina di anni. Durante il periodo del terzo impero diverse capitali si sono succedute alla guida del paese: Mandalay, Amarapura, Ava, Mingun e Sagaing. Si affacciano tutte sul fiume Ayeyarwadi (lungo più di 2 mila chilometri), distano pochi chilometri una dall’altra e sono oggi praticamente tutte conglobate nella città di Mandalay, secondo centro del paese, con oltre 1 milione di abitanti.
Ogni volta che il re, dopo aver sentito il parere degli astrologi, spostava la sua residenza, il palazzo reale costruito in legno veniva smantellato e riassemblato nella nuova località. Lo stile dell’architettura reale in Myanmar rimase lo stesso per secoli.
Mandalay, con il suo traffico caotico dove le biciclette e le motorette hanno il sopravvento sulle automobili, è turisticamente interessante, ma i suoi dintorni lo sono anche più.
Il luogo più suggestivo è forse costituito da Ava, probabilmente perché distaccata dall’agglomerato urbano: si trova infatti su una sorta di isolotto attorniato dalle acque del fiume principale del paese. La si visita a bordo di sgangheratissmi calessi trainati da bronzini, che si spostano a fatica sulle strade sconnesse e sterrate. Offre due perle. All’interno di Bagaya Kyaung, un monastero ottocentesco fresco e buio, costruito in legno di tek, si respira un’atmosfera assai suggestiva che richiama alla mente tempi lontani. Perfettamente conservato è un altro monastero (Menu) in mattoni, abbandonato nella natura. Sembra che i monaci non vogliano abitarlo per la sua storia tragica e tribolata. Vicinissima ad Ava è la città imperiale di Amarapura, celebre soprattutto per il suo trafficatissimo ponte di 1200 metri considerato il più lungo al mondo realizzato in legno di tek. Un’altra attrattiva di questa antica città reale è il famoso monastero Mahagandayon, che ospita oltre mille monaci. È permesso assistere ai preparativi e al pranzo dei monaci. I turisti accalcati all’entrata impugnano gli apparecchi fotografici per attendere i monaci che entrano ordinatamente nella mensa in fila indiana. Anch’io scatto qualche immagine, ma mi sento fuori posto e mi vergogno di essere turista. Non siamo mica alla fossa degli orsi a Berna o allo zoo per assistere al pasto degli animali…
Una splendida passeggiata di un’ora in barca porta invece a Mingun. Lungo le rive del fiume la vita scorre lentamente. Alcune donne coltivano campi di riso, altre caricano imbarcazioni di sabbia utilizzata per le costruzioni in città, i pescatori vivono in capanne improvvisate. Tutte queste attività vengono cancellate durante la stagione delle piogge quando il livello del fiume sale di due o tre metri. Incrociamo immense zattere di bambù trainate da mezzi a motore. Ci spiegano che il trasporto di questo importante materiale con cui è costruita la maggior parte delle case rurali avviene via fiume.
Giunti a Mingun, come avviene in tutte queste città imperiali, uno stuolo di bellissimi bimbi attende i turisti e insistentemente offre loro oggetti di pessimo gusto.
Il tempio più famoso del luogo, Mingun Paya, è incompleto. Sarebbe stato il più grande del mondo se il re Bodawpaya non fosse morto prima di portarlo a termine. Avrebbe dovuto raggiungere un’altezza di 150 metri, mentre si è fermato a quota 50, ma da lassù la vista sul fiume e su innumerevoli stupa immersi in una vegetazione foltissima è splendida. Lo stesso re megalomane è comunque riuscito a far costruire una campana in bronzo di 90 tonnellate, considerata la più grande ancora in esercizio al mondo.
Dall’altra parte del fiume rispetto a Mandalay è la deliziosa Sagaing, che ospita 700 monasteri. Luogo di residenza di 6 mila fra monaci e monache, sembra sia la città dove si recano i buddisti birmani quando sono stressati. Oggi questa mistica collina, dove da lontano si vede spuntare una miriade di stupa dorati, è nota soprattutto come centro religioso.
Tutte queste città imperiali che ho appena descritto si possono ammirare se il tempo è bello e l’aria tersa dal Mandalay Hill, la splendida collina posta a 230 metri di altezza, da cui si domina la piattissima pianura sottostante solcata dal fiume Ayeyarwadi.
Il gioiello di Mandalay era costituito dalla cittadella reale che ospitava oltre un centinaio di palazzi, circondata per 3 chilometri da un’immensa cinta muraria alta 8 metri e protetta da un fossato largo 70 metri. Nel marzo del 1945, durante un violento combattimento fra le truppe anglo-indiane e le forze giapponesi, i palazzi reali hanno preso fuoco e sono andati quasi completamente distrutti. Oggi si visita la discutibile ricostruzione di uno di questi palazzi, quello del penultimo re birmano Shwe Nan Daw, mentre la cittadella è chiusa ai turisti perché abitata dai nefasti generali della giunta miliatare.
In questa regione vive il 60 per cento dei monaci di tutto il paese e in effetti Mandalay è famosa per due monumenti buddisti di grande significato. Il primo è Mahamuni Paya, uno dei siti religiosi più importanti del paese per la sua statua del Buddha alta 4 metri. Realizzata in bronzo, nel corso degli anni migliaia e migliaia di devoti l’hanno quasi sfigurata ricoprendola di foglie d’oro, che formano uno strato spesso 15 centimetri. Come a tutti i monumenti principali del paese, vi si accede da un lungo corridoio coperto, ai lati del quale è allineata una miriade di bancarelle che propongono ai pellegrini oggetti da offrire ai monaci. Durante la nostra visita questo monumento era affollatissimo, anche per l’arrivo di un generale della famigerata giunta militare, seguito da telecamere e microfoni.
Frequentatissima dai pellegrini a Mandalay è anche la Kuthodaw Paya, secondo monumento mistico di grande importanza, spesso definita il libro più grande al mondo. Attorno allo stupa principale sono state disposte 729 lastre di marmo, ciascuna conservata in un piccolo stupa, sulle quali sono incisi i testi dei 15 libri che compongono il Tripitaka, le scritture buddiste classiche.

Birmania – Un lago, un mondo

Birmania – In fuga lontano dalla globalizzazione
Birmania – Un passo nella storia
Birmania – Birmania, dilemma etico per il turista
Birmania – Un paese sospeso tra storia e futuro

A 900 metri di altitudine, sul lago Inle di una bellezza incomparabile. Una società fluttuante, dove la canoa non solo è un mezzo di trasporto, ma diventa anche spazio sociale. Un viaggio con Kel12 nelle tradizioni, nel credo, nei mercati e nell’artigianato di una società dove il tempo sembra essersi fermato.

Arriviamo al lago Inle all’ora del tramonto, dopo un breve spostamento in aereo. Una barca lunga e stretta, che sarà il nostro mezzo di trasporto per i prossimi giorni, ci sta aspettando per portarci all’albergo. Il sole sta per tramontare e i cielo assume tutte le sfumature dal rosso all’arancione, che si specchiano sull’acqua ferma. I contadini sulle loro barche piatte stanno remando per tornare dagli orti galleggianti alle loro case a palafitta nei villaggi. Qualche pescatore si attarda. La sua immagine allungata si riflette sulla superficie dell’acqua. Sembra un paesaggio irreale. È questa la prima immagine di questo lago, che è un mondo a sé. Siamo arrivati al nostro splendido albergo, che si affaccia sulla riva ed è gestito da un francese.
Situato a circa 900 metri di altezza e delimitato da due catene montuose il lago Inle, di una bellezza incomparabile, è lungo solo 22 chilometri e largo 11, ma da esso si dirama una vastissima ragnatela di canali navigabili. È famoso per il suo stile di vita. Una società fluttuante, dove la canoa non solo è mezzo di trasporto, ma diventa anche spazio sociale. La popolazione vive di agricoltura, di artigianato e di pesca. In birmano “in” significa lago, mentre “le” vuol dire quattro. In effetti i primi documenti risalenti al 1637 parlano di quattro villaggi. Oggi sulle rive se ne affacciano diciassette, abitati complessivamente da 70 mila persone. Ma l’intera regione, compreso chi abita sulla terraferma ma vive del lago, ne conta 130 mila.
Secondo la leggenda, nel 1359 due fratelli originari di Dawei nel sud del paese arrivarono in questa regione per lavorare al servizio di un cosiddetto “sao pha”, che significa “signore del cielo”, il titolo ereditario assegnato ai capi Shan. Fu talmente soddisfatto del duro lavoro e del comportamento dei due che chiese loro di far giungere altre trentasei famiglie da Dawei: tutti gli Intha, la principale etnia che popola le rive di queste acque, sarebbero loro discendenti. Gli Intha sono in effetti grandi lavoratori, conosciuti per la loro originale tecnica di remata, che consiste nell’utilizzare piccole imbarcazioni piatte, sospinte da un remo su cui si fa pressione con la gamba, avvantaggiandosi di una leva simile alla forca veneziana. La superficie del lago è in continua evoluzione a causa dei famosi orti galleggianti, fissati al fondo – la profondità oscilla tra due e tre metri – con un palo di bambù. Le isole e le penisole che si vengono così a formare sono collegate da una rete di canali che costituiscono le principali vie di trasporto e permettono di navigare per ore senza percorrere mai lo stesso tragitto.

Tutta la vita attorno al lago
Il mattino alle 8 la nostra barca ci attende per una splendida gita, che in tre ore lungo canali navigabili ci porterà verso sud, al villaggio di Sagar. È aperto al turismo da pochi anni, da quando il governo ha concesso uno statuto speciale alla tribù dei Pa O, di etnia Shan, che abita Sagar, ma vive soprattutto sulle montagne ed è famosa per il suo aglio, che sembra sia il migliore del paese. Per visitare il villaggio bisogna essere accompagnati da una loro guida. La tribù dei Pa O conta circa 500 mila persone e sembra bene organizzata, perché possiede un albergo e un ristorante sul lago e richiede un pedaggio a chi visita Sagar. Con queste entrate finanziano opere sociali.
La gita è particolarmente interessante per capire come queste popolazioni riescano a vivere sull’acqua. Siccome il lago è poco profondo ed è colmo di alghe, la nostra barca è dotata di un motore a scoppio con una strana elica che non affonda, ma gira a filo d’acqua causando uno spruzzo a forma di arco. Attraversiamo diversi pittoreschi villaggi con le case a palafitta. La gente vive sulle rive del lago e dei canali: i bimbi giocano con l’acqua, le donne lavano i panni, molti si lavano, altri coltivano i loro orti galleggianti a bordo delle canoe o trasportano merce, altri ancora pescano. Il paesaggio è verdissimo e cambia continuamente prospettiva. Lungo un canale incontriamo addirittura due bufali che nuotano. Finalmente arriviamo a Sagar, dove il mercato sta per chiudere. Gli abitanti ci accolgono con la consueta gentilezza, ci mostrano le loro case e ci offrono banane. La abitazioni hanno la struttura in canna di bambù e le pareti e i tetti in paglia o fogliame. Sono molto simili a quelle che abbiamo visto sulle montagne. Sulla riva visitiamo alcuni suggestivi stupa abbandonati (monumenti religiosi a forma di cono), che si specchiano nelle acque del canale. Le rare statue di Buddha sono naif e hanno uno sguardo meno dolce del solito.
Sulla via del ritorno notiamo diversi pescatori all’opera. Su minuscole canoe trasportano enormi ceste a forma di cono con un telaio in bambù avvolto da reti. Le posano sul fondo del lago rovesciate e piantano un palo di bambù per sapere dove si trovano. Quindi si spostano attorno e sbattono violentemente il remo della canoa sull’acqua per spaventare i pesci e orientarli verso la rete. Sembra che nel lago Inle ne vivano venticinque specie. Il nostro barcaiolo si avvicina alla canoa di un pescatore che ci mostra orgoglioso il suo bottino custodito sul fondo dell’imbarcazione.

Gli orti galleggianti
Siamo rimasti sul lago altri due giorni per visitare i mercati, i villaggi specializzati nell’artigianato, i luoghi di culto. Ogni giorno ci colpiva l’enorme diffusione degli orti galleggianti. Gli studiosi affermano che se si va avanti di questo passo nel giro di alcuni secoli il lago scomparirà. Creare un orto galleggiante è faticoso, ma relativamente semplice. Le piante di giacinto che crescono spontaneamente sul lago hanno infatti la proprietà di costituire piccole isole. Si tratta di staccare con grande fatica uno di questi isolotti, di trascinarlo con la canoa dove si desidera, di fissarlo con pali di bambù al fondo del lago (altrimenti fluttua e se ne va) e di ricoprirlo di alghe di cui il lago è colmo, che rendono il “terreno” fertilissimo. Questi isolotti vengono allineati in filari tra i quali i contadini entrano con le loro canoe strette e piatte. Oggi si coltivano soprattutto pomodori (ma anche fiori, frutta e altri ortaggi) che maturano ben tre volte all’anno. Quelli del primo raccolto sono di piccole dimensioni e vengono pertanto consumati localmente, ma i successivi vengono distribuiti in tutto il paese e coprono il 60 per cento del fabbisogno.

Buddha deformati dalla devozione
Le cinque statue di Buddha conservate nel tempio Phaung Daw Oo, che si affaccia sul lago, sono tra le più venerate in Myanmar. La devozione dei fedeli le ha addirittura sfigurate. In Birmania vige infatti l’usanza da parte dei pellegrini di applicare alle statue del Buddha sottilissimi lamine d’oro, che si acquistano in bustine (simili a quelle delle nostre figurine) nei luoghi di culto. Ebbene a furia di ricevere foglie d’oro queste cinque statue sono ormai sfigurate e non hanno più la parvenza del Buddha. Ogni anno, tra settembre e ottobre, quattro delle cinque statue vengono trasportate sul lago a bordo di una stupenda imbarcazione, seguita da centinaia di canoe di fedeli in festa, e accompagnate nei vari villaggi, dove trascorrono una notte di grande festa. La quinta statua, a partire dagli anni Settanta, non viene più spostata. Sembra che durante una tempesta la barca che trasportava le cinque statue si rovesciò: quattro furono ripescate, la quinta non fu ritrovata perché si trovava già al suo posto cosparsa di alghe. Da allora non viene più rimossa.
Il monastero Nag Phe Kyaung è noto per i suoi gatti saltatori, ma custodisce una splendida collezione di statue del Buddha realizzate in vari stili e in diverse epoche. I maligni sostengono che qualche volta anche i monaci buddisti si annoiano. Qualcuno di loro si è allora dedicato ad ammaestrare gatti, che sollecitati saltano dentro un cerchio, come fanno le tigri e i leoni al circo.
Un altro luogo mistico di grande fascino è Shwe Inn Thein, uno straordinario complesso di stupa del XVII secolo costruiti su una collina che purtroppo sono stati danneggiati dall’azione degli elementi naturali, ma finora non ancora sottoposti a restauro. Ed è proprio questo stato di abbandono a conferire a quel luogo un’atmosfera magica e di pace. Al sito si giunge percorrendo un cammino coperto sotto un colonnato lungo quasi due chilometri, che collega il luogo sacro al paese. Purtroppo il turismo ne ha in parte snaturato la magia, perché lungo il corridoio si allineano bancarelle che vendono chincaglierie di cattivo gusto. E dire che l’artigianato di qualità in questo paese non manca!

Un artigianato di qualità
In Myanmar in generale e al lago Inle in particolare si può ancora trovare un artigianato di elevata qualità, accanto a chincaglierie di cattivo gusto prodotte per turisti frettolosi. In questo paese l’industrializzazione non si è espansa al di fuori dei centri principali, per cui si costruiscono ancora molti oggetti artigianalmente e si sono conservate abilità manuali andate perse ormai quasi ovunque. I prodotti artigianali più preziosi del lago Inle sono certamente i tessuti ottenuti filando la fibra contenuta nel fusto del fior di loto. È l’unico posto al mondo dove avviene questa lavorazione, che richiede tempi lunghissimi. Ma qui la mano d’opera costa poco, troppo poco: una tessitrice non arriva a guadagnare 100 dollari al mese. Quasi in ogni casa è presente un telaio. Al lago Inle, come ad Amarapura, la città imperiale vicino a Mandalay si tesse il filato di seta proveniente dalla Cina, ottenendo stoffe di elevatissimo pregio. In altre parti del Myanmar, anche sulle montagne vengono invece prodotti teli variopinti in cotone con soggetti tradizionali di grande bellezza. I più belli si acquistano sul luogo di produzione.
Sul lago Inle esistono anche centri di lavorazione dell’argento, di produzione della carta fatta a mano e dei sigari con le foglie di tabacco coltivato negli orti.
Lungo una strada di Mandalay, alcune centinaia di chilometri a sud rispetto al lago Inle, un’intera via è dedicata agli atélier dove si lavora il marmo e si producono soprattutto Buddha di dubbio gusto. Bagan, la città che ospitò il primo impero birmano tra l’XI e il XIII secolo è invece famosa per i suoi preziosi oggetti in lacca, la cui lavorazione richiede alcuni mesi.

Una terra di mercati
Non puoi conoscere un paese senza visitare i suoi mercati. E questo vale soprattutto per una nazione poco industrializzata come il Myanmar. Il mercato forse più interessante e pittoresco che abbiamo visitato durante il viaggio è quello del villaggio di Nan Pan, il più grande che si tiene sulle rive del lago Inle, dove ogni giorno della settimana cambiano le sedi dei mercati. In questo luogo affluisce sia la gente che viene dal lago, sia quella che scende dalle vicine montagne. L’afflusso dalla riva è caotico perché le imbarcazioni sono moltissime ed è quasi impossibile ormeggiare. Una volta a terra il mercato è enorme e vi si trova di tutto. La parte dedicata ai turisti è per fortuna molto ristretta. Tutto il resto è per gli indigeni. Il più variopinto è il settore ortofrutticolo. È incredibile la varietà dei prodotti alimentari. Qui si utilizza tutto di tutto. Non si butta via niente. Lo abbiamo notato in tutti i mercati durante il viaggio. May, la nostra graziosa guida, che è anche una buongustaia, ci mostra tutti i cibi e ci spiega come si cucinano.
Praticamente ogni giorno durante il nostro itinerario in Myanmar abbiamo visitato mercati. I più interessanti sono quelli a cui affluiscono i contadini da varie parte della regione, come accade al lago Inle, ma anche a Kyaing Tong nel nord-est e a Bagan. Notissimo è anche il mercato di Yangon, dove si trova di tutto, ma non il fascino della campagna.