India – Le capitali dell’impero Moghul

India – Nel Rajasthan dei maragià

A Delhi, tra antico e moderno. L’emozione davanti al Taj Mahal, una delle sette meraviglie del mondo, con la sua romantica storia d’amore. La città fantasma di Fatehpur Sikri, che fu abitata per soli dodici anni.

Il nostro itinerario in Rajasthan – siamo cinque amici – parte da New Delhi e termina due settimane dopo nella stessa metropoli percorrendo un tragitto circolare di oltre 2mila chilometri a bordo di un piccolo bus, con autista e una guida molto colta. L’operatore è Kel12, la società italiana con la quale viaggio da molti anni.
La circolazione stradale in India è estremamente disordinata. La pavimentazione è spesso carente al di fuori delle autostrade, dove capita però che una mucca (sacra) occupi la corsia di sorpasso.
La prima parte del viaggio, che presentiamo in questa pagina, si sofferma sulle capitali dell’impero Moghul, situate ai confini con il Rajasthan.

Delhi, capitale da secoli
Le due settimane previste per il nostro itinerario ci permettono di effettuare una visita molto (troppo) limitata della Delhi storica, antica sede dell’impero musulmano dei Moghul. Per percorrere le tappe principali della storia indiana visitiamo dapprima il Museo nazionale, che propone una serie di sculture induiste sopravvissute alla furia degli invasori islamici. È d’obbligo un momento di riflessione sulla tomba, molto essenziale, di Mahatma Gandhi, padre dell’India indipendente, una delle più belle figure politiche del XX secolo. Poco lontano sorgono i palazzi amministrativi della capitale, costruiti in gran parte dagli Inglesi per gestire la colonia indiana.
Ma i monumenti più interessanti riguardano il periodo dell’impero islamico della dinastia Moghul. Si tratta del Forte Rosso e delle due moschee: la Jama Masjid, edificata nel XVII secolo, tuttora la più grande e imponente di tutta l’Asia, e il Qutb Minar, uno splendido minareto in pietra arenaria rossa alto 72 metri, risalente al 1199 e appartenente a un’immensa moschea ormai diroccata. Ma come: due moschee? L’India non è il Paese dell’induismo? Sì, ma la sua storia ruota in gran parte attorno all’impero musulmano dei Moghul, che regnarono dal 1526 fino all’inizio del dominio inglese nella seconda metà del XVIII secolo. E ancora prima di loro, già nel XIII-XIV secolo Delhi era governata da un sultano. Le prime incursioni musulmane in India risalgono tuttavia a due secoli prima.

Taj Mahal, storia d’amore
Prima di entrare nel Rajasthan – governato per secoli da principi locali induisti, che se la dovettero vedere dapprima con l’impero musulmano e in seguito con quello britannico – visitiamo Agra, prima sede dell’impero islamico dei Moghul.
Agra è mondialmente nota per conservare una delle sette meraviglie del mondo: il Taj Mahal, “una lacrima sul viso dell’eternità”, un monumento all’amore romantico ed eterno. Il mausoleo che sorge in riva al fiume Yamuna venne infatti costruito dall’imperatore Moghul Shah Jahan per custodire il corpo della sua amata moglie Arjumand Bann Begun. La leggenda racconta che il sovrano avesse incontrato la sua sposa nel bazar reale di Agra, dove le donne di corte una volta all’anno erano solite recarsi per fingere di prendere il posto dei mercanti nella vendita di gioielli e abiti in seta. Il giovane principe sedicenne, figlio dell’imperatore Jahangir discendente di Tamerlano, acquistò dalla ragazza una perla di vetro e il giorno seguente la chiese in moglie. L’imperatore, affascinato dalla bellezza della sposa del figlio, la battezzò con il nuovo nome di Mumtaz Mahal, gioiello del palazzo. Nonostante le sue numerose concubine, Shah Jahan non si separò mai da lei, che lo seguì persino nelle campagne militari e morì dando alla luce il quattordicesimo figlio. Per rendere immortale la bellezza fisica e morale della sua amata, l’imperatore concepì il Taj Mahal, un’opera architettonica perfetta, apice dell’architettura Moghul e simbolo dell’amore eterno. La costruzione richiese 21 anni di lavoro e vennero impiegati 20mila uomini. Davanti alla tomba sorgono meravigliosi giardini suddivisi in quattro quadrati separati da corsi d’acqua, che evocano l’immagine islamica dei Giardini del Paradiso, dove scorrono fiumi di acqua, latte, vino e miele. La piattaforma su cui sorge il mausoleo è attorniata da quattro minareti e culmina in una cupola alta 55 metri, accentuata da una guglia in ottone di 17 metri.
La bellezza del Taj Mahal è emozionante. Di fronte a tanta perfezione si rimane impietriti e senza parole. Davanti al fascino e alla magia di questo monumento non si vorrebbe più andar via.

Forte Rosso, prigione dorata
Ma la storia romantica non finisce qui. Prosegue anche al Forte Rosso, che sorge pure lungo il fiume Yamuna, ma sulla sponda opposta, da cui il Taj Mahal appare in tutto il suo splendore. È da una torre del castello che Shah Hahan dovette malinconicamente osservare il mausoleo dedicato alla sua amata dopo che il figlio Aurangzeb lo spodestò e lo imprigionò. Alla sua morte il corpo fu trasportato lungo il fiume e sepolto accanto a quello della sua compagna.
Il Forte Rosso, che dista 2 chilometri dal Taj Mahal, è una maestosa cittadella imperiale a forma di mezzaluna costruita tra il 1565 e il 1573. I suoi alti bastioni (20 metri) in arenaria rossa circondano la collina su un perimetro di 2,5 chilometri, intervallati da porte d’entrata, che l’imperatore superava a dorso di elefante. I palazzi che sorgono all’interno delle mura sono un ottimo esempio di architettura indomusulmana, la cui caratteristica sta nel coniugare le due tradizioni culturali del paese. Sono costruiti in mattoni e ricoperti di arenaria rossa o di marmo. Solo un quarto della cittadella è aperta al pubblico, le parti rimanenti sono destinate a scopi militari. Si visitano le sontuose residenze degli imperatori e quelle delle loro concubine, nonché gli spazi pubblici in cui il sovrano concedeva udienza e pronunciava truci condanne: come buttare i malcapitati nel pozzo o in una fossa d’acqua con coccodrilli, o ancora in una stanza abitata dai serpenti.

Fatehpur Sikri, la città fantasma
A 40 chilometri da Agra sulla strada che porta a Jaipur si trova Fatehpur Sikri, uno dei luoghi più misteriosi e affascinanti dell’intero viaggio. Si tratta di una vastissima città con sontuosi palazzi imperiali, costruita tra il 1571 e il 1585, che divenne capitale dell’impero Moghul ma fu abitata per soli 12 anni, dopo di che venne abbandonata (sono ancora misteriosi i motivi). La costruzione di questa città, giunta a noi praticamente intatta, fu voluta dall’imperatore Akbar, brillante stratega, fine politico e amante dell’arte e della letteratura, nonostante fosse analfabeta. Siccome i suoi figli maschi morivano tutti in giovane età, temendo che la dinastia Moghul si estinguesse, Akbar si rivolse al santone sufi Shaikh Salim che viveva a Sikri. Questi gli predisse la nascita di un figlio maschio che sarebbe diventato imperatore e avrebbe proseguito la dinastia. Un anno dopo il bimbo nacque e Akbar, in segno di gratitudine, iniziò la costruzione della città a Sikri, luogo di residenza del santone. Trattandosi di una città costruita ex novo, venne pianificata con concetti innovativi cercando di conciliare la grandezza imperiale con il concetto di santità. Akbar, monarca tollerante, era molto interessato alla storia delle religioni, tanto che tentò con scarso successo di proporne una (Din-i-Ilahi) che sintetizzasse islamismo, induismo, giainismo e buddismo.
A Fathepur Sikri si visitano i palazzi privati del sultano e dei suoi principali collaboratori, le sale delle udienze pubbliche e private, gli edifici amministrativi (banca, posta con piccioni viaggiatori, eccetera) e religiosi, le torri, i giardini, i padiglioni per la musica e le danze. Uno dei quartieri più vasti è quello dedicato alle concubine: l’imperatore ne contava oltre 5mila. Erano divise in categorie: quelle di terza, secondaeprimacategoria,nonchétre mogli preferite, una indù, una musulmana e una cristiana. Collezionare donne sembra fosse una vera ossessione per Akbar, che pretendeva dai principi sconfitti le figlie più graziose.

Per capire l’India
Un viaggio in India è un’esperienza davvero interessante per la ricchezza multiculturale del Paese e per tutto quanto ha prodotto sul piano artistico, architettonico e religioso. Un viaggio di due settimane in una singola regione (il Rajasthan) non permette certamente di capire un Paese, ma induce a porsi alcuni interrogativi sorti già dalle letture di preparazione e da esperienze sul posto. Senza alcuna pretesa di spiegare l’India a chicchessia vorrei qui di seguito proporre alcune riflessioni scaturite da questo incontro con il Rajasthan, nel nord dell’India.
La prima osservazione riguarda il rapporto con i musulmani (che rappresentano il 14,2 per cento della popolazione) in una nazione a larga maggioranza induista (79,8 per cento). Una questione che in Rajasthan e in tutta l’India ha profonde radici storiche. Gli islamici invasero infatti il nord del Paese a partire dalla fine dell’XI secolo e lo governarono dal XIII-XIV fino alla dominazione britannica. La regione era suddivisa in reami locali presieduti da principi (maragià) induisti. I rapporti tra le due religioni conobbero momenti alterni, ma il potere imperiale, soprattutto con la dinastia Moghul, rimase sempre saldamente in mano islamica fino all’inizio del colonialismo inglese. I maragià dovettero quindi barcamenarsi per mantenere il loro potere e le loro ricchezze a livello locale. E ci riuscirono. Per questo il Rajasthan abbonda di monumenti storici ben conservati, anche se a pagare il pegno all’impero islamico e a quello britannico sotto forma di tasse furono soprattutto i sudditi. I rapporti tra indù e musulmani in India rimangono tuttora molto delicati, soprattutto dopo l’ascesa al potere nel 2014 del premier neoliberista e nazionalista Narendra Modi, che fonda la sua politica populista sulle origini induiste della nazione.
La seconda riflessione riguarda il sistema delle caste, che suddivide gli induisti principalmente in quattro categorie (sacerdoti, guerrieri, gente comune e servi) e ne prevede una quinta per i fuori casta, che “adempiono funzioni necessarie e sporche che contaminerebbero gli altri uomini”. Storicamente una piaga per l’India, tanto che buddismo e giainismo sono nati anche per contrastare le atrocità di questo sistema rigido di potere che ha ingessato per secoli la società induista (per esempio non è previsto che si possano scalare le caste, così come non ci si può sposare tra caste diverse). A livello legislativo questo sistema è stato abolito, ma nelle campagne sembra che sopravviva con esiti raccapriccianti.
Queste due problematiche – la convivenza tra diverse religioni e il sistema delle caste devono poi fare i conti con l’attuale globalizzazione mondiale, che spesso non facilita le questioni, ma le acuisce. D’altra parte non bisogna dimenticare che la più grande democrazia del mondo – quella indiana con un miliardo e 200mila persone – è estremamente giovane: risale al 1947, anno dell’indipendenza dalla colonizzazione britannica. Una democrazia che ha portato alla ribalta figure importanti come Mahatma Gandhi, Nehru e sua figlia Indira Gandhi, che hanno garantito al Paese leggi moderne. Ma le leggi innovative devono fare i conti con una cultura popolare tuttora fortemente ancorata al passato. Per cui si intuisce come la giovane democrazia indiana debba ancora percorrere una lunga strada. L’avvento al potere di un leader populista e nazionalista come l’attuale premier Modi non raccorcerà certamente i tempi.

Itinerario
1° giorno Milano – Francoforte – Delhi
2° giorno Agra
3° giorno Jaipur
4° giorno Visita alla fortezza di Amber e di Jaipur
5° giorno Deogarth
6° giorno Udaipur e visita al City Palace
7° giorno Jodhur e sosta al tempio Jainista di Ranakpur
8° e 9° giorno Jaisalmer
10° giorno Bikaner, nel deserto del Thar
11° giorno Pushkar e partecipazione alla fiera dei cammelli
12° e 13° giorno Visita della vecchia e nuova Delhi
14° giorno Delhi – Milano

Per saperne di più
Rajasthan et Gujarat Guides Belus, Hachette Livre, Paris 2014
India del nord The Rough Guide, Vallardi editore, Milano 2008
India del nord Polaris, Firenze 2014
India del nord Lonely Planet, Torino 2013
Cinzia Pieruccini e Mamma Congedo, Viaggio nell’India del nord Einaudi Editore, Torino 2010
Giorgio Renato Franci, L’induismo Il Mulino, Bologna 2005
Dietmar Rothmund, Storia dell’India Il Mulino, Bologna 200

India – Nel Rajasthan dei maragià

India – Le capitali dell’impero Moghul

Un viaggio tra splendide dimore, opulenti palazzi reali, fortezze, templi e leggendari tesori. E poi una sosta a Pushkar, ai bordi del deserto, durante la fiera di cammelli più grande al mondo.

Riprendiamo il nostro itinerario in India. Dopo avere visitato le antiche capitali (Delhi, Agra e Fatehpur) dell’impero musulmano Moghul, entriamo nel vivo del viaggio varcando il confine con il Rajasthan, una regione paragonabile all’Italia, sia quanto a popolazione (circa 70 milioni di abitanti), sia per estensione. Il periodo ideale per effettuare questo viaggio va da ottobre ad aprile.
Come abbiamo visto nella prima parte gli islamici invasero l’India del nord a partire dall’XI secolo e la governarono dalla fine del XIII fino alla dominazione britannica. La regione del Rajasthan era suddivisa in reami locali presieduti da principi (maragià) induisti. I signori locali dovettero quindi barcamenarsi per secoli per mantenere le loro tradizioni, il potere e di conseguenza le loro ricchezze a livello locale. E ci riuscirono, per questo il Rajasthan abbonda di monumenti storici ben conservati e mantiene una sua forte identità. In nessun’altra parte dell’India si trova una concentrazione di splendide dimore, opulenti palazzi reali, fortezze, templi e leggendari tesori come in Rajasthan. Immergersi in questa realtà è un’esperienza indimenticabile. A cominciare dai coloratissimi, rumorosissimi e caotici mercati dei centri principali, dove non è possibile camminare spensierati perché una miriade di motorette strombazzanti ti sfrecciano accanto, zigzagando a fatica tra persone e mucche sacre che si nutrono di immondizie. La gente è gentile, non ti senti mai a disagio, ma anzi accolto. Affascinanti gli abbigliamenti, soprattutto delle donne, che accostano, con ottimi risultati, colori sgargianti e si accompagnano a uomini baffuti con turbanti altrettanto variopinti.
Con una legge del 1971 l’allora premier Indira Gandhi ha abolito i titoli e i privilegi dei maragià locali, ridimensionandone drasticamente i diritti di proprietà. La maggior parte di loro si sono allora trasformati in operatori turistici, riconvertendo i loro splendidi palazzi in sontuosi hotel di lusso. Soggiornare in questi luoghi, per chi ne ha la possibilità, fa parte delle attrattive del viaggio.

Jaipur, la città rosa
Trafficata capitale del Rajasthan, Jaipur fu edificata a partire dal 1727 dal maragià Jai Singh II, seguendo un piano ragionato. Monarca illuminato, concepì l’urbanistica della città con strade ampie e diritte che si incrociano ad angolo retto. Ogni quartiere ospita specifiche attività artigianali. Il palazzo reale, in parte ancora abitato dai discendenti della dinastia, è vastissimo e occupa buona parte del centro storico. Se ne visitano alcune fastose sale. Di grande interesse a Jaipur è l’osservatorio astronomico, il più grande dei cinque che Jai Singh fece costruire in India con chiari intenti didattici. Gli strumenti sono infatti di dimensioni colossali e tuttora funzionanti. Ma il simbolo della città è costituito dal cosiddetto Palazzo dei Venti, costruito a fine Settecento per permettere alle concubine del maragià di assistere alla vita della città. Si affaccia infatti sull’animatissimo mercato, che occupa gran parte delle vie del centro storico. Il soprannome di città rosa risale al 1876, quando in occasione della visita del principe del Galles il signore locale ordinò di dipingere tutte le case di rosa. Un regolamento che è rimasto in vigore fino ai nostri giorni.
Di grande interesse è anche la visita di Amber, l’antica città del Cinquecento che si trova a 10 chilometri di distanza e fu abbandonata due secoli più tardi quando venne edificata Jaipur. È circondata da 15 chilometri di mura, che seguono la cresta delle colline circostanti. Si estende attorno al forte mai espugnato di Jaigarh, costruito a nido d’aquila in cima a un colle che controlla la stretta valle di Amber, punto di passaggio obbligato tra Delhi e il Rajasthan, dove transitavano importanti carovane di commercianti. La fortezza, che si raggiunge a dorso di elefante, ospita la sontuosa reggia dei maragià alleati all’impero Moghul.

Udaipur, la città bianca
Romantica città bianca, che si affaccia sulle rive del lago Pichola incorniciato da maestose colline, viene anche definita la Venezia d’Oriente per la sua caratteristica di affacciarsi sull’acqua. Fondata nel 1568 da Udai Singh II è oggi in parte ancora governata da Arund Singh, settantaseiesimo discendente della dinastia, importante artefice del successo turistico di Udaipur. Un successo di cui siamo rimasti vittime, perché non siamo in pratica riusciti a visitare il complesso reale composto da 11 palazzi e numerose corti collegate tra loro da stretti corridoi. L’eccessivo numero di visitatori, soprattutto indiani che approfittavano di una settimana di vacanza (la festa delle luci) per visitare uno dei luoghi più suggestivi del Paese, ha creato code chilometriche. Ci siamo così limitati ad ammirare dal lago l’imponente palazzo reale in pietra gialla, costruito sull’arco di tre secoli, e a visitare la splendida residenza estiva in marmo, situata su un’isola e trasformata in elegante albergo (Lake Palace); abbiamo passeggiato nel giardino in cui i maragià trascorrevano il loro tempo libero con le concubine, per poi immergerci nel mare di folla del bazar, dove ci siamo pure persi. Ma nessun timore: gli Indiani si fanno in quattro per aiutarti!

Pace e serenità nel tempio giainista
Merita certamente una deviazione, sulla strada tra Udaipur e Jodhpur la visita all’imponente tempio di Ranakpur, straordinaria espressione della fede giainista. Costruito in marmo nel 1439 è il più grande dell’intera India. Nonostante la sua mole – si compone di 29 sale, 80 cupole e 1444 colonne – dall’esterno appare leggero ed elegante. All’interno colpisce l’abilità degli artigiani che hanno scolpito il marmo rendendolo in certi particolari simile a un ricamo. Ogni colonna è diversa dall’altra e propone motivi floreali, geometrici o immagini di divinità. Numerose le statue dedicate a danzatrici, che rappresentano i movimenti della danza sacra e devozionale dei riti giainisti. Nel tempio si respira un’atmosfera di pace e di serenità.

Jodhpur, la città blu
Riprendiamo la strada e dalla quiete del tempio giainista ci immergiamo di nuovo nel caotico traffico indiano. Le motorette sono come mosche: sfrecciano da tutte le parti e nessuno dei loro conduttori indossa il casco. Gli specchietti retrovisori sono un optional, perché chi giunge da dietro annuncia il suo arrivo strombazzando. A Jodhpur prima di raggiungere l’albergo ci perdiamo – ma questa volta solo in senso figurato – nell’animatissimo mercato. L’amplissima zona riservata ai prodotti della terra ci ricorda che il Rajasthan è uno stato a vocazione rurale: tuttora la maggior parte della popolazione lavora nei campi.
Il mattino seguente di buon’ora visitiamo la città blu, che si estende attorno al Forte Meherangarh costruito nella seconda metà del Quattrocento su uno sperone roccioso dal quale si dominano l’abitato e la pianura circostante. La cinta attorno alla città si estende per 10 chilometri con mura alte fino a 36 metri e profonde fino a 21. Un complesso sistema di porte dà accesso alla residenza del maragià che si trovava nella fortezza. Dall’alto il panorama è magnifico. Il colore blu delle case inizialmente indicava le residenze dei brahmani, la casta più elevata, riservata ai sacerdoti, ma con il passare degli anni è stato utilizzato semplicemente per proteggersi dagli insetti. Passeggiando per le tortuose stradine medievali si incontrano numerose haveli, antiche case dei commercianti, che ricordano i fasti del passato di questa città situata all’incrocio fra le due più importanti vie carovaniere del Rajasthan: quella delle spezie, che nel deserto prosegue verso Jaisalmer e il Pakistan, e quella del mare che scende verso il Gujarat.

Jaisalmer, città dorata
Jaisalmer, la città dorata, vista da lontano con la sua cinta muraria che racchiude il centro storico, sembra un miraggio nel deserto del Thar, uno dei luoghi più aridi del pianeta. All’interno dei bastioni si trovano il palazzo reale e numerose lussuose haveli, le antiche case dei commercianti che si arricchirono quando da questi luoghi transitavano le carovane che garantivano i collegamenti tra l’India e l’Asia centrale. Passeggiando per le strette e quiete vie del centro si respira la tipica atmosfera di una città del deserto. Dalle terrazze del palazzo reale lo sguardo si perde nel vuoto e la nostra fantasia evoca il mistero delle piste carovaniere. Gli edifici sono costruiti in arenaria gialla, che con il calar del sole si colorano di oro giustificando il soprannome di città dorata. Assistiamo al tramonto dalle dune di sabbia che raggiungiamo a dorso di dromedario. Il turismo rappresenta oggi la maggiore fonte di reddito di questo luogo misterioso e incantato, certamente una delle mete più affascinanti del viaggio.

Il tempio dei ratti
Uno dei monumenti più bizzarri dell’India e senza dubbio del nostro viaggio è certamente il tempio di Karni Mata, dedicato alla dea protettrice di Bikaner, tappa successiva del nostro itinerario. Nel tempio scorrazzano orde di topi brulicanti che i fedeli venerano come divinità in attesa di reincarnarsi in una vita migliore. I pellegrini offrono mangime ai piccoli roditori ed è ritenuto di buon auspicio mangiare il cibo sbocconcellato dai topi, così come sembra porti fortuna se uno di loro ti cammina sui piedi. Ma attenzione a non calpestarli perché si potrebbe essere costretti a donare la riproduzione in oro del malcapitato per placare le ire della dea protettrice.
Bikaner è un’altra città del deserto, nota soprattutto per il suo magnifico forte costruito sulle rocce che affiorano dal Thar. Anche qui come in altre cittadelle notiamo all’entrata una serie di impronte di mani. Sono quelle delle donne che hanno partecipato a un suicidio di massa previsto da un antico codice cavalleresco indiano. Per non cadere prigionieri nelle mani del nemico gli uomini indossavano abiti color zafferano e si gettavano tra le fila dell’esercito avversario incontro a morte certa, mentre le donne e i bambini spiravano tra le fiamme delle pire.
Nel polveroso museo del palazzo del maragià di Bikaner sono esposti molti regali donati dalla corona inglese (persino un aereo della prima guerra mondiale) in segno di riconoscenza per la sua fedeltà e per aver costituito un battaglione di cammellieri al servizio della regina.

La fiera dei dromedari
Chiudiamo il nostro viaggio in bellezza nella città sacra di Pushkar, che abbiamo la fortuna di visitare durante la fiera annuale dei dromedari. Migliaia di uomini del deserto vi giungono a piedi e sostano sulle aride colline circostanti con i loro dromedari, ma anche con cavalli, mucche e bufali che vengono contrattati durante dodici giorni. Ma la grande festa prevede molto altro: corse di dromedari, esibizioni di incantatori di serpenti e bimbi sui trampoli, recite teatrali e prove di abilità. Numerosissime sono le giostre. Tutto questo è però accompagnato anche da un grande fervore religioso. Pushkar è infatti considerata dagli indù una città sacra, che andrebbe visitata almeno una volta nella vita. Durante questi giorni di festa il misticismo acquisisce una magia particolare e molti pellegrini si immergono nelle acque sacre del lago attorno al quale sorgono centinaia di piccoli templi. Dietro ad essi si espande la città con il suo animato bazar. Le cerimonie religiose con il profumo degli incensi, i canti e le processioni, rappresentano momenti di grande suggestione. Sacro e profano convivono per giorni durante la fiera, senza urtarsi l’un l’altro.
Il nostro viaggio volge al termine e il mattino all’alba, prima di lasciare Pushkar per Delhi visitiamo la collina dove sono ammassati centinaia di dromedari con i loro proprietari, commercianti che trascorrono la notte sotto tende improvvisate. È l’immagine di questo itinerario che mi porterò dentro con maggiore affetto.

Itinerario
1° giorno Milano – Francoforte – Delhi
2° giorno Agra
3° giorno Jaipur
4° giorno Visita alla fortezza di Amber e di Jaipur
5° giorno Deogarth
6° giorno Udaipur e visita al City Palace
7° giorno Jodhur e sosta al tempio Jainista di Ranakpur
8° e 9° giorno Jaisalmer
10° giorno Bikaner, nel deserto del Thar
11° giorno Pushkar e partecipazione alla fiera dei cammelli
12° e 13° giorno Visita della vecchia e nuova Delhi
14° giorno Delhi – Milano

Per saperne di più
Rajasthan et Gujarat Guides Belus, Hachette Livre, Paris 2014
India del nord The Rough Guide, Vallardi editore, Milano 2008
India del nord Polaris, Firenze 2014
India del nord Lonely Planet, Torino 2013
Cinzia Pieruccini e Mamma Congedo, Viaggio nell’India del nord Einaudi Editore, Torino 2010
Giorgio Renato Franci, L’induismo Il Mulino, Bologna 2005
Dietmar Rothmund, Storia dell’India Il Mulino, Bologna 200

Indonesia – Nell’ultimo paradiso dello “snorkeling”

Un viaggio in veliero nell’arcipelago delle Molucche, tra le isole delle spezie e il parco marino di Raja Ampat. Qui ci sono le barriere coralline più ricche e suggestive del pianeta. Oltre 1400 specie di pesci e più di settecento tipi di molluschi.

Dieci giorni in barca nell’Oceano Pacifico indonesiano, uno dei mari più spettacolari al mondo, a bordo del Matahariku, un veliero che può ospitare fino a 12 passeggeri. L’itinerario è organizzato da Kel12, un’agenzia di viaggio milanese specializzata in destinazioni di scoperta, con sede anche a Chiasso.
La crociera si articola su due temi di interesse. Il primo, storico-naturalistico, scopre l’arcipelago delle Molucche, note nei secoli scorsi come ‘isole delle spezie’. L’importanza storica di questa regione risale a molti secoli fa, quando fu teatro di un intenso commercio sviluppato dapprima dai Romani e in seguito dagli Arabi, dagli Indiani, dai Cinesi e infine dagli Europei. Solo in questi luoghi era infatti possibile coltivare chiodi di garofano, noce moscata o macis (il suo fiore). Questi prodotti e il loro commercio attirarono l’interesse delle potenze coloniali europee, che nell’Oceano Pacifico si scontrarono duramente per conquistare l’Indonesia e garantirsi così il monopolio del mercato delle spezie.
Il secondo tema del viaggio riguarda invece la visita della zona a sud (arcipelago di Misool) del Parco Marino di Raja Ampat. “I biologi – riporta la guida turistica Lonely Planet – considerano l’Indonesia orientale l’epicentro della vita marina sul pianeta e il primato della biodiversità spetta appunto alle isole Raja Ampat, definite dagli ambientalisti una fabbrica di specie. Secondo le ultime stime queste isole ospiterebbero infatti 1459 specie di pesci e oltre 550 coralli duri (più del 75 per cento del totale mondiale). Da qui le correnti oceaniche trasportano le larve di coralli fino all’Oceano Indiano e all’Oceano Pacifico, permettendo di ripopolare altre barriere”.

Batavia e Giacarta
La prima meta del nostro itinerario è Giacarta, la caotica capitale indonesiana, che raggiungiamo da Milano Malpensa in circa 16 ore di volo. Vi trascorriamo solo mezza giornata, il tempo sufficiente per visitare Kota, il centro storico, corrispondente all’antica capitale coloniale delle Indie Orientali Olandesi: di quell’epoca rimangono alcuni palazzi seicenteschi che si affacciano soprattutto sull’animatissima piazza centrale, sbiadito ricordo di un glorioso passato, dove oggi si esibiscono artisti di strada. La gente che incontriamo è sorridente e si dimostra ospitale. Durante tutto il viaggio abbiamo l’impressione che gli indonesiani siano di animo gentile.
Altre tre ore di volo ci separano da Ambon, dove inizia la nostra crociera a bordo della Matahariku, un veliero lungo 40 metri e munito di un amplissimo ponte superiore con vista a 360 gradi, dove durante la navigazione trascorriamo gran parte del nostro tempo contemplando il mare, quasi sempre calmo.
Ad accoglierci a bordo c’è un equipaggio di undici persone sotto il comando di Eric, un omone olandese dall’aspetto burbero ma dallo sguardo dolce, entusiasta di mostrarci le meraviglie del mare indonesiano, su cui naviga da ormai dodici anni. Siamo in sette passeggeri, che in parte non si conoscono, ma alla fine del viaggio si saluteranno come vecchi amici.

Le isole delle spezie
Mentre a bordo ci viene servita la cena, la Matahariku salpa in direzione della prima isola del nostro viaggio (Saparua) nell’arcipelago delle Lease, che raggiungiamo il mattino seguente. Ci ancoriamo al largo e con piccole imbarcazioni raggiungiamo il villaggio, dominato – come quasi tutti quelli che visitiamo anche in seguito – da un piccolo forte che ricorda la colonizzazione olandese. Mentre ci avviciniamo a terra rimaniamo inebriati dal profumo dei chiodi di garofano. È novembre, il tempo del raccolto, e gli uomini stanno accovacciati sui rami delle piante per coglierne uno ad uno i boccioli di fiore che in altri tempi avevano il valore dell’oro. A bordo di due pittoreschi taxi attraversiamo villaggi dove il tempo sembra essersi fermato. Davanti alle case dai colori pastello sono stese plastiche azzurre su cui per due giorni il raccolto viene sparso ad essiccare.
Torniamo sulla Matahariku e navighiamo la notte per raggiungere il mattino seguente le isole Banda, protagoniste di dure battaglie, soprattutto fra Inglesi e Olandesi, per assicurarsi il monopolio del commercio delle spezie. La prima isola che visitiamo è Palau Api. Non ci sono automobili; solo qualche motocicletta messa bene in vista davanti all’entrata di casa come status symbol. Dopo una breve visita al villaggio ci inoltriamo in una piantagione di noce moscata. Gli alberi più maestosi non sono quelli che producono l’ambita spezia, bensì gli altissimi Canary, che proteggono dal sole le delicate noci moscate. Dispongono di secolari e spettacolari radici che paiono pietrificate e che con le loro forme artistiche costituiscono la gioia degli amanti di fotografia.
Tornati a bordo, poche ore di navigazione ci separano da Bandaneira, capoluogo dell’arcipelago delle Lease. Accanto sorge Palau Ai dominata da un imponente vulcano, con la classica forma a cono, molto attivo nel corso dei secoli. Le sue colate laviche si estendono fino al mare e nel corso del tempo sono state ricoperte da coralli variopinti, che contrastano con il nero antracite della lava.
A partire soprattutto da questo momento lo snorkeling si fa serio. Come si mette la testa sott’acqua, trasportati da una dolce corrente, sembra di assistere a un documentario. Incontro qui la mia prima tartaruga marina, che si muove lentamente in profondità. Ma a stupirmi sono soprattutto le tinte dei coralli e l’enorme varietà di pesci di tutti i colori.
Trascorriamo la notte ancorati nella baia tra le isole Api e Neira e il mattino visitiamo il villaggio di Bandaneira. In questa terra nessuno può vantare le sue antiche origini, perché la furia olandese ha letteralmente e brutalmente eliminato all’inizio del Seicento la popolazione indigena. Chi voleva sfuggire alla morte abbandonava le sue terre. Anche qui giungiamo durante il raccolto della noce moscata, che viene ordinatamente esposta al sole ad essiccare.

Il Parco Marino
Con il nostro veliero lasciamo questi luoghi storici di tristi memorie e ci dirigiamo verso l’arcipelago Misool, il versante sud del Parco Marino di Raja Ampat, dove la maggior parte delle isole sono disabitate e la vegetazione scaturisce come per incanto dalla roccia vulcanica. Centinaia di scogli emergono dal mare simili a enormi funghi. Le onde dell’Oceano hanno infatti scavato le rocce alla base.
Man mano che il viaggio prosegue la bellezza dei fondali marini diventa sempre più straordinaria. Osserviamo vere e proprie foreste di coralli: una visione inimmaginabile e difficile da descrivere a parole. I coralli sono di tutti i colori: bianchi, blu, verdi, rossi, viola, gialli, marroni. E di tutte le forme. Alcuni sembrano levigati ma ricoperti da una superficie a stelline. Altri, denominati ‘corallo tavolo’ si presentano come enormi piattaforme circolari. Ce ne sono di tubolari, a forma di foglie, di funghi, a scomparti (una sorta di condominio per pesci), quelli classici a ramificazioni. Ma i più spettacolari sono quelli a ventaglio, finemente cesellati dalla natura.
Dai fondali marini torniamo in superficie e visitiamo un semplice villaggio di pescatori, dove la vita sembra scorrere tranquilla. È venerdì, giorno di festa per i musulmani, e i ragazzi non vanno a scuola. Quando sbarchiamo su un’isoletta sperduta in mezzo all’Oceano diventiamo l’attrazione del villaggio. Gli anziani vanno a prendere alcune sedie per accoglierci e farci accomodare sulla spiaggia, mentre i bambini ci seguono numerosissimi durante una passeggiata che si inoltra in un palmeto da cartolina. Siamo in un periodo di elezioni e i manifesti politici giungono anche su questo piccolo lembo di terra solitario. Sulla spiaggia troviamo splendide conchiglie e prima di ripartire le donne ci offrono un tè alle spezie. Ma è tempo di proseguire il nostro viaggio e di scoprire altri arcipelaghi, dove a bordo di piccole imbarcazioni è piacevole perdersi in magici labirinti di scogli per scoprire su alcune pareti dipinti di creature marine e impronte di mani risalenti a oltre 5 mila anni fa.
Gli ultimi giorni sono dedicati esclusivamente allo snorkeling. Seguendo la nostra simpatica guida olandese scorgiamo pesci che non avremmo mai notato senza di lui, come alcune aragoste dalle lunghe antenne, l’altezzoso pesce napoleone, un cosiddetto pesce coccodrillo che si mimetizza nella sabbia o un altro verde posato su un corallo della stessa tinta. Incontro anche il mio primo squaletto, lungo forse mezzo metro. Si differenzia da tutti gli altri abitanti del mare perché si sposta senza dimenarsi, ma scorrendo via altezzoso e diritto: noblesse oblige!
Se questi sono esemplari più importanti e rari che entusiasmano i miei compagni di viaggio più esperti, ad affascinarmi maggiormente è però la miriade di pesci pagliaccio, di cui fa parte anche il tenerissimo Nemo (ricordate il commovente film della Walt Disney?), che propongono tutte le variazioni dal giallo all’arancione, al rosso, fino al viola. Eleganti anche le cosiddette damigelle striate dai toni color pastello.
Di questo viaggio mi rimarrà l’immagine indelebile di una moltitudine di pesciolini, che finora avevo visto solo in acquario, inseriti in uno scenario corallino indimenticabile. Non scorderò nemmeno il piacere di seguire dall’alto branchi di migliaia di pesciolini trasportati come me dalla corrente del mare, che a tratti abbandonano la formazione per disperdersi in tutte le direzioni creando l’effetto di un fuoco d’artificio sottomarino grazie ai raggi del sole che penetrano in superficie le acque dell’Oceano. Mi rimarranno anche le immagini di splendidi tramonti infuocati, spesso allietati dalla presenza dei delfini che si rincorrono all’orizzonte.

Per saperne di più
Indonesia Lonely Planet, Torino 2013
Spezie, una storia di scoperte, avidità e lusso Francesco Antonucci, Editori Laterza, Bari 2014
L’isola della noce moscata Giles Milton, RCS Libri S.p.A., Milano 1999

Turchia – Sulle orme dei Greci e dei Romani

Turchia – Re Mida e le antiche civiltà
Turchia – Il fascino di Istanbul ieri e oggi, una società in rapidissima crescita

Alla scoperta della mitica Troia, che ispirò i poemi di Omero; di Pergamo con la sua straordinaria biblioteca; di Efeso, considerata la Pompei turca; di Didima, celebre per le sentenze del suo oracolo; di Afrodisia, la città dell’amore; delle cascate pietrificate di Pamukkale, emblema della Turchia turistica.

Le coste turche che si affacciano sul Mar Egeo, distanti un tiro di schioppo dalle isole greche, sono state nel corso dell’antichità fortemente legate alla cultura dapprima greca e in seguito romana. Risultano ricchissime di luoghi che testimoniano questo passato. L’Associazione archeologica ticinese ha organizzato un interessante viaggio nella regione alla scoperta dei siti più significativi e più interessanti. Ecco il mio diario di viaggio.

Il nostro itinerario non poteva non iniziare dalla mitica Troia, che deve il suo fascino letterario ai poemi di Omero. Nell’Iliade, il poeta narra le conseguenze del rapimento della bellissima Elena che fu sottratta al marito Menelao, re greco di Sparta, dal troiano Paride. Furioso Menelao mosse guerra a Troia, che fu vinta dopo dieci anni grazie al celebre stratagemma del cavallo di legno ideato dall’astuto Ulisse; Elena fu restituita al legittimo sposo. Nell’Odissea, Omero racconta invece il travagliato viaggio di ritorno a casa di Ulisse e la morte di Achille, colpito da Paride, figlio di Menelao, al tallone, unico punto vulnerabile del suo corpo.
È probabile che l’epica omerica sia basata sul ricordo di una serie di guerre del XIII secolo a.C. dovute a rivalità commerciali tra i greci di Micene e i troiani. Troia era infatti situata in posizione strategica su una bassa catena di colline, dalle quali si potevano controllare i traffici via mare e via terra.
Per secoli gli studiosi pensarono che i luoghi descritti da Omero fossero unicamente fonte della sua fantasia. Fino a quando, nel 1871, un archeologo dilettante, Heinrich Schliemann – un inquieto uomo d’affari tedesco che visse a lungo in Russia –, non portò alla luce Troia. Gli scavi hanno rivelato ben nove antiche città sovrapposte con datazione risalente fino al 3000 a.C. Oggi si ritiene che la città a cui si riferiscono le vicende narrate da Omero appartenga al VI periodo. Di fatto, per immaginarsi come poteva essere, bisogna lavorare molto di fantasia, ma se si ha la fortuna di disporre di una valida guida, come è successo a noi, si riesce comunque a vivere la magia di quel luogo immerso in una splendida natura. Gli oggetti più significativi trovati durante gli scavi sono esposti al museo archeologico di Istanbul.

A Pergamo s’inventò la pergamena
Il nostro viaggio prosegue a sud verso Pergamo, famosa per la sua biblioteca e per la scoperta della carta pergamena. In funivia si raggiunge l’acropoli, situata sulla cima di una collina, da cui si gode una magnifica vista sulla vallata fino al mare.
La vera nascita di questa città, di cui si hanno tracce già nel VI secolo a.C., risale ad Alessandro Magno, che morì nel 323 a.C. senza designare un successore. I suoi generali si spartirono allora il suo regno e Lisimaco assunse il controllo di gran parte della regione egea. Stanziatosi a Pergamo con un cospicuo tesoro di 9’000 talenti, partì per una guerra di conquista senza fare ritorno. Il suo luogotenente Filetero si appropriò così del tesoro e strinse una serie di alleanze militari con i vicini, che permisero ai suoi discendenti di far fiorire uno dei centri più importanti del mondo ellenistico, famoso soprattutto per la sua straordinaria biblioteca che vantava un patrimonio di oltre 200 mila volumi. Per far crescere la città e conferirle sempre maggior prestigio si progettarono monumenti importanti prendendo Atene come modello.
La biblioteca assunse una tale importanza da far temere ai responsabili di quella di Alessandria, ricca di ben 700 mila volumi, che alcuni suoi famosi studiosi potessero lasciare l’Egitto attratti da Pergamo. Per scongiurare questa concorrenza gli Egiziani sospesero l’esportazione del papiro del Nilo. Gli scienziati di Pergamo si misero allora al lavoro e inventarono la pergamena ricavata da pelli di animali.
Visitando l’acropoli ci si può rendere conto delle enormi proporzioni della biblioteca e dello splendore dei monumenti principali, come l’altare di Zeus, i cui straordinari bassorilievi – capolavoro dell’arte ellenistica – sono stati trasferiti a Berlino da Carl Humann, l’ingegnere tedesco che nell’Ottocento scoprì la città mentre stava costruendo una linea ferroviaria.

Alle origini della medicina
Un altro punto di grande interesse di Pergamo riguarda la visita dell’Asclepeion: ospedale e scuola di medicina tra i più famosi dell’antichità. Creato in epoca ellenistica, raggiunse il massimo della fama nel periodo romano quando vi lavorò Galeno, considerato il padre della medicina occidentale. Il malato veniva curato fisicamente e psicologicamente. La diagnosi veniva rivelata al paziente, mentre si trovava in uno stato di sogno-dormiveglia, dal dio Asclepio (Esculapio).
Si accede al sito percorrendo una lunga via sacra su cui anticamente si affacciavano botteghe. Su una colonna con bassorilievi è inciso un serpente, simbolo del dio della medicina. Esattamente come il serpente che si spoglia della propria pelle e risorge a nuova vita, così i pazienti dell’Asclepeion si spogliavano delle loro malattie. E tra costoro si annoverano nomi celebri come Adriano, Marco Aurelio e Caracalla.

A Efeso si respira l’aria del passato
Efeso è certamente il sito più spettacolare del nostro itinerario, tanto che alcuni la considerano la Pompei turca. Visitando questa città, che in età romana fu capitale di una provincia e raggiunse una popolazione di 250 mila abitanti, la vita del passato sembra ancora animare le rovine. Camminando lungo le vie dell’epoca romana, su cui si affacciano imponenti fontane, si possono visitare le terme, il grande teatro, la splendida biblioteca di Celso, che è stata rimessa in piedi, la piazza del mercato, il tempio di Adriano, i curiosi gabinetti pubblici, il postribolo e i quartieri abitativi.
Efeso era già prospera nel 600 a.C., ma ciò che noi oggi visitiamo risale all’età romana. Era un centro commerciale e religioso di grande importanza. Il suo monumento più rinomato, di cui rimane però purtroppo poco da vedere, è certamente il tempio eretto in onore di Cibele dapprima, di Artemide in seguito, e considerato nell’antichità una delle sette meraviglie al mondo. Il santuario, che venne più volte ricostruito, fu meta di pellegrinaggi a partire dall’800 a.C.. Sorprende per le sue incredibili dimensioni, 110 metri per 55, se paragonate a quelle di un tempio normale che erano di 30 metri per 10.

Dall’oracolo a Didima invece che a Delfi
Proseguiamo in direzione sud e raggiungiamo Mileto, che dal 700 a.C. al 700 d.C., quando le acque del mare lambivano ancora la città, fu un importante centro commerciale e amministrativo, grazie al suo porto. Famosa per la sua urbanistica molto moderna, affascinante per le sue terme, il suo monumento più imponente è il grande teatro, che a testimonianza dell’importanza della città, poteva ospitare 15 mila spettatori. Collegato a Mileto da una via sacra lunga 17 chilometri, ancora oggi in aperta campagna, sorge il suggestivo tempio di Apollo a Didima, dove operava un oracolo considerato autorevole quanto quello di Delfi. Giunti sul posto i pellegrini ponevano le loro domande ai sacerdoti, che attraversando una galleria – tuttora esistente – entravano nel tempio e le riferivano all’oracolo, il quale ispirato da dio proponeva le sue risposte, che venivano poi comunicate ai fedeli. Il sito è molto ben conservato e permette di immaginare queste dinamiche di culto.

Afrodisia, città della dea dell’amore
Lasciamo la costa lungo il Mar Egeo per inoltrarci nell’entroterra. Situata su un altopiano all’altezza di 600 metri ci accoglie Afrodisia, circondata da montagne. Molto meno affollata, ma ben conservata quasi quanto Efeso, rende bene l’idea della grandiosità e delle imponenti dimensioni delle città classiche. Per molti secoli fu soprattutto un luogo sacro, dove si celebrava il culto di Afrodite (o in età romana di Venere) e ancor prima della dea assira dell’amore e della guerra: Nin. Si trasformò in città solo nel II secolo a.C. e divenne capitale della provincia romana della Caria. La maggior parte delle rovine, in buono stato di conservazione, risale dunque al periodo di Roma. Il monumento più celebre è certamente l’imponente tempio di Afrodite, trasformato in basilica cristiana attorno al 500 d.C.. Impressionante lo stadio, che con i suoi 270 metri di lunghezza e una capienza di 30 mila spettatori era uno dei più grandi del mondo antico. La città è famosa anche per la sua scuola di scultura. Nel piccolo museo sono esposte alcune opere, come la statua di Afrodite, che testimoniano l’abilità degli scultori locali.

Cascate pietrificate a Pamukkale
Le cascate pietrificate di Pamukkale rappresentano una delle immagini turistiche più celebrate della Turchia moderna. Si tratta di bianche e splendenti formazioni calcaree, formatesi in seguito all’azione delle acque mineralizzate calde che, scorrendo lungo la parete rocciosa, si raffreddano e depositano il calcio di cui sono ricche. Nel corso dei secoli si sono create suggestive vasche di travertino attorno alle quali i Romani costruirono una grande stazione termale, denominata Hierapolis, per sfruttare le proprietà curative, note da millenni, di queste acque.
Attorno a questa incredibile e unica attrazione turistica era nata negli scorsi decenni una grande speculazione, che aveva gravemente compromesso il fascino del luogo. Nel corso degli ultimi anni le costruzioni abusive sono state distrutte e Hierapolis ha riacquistato il suo enorme charme. Ai turisti è ancora permesso bagnarsi nelle vasche di travertino, che sono di nuovo rifornite dalle originali sorgenti, mentre anni fa venivano dirottate verso le terme di improvvisati alberghi.
Accanto alle cascate pietrificate si può visitare l’antica Hierapolis fondata in età romana. Particolarmente suggestiva la necropoli, con più di 1200 tombe, costituite da tumuli, sarcofagi o monumenti sepolcrali a forma di casa, e in qualche caso anche di palazzo. Al termine della nostra visita abbiamo percorso il lungo viale su cui si allineano queste testimonianze funerarie illuminate dall’ultima luce del giorno, dopo avere assistito allo spettacolo delle cascate pietrificate che riflettono i colori del tramonto.

Itinerario

1° giorno
Lugano-Milano-Istanbul-Canakkale

2° giorno
Canakkale-Troia-Pergamo-Kusadasi

3° giorno
Kusadasi-Efeso-Mileto e Didima-Kusadasi

4° giorno
Kusadasi-Afrodisia-Hierapolis (Pamukkale)

5° giorno
Pamukkale-Usask-Gordio-Ankara

6° giorno
Ankara-Hattusa-Yazilikaya-Alachahöyük-Ankara

7° giorno
Ankara-Istanbul

8° giorno
Istanbul

9° giorno
Istanbul-Milano-Ticino

Bibliografia
Turchia Clup Guide, Milano 1989
Turchia Le Guide Mondatori, Milano 2011

Turchia – Re Mida e le antiche civiltà

Turchia – Sulle orme dei greci e dei romani
Turchia – Il fascino di Istanbul ieri e oggi, una società in rapidissima crescita

Dall’epoca romana ed ellenistica facciamo un salto indietro nel tempo alla scoperta delle più antiche civiltà che hanno popolato l’attuale Turchia. Tra cui quella del famoso Re Mida, che trasformava in oro tutto ciò che toccava.

Visitiamo i siti archeologici dell’età ittita, che corrisponde al secondo millennio a.C., e dei regni di Frigia del leggendario re Mida (VIII secolo a.C.) e di Lidia del ricchissimo Creso (VI secolo a.C.) che seguirono al mondo ittita. Prosegue così l’itinerario organizzato dall’Associazione archeologica ticinese in terra turca, con tappa naturalmente anche ad Ankara per visitare il prestigioso Museo delle civiltà anatoliche, dove sono stati raccolti gli oggetti più preziosi provenienti dai principali siti archeologici.
Al di fuori del mondo mesopotamico, gli Ittiti sono il popolo civilizzato più antico che si conosca di quel periodo. Di grande importanza è l’età definita del “grande impero” (XIII secolo a.C.), durante il quale gli Egiziani e gli Ittiti si divisero il mondo di allora. Dopo la guerra di Kadesh (1290 a.C.), in cui i due eserciti si scontrarono senza veri vincitori e vinti, i sovrani dei due paesi finirono per stringere un patto di alleanza di estrema modernità, tanto da prevedere addirittura l’estradizione per chi compiva reati. È di questo periodo anche la conquista di uno sbocco sul Mar Egeo, che apriva agli Ittiti nuovi confini. Gli elevati livelli culturali raggiunti da questa civiltà sono testimoniati dagli splendidi oggetti rinvenuti sui siti archeologici. La storia di questo popolo di origine indoeuropea la si conosce invece grazie alla scoperta di diverse tavolette scritte in caratteri cuneiformi, che soltanto dopo molti anni di studi è stato possibile decifrare. Parlano dei loro rapporti con gli Assiri e con l’Egitto, ma anche di contratti, di codici, di leggi, di procedure e di riti religiosi, di profezie degli oracoli e di letteratura. La forza militare degli Ittiti era determinata dall’uso della cavalleria, che grazie alla scoperta di un carro da guerra con ruote a raggi, si spostava con particolare rapidità di movimento sul campo di battaglia. A bordo del carro prendevano posto l’auriga, un arciere e un soldato con lo scudo per garantire la difesa.

Hattusa, capitale dell’impero ittita
Molto suggestiva è la visita di Hattusa, l’immensa capitale dell’impero ittita, con le sue solide mura costruite in pietra, che anticamente si estendevano per sei chilometri e con diverse porte di accesso, tra le quali imponenti e ben conservate sono quelle dette “dei leoni” e “del re”, dalle statue che le fiancheggiano, i cui originali sono attualmente conservati ad Ankara, così come diversi altri oggetti qui rinvenuti, tra i quali due recipienti in terracotta di notevoli proporzioni (90 centimetri) a forma di toro, in ottimo stato di conservazione.
Oggi dei grandi palazzi di un tempo sopravvivono solo le fondamenta in pietra calcarea, ma il sito sprigiona un fascino particolare: all’armonia delle colline color del grano su cui è stata costruita la città, si contrappongono imponenti e minacciosi massi rocciosi che conferiscono al luogo una forza incredibile. Questa atmosfera quasi soprannaturale è ancor più presente in uno straordinario santuario rupestre del XIII secolo a.C. (Yazilikaya). Il tempio è stato ricavato dalla natura e si compone di due gallerie su cui sono stati scolpiti magnifici bassorilievi a sfondo religioso. Celebre è il “Corteo delle dodici divinità” raffigurate da guerrieri armati.
Una trentina di chilometri verso nord separano Hattusa da Alacahöyük, centro fiorente della cultura preittita Hatti, dove sono state rinvenute tredici prestigiose tombe reali risalenti a un periodo tra il 2200 e il 1900 a.C.. Questi sepolcri di forma rettangolare –lunghi fino a 7 metri e larghi 3 – erano protetti da un muro in pietra grezza ricoperto di travi in legno su cui venivano posti i crani e gli zoccoli degli animali sacrificati durante i riti funebri. Gli scavi hanno portato alla luce oggetti artistici di bronzo, oro e argento di incomparabile bellezza, che raffigurano la concezione del mondo di allora e che venivano usati durante i servizi divini. Oggi sono esposti ad Ankara e rappresentano una buona parte del tesoro archeologico del Museo delle civiltà anatoliche.

I tesori di Creso re dei Lidi e di Re Mida del regno dei Frigi
I regni di Lidia e Frigia si riferiscono allo stesso territorio, popolato prima dai Frigi, che si sostituirono agli Ittiti, e in seguito dai Lidi, che furono soppiantati dai Persiani.
Gordio, la capitale dell’antica Frigia, si trova un centinaio di chilometri a ovest di Ankara. Il paesaggio è molto suggestivo perché cosparso di tumuli funerari, la maggior parte dei quali non ancora scavati dagli archeologi. Si tratta insomma di una grande necropoli all’aperto, che si può bene osservare dalla collina più elevata su cui sorgeva l’acropoli. Il tumulo più alto – 60 metri di altezza e 300 di diametro – ospita la tomba intatta di un re frigio dell’VIII secolo a.C., che si presume si chiamasse Mida o Gordio. Al tumulo si accede da una galleria laterale attraverso un lungo corridoio che conduce a una sorta di casetta in legno di cedro e circondata da tronchi di ginepro. Vi è stato rinvenuto il corpo di un uomo di età stimata tra i 60 e i 65 anni, alto 1 metro e 59 centimetri, intorno al quale erano deposti alcuni oggetti funerari, esposti in parte nel museo adiacente e in parte – i più preziosi e in particolare due tavolini pieghevoli in legno intarsiato – al Museo delle civiltà anatoliche di Ankara.
Legate a re Mida sono nate molte leggende. La più famosa tramanda una lezione morale sull’avidità. Si narra infatti che il re frigio abbia chiesto a Dioniso il potere di trasformare in oro tutto ciò che toccava. Ben presto si accorse di essere stato preso alla lettera: il cibo al tatto si trasformava in oro, così come accadde alla figlia durante un affettuoso abbraccio. Il re chiese allora a Dioniso di liberarlo da questa maledizione. Questi gli disse di immergersi nel fiume, le cui sabbie divennero aurifere.
Nel Museo Archeologico di Usak è esposto invece il cosiddetto “Tesoro di Creso”, costituito da uno splendido corredo per banchetti in argento, da gioielli e da una serie di tavole dipinte: tutti oggetti risalenti alla seconda metà del VI secolo a.C. e che furono al centro di un piccante giallo internazionale. Proveniente da tumuli funerari scavati da tombaroli, il tesoro finì negli Stati Uniti al Metropolitan Museum di New York. La polemica scoppiò nell’85 quando il prestigioso museo presentò una mostra in cui vennero annunciati straordinari reperti greco-orientali. Un giornalista americano, dopo avere intuito la provenienza del tesoro, prese contatto con un collega turco. Ne nacque un’inchiesta giornalistica internazionale, che, facendo leva su dissidi sorti tra i tombaroli turchi, poté dimostrare come il tesoro fosse stato trafugato negli Stati Uniti dalla Turchia. La questione assunse risvolti penali e politici e nel giro di dieci anni gli oggetti tornarono a Usak, dove erano stati rubati.

Itinerario

1° giorno
Lugano-Milano-Istanbul-Canakkale

2° giorno
Canakkale-Troia-Pergamo-Kusadasi

3° giorno
Kusadasi-Efeso-Mileto e Didima-Kusadasi

4° giorno
Kusadasi-Afrodisia-Hierapolis (Pamukkale)

5° giorno
Pamukkale-Usask-Gordio-Ankara

6° giorno
Ankara-Hattusa-Yazilikaya-Alachahöyük-Ankara

7° giorno
Ankara-Istanbul

8° giorno
Istanbul

9° giorno
Istanbul-Milano-Ticino

Bibliografia
Turchia Clup Guide, Milano 1989
Turchia Le Guide Mondatori, Milano 2011

Laos – La sua linfa vitale è il fiume Mekong

Laos – Il Laos “no stress” tra passato e presente
Cambogia – L’estasi davanti ai templi di Angkor
Cambogia – Un angelo svizzero medico in Cambogia

Un itinerario sorprendente che permette la scoperta del Paese asiatico navigando il suo fiume storico da Huay Xai, al confine con la Thailandia, fino a Luang Prabang, la graziosa antica capitale protetta dall’Unesco e prediletta dai turisti.

Il fiume Mekong ha costituito per millenni la linfa vitale del Laos, uno dei paesi più poveri al mondo, dove l’80 per cento degli abitanti vive di agricoltura. Ancora oggi circa 60 milioni di persone dipendono dalle risorse delle sue acque e da quelle dei suoi affluenti. Questo fiume, che nasce in Tibet e attraversa Cina, Birmania, Thailandia, Cambogia e Vietnam, ha profondamente inciso sulla storia del Laos, al punto che quasi tutto il paese si è sviluppato lungo le sue rive. Per questo, il nostro itinerario realizzato da Kel 12, prevede la scoperta del Laos navigando il suo fiume storico, laddove è possibile: da Huay Xai, al confine con la Thailandia, fino a Luang Prabang, la graziosa cittadina protetta dall’Unesco e prediletta dai turisti. Oltre non si può navigare a causa di ripide e cascate. Proseguiremo pertanto verso la capitale Vientiane in aereo. Il nostro viaggio continuerà quindi in Cambogia alla scoperta degli affascinanti templi di Angkor, immersi nella foresta e abbracciati dalle magiche radici dei suoi alberi.

La grande madre
Il nostro viaggio inizia da Milano-Malpensa, dove un volo diretto Thai airways ci porta a Bangkok, da cui si riparte per Chiang Rai nel nord della Thailandia. Da qui in un’ora di pulmino si raggiunge Chieng Khong, un porto fluviale considerato “la porta dell’Indocina”. Il Mekong, la “Madre di tutti i fiumi”, che segna il confine tra l’antico impero siamese e il Laos, è davanti a noi. Il nostro viaggio entra nel vivo. Un’imbarcazione ci attende per attraversare il fiume. Prima di raggiungerla passiamo sotto un arco di dubbio gusto, considerato appunto “la porta dell’Indocina”. Giunti sull’altra sponda, a Huey Xai, espletiamo sul posto le pratiche per il visto e ci incamminiamo verso il modesto albergo dove passeremo la notte, ospitato in un’antica casa coloniale francese.
Prima di cena visitiamo un tranquillo villaggio di etnia Lenten, che si affaccia sul Mekong a una trentina di chilometri da dove alloggiamo. Le abitazioni sono plurifamiliari con tetti in foglie di palma e bambù, come tutti gli altri villaggi in cui sosteremo nei giorni seguenti lungo il Mekong. Siamo nel cosiddetto Triangolo d’oro, noto per la coltivazione del papavero da oppio. Nel villaggio in cui ci troviamo sembra che lo coltivino non per commerciarlo, ma solo per consumarlo. Le donne indossano vestiti blu e neri, non hanno sopracciglia (vengono depilate all’età di 15 anni) e nei capelli lisci portano una moneta d’argento. L’atmosfera è tranquilla. Gli uomini giocano alle pétanque: il gioco delle bocce che i Francesi hanno introdotto durante la loro dominazione (1893-1953).
Rientriamo a Huey Xai. La via principale è un susseguirsi di guesthouse, negozi e agenzie di viaggio. Anche qui l’atmosfera è rilassata e la passeggiata piacevole.
Il mattino seguente una lunghissima barca in legno ci aspetta per una crociera che durerà due giorni. La nostra meta è Luang Prabang, l’antica capitale del Laos, che dista circa 300 chilometri. Per la notte faremo tappa a Pakbeng in un grazioso resort che si affaccia sulle rive del Mekong.
La navigazione lungo il fiume è piacevole. Il nostro barcone scivola sull’acqua a una velocità media di 20 km/h aiutato dalla corrente del fiume che a tratti è intensa. Siamo nel mese di febbraio e l’acqua è bassa. Sulle rive si sono pertanto create improvvisate spiaggette di sabbia bianchissima, simile a quella del mare. La foresta incombe a pochi metri. Ma per lunghi tratti le sponde sono rocciose, con forme appuntite. Il fiume è molto selvaggio. I rari villaggi si affacciano sulle acque, a volte nascosti dalla folta vegetazione. Si intuisce la loro esistenza dalle barche ormeggiate lungo le rive, coltivate a patate, e dall’animazione: bimbi che giocano, donne che lavano i panni, altre che setacciano la sabbia cercando povere pagliuzze d’oro, uomini che pescano pesci o alghe, animali che si abbeverano, buoi di fiume che si immergono. Il Mekong per tutta questa gente è una fonte di vita: fornisce cibo e acqua per irrigare i terreni e rappresenta la via di comunicazione principale. In alcuni villaggi, dove si fermano i barconi dei turisti, le donne tessono la seta per arrotondare le scarse entrate.
A un paio d’ore da Luang Prabang un’imponente parete rocciosa si erge sulla riva destra del fiume. Qui, nelle grotte di Pak Ou, che si aprono in alto, si trova un commovente e suggestivo luogo di culto, caratterizzato dalla semplicità della fede popolare. Sotto la volta, nelle sacre caverne, è ospitata un’innumerevole quantità di statuette, alcune povere e grezze, offerte dalle popolazioni che risiedono lungo il fiume e nelle aspre montagne che lo costeggiano.

Un magico equilibrio
Il colpo d’occhio che ci offriva – scriveva all’inizio del secolo scorso l’esploratore Francis Garnier – era fra i più pittoreschi e animati … I tetti, l’uno accanto all’altro, si allineavano in file parallele lungo il fiume e serravano da ogni lato una montagna che si elevava come una cupola coperta di verde. Alla sommità della montagna un that o dagoba (monumenti religiosi ndr) slanciava la sua acuta cuspide sulla vegetazione, formando il tratto dominante del paesaggio”.
La città laotiana prediletta dai Francesi durante il protettorato e oggi la più amata dai turisti, dopo oltre un secolo da quando furono scritte queste parole, appare ancora così.
Una vera gioia per gli occhi, scriveva più o meno nello stesso periodo il diplomatico parigino Auguste Pavie. Con i suoi fiumi, la città e le montagne intorno, questo è indiscutibilmente il più bel posto del Laos”.
Le ville del periodo coloniale francese oggi sono state trasformate in alberghi o in eleganti negozi, ma lo spirito di questa cittadina, inserita nel 1995 dall’Unesco sulla lista del Patrimonio mondiale dell’Umanità, non è stato alterato. Sorge a 700 metri di quota, racchiusa da una cerchia di montagne, e propone un magico equilibrio tra il suo stupendo quadro ambientale e le opere d’arte che l’uomo ha creato per celebrare la profonda fede buddista, di cui si ha una testimonianza ogni mattina all’alba se ci si apposta su una delle vie principali. I monaci passano con la loro ciotola protesa a ricevere il cibo per la giornata e lunghe file di persone li attendono inginocchiate sui bordi della strada per protendere i loro doni. Al tramonto rimbombano invece i suoni dei tamburi che rammentano l’insegnamento del Budda e richiamano alla meditazione.
Luang Prabang ospita più di trenta monasteri. Ognuno con la sua particolarità. Sarebbe ingiusto e difficile stilarne una graduatoria, ma il più solenne è certamente Vat Xieng Thong, perché qui un tempo risiedeva il grande Venerabile, la guida spirituale di tutti i monaci. È anche uno dei più antichi della città – risale al XVI secolo – ed è stato risparmiato dal saccheggio avvenuto nel 1887 ad opera delle Bandiere Nere thailandesi, che distrussero tutti gli altri luoghi di culto.
Nel Palazzo reale adibito a museo si può ammirare il Pha Bang, una statua che rappresenta il simbolo di legittimazione buddista della monarchia laotiana e che ha dato il nome alla città. Curiosa celebrazione in uno stato in cui sopravvive una delle ultime dittature comuniste e dove la monarchia ha abdicato da ormai oltre 35 anni.
Prima di lasciare Luang Prabang vale la pena di visitare il variopinto mercato artigianale serale, che si svolge ogni giorno in centro città.

Vientiane, la capitale
Secondo gli autori della guida Lonely Planet dedicata al Laos, Vientiane “può fregiarsi del titolo di capitale più tranquilla di tutto il pianeta”. Percorrendola si incontrano numerosi stili architettonici che rammentano la sua animata storia: dal laotiano al thailandese, dal cinese all’americano, dal sovietico al francese. Ma lungo i larghi viali alberati spiccano soprattutto gli eleganti edifici coloniali francesi. Per non parlare di una goffa imitazione dell’Arco del trionfo parigino, che in città viene ironicamente chiamato “la pista verticale”, perché fu costruito con i soldi concessi dagli Americani per costruire un nuovo aeroporto. Nessun grattacielo sovrasta le pagode, più numerose degli edifici pubblici. Ci si può rendere conto dell’elevata devozione popolare entrando a caso in uno dei tanti monasteri per assistere a semplici e sincere cerimonie religiose, celebrate ad hoc per piccoli gruppi di fedeli, da giovani monaci.
La sera la gioventù si riversa sull’ombreggiata passeggiata lungo il Mekong e nelle piazzette esegue esercizi di ginnastica al ritmo di musica moderna. I turisti possono passeggiare senza timori per le vie della città e sul lungofiume, dove viene proposto un simpatico mercatino dell’artigianato.
Anche Vientiane, come Luang Prabang, è stata rasa al suolo dalla furia dei Siamesi (attuali Thailandesi) nel 1828. Tra i monasteri solo il Wat Si Saket è stato risparmiato dagli invasori, sembra per l’affinità architettonica con gli edifici del loro paese. La particolarità di questo monumento consiste nelle mura interne punteggiate da piccole nicchie che contengono migliaia di statuette del Budda.
Ma il monumento più importante della città e dell’intero Laos, simbolo della religione buddista e della sovranità del paese, è il Pha That Luang, le cui guglie dorate sono visibili da lontano e rappresentano l’orgoglio della nazione. Raffigura la metafora dell’elevazione umana, che passa dall’ignoranza all’illuminazione del buddismo, realizzata proponendo piattaforme quadrate sovrapposte e degradanti: la prima simboleggia la terra, le successive i petali di loto per giungere all’apice con il bocciolo del fiore sacro in forma allungata.

Itinerario
1° giorno
Milano-Bangkok
2° giorno
Bangkok-Chiang Rai-Chieng Khong-Huey Xai
3° giorno
Navigazione da Huey Xai a Pakbeng
4° giorno
Navigazione da Pakbeng a Luang Prabang
5° giorno
Luang Prabang
6° giorno
Luang Prabang-Vientiane
7° giorno
Vientiane-Phnom Penh
8° giorno
Phnom Penh-Sambor Prei Kuk-Siem Reap (Angkor)
9° giorno
Siem Reap (Angkor)
10° giorno
Siem Reap (Angkor)-Bangkok-Milano

Bibliografia
Laos Lonely Planet, Torino 2007
Laos Polaris, Firenze 2009

Cambogia – L’estasi davanti ai templi di Angkor

Cambogia – Un angelo svizzero medico in Cambogia
Laos – La sua linfa vitale è il fiume Mekong
Laos – Il Laos “no stress” tra passato e presente

Nei secolari e imponenti siti archeologici cambogiani è facile rimanere senza parole per la simbologia che esprimono, per l’eccezionale contesto naturale in cui si trovano e per l’armonia con la foresta che li ospita.

Potete aver visitato qualsiasi angolo del mondo, ma davanti ai templi di Angkor in Cambogia rimarrete estasiati. Per la loro imponenza, per la simbologia che esprimono, per l’eccezionale contesto naturale in cui si trovano, per l’armonia con la foresta che li ospita trasformatasi a sua volta in grande artista e architetto quando le radici dei suoi alberi abbracciano questi monumenti secolari, per i canti degli uccelli, per gli indimenticabili tramonti. Per poter vivere tutte queste emozioni vale la pena di recarsi all’alba sui siti archeologici, quando ancora non sono invasi dai turisti, taluni ahimé rumorosi. E non sottovalutate l’ampiezza del sito. Checché ne dicano le agenzie di viaggio dedicare un solo giorno ad Angkor è davvero troppo poco!
Visitando oggi la Cambogia (13,5 milioni di abitanti) non può non sorprendere il forte contrasto tra gli splendori del passato e la dura realtà del presente. L’orgoglio per i grandi fasti imperiali, dopo gli anni bui dei Khmer Rossi, è fortissimo e Angkor è diventata il simbolo dell’identità nazionale, per cui la si vede rappresentata ovunque: sulla bandiera, sulle lattine della birra nazionale, sulle sigarette, così come sulle insegne di molti alberghi.

Le testimonianze
C’era una torre d’oro, in cima alla quale dorme il re. Secondo gli abitanti di questo Paese, dentro questa torre vi è un Genio, dalla forma di serpente a nove teste, che è il vero signore di tutto il regno…”. Così descriveva Angkor nel 1296 il diplomatico cinese Chou Ta-Kuan. E pensare che a quei tempi l’impero khmer era già in fase di decadenza. Nei due secoli precedenti era arrivato a dominare quasi l’intera area dell’Indocina e nel 1285 era stato visitato da Marco Polo. “Sappiate – scriveva il mercante veneziano ne “Il Milione” – che ‘quel regno non si può maritare neuna bella donzella che non convegna che ‘l re la provi, e se li piace, sì la tiene, se no, sì la marita a qualche barone. E sì vi dico che negli anni Domini 1285, secondo ch’io Marco Polo vidi, quel re avea 326 figliuoli, tra maschi e fimine, chè ben n’a 150 da arme. In quel regno à molti elefanti, e legno aloe assai, e ànno molto del legno onde si fanno li calamari”, cioè l’ebano.

La storia
L’impero khmer non nacque certo di colpo o per miracolo, ma fu il punto di arrivo di una lunga serie di eventi. Ben prima del IX secolo, infatti, in questa zona esistevano già diversi regni alquanto potenti. A Sambor Prei Kuk, tra Phnon Penh e Angkor, si possono visitare le imponenti testimonianze monumentali immerse nella foresta dell’antica capitale di uno di questi regni, quello dei Chenla.
Ma è solo a partire dal IX secolo che accadde qualcosa di completamente nuovo, quando un sovrano di nome Jayavarman II (“varmann” significa protettore) fondò una nuova capitale nei pressi dell’attuale Angkor, si proclamò dio-re e creò un nuovo culto imperniato sull’adorazione del sovrano divinizzato. Nasceva così la dinastia che avrebbe portato alla costituzione del più grande impero che il Sud-est asiatico continentale abbia mai conosciuto, lasciando ai posteri quella straordinaria eredità costituita dai templi di Angkor. Un impero che affondava storicamente le sue radici nella cultura indiana, sia per quanto attiene alle pratiche religiose, sia all’organizzazione del regno. I cambogiani accolsero dapprima la religione induista per poi passare al buddismo. Nei monumenti di Angkor queste due religioni convivono una accanto all’altra.
La chiave di successo di questo impero fu legata alla capacità di sfruttare l’acqua edificando un sofisticato sistema idrico che permise agli antichi khmer di governare gli elementi naturali. Lo sviluppo del regno alternava momenti di grande prosperità e di unione ad altri di caos e di lotte interne. Gli antichi sovrani-divinità s’impegnarono uno dopo l’altro a costruire templi che superassero quelli dei loro predecessori per dimensioni, ornamenti e armonia simmetrica. Tutte queste opere sono giunte a noi, ad iniziare dall’Angkor Watt, considerato il più imponente edificio sacro al mondo. L’uomo che portò l’impero all’apice della sua gloria e introdusse la religione buddista nell’impero fu Jayavarman VII (regno 1181-1219), il più grande sovrano di Angkor, considerato una sorta di eroe nazionale, la cui immagine è oggi onnipresente in Cambogia. Fu lui l’artefice dell’edificazione della città sacra di Angkor Thom, una delle mete principali dei tre milioni di turisti che ogni anno visitano questi siti archelogici. La civiltà di Angkor gli sopravvisse per più di due secoli, ma dopo Jayavarman VII iniziò il declino: non venne più edificato alcun monumento in pietra ed è come se con lui si fosse esaurita la vena creatrice del popolo khmer. Sovrani sempre più inetti salirono al potere e trascurarono la manutenzione del sistema idrico che rendeva la terra fertile e l’agricoltura rigogliosa.

La visita
L’impero khmer durò oltre 600 anni, dall’801 al 1432 (invasione thai), ma ebbe soltanto quattro secoli di splendore. I templi tramandati fino ai nostri giorni risalgono infatti a un periodo che va dal IX al XII secolo. Abbandonati alla giungla per secoli furono riscoperti dai francesi nella metà dell’Ottocento e saccheggiati da eserciti e tombaroli. Considerati tra i più importanti siti archeologici al mondo, affascinano il visitatore per le imponenti dimensioni, per la qualità architettonica e per le splendide decorazioni (bassorilievi).
Le centinaia di templi tuttora esistenti non costituiscono però che lo scheletro sacro del vasto centro politico, religioso e sociale, perché si riteneva che soltanto gli dèi potessero dimorare in strutture di mattoni o in pietra. Attorno ad essi sorgevano abitazioni, edifici pubblici e palazzi costruiti in legno e ormai scomparsi. Si pensa che la capitale del regno avesse oltre un milione di abitanti, quando Londra non contava che 50 mila anime. Come dicevamo, le dimensioni sono imponenti. Angkor Wat era circondato da un fossato colmo d’acqua largo 190 metri che racchiudeva un gigantesco rettangolo di 1,5 per 1,3 chilometri di lato. Angkor Thom aveva dimensioni ancora più rilevanti: raggiungeva i 10 chilometri quadrati di superficie. Il fossato era largo 100 metri e circondava un muro di cinta alto 8 metri e lungo 12 chilometri. Gli edifici erano costruiti in arenaria proveniente da una cava lontana 50 chilometri. Le pietre venivano trasportate su enormi zattere via acqua. I monumenti svolgevano al tempo stesso funzione di tempio funerario, che ospitava le ceneri del re defunto, e di tempio di culto consacrato a Vishnu, la divinità hindu con la quale il sovrano si identificava. Le cittadelle rappresentavano una riproduzione in miniatura dell’universo e una sorta di luogo di transito attraverso il quale l’essere umano raggiungeva la dimora degli dèi.
Oltre ai monumenti citati, che sono i più importanti, se ne possono visitare molti altri nelle vicinanze. Particolarmente suggestiva la “cittadella delle donne”, costruita in arenaria rosa e nota per i suoi delicatissimi bassorilievi.

Phnon Penh
Conosciuta un tempo come la “perla dell’Asia” la sua fama è stata offuscata negli anni Settanta dalla triste ombra di una guerra civile particolarmente cruenta che ha causato oltre 2 milioni di morti. Tanti quanti sono oggi gli abitanti di questa città, completamente distrutta nel 1772 dai thailandesi e in seguito ricostruita. Oggi Phnon Penh, capitale della Cambogia sin dall’inizio del XV secolo, dopo la caduta dell’impero khmer, si presenta come una metropoli in transizione tra una certa nostalgia per il passato e il caos di una città moderna. L’impronta del periodo coloniale francese (1863-1954) è ancora molto presente, soprattutto nel centro città. A quell’epoca risalgono i due edifici di maggiore interesse turistico: il palazzo reale, costruito su ispirazione di quello di Bangkok, e il museo nazionale.
Il palazzo reale reinterpreta un’architettura tipica cambogiana. È balzato spesso alla ribalta della cronaca alla fine del XX secolo, in quanto sede di quel re Sihanouk, ultimo dio-re del paese, famoso in gioventù per le sue prodezze amatorie e personaggio dal passato politico camaleontico, che è riuscito a salvare la monarchia (oggi sul trono siede suo figlio Sihamoni) nonostante tutte le tempeste attraversate dal suo paese. Statista di livello internazionale, generale, presidente, regista cinematografico (ha realizzato una trentina di film) è amato e considerato il padre della nazione da molti cambogiani, “ma per altri è l’uomo che ha tradito alleandosi con i Khmer Rossi. Per molti versi – commentano gli autori della guida Lonely Planet – le sue contraddizioni corrispondono a quelle della Cambogia contemporanea”.
Il Museo Nazionale racchiude alcuni fra i più significativi e rimarchevoli tesori dell’arte khmer. La visita è un passo preliminare indispensabile per meglio comprendere e apprezzare sia l’arte figurativa di Angkor, caratterizzata da uno stupefacente realismo, sia quella del periodo precedente.

Itinerario
1° giorno
Milano-Bangkok
2° giorno
Bangkok-Chiang Rai-Chieng Khong-Huey Xai
3° giorno
Navigazione da Huey Xai a Pakbeng
4° giorno
Navigazione da Pakbeng a Luang Prabang
5° giorno
Luang Prabang
6° giorno
Luang Prabang-Vientiane
7° giorno
Vientiane-Phnom Penh
8° giorno
Phnom Penh-Sambor Prei Kuk-Siem Reap (Angkor)
9° giorno
Siem Reap (Angkor)
10° giorno
Siem Reap (Angkor)-Bangkok-Milano

Bibliografia
Cambogia Lonely Planet, Torino 2011
Cambogia Polaris, Firenze 2008
Vietnam-Cambogia Meridiani n. 145, Milano 2006
Cambogia Guide Ulysse Moizzi, Milano 2011
Angkor National Geographic, Torino 2006

Laos – Il Laos “no stress” tra passato e presente

Laos – La sua linfa vitale è il fiume Mekong
Cambogia – L’estasi davanti ai templi di Angkor
Cambogia – Un angelo svizzero medico in Cambogia

Il motto nazionale del Laos potrebbe essere “nessun problema”. Ad affermarlo sono Andrew Burke e Justine Vaisutis, autori della guida Lonely Planet dopo avere vissuto per mesi in questo Paese, sempre più amato dai giovani occidentali alternativi che partono in viaggio per lunghi periodi, con un pesante sacco in spalla e alla ricerca di nuove sensazioni. Ma anche il viaggiatore purtroppo frettoloso come l’autore di questa rubrica, arrivando in Laos percepisce questa atmosfera “no stress”. Un ambiente interpretato dai francesi, colonizzatori in Indocina, con questa espressione, forse razzista: “I vietnamiti piantano il riso, i cambogiani lo guardano germogliare e i laotiani lo ascoltano crescere”. Se i nostri giovani alternativi sono attratti da questo clima rilassato, d’altra parte, girando per le strade della tranquilla capitale Vientiane, si incontrano studenti che si comportano, vestono e si divertono come i loro coetanei alla moda nelle nostre metropoli. E il turismo non farà che accelerare questi mutamenti. Il Laos è considerato uno dei Paesi più poveri al mondo. Senza sbocchi sul mare, l’80 per cento dei suoi circa 7 milioni di abitanti vive ancora di agricoltura di sussistenza. Eppure il Paese è ricco di materie prime: di potassio, fondamentale per produrre fertilizzanti, di bauxite, usata per fabbricare l’alluminio, di minerali, di gomma, di pasta per la carta, di combustibili, di amido, di alberi industriali. Recentemente si stanno investendo ingenti capitali destinati alla costruzione di dighe per lo sfruttamento dell’energia idroelettrica. Le acque del Mekong, che per millenni hanno garantito un’economia di sussistenza a oltre 60 milioni di persone che vivono lungo il fiume in ben sei nazioni (Laos, Tailandia, Vietnam, Cambogia, Cina e Bimania), verranno quindi sempre più impiegate per produrre l’energia elettrica necessaria ad alimentare nuove attività industriali, con gravi conseguenze per l’ambiente e per le abitudini di vita. D’altraparte l’Indocina esce da un periodo storico difficilissimo, che, dopo quello della colonizzazione francese, ha visto gli Stati Uniti confrontarsi con i regimi comunisti locali appoggiati da Cina e Unione Sovietica. In Laos, dal 1975, è al potere un “regime democratico popolare”. Quando in quell’anno, prima Phnon Penh in Cambogia e in seguito Saigon in Vietnam, caddero nelle mani dei comunisti, nel Laos il re acconsentì ad abdicare dopo 650 anni di monarchia e venne creata una Repubblica Democratica Popolare, sul modello sovietico e vietnamita. Il 10 per cento della popolazione lasciò il Paese e si trasferì all’estero. Si trattava dell’esodo di gran parte della classe dirigente. Lo sviluppo del Laos subì così come conseguenza, almeno per una generazione, un forte rallentamento. Solo quattro anni dopo la statalizzazione di tutti i beni privati, il governo laotiano fece marcia indietro permettendo ai contadini di abbandonare le cooperative agricole e di tornare a coltivare la terra in proprio. Il Paese si apriva così all’economia di mercato e anche all’avvento di capitali stranieri. Nel frattempo, ai confini del Laos, in Cambogia dal ’75 al ’79 si era consumata una tragedia politica: il sanguinario governo dei Khmer Rossi, che voleva trasformare il Paese con la forza in una cooperativa agraria guidata dai contadini, fece 2 milioni di vittime secondo gli esperti della Yale University. Il governo comunista laotiano, oltre alla liberalizzazione dell’economia, tornò sui suoi passi iniziali anche per quanto concerneva la religione. In un primo tempo l’insegnamento buddista venne infatti bandito dalle scuole e si impedì ai fedeli di offrire cibo ai monaci. Ma dopo un solo anno il premier fece marcia indietro, giungendo persino nel 1992 a sostituire l’emblema della falce e del martello, che sormontava lo stemma nazionale, con l’effige del Pha That Luang, il monumento che sorge a Vientiane ed è simbolo allo stesso tempo della religione buddista e della sovranità laotiana.

Cambogia – Un angelo svizzero medico in Cambogia

Cambogia – Cambogia – L’estasi davanti ai templi di Angkor
Laos – Laos – La sua linfa vitale è il fiume Mekong
Laos – Il Laos “no stress” tra passato e presente

Quando la nostra guida cambogiana a Seam Reap, la città che custodisce le meraviglie di Angkor, ci ha mostrato l’ospedale pediatrico gestito dal medico elvetico Beat Richner mi sono sentito orgoglioso della mia nazionalità. Si dice che in questo istituto e in altri quattro che fanno parte della stessa organizzazione ogni settimana vengano strappati alla morte oltre 3 mila bimbi. Gli ospedali sono sovvenzionati dallo Stato, ma per la maggior parte sono sostenuti da donazioni estere, molte delle quali provenienti dal nostro Paese. Per finanziare la sua attività questo estroverso medico svizzero tiene ogni sabato sera un concerto. La sua grande passione è infatti il violoncello. Hobby che gli è valso il soprannome di Beatocello, unendo il suo nome di battesimo con quello del suo amato strumento musicale. Beat Richner era arrivato in Cambogia una prima volta nel 1974 come volontario, ma poi aveva dovuto lasciare il Paese per la presa del potere dei Khmer rossi, che con la loro dittatura sterminarono il 91 per cento dei medici cambogiani. Dopo la caduta di questo governo del terrore, nel 1991 il re Sihanouk aveva proposto a Beatocello di tornare in Cambogia per ricostruire l’ospedale in cui aveva lavorato e che nel frattempo era andato distrutto. Il medico aveva accettato la nuova sfida. Nel giro di vent’anni gli istituti sanitari sono diventati cinque, dove viene curata la maggior parte dei bimbi del Paese. Tutti i servizi sono gratuiti e lo staff medico è quasi totalmente cambogiano. Una delle caratteristiche fondamentali dell’esperienza di Richner in Cambogia è il livello di alta qualità della medicina, considerato però eccessivo e “non sostenibile” da varie organizzazioni internazionali, secondo cui lo standard sanitario dovrebbe corrispondere alla realtà economica del Paese in cui si opera. “La nostra è una medicina corretta, non di lusso, obietta il pediatra elvetico. Cinque studi internazionali, effettuati in 100 diversi Paesi – prosegue – attestano che a livello mondiale i nostri ospedali hanno la migliore relazione tra costi e guarigione”. Nelle case di cura di Beatocello un’ospedalizzazione media dura 5 giorni e costa 240 dollari. Un’altra grande sfida per Richner è tenere lontana dai suoi centri la corruzione, una delle maggiori piaghe della Cambogia. Mi spiegava un cambogiano incontrato durante il viaggio che l’ “iniziazione” a questo cancro della società comincia sin dai primi anni di scuola. Siccome gli insegnanti sono pagati molto poco (meno di 100 dollari al mese) pretendono dagli allievi una piccola somma che permette loro di arrotondare lo stipendio. Lo stesso avviene per le cure mediche pubbliche, per essere curati bisogna foraggiare infermieri e dottori. Niente di tutto ciò nei cinque ospedali del pediatra elvetico, che si ispira agli stessi principi su cui si fondava quasi mille anni fa la politica sanitaria estremamente innovativa del più grande sovrano che abbia mai avuto la Cambogia: Jayavarman VII che governò il Paese dal 1181 al 1219, nel periodo di maggiore grandezza dell’impero Khmer (IX-XIII). “Tutte le creature – si legge nel suo ‘Editto degli ospedali’ – che sono immerse nell’oceano delle sofferenze, possa io trarle fuori attraverso la virtù di questa buona opera (gli ospedali gratuiti). Possano tutti i re della Cambogia, attaccati al bene, che proteggeranno la mia fondazione, raggiungere con la loro discendenza, le loro mogli, i loro mandarini, i loro amici, il soggiorno della liberazione in cui non vi è più malattia. Il sovrano è colui che soffre delle malattie dei suoi sudditi più che per le sue: infatti è il dolore pubblico che fa il dolore dei re e non il loro stesso dolore”. Una concezione della socialità che purtroppo non trova riscontro nella Cambogia dei nostri tempi.

Un mondo svelato dalla Via della Seta

Cina – La Cina immaginata e quella della realtà
Tibet – Un viaggio sul tetto del mondo sfiorando le nuvole con le dita
Tibet – Il Tibet è un Paese occupato dai cinesi

I cinesi raccontano che a Shanghai avete la possibilità di assaporare gli ultimi 150 anni della storia del loro paese, a Pechino gli ultimi mille, mentre a Xian incontrerete la Cina più antica. Queste tre città ricche di storia permettono un approccio ai diversi volti della Cina.

A Shanghai avete la possibilità di assaporare gli ultimi 150 anni della storia cinese. A Pechino gli ultimi 1000, da quando cioè divenne capitale dell’impero. A Xian, punto di arrivo e di partenza della mitica Via della Seta, incontrerete le vestigia della Cina più antica. Sono queste le mete principali del nostro itinerario, che prevede anche un soggiorno di cinque giorni in Tibet. Un viaggio del genere non permette certamente di conoscere un paese, ma fornisce stimoli di riflessione, provoca sensazioni e pone interrogativi.

Xian, culla della civiltà cinese
Confesso che prima di preparare questo viaggio non avevo mai sentito parlare di Xian, eppure è la culla della civiltà cinese. È qui che Qin Shi Huang nel 221 a.C. riuscì a unificare il paese per diventare il primo imperatore della Cina e gettò le basi di una coscienza nazionale. Abolì il feudalesimo e diede al paese un’organizzazione burocratica, lo protesse verso nord collegando nella Grande Muraglia i tratti di mura preesistenti, unificò i pesi e le misure, le distanze tra le ruote dei carri per pianificare le strade, impose un’unica moneta, un solo sistema di ideogrammi per unificare la scrittura e la lingua parlata, impose un unico sistema legale. Questo imperatore visionario, ma anche crudele e megalomane, si costruì un monumento funerario al quale lavorarono per 38 anni 700 mila operai. Quando nel 210 a.C. morì durante la sua campagna di unificazione, si racconta che la sua salma fu calata nella sala principale del palazzo delle tenebre assieme alle mogli, alle concubine, a guardie e operai sacrificati in suo onore. L’ingresso del mausoleo venne quindi mimetizzato e il terreno circostante coltivato a cereali. Fu per caso che nel 1974 un contadino, che oggi firma il volume pubblicato sul sito, scavando un pozzo fece la più importante scoperta archeologica del XX secolo, che l’ex presidente francese Chirac, in visita nel 1991, decretò giustamente ottava meraviglia del mondo. Il sito è finora stato scavato solo in parte. Finora sono state portate alla luce tre grandi fosse. La prima (230 metri per 62) contiene 6 mila guerrieri di statura reale che rappresentano la guardia imperiale schierata con cavalleria e 35 carri da guerra. La seconda presenta un esercito di 900 soldati diviso in tre battaglioni. Nella terza, 31 soldati delle guardia d’onore attendono l’imperatore. Un museo presenta altre statue e due straordinari carri in bronzo.
La sola visita di questo sito vale il viaggio in Cina. Tutti noi abbiamo sentito parlare dei guerrieri cinesi di terracotta e li abbiamo ammirati in documentari, ma vederli dal vivo provoca un’emozione eccezionale. Ognuno di loro ha un viso e un’espressione che sottintendono una storia di vita. Gli scavi continuano e altre meraviglie verranno portate alla luce. Al di là di queste scoperte archeologiche Xian è oggi un’importante città commerciale con oltre 7 milioni di abitanti. Il suo centro è racchiuso nel perimetro di 12 chilometri delle sue mura, che risalgono all’epoca Ming (1368-1644). È animatissimo e molto curato con negozi e shopping center di chiara impronta occidentale. Suggestive le torri della Campana (epoca Tang 618-917) e del Tamburo (epoca Ming). Il cuore della città ospita anche un coloratissimo bazar nel quartiere abitato da una minoranza musulmana cinese. Al centro si può visitare un’interessante moschea risalente al VIII secolo, che presenta un curioso incrocio di stile arabo e cinese.

Pechino, il cuore del Paese
Non è certamente facile riassumere ciò che offre Pechino in poche righe di giornale, ma ci proverò. La città è priva di piazze e di un centro. Per questo Mao Tse Tung nel 1949, dopo aver vinto la guerra civile contro i nazionalisti di Chiang Kai Shek creò la piazza Tian’anmen. Un luogo tristemente noto per l’intervento dell’esercito cinese, che nel 1989 entrò con i carri armati aprendo il fuoco contro i dimostranti desiderosi di riforme e di libertà e facendo migliaia di morti. Con i suoi 400 mila metri quadrati di superficie è il più grande spazio pubblico al mondo, è il cuore pulsante della Cina ed il testimone per eccellenza degli eventi che hanno plasmato la storia della Repubblica Popolare sin dai suoi esordi. È qui che il primo ottobre del 1949 Mao Tse Tung pronunciò il discorso della liberazione alle folle in giubilo. Sulla piazza, per la verità molto fredda, si affacciano i musei della storia e della rivoluzione, il Grande Palazzo del popolo, sede del parlamento, il mausoleo del presidente Mao che accoglie la sua salma.

La città proibita
Oltrepassando un arco sopra il quale troneggia l’effigie di Mao, si entra in una delle meraviglie di questa città: la città proibita. Fulcro per cinque secoli – vi regnarono 24 imperatori delle dinastie Ming e Qing – dell’impero e per i cinesi dell’universo. Anche qui gli spazi sono vastissimi. Si tratta di una vera e propria città nella città con oltre 800 edifici, che risalgono quasi tutti al Quattrocento, quando l’imperatore Yongue riportò la capitale da Nanchino a Pechino. Tutti i padiglioni sono disposti secondo le teorie geomantiche basate sull’equilibrio fra energia negativa (yin) e positiva (yang). In questa sorta di vastissima gabbia dorata il popolo non poteva entrare e nemmeno avvicinarsi. Vi si accede dalla porta meridionale (Wumen), la più importante, dove i Figli del Cielo si rivolgevano alla corte e dove i generali di ritorno da guerre vittoriose si presentavano con i prigionieri per deciderne la sorte. Proseguendo si accede ad altri ambienti pubblici (padiglioni delle Cerimonie), prima di giungere agli appartamenti imperiali, dove l’imperatore alloggiava con la moglie e le concubine gestite dagli eunuchi, che diventarono sempre più potenti all’interno del palazzo ordendo intrighi di ogni genere. Quest’ultima parte della città presenta, oltre ad un intimo giardino, costruzioni più piccole e affascinanti, ambienti cinesi, dove bisogna prendersi il tempo per passeggiare senza meta.

Il Tempio del Cielo
Un altro luogo di grande significato storico è il Tempio del Cielo, che sorge in un’altra parte della città e che per cinque secoli ha rappresentato il cuore dei cerimoniali e del simbolismo imperiale. Edificato anch’esso all’inizio del XV secolo era considerato il luogo di contatto fra la terra (considerata quadrata) e il cielo (rotondo), la cui simbologia rappresenta parte integrante anche del progetto architettonico. Intermediario tra terra e cielo era naturalmente l’imperatore che in occasione del solstizio d’inverno si recava qui e pregava per il raccolto. Decisamente meno suggestiva risulta invece la visita alla residenza imperiale estiva, distrutta dagli inglesi durante la seconda guerra dell’Oppio e in parte ricostruita.

Le tombe dei Ming
Ma l’emozione torna a livelli elevati durante la visita alla tomba degli imperatori Ming, la dinastia che regnò dal 1368 al 1644. Tredici dei sedici figli del cielo sono sepolti in una dolce valle che sorge a una quarantina di chilometri da Pechino. Oltrepassato un magnifico arco in marmo bianco, si giunge a una grande Porta Rossa, dove inizia il suggestivo Viale degli Spiriti lungo 7 chilometri e fiancheggiato da alberi e da statue di animali mitologici, di mandarini e di militari. Al termine dei vialetti portano alle tombe monumentali. Ognuna è divisa in tre parte principali: la stele, la sala delle offerte e il tumulo dove si trova la salma.

La grande muraglia
È una delle sette meraviglie del mondo. È un’impresa ingegneristica sbalorditiva. È lunga 6350 chilometri, una distanza equivalente dal Ticino a New York. È nata con l’avvento della dinastia dei Quin nel 221 a.C. per difendersi contro le orde di nomadi attratte dalle fertili terre della pianura del bacino del Fiume Giallo, su idea del primo imperatore cinese, lo stesso che si è fatto seppellire con l’esercito di terracotta. Il lavoro principale fu quello di collegare tra loro le muraglie già esistenti e di consolidare il tutto in un’unica difesa murata. La sommità della muraglia è costituita da una via lastricata larga 5 metri che rappresenta anche un’importante via di comunicazione essendo percorribile totalmente sotto protezione e quindi un mezzo di comunicazione tra genti diverse. Oggi sono milioni i turisti che nel corso di un anno visitano quest’opera e ne percorrono dei tratti a piedi.

Lo stadio olimpico
Oltre alla sua storia, ai suoi monumenti e ai suoi simboli storici Pechino è un’interessante e moderna città densa di grattacieli di stile americano, poco inquinata contrariamente a quando pensavo, dove si può passeggiare tranquillamente. La sua via principale – un centro vero e proprio non esiste – si dice sia percorsa giornalmente da un milione e mezzo di persone. Me la immaginavo simile alle città russe dell’ultimo periodo sovietico, ma ho trovato un ambiente dove i turisti occidentali sono ben accolti. Deludente, perché troppo turistico, il quartiere antico Hutong. Splendido, in compenso il centro olimpico con lo stadio degli architetti Jacques Herzog e Pierre Demoron che visto dal vero è un’opera architettonica emozionante. E anche qui spazi enormi, come è nelle tradizioni cinesi, ai quali noi europei non siamo abituati.

Shanghai, tra Cina Europa e Usa
È il fulcro dello straordinario boom economico cinese. Il suo obiettivo, praticamente già raggiunto, è diventare il più grande centro finanziario dell’Asia. La sua densità abitativa è il quadruplo di quella di New York, che supera anche quanto a numero di grattacieli. Nel corso degli ultimi quindici anni la sua popolazione è più che raddoppiata e raggiunge oggi quasi 25 milioni. Il reddito pro capite è aumentato dai 1’000 dollari del ’97 ai 6’000 del 2007. Il suo porto, dove transita oltre il 50% del commercio cinese, è uno dei più attivi al mondo. Le gru – non gli animali ma quelle da costruzione – sono considerate ironicamente la mascotte di questa metropoli straordinaria, dove si respira aria di euforia, di voglia di cambiamento. Si calcola che qui gli stipendi siano mediamente il doppio rispetto al resto della Cina e spropositati se paragonati alla realtà rurale del paese. Ed è per questo che proprio a Shanghai si manifestano più evidenti i contrasti del colosso asiatico.
Data questa premessa ci si potrebbe aspettare che si tratti di una città finanziaria senz’anima. E invece non è così. È una splendida metropoli, che affascina perché armonizza tre mondi diversi, tre culture: quella cinese soprattutto moderna ma anche antica, quella europea e quella delle metropoli americane. Passeggiando per l’affollatissima via Nanchino che dal lungofiume porta in Piazza del Popolo, cuore della città, si respira l’aria di una metropoli occidentale. La città vecchia propone viuzze alla cinese con caratteri un po’ troppo calcati, tanto da renderla una piccola, ma simpatica Disneyland. Al suo interno si possono visitare gli splendidi giardini Yu creati nel XVI secolo. Un po’ più lontano dal centro, nel tempio buddista di Yufo, si può ammirare lo splendido Buddha dall’espressione estremamente dolce, scolpito in Birmania da un unico blocco di giada bianca. Il vecchio quartiere francese – che all’inizio del Novecento in epoca coloniale veniva definito la “Parigi d’Oriente” – dove si può camminare senza meta è certamente una delle zone più affascinanti. Ma qualsiasi turista, dopo aver visitato questa metropoli, non potrà mai dimenticare la splendida passeggiata lungo il fiume Huangpu. Da una parte il cosiddetto Bund, la sponda con grandi edifici e palazzi in stile anglo-orientale restaurati con cura e risalenti all’epoca delle concessioni straniere. Dall’altra, il Pudong – affascinante soprattutto di notte – con la sua selva di modernissimi grattacieli che si perdono a vista d’occhio, tra i quali ne spiccano alcuni di altissimo pregio architettonico. Fino a pochi decenni fa questa zona era ancora occupata da risaie. Ma d’altra parte tutta la città si è sviluppata dal XIX secolo con l’arrivo degli stranieri. Con il trattato di Nanchino (1842) gli inglesi furono i primi ad arrivare, seguiti cinque anni dopo dai francesi, nel 1863 dagli americani e nel 1895 dai giapponesi. Ogni quartiere, in base al principio dell’extraterritorialità, costituiva un piccolo stato governato dalle leggi del paese coloniale di riferimento. Questa situazione fece sì che gli stranieri a Shanghai erano più numerosi dei cinesi, peraltro sfruttati nelle fabbriche. Non è un caso se il partito comunista del futuro del presidente Mao è nato proprio in questa città, nei pressi del quartiere francese.

Itinerario

1° giorno
Milano-Pechino

2° giorno
Pechino e Tempio del cielo, che per cinque secoli ha rappresentato il cuore dei cerimoniali e del simbolismo imperiale

3° giorno
Tomba dei Ming – Grande Muraglia, un’impresa ingegneristica sbalorditiva, lunga 6.350 chilometri

4° giorno
La città proibita, una vera e propria città nella città con oltre 800 edifici – Crociera sul lago Kumming

5° giorno
Xining – Monastero di Kumbum – Lhasa

6°giorno
Ferrovia tibetana – Lhasa, nota anche come “Tibet Express”, oltre 1.100 km per collegare Cina e Tibet

7° giorno
Lhasa – Palazzo Potala – Tempio Jokhang

8° giorno
Monastero di Drepung

9° giorno
Lago Yamdrok – Gyantse

10° giorno
Xigatse, sorge alla confluenza del Yarlung e del Nyangchu

11° giorno
Lhasa, capitale della Regione Autonoma del Tibet. In passato anche residenza tradizionale del Dalai Lama

12° giorno
Da Chengdu, punto di snodo per i trasporti e le comunicazioni della Repubblica popolare cinese, a Shanghai, una delle città più popolose al mondo

13° giorno
Shanghai, con oltre 18.5 milioni di abitanti

14° giorno
Shanghai-Milano