Il Far West – Nella cittadina di Buffalo Bill si rivive il grande sogno Usa

Il Far West – Nelle terre degli indiani d’America
Il Far West – Quando la storia è scolpita nella montagna
Il Far West – A Yellowstone, nel parco delle meraviglie
Il Far West – Nelle terre dell’emarginazione degli indiani del nord America

A Cody, la città fondata nel 1895 dal colonnello William Frederick Cody, il mitico Buffalo Bill, si respira un’atmosfera particolare e molto caratteristica. Qui si coniugano perfettamente le tradizioni legate alla figura del cowboy con la modernità della gestione turistica, il rispetto del passato e dei suoi riti con il desiderio di proporsi come punto di riferimento culturale grazie al modernissimo museo dedicato a Bill e ai nativi americani. All’origine di tutto questo stanno proprio le idee del colonnello Cody, un visionario, un precursore del moderno marketing, che creò il mito del “selvaggio West” grazie al suo spettacolo. Una sorta di circo, che portò in giro per tutto il mondo, Europa compresa, con le storie incredibilmente affascinanti del Nuovo Mondo, con diligenze e fuorilegge, cowboy e cavalli imbizzarriti. E naturalmente c’era anche lui, Cody Buffalo Bill, accompagnato da Annie Oakley, la pistolera più veloce dell’Ovest, e più tardi anche da “Sitting Bull”, il leggendario Toro Seduto che sconfisse il generale Custer a Little Big Horn.
La maggior parte dei suoi lauti guadagni Cody la destinò generosamente alla costruzione della sua città, dove aprì anche The Irma Hotel – tuttora attivo ma purtroppo un po’ decadente – così chiamato in onore di una figlia. Ma questo eroe del West aveva un punto debole: non sapeva gestire il denaro. Morì così in povertà a Denver.
Nonostante questa fine ingloriosa, egli visse una vita intensa e avventurosa frequentando non solo mitici pionieri come Kit Carson o Jim Bridger, ma anche capi di Stato, tra cui il presidente Theodore Roosevelt e la regina d’Inghilterra, e uomini di cultura come Mark Twain.
La sua figura rappresenta il tipico personaggio della prateria e propone l’incarnazione di quell’intraprendenza che appartiene al cittadino americano: da mendicante a re, attraverso il coraggio e l’iniziativa. È questo il messaggio che Buffalo Bill ha cercato di trasmettere.
La sua biografia è intensissima e ispirò ben 800 libri. A otto anni salvò la vita al padre, pugnalato a un comizio contro la schiavitù, trasportandolo per 56 chilometri in sella a un cavallo. Il suo primo impiego lo ottenne a soli 11 anni come “pony express”, un precursore a cavallo del moderno Dhl. Lavorò quindi con le casacche blu del generale Custer come esploratore. Diventò in seguito cacciatore di bisonti – da qui il suo nome – e in soli otto mesi ne abbatté 4280. All’età di 26 anni iniziò la sua carriera nello spettacolo che lo portò alcuni anni più tardi a fondare il Wild West Show riscuotendo consensi e successi in tutto il mondo.
Il suo atteggiamento verso i pellerossa fu contradditorio. Dopo la morte di Custer a Little Big Horn uccise il capo Yellow Hand (Mano Gialla) e, si racconta, alzò il suo scalpo al grido: “Il primo scalpo per Custer!”. Ma prima di morire, grazie forse all’amicizia con Toro Seduto, dichiarò: “Nove volte su dieci, quando sorgono problemi tra uomini bianchi e indiani, la colpa è dell’uomo bianco…”.

Stati Uniti – Grand Canyon e Monument Valley

Stati Uniti – Bryce Canyon e Death Valley
Stati Uniti – Da San Francisco a Los Angeles
Stati Uniti – Quando la natura diventa artista, ecco il fascino dei grandi parchi
Stati Uniti – I nostri legami con la California attraverso la storia degli emigranti

I parchi nazionali del “Far West” negli Stati Uniti offrono certamente alcuni dei paesaggi più spettacolari e straordinari al mondo. L’itinerario che tocca gli stati della California, dell’Arizona, dello Utah e del Nevada richiede tra i 15 e i 20 giorni per visitare velocemente anche Los Angeles, San Francisco e la suggestiva costa atlantica che collega queste due metropoli molto particolari.
Un volo Swiss diretto collega Zurigo a Los Angeles in tredici ore all’andata e undici al ritorno. Si arriva nella metropoli californiana la sera e il mattino seguente si può iniziare subito l’itinerario, rimandando la visita di Los Angeles alla fine del viaggio, oppure si può fare il contrario.

Da Los Angeles a Palm Springs
Lasciata Los Angeles ci inoltriamo quasi subito nel deserto e in un paio d’ore – 200 chilometri circa – si raggiunge Palm Springs, una sorta di oasi di lusso assurta agli onori della cronaca negli anni Sessanta quando veniva scelta come meta di vacanza da artisti famosi come Frank Sinatra ed Elvis Presley. Da allora molte persone facoltose hanno costruito le loro ville in quartieri con strade perpendicolari che paiono tracciate con il righello. Prima dell’arrivo degli Yankee la zona era abitata dalle tribù indiane dei Cahuilla (oggi gestiscono le case da gioco della valle) attratte dalle acque che scendono dalle San Jacinto Mountains, che costituiscono il vero punto di interesse del luogo. In dieci minuti, con una funivia di fabbricazione svizzera e rotante su sé stessa – per garantire la splendida vista a tutti gli occupanti – si sale fino a 3 mila metri, passando dal deserto a una vegetazione alpina e compiendo un’escursione termica equivalente a quella che si registra spostandosi in automobile dal Messico al Canada. Il panorama spazia dal deserto all’oasi di Palm Springs punteggiata da campi da golf e da centri di villeggiatura d’élite, che contrastano con i pini caratteristici dei percorsi escursionistici che si diramano dalla vetta. Ma per noi è ora di proseguire verso la regione del Grand Canyon. Facciamo tappa per la notte a Kingman in Arizona, un anonimo agglomerato di stazioni di servizio e di motel, in uno dei quali ci fermiamo posteggiando la nostra automobile sotto la camera che ci ospiterà per la notte: proprio come si vede nei film americani.
Il mattino seguente partiamo per il Grand Canyon percorrendo un lungo tratto della mitica Route 66, quella che il romanziere John Steinbeck chiamò la “Mother Road”, la madre di tutte le strade, costruita nel 1926 per collegare Chicago con la lontana Los Angeles. Ricordate il film “On the road” in cui il protagonista percorre questa storica arteria a bordo di una Harley Davidson?
Città di riferimento del famoso parco è Grand Canyon Village, solito centro squadrato e senz’anima, ricco di motel e stazioni di servizio, che raggiungiamo in fine mattinata. Se si prenota con molto anticipo si ha forse la fortuna (che noi non abbiamo avuto) di trovare posto a El Tovar hotel, una struttura in legno d’inizio Novecento situata sui bordi del precipizio del Grand Canyon.

Grand Canyon l’arte della natura
Nessuna fotografia e nessuno testo può descrivere ciò che si vede e si prova di fronte al Grand Canyon. È un’esperienza che va vissuta di persona e che vi consiglio caldamente di fare. Ogni descrizione rischia di essere banale. Posso solo dire che mentre camminavamo per circa quattro ore lungo il precipizio e ci si presentavano visioni sempre diverse con colori continuamente differenti, esaltati dalle diverse posizioni del sole, pensavo che nessun essere umano riuscirà mai ad eguagliare la straordinaria potenzialità artistica della natura.
Ci sono voluti quasi due miliardi di anni per creare questa meraviglia, una fessura lunga 445 chilometri, larga 16 e profonda circa 1600 metri, con centinaia di canyon laterali. All’alba e al tramonto la luce colora in modo intenso e magico le pareti rocciose: strisce di verde, blu, porpora, rosa, arancione, oro, giallo e bianco definiscono una successione di antichi strati, che permettono di effettuare uno straordinario viaggio geologico a ritroso nel tempo.
Questo luogo affascina i visitatori sin dai primi anni della rivoluzione industriale, quando giungevano nel canyon alla ricerca dell’ideale romantico della natura selvaggia per abbracciare il concetto di bellezza sublime. Oggi è visitato annualmente da cinque milioni di turisti provenienti da ogni angolo del mondo. In automobile si giunge fino al Visitor center del versante sud (quello nord è raramente visitato), da cui si prosegue con un efficiente servizio gratuito di bus navetta che collega i vari punti panoramici. Una comoda passeggiata di circa 12 chilometri a picco sul precipizio collega i “view points” più spettacolari del lato sud-ovest. Vale la pena di percorrerla in 3-4 ore perché i panorami si modificano davanti a voi come in un caleidoscopio. Sul fondo si scorge dall’alto il tranquillo percorso del fiume Colorado, che ha scavato il canyon nel corso di milioni di anni. I più allenati possono anche scendere al fiume, ma l’escursione richiede due giorni, dato l’elevato dislivello (oltre 1600 metri) e le temperature del periodo estivo, che soprattutto in basso superano facilmente i 40 gradi.

Antelope Canyon e Monument Valley
Il mattino seguente percorriamo in automobile il lato sud-est, che propone altri belvedere con panorami spettacolari. In tre ore (220 km) raggiungiamo la cittadina di Page, da dove parte un’escursione organizzata (è necessario prenotare, anche via internet), per visitare l’Antelope Canyon, uno straordinario corridoio tra due pareti rocciose in arenaria considerato il paradiso dei fotografi e riprodotto in migliaia di immagini, ma stranamente trascurato dalle principali guide turistiche. L’escursione in fuoristrada attraversa alcuni chilometri di deserto in una riserva della tribù indiana Navajo prima di giungere al profondissimo e strettissimo canyon – in alcuni punti ci passa a malapena una persona – illuminato dalla luce che penetra dall’alto creando immagini molto particolari. La roccia è levigata e propone tutte le tonalità dal rosa al rosso porpora. Le fotografie che mostrano le sue venature e forme strane, esaltate dalla luce zenitale tenue, ricordano opere di scultura moderna. Lo spettacolo mi fa di nuovo riflettere sulle potenzialità artistiche della natura.
Usciti dal canyon, ci troviamo vicino al Lake Powell, un vastissimo lago artificiale navigabile. Ha sommerso una vallata e offre visioni surreali con spuntoni di roccia che emergono minacciosi e imponenti dalle acque tranquille. Lo si visita noleggiando imbarcazioni a bordo delle quali si possono trascorrere alcuni giorni. Il nostro programma di viaggio non prevede purtroppo questa opportunità, per cui proseguiamo verso la Monument Valley, che raggiungiamo nel tardo pomeriggio dopo altre due ore e mezzo di automobile (180 km). Si trova in una riserva indiana dei Navajo situata a cavallo tra gli stati dell’Arizona e dello Utah, dove cambia anche il fuso orario: è un’ora più avanti. Decidiamo di rimandare la visita del Parco nazionale all’indomani mattina anche perché alloggiamo al Goulding’s Lodge, un albergo storico che propone un piccolo museo sulla storia cinematografica del luogo, dove si può visitare la camera di John Wayne e assistere, in una piccola sala cinematografica, alle proiezioni di opere indimenticabili come “Il massacro di Fort Apache” del 1948 o “I cavalieri del Nord Ovest” dell’anno seguente che furono girati qui. Dal 1938, quando il celeberrimo regista John Ford girò in questi luoghi “Ombre rosse” con uno sconosciuto John Wayne nel ruolo di Ringo Kid, la Monument Valley divenne infatti il set prediletto dei film western. Il piccolo museo è un po’ trasandato e decadente, ma è forse proprio questo il suo fascino. Le fotografie ingiallite sono numerosissime e presentano gli attori che hanno alloggiato al Goulding’s. Molti anche i cartelloni di quei film che per me hanno rappresentato l’immagine dell’America del West.
La mattina alle 9 parte la nostra gita organizzata della durata di circa quattro ore in fuoristrada lungo le piste della Monument Valley guidati da un Navajo. Nudi contrafforti in arenaria e impervi pinnacoli di roccia si ergono fino a 300 metri di altezza da un terreno desertico relativamente piatto di sabbia rossa. Il sole basso del mattino esalta con una luce sorprendentemente intensa i colori della roccia. Con l’immaginazione vedo John Wayne cavalcare veloce in quel paesaggio da sogno, sicuramente tra i più spettacolari di tutta l’America.
Queste terre non vanno però purtroppo ricordate solo per i racconti epici dei film western, bensì anche in quanto teatro di una delle vicende più vergognose della storia statunitense: il trasferimento forzato di alcune migliaia di Navajo, noto come Long Walk (lunga marcia), per 500 chilometri verso il New Mexico. Dopo quattro anni di stenti fu infine concesso loro di tornare nelle loro terre. Oggi qui vivono ancora circa 100 mila nativi americani che parlano la propria lingua, un linguaggio così complesso che è stato usato come codice segreto dall’esercito statunitense durante la seconda guerra mondiale.

Itinerario

1° giorno
Zurigo-Los Angeles

2° giorno
Los Angeles

3° giorno
Los Angeles-Palm Springs (194 km)
Palm Springs-Kingman (386 km)

4° giorno
Route 66
Kingman-Seligman (140 km)
Seligman-Grand Canyon (160 km)

5° giorno
Grand Canyon-Page (220 km)
Page-Monument Valley (180 km)

6° giorno
Monument Valley-Arches Np (270 km)

Stati Uniti – Bryce Canyon e Death Valley

Stati Uniti – Grand Canyon e Monument Valley
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Stati Uniti – I nostri legami con la California attraverso la storia degli emigranti

Prosegue il nostro itinerario attraverso i parchi nazionali dell’America dell’Ovest. Dopo il Grand Canyon, l’Antelope Canyon e la Monument Valley ci dirigiamo nello Utah verso l’Arches National Park. Il trasferimento richiede poco più di tre ore d’automobile (270 km) attraversando paesaggi desertici tanto incantevoli che il governo degli Stati Uniti sta pensando di trasformare in Parco nazionale l’intero stato dello Utah. La città di riferimento dell’Arches National Park è Moab, un villaggio minerario (si estraeva uranio fino agli anni Cinquanta) con strade perpendicolari, sviluppatosi soprattutto negli ultimi anni per accogliere i turisti che visitano Arches e Canyonlands.

Arches National Park, architettura naturale
La nostra visita inizia nel tardo pomeriggio e prosegue il mattino seguente. Percorriamo dapprima la strada asfaltata di circa 30 chilometri che serpeggia attraverso il Parco: unica traccia umana in un territorio lunare composto da dune pietrificate e massicci speroni di arenaria dalle forme più disparate. Nella roccia milioni e milioni di anni di erosione provocati da acqua, sole, vento e gelo, hanno scolpito oltre ottocento archi naturali di varie forme e dimensioni. I colori della pietra vanno dal verde all’ocra, dal bianco al rosso e si mescolano con il verde scuro dei ginepri. Il più spettacolare, a mezz’ora di cammino dalla carrozzabile, è il Landscape Arch, che con i suoi 93 metri di diametro figura tra i più ampi al mondo. Ma il monumento naturale più bello del parco è certamente il “Delicate Arch”, un piccolo arco del trionfo in roccia abbarbicato sull’orlo di un profondo canyon. Nessuno potrebbe mai immaginare che sia solo opera della natura. Lo si può raggiungere con una lunga passeggiata o ammirare da un belvedere più lontano camminando per mezz’ora. Imponente il “Double Arch”: una coppia di archi robusti che si sostengono a vicenda. È situato in una zona facilmente accessibile (Window), dove si trova la maggiore concentrazione di archi del parco.
Il nostro viaggio delle meraviglie prosegue verso un altro luogo di grande suggestione e di fama mondiale: il Bryce Canyon, dal quale ci separano oltre 400 chilometri, circa 7 ore di automobile, durante le quali si passa sorprendentemente da splendidi paesaggi desertici a una vegetazione di tipo alpino quando si sale a quasi 3000 metri. La strada panoramica HWY 12 prevede anche l’attraversamento del Capitol Reef National Park, caratterizzato da rocce variopinte che contrappongono la loro imponenza all’amenità delle fresche oasi ricche di piante da frutta che costeggiano il serpeggiante corso del Fremont River.

L’anfiteatro del Bryce Canyon
Il Bryce in effetti non è un canyon, ma un anfiteatro in pietra immerso in un vasto altopiano ammantato di fitto bosco a un altezza di 2400 metri. Lo spettacolo che offre è costituito da un tripudio di guglie e pinnacoli dai colori diversi e tutti caldi, che vanno dal giallo, al rosso e all’arancione. Queste straordinarie sculture naturali sono state erose nell’arenaria fangosa dal connubio fra inverni gelidi (qui la temperatura scende al di sotto dello zero per duecento notti all’anno) e precipitazioni estive. I pinnacoli presentano un cappello di roccia dura che si forma quando il fusto, più soffice, viene dilavato dalle piogge. Gli indiani Paiute, che vivevano in questa regione, diedero al luogo il complesso nome di “rocce rosse in piedi come uomini, in un canyon a forma di scodella”. Per i primi coloni che si dedicavano invece all’allevamento questo era considerato “un diavolo di posto dove perdere una mucca”.
Una strada panoramica di circa 30 chilometri percorre il parco e dà accesso a numerosi belvedere da cui ammirare l’incredibile anfiteatro naturale. I view points più spettacolari sono certamente il Bryce Point e, a poca distanza, i due punti Sunset e Sunrise che sono collegati tra loro da un sentiero che corre sul bordo superiore del Bryce Amphitheater, vicino al Visitor center. Se si ha la fortuna di trovare una stanza in uno dei semplici ma simpatici bungalow del Bryce Canyon Lodge si alloggia nel cuore di questo spettacolare belvedere. Ma la parte più emozionante e da non perdere della visita è una passeggiata di due ore scarse che scende in mezzo alle guglie e segue un sentiero che collega Sunset e Sunrise. Percorrendolo si ha l’impressione di passeggiare in un paesaggio surreale e incantato, indescrivibile a parole e pure con le immagini. Provare per credere!

A Las Vegas via Zion Park
Circa cinque ore di automobile – oltre 400 chilometri – separano la pace del Bryce Canyon dal frastuono di Las Vegas, la capitale mondiale del gioco d’azzardo. Ma prima di raggiungere questa incredibile città immersa nel deserto, dopo due ore di guida, giungiamo allo Zion National Park, che attraversiamo e visitiamo velocemente. Creato nel 1919, fu uno dei primi parchi nazionali americani. Si tratta di un canyon lungo 13 chilometri, largo e profondo 800 metri, una gola spettacolare incastrata fra imponenti pareti rocciose che amplificano il rumore delle fresche cascate. A valle delle alte falesie si trova un’oasi lussureggiante in cui scorre il Virgin River. In estate i collegamenti tra i punti più belli del parco sono affidati a un efficiente servizio navetta gratuito, che parte a intervalli regolari dal Visitor center. L’offerta escursionistica è amplissima, ma il nostro itinerario non prevede passeggiate, anche perché si tratta di un tipo di paesaggio a noi più familiare rispetto ai precedenti.
In altre tre ore raggiungiamo Las Vegas: caotica, affollata, caldissima. È un’altra America rispetto a quella dei giorni precedenti e di quelli che ci attendono. Si fatica a credere che un tempo fosse una città normale e che l’attuale fastoso Boulevard fosse un’arteria polverosa costeggiata dai soliti motel di periferia. Oggi ospita alberghi lussuosissimi e kitchissimi, come la piramide a 36 piani del Luxor o il castello pseudomedievale con tanto di ponte levatoio e torri merlate dell’Excalibur. Propone ricostruzioni esuberanti e meticolose della Grande Mela al New York–New York, di Venezia con tanto di campanile di San Marco, Palazzo dei Dogi e Ponte del Rialto al Venetian, della Tour Eiffel, ridotta a metà delle dimensioni, al Paris, dell’idilliaco villaggio sul lago di Como al Bellagio. Al Caesars Palace si è serviti da centurioni romani mezzi nudi e al Mirage si assiste ogni 15 minuti alle eruzioni di un vulcano. Ovunque macchinette mangiasoldi e tavoli verdi dove si può tentare la fortuna assieme a un popolo effervescente. Sbalorditi e storditi torniamo in camera non troppo tardi perché il giorno seguente ci attende una delle tappe più interessanti del viaggio: la Death Valley.

Il caldo torrido della Death Valley
È una delle zone più calde e incontaminate del pianeta. In estate la temperatura supera facilmente i 50 gradi. Un termometro lasciato esposto al sole può salire rapidamente oltre i 65 e letteralmente esplodere. Gli americani ci vengono dall’inizio di febbraio ad aprile, ma noi stranieri non ci lasciamo sfuggire anche in altre stagioni una visita in questo luogo che evoca tutto ciò che nella nostra immaginazione associamo ai deserti: paesaggio inospitale, caldo infernale, solitudine totale. Questo territorio ha rappresentato un ostacolo insormontabile per le carovane di emigranti che nell’Ottocento attraversavano l’America. Deve il suo nome proprio a un gruppo di disperati che nel 1849 cercò per settimane una via d’uscita da questa valle. Quando la trovarono, una donna si voltò ed esclamò “Good–bye, death valley”. Per noi turisti europei appare invece come un luogo incantato con gigantesche dune di sabbia, canyon marmorizzati, crateri di vulcani estinti, oasi ombreggiate, che si contrappongono a montagne di oltre 3 mila metri. Una straordinaria vista panoramica dall’alto si gode dal Dante’s View a quota 1668, che si raggiunge in automobile.
Gli appassionati di cinema ricorderanno l’indimenticabile “Zabriskie Point” di Michelangelo Antonioni, quando due giovani alla ricerca di se stessi fanno l’amore tra queste dune di sabbia pietrificate, dal nome appunto di Zabriskie Point. Una strada asfaltata conduce a Badwater, uno dei luoghi più bassi del pianeta, situato 86 metri sotto il livello del mare, sulle rive di un bianchissimo lago salato. Due piste a senso unico (Twenty Mule Team Canyon e Artists Drive) permettono di penetrare in un paesaggio desolato tra dune e colline con sfumature dal rosso cupo, al marrone e al color sabbia: si ha l’impressione di trovarsi fuori dal mondo, soprattutto se la sera prima si era a Las Vegas. Se si trova posto, vale la pena alloggiare nello storico Furnace Creek Inn, che accoglie turisti sin dal lontano 1927.
Il nostro itinerario tra i parchi nazionali volge al termine, ma ci attendono ancora una breve visita allo Yosemite e una piacevole sorpresa.

Un villaggio dimenticato
Senza molta convinzione seguiamo una deviazione raccomandata dalle guide verso Bodie State Historic Park e troviamo una piccola chicca: un antico villaggio minerario sperduto tra le montagne abbandonato all’inizio del Novecento. L’amministrazione dei parchi nazionali non è intervenuta con restauri, ma ha lasciato tutto com’era, senza nemmeno ordinare ciò che si trovava all’interno delle case, offrendo così ai visitatori uno spettacolo incredibile. Sembra di passeggiare sulla strada principale di uno di quei villaggi tipici dei film western con la chiesa, la scuola, la prigione, il saloon, l’albergo, il barbiere, eccetera. Mancano solo i cowboys, lo sceriffo e le ragazze al bancone che servono il whisky. Durante la corsa all’oro, nella seconda metà dell’Ottocento, questa cittadina aveva 10 mila abitanti e una pessima reputazione: si dice vi regnasse l’illegalità. Esaurito l’oro andò quindi decadendo e nel 1932 venne in gran parte distrutta da un incendio. Si sono salvati solo 150 edifici, che bastano però per far rivivere l’atmosfera ottocentesca dei periodi della febbre dell’oro.

Lo Yosemite, piccola Svizzera
Lo Yosemite è uno dei parchi più rinomati degli Stati Uniti – venne dichiarato Parco Nazionale dal Congresso nel lontano 1890 – e uno dei più amati dagli americani, ma per noi è meno sorprendente per i suoi paesaggi, splendidi ma familiari e molto simili a quelli alpini più idilliaci: prati verdi con le mucche al pascolo, foreste di conifere, placidi laghetti alimentati da romantici ruscelli. Offre innumerevoli possibilità di escursionismo ed è affollatissimo. Nei pressi di Yosemite Village il paesaggio diventa imponente, caratterizzato da mastodontiche pareti rocciose in granito, tra cui El Capitan, la rupe a picco ininterrotta più alta del mondo. La maggiore attrazione di questa zona è costituita da una sorprendente cascata che precipita per oltre 700 metri, dando vita a tre spettacolari salti. Purtroppo il tempo a disposizione è limitato e ci costringe ad operare delle scelte. Dedichiamo così poco, forse troppo poco tempo, alla visita di questo parco. Ci spostiamo per la notte nella zona sud, per avvicinarci ai boschi di sequoie giganti che abbiamo in previsione di visitare il mattino seguente, ma alle 9 il parcheggio è già esaurito e bisogna attendere. Decidiamo quindi di proseguire per la Napa Valley e per San Francisco che raggiungiamo passando dal mitico Golden Gate.

Itinerario

7° giorno
Moab-Bryce Canyon (440 km)
HWY12 (panoramica) Hanksville-Cannonville

8° giorno
Bryce Canyon-Las Vegas
– Bryce Canyon-Zion NP (150 km)
Zion NP-Las Vegas (270 km)

9° giorno
Las Vegas-Death Valley
Las Vegas-Furnace Creek (230 km)

10° giorno
Death Valley-Yosemite
Furnace Creek-Bodie (420 km)
Bodie-Fish Camp (200 km)

11° giorno
Yosemite-San Francisco
Fishcamp-Napa Valley (372 km)
Napa Valley-San Francisco (50 km)

Stati Uniti – Da San Francisco a Los Angeles

Stati Uniti – Grand Canyon e Monument Valley
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Stati Uniti – I nostri legami con la California attraverso la storia degli emigranti

San Francisco si è rivelata completamente diversa da come me la immaginavo. Come la Grande Mela è un insieme di città, di quartieri ben distinti, ognuno con un carattere proprio. Se non si temono le ripide salite, il centro è facile da girare a piedi. Le aree commerciali sono piccole e concentrate per lo più nella zona del centro che si estende attorno a Union Square, mentre il resto della città è composto principalmente da quartieri residenziali con arterie commerciali spesso simpatiche e pure facili da esplorare camminando. Esiste un servizio di bus turistici, con spiegazioni in tutte le lingue, che sosta nei quartieri più interessanti, dove ci si può fermare prima di riprendere il percorso con il veicolo seguente (le navette passano a intervalli di 10 minuti).
San Francisco è considerata la città più liberale degli Stati Uniti. Oggi capitale mondiale gay, negli anni Cinquanta occupò le prime pagine della stampa internazionale in occasione della nascita della Beat Generation e negli anni Sessanta quando scoppiò la protesta e la ribellione del movimento hippy, accompagnato dalla sua splendida musica e, purtroppo, anche da un uso sfrenato di droghe. In alcuni quartieri, come Haight, sono ancora evidenti le tracce di questa epoca.
La città, fondata nel 1776 con il nome di Yerba Buena, si sviluppò nella seconda metà dell’Ottocento quando scoppiò la febbre dell’oro e poco più tardi con la scoperta di una vena argentifera nel Nevada. I profitti degli investitori inondarono San Francisco, che nel 1906 venne però in gran parte distrutta da un terremoto, seguito da un vastissimo incendio durato tre giorni. La città risorse in tempi record con opere di altissima ingegneria come il celeberrimo Golden Gate, il ponte simbolo della metropoli. Negli ultimi decenni San Francisco è stata teatro della repentina rivoluzione della “web economy”: nella cosiddetta Silicon Valley, alle porte della città, hanno sede Apple, Google e Facebook solo per citare i nomi più famosi.
Il cuore della metropoli è Union Square, che deve il proprio nome alla funzione di luogo di riunione che assunse durante la guerra civile americana: era qui che si tenevano i comizi. Oggi i tram sferragliano attorno alla gente che va per negozi, a teatro, o frequenta i numerosi alberghi di lusso del quartiere. I grattacieli in vetro e acciaio del Financial District confinano a nord con il centro. Qui si trova l’edificio più alto, diventato un altro simbolo della città, il Transamerica Pyramid Center, naturalmente a forma di piramide. A pochi passi dal centro del business, frequentato da eleganti uomini d’affari in giacca e cravatta, si raggiunge Chinatown, dove si ha l’impressione di tuffarsi in una disordinata città-mercato cantonese con i suoi negozi di souvenir, gioielli, artigianato, erbe e tè, macchine fotografiche ed elettronica, nonché i mercati di pollame e pesce. Il quartiere italiano, dove negli anni Cinquanta si dava appuntamento la Beat Generation, confina con quello cinese. Dalla Coit Tower, che si trova in questa zona, si ha una delle migliori viste sul complesso della metropoli. Non lontano si può ammirare un’altra immagine da cartolina di San Francisco: Lombard Street, la fotografatissima strada nel centro città che scende a serrati e fioriti tornanti. Sempre a piedi si può raggiungere la zona del porto. Il Fisherman’s Wharf è una vera calamita per l’animazione che vi regna. Si tratta di un molo costruito in legno con negozi e simpatici ristorantini. Dal molo 33 dell’Embarcadero partono invece i battelli per Alcatraz, il carcere di massima sicurezza, chiuso nel 1963, dove ‘soggiornarono’ ospiti illustri come Al Capone. Vale la visita. Altri punti di interesse sono il Civic Center, il centro governativo con imponenti edifici stile Beaux Arts, il Golden Gate Park, il parco urbano più grande degli Stati Uniti, alcuni quartieri residenziali come quello di Haight, con le sue splendide residenze d’inizio Novecento e, naturalmente, il ponte Golden Gate: sono tutti luoghi che si possono raggiungere con il bus turistico. I musei non li abbiamo dimenticati, ma nell’economia del nostro itinerario abbiamo dovuto rinunciare a visitarli, così come quelli di Los Angeles: due settimane per i parchi nazionali, San Francisco, la costa e Los Angeles sono davvero troppo poche.

La splendida costa oceanica
Prima di raggiungere la costa facciamo una breve sosta alla Stanford University, che fu costruita a fine Ottocento dal magnate delle ferrovie Leland Stanford in memoria del figlio deceduto di tifo durante un viaggio in Europa. Oggi accoglie 14 mila studenti e negli ultimi decenni ha prodotto le menti che hanno reso celebri le industrie della Silicon Valley. Visitando l’università e il campus che la circonda si capisce quanta importanza gli Stati Uniti hanno dato e tuttora danno alla formazione dei giovani, che sono il futuro di qualsiasi società.
Proseguiamo verso la costa, che raggiungiamo a Monterey, una graziosa località di villeggiatura per i ricchi abitanti di San Francisco. Checché ne dicano le guide, non vale la pena di spenderci molto tempo, perché ci attende il grande spettacolo della costa oceanica. Un primo approccio lo si ha percorrendo il “17 mile drive”, una strada panoramica (a pagamento) che collega Monterey con la graziosa cittadina di Carmel e attraversa una ricca zona residenziale: ad ogni curva rivela una nuova vista da cartolina. L’itinerario è cosparso di punti panoramici da cui si gode lo spettacolo delle onde oceaniche che si infrangono sugli scogli. Qui, come vedremo il giorno seguente, incontriamo delle colonie di elefanti marini che se ne stanno spaparanzati sulla spiaggia al sole. Sono simpatici animali che possono raggiungere le due tonnellate. A vederli durante la siesta non lo si direbbe, ma sono in grado di tuffarsi in profondità (circa 1500 metri) e possono rimanere sott’acqua più a lungo di qualsiasi altro mammifero (oltre un’ora).
Il giorno seguente ci attendono altri 200 chilometri di questo incantevole paesaggio oceanico, ma purtroppo per un primo tratto incontriamo una fastidiosa nebbia, frequente nei mesi di luglio e agosto, lungo la costa (Big Sur). Quando in tarda mattinata scompare, i paesaggi tornano di una scabra bellezza.
In circa tre ore percorriamo i 160 chilometri che ci separano da Hearst Castle (per una visita è necessario prenotare), l’incredibile residenza di Wiliam Randolph Hearst che nella prima metà del Novecento riuscì a costituire un impero che controllava il 25 per cento dei quotidiani statunitensi e il 60 per cento di quelli californiani. Questo singolare personaggio, mirabilmente rappresentato nel celebre film “Quarto potere” di Orson Welles, si fece costruire un discutibile monumento – la facciata del palazzo riproduce quella di una cattedrale spagnola in stile Mudejar – dove ‘inserire’ le innumerevoli opere d’arte della sua collezione. Ne è scaturita un’operazione di pessimo gusto, perché non si distingue più ciò che è realmente antico da ciò che è finto.
Molto diversa, invece, la Villa Getty che abbiamo visitato il giorno seguente, dopo aver trascorso la notte a Santa Barbara, una simpatica località di villeggiatura con molte costruzioni in stile spagnolesco. In un’ora e mezza (130 chilometri) si raggiunge Malibù, dove in una vallata che conduce al mare il petroliere miliardario americano Jean Paul Getty ha fatto costruire un museo ispirato al modello di una villa romana sepolta dalla ceneri dell’eruzione del Vesuvio del 79 d.C., per ospitare la sua straordinaria collezione di opere d’arte antica (pure qui è necessario prenotare).

Los Angeles, il mito del cinema
Il nostro viaggio volge purtroppo al termine e a Los Angeles possiamo dedicare poco più di una giornata, che non basta nemmeno per cominciare, perché questa splendida città meriterebbe un soggiorno ben più lungo. Rinunciamo ai grandi musei, alla visita delle case di produzione cinematografica trasformatesi in lunapark, a Disneyland e ci concentriamo su Hollywood, Beverly Hills e Santa Monica, il simpatico quartiere che si affaccia sulla spiaggia oceanica, dove alloggiamo e dove ho cercato invano le splendide bagnine bionde dello sceneggiato Baywatch.
Anche Los Angeles, come San Francisco e come New York, ci sorprende perché è completamente diversa da come ce la immaginavamo. È vastissima – si estende per oltre 100 chilometri – ma non dà l’impressione di una caotica metropoli. È un piacevole insieme di quartieri a misura d’uomo. Le case sono a due piani. I grattacieli pochissimi. Lo si nota bene dall’osservatorio del Griffith Park, da cui si gode di una splendida vista sull’agglomerato e sulle colline a nord, dietro le quali inizia il deserto. La scarsità di acqua bloccò lo sviluppo della città fino al 1913 quando venne costruito un importante acquedotto che convoglia le acque della Sierra Nevada.
Hollywood non è altro che un animato quartiere dell’immensa metropoli, che si è sviluppato negli anni Venti, quando l’industria cinematografica americana si è spostata qui da New York e da Chicago. Risalgono a quegli anni le prime lussuose ville costruite sulle colline retrostanti, il famosissimo Hollywood Boulevard, con la Walk of Fame, la passeggiata delle celebrità dove sul marciapiede sono incastonate 2500 stelle dorate dedicate a mitiche star come Marlon Brando, Michael Jackson, Elvis Presley, Frank Sinatra, John Wayne e molte altre. Sulla stessa via si trova pure il teatro dove ogni anno, fin dal 1927, vengono consegnati gli Oscar e una scalinata dove sono presentati “i migliori film” premiati con la celebre statuetta. Tour turistici propongono escursioni sulle colline e a Beverly Hills per curiosare tra le ville dei big dello spettacolo. Ci rimane ancora il tempo per una scappata nella splendida Beverly Hills, con le sue lussuosissime ville e Rodeo Drive, una delle vie più celebri e più filmate al mondo. Ricordate “Pretty Woman” il romantico film di Garry Marshall con Richard Gere e Julia Roberts? L’albergo in cui alloggiano i due protagonisti si trova qui, così come i negozi in cui la giovane ragazza fa il celebre shopping con la carta di credito del casuale partner.

Itinerario

12° giorno
San Francisco

13° giorno
San Francisco

14° giorno
San Francisco-Monterey
San Francisco-Palo Alto (50 km)
Palo Alto-Monterey (140 km)

15° giorno
Monterey-Santa Barbara
Monterey-Hearst Castle (160 km)
Hearst Castle-Santa Barbara (240 km)

16° giorno
Santa Barbara-Los Angeles (160 km)

Stati Uniti – I nostri legami con la California attraverso la storia degli emigranti

Stati Uniti – Grand Canyon e Monument Valley
Stati Uniti – Bryce Canyon e Death Valley
Stati Uniti – Da San Francisco a Los Angeles
Stati Uniti – Quando la natura diventa artista, ecco il fascino dei grandi parchi

In primavera, quando il volo per gli States era già stato prenotato, ho notato un certo fermento familiare attorno al computer. Mia moglie, che già ci lavora buona parte del giorno, si piazzava davanti allo schermo anche dopo la cena, momento solitamente consacrato alla conversazione, allo scambio di notizie, programmi e pareri. Aveva pure un fare un po’ misterioso. Facebook, ho pensato. Sta a vedere che si è lasciata incantare dai social network. Qualche giorno più tardi – e dopo molte ore a tu per tu con il Mac – mi annuncia trionfante che attraverso la rete ha ricostruito la storia dei suoi antenati emigrati in California e, addirittura, ha scoperto dei cugini americani con cui è riuscita a mettersi in contatto.
I fratelli di sua nonna, racconta, sono partiti da Vogorno all’inizio del Novecento, prima uno, poi l’altro un paio di anni dopo. Entrambi neanche ventenni, prima di allora usciti dalla Verzasca forse solo per qualche inverno da spazzacamino nella vicina Lombardia. Con qualche dato anagrafico ha trovato le loro tracce negli elenchi di Ellis Island, la grande porta d’entrata d’America, dove tutti gli immigrati venivano registrati (www.ellisisland.org). Purtroppo le ricerche sono complicate, mi confessa che ha impiegato tantissimo tempo: la grafia incerta dei nostri avi che avevano poca dimestichezza con la penna è spesso trascritta in modo approssimativo, fatto sta che Giuseppe è diventato Guiseppe, mentre Paolo si è trasformato in Caslo. Ha fatto molti tentativi, giocando un po’ con l’intuito. Ma ora sa quando e dove sono partiti, con quale nave, quando sono arrivati a New York. E, con il mazzetto di lettere che la nonna le ha affidato quand’era ragazza – quelle lettere che per qualche anno dopo la partenza i due hanno inviato a casa -, con i dati di internet, molta costanza e un po’ di fortuna, ecco che trova in California i discendenti di uno dei due fratelli. Il nostro viaggio ormai è programmato, ma un incontro bisogna proprio organizzarlo. E così diamo appuntamento ai cugini americani via mail e, nonostante il breve preavviso, tre si presentano con mariti e mogli. Una serata piacevole nella generale confusione di una conversazione multilingue: un po’ di inglese studiato tanti anni fa e mai praticato, un po’ di spagnolo che alcuni di loro conoscono perché siamo comunque poco lontano dal Messico, un po’ di dialetto ticinese. Eh, sì, perché il marito di una cugina, anch’esso discendente di emigranti ticinesi, ha imparato dal nonno qualche modo di dire tipico di qui… ed è strano per noi sentire quelle espressioni antiche, del dialetto di un Ticino che non c’è più. È un mondo che si apre al confronto. Ci raccontano dell’attaccamento che, nonostante siano di terza generazione, nutrono per la Svizzera, delle radici che conoscono poco, perché il nonno (e cioè il diciottenne partito da Vogorno) è morto giovane e non hanno ricordi di lui. Festeggiano il primo agosto ma sono americani fino al midollo, e amano pescare, il barbecue, Obama (alcuni sì, altri meno). Sono fieri di quelle origini lontane, del coraggio di quei giovani che hanno lasciato la terra natia per cercare di migliorare la loro vita.

New York – Le mille storie diverse che vivono in una sola città

New York – Alla riscoperta degli itinerari dei nostri antenati emigranti
New York – New York riassume il mondo moderno
New York – Due volti diversi per gli Stati Uniti

Visitata ogni anno da 50 milioni di turisti è una città dove ci si sente a proprio agio, dove di giorno e di sera si passeggia senza pericoli e non ci si sente sopraffatti dallo stress: un’immagine molto diversa dalle mie attese

Ogni anno è visitata da 50 milioni di turisti che portano un indotto di 32 miliardi di dollari. Il tempo minimo per farsi un’idea della città è una settimana. In questa sede non ha senso suggerire itinerari. Avendo pochi giorni a disposizione la nostra visita si limita all’isola di Manhattan: lunga 20 chilometri e larga 3,5, che è facilmente percorribile in metropolitana. Per allestire il vostro programma a seconda dei vostri interessi consiglio di consultare la “Guida Verde” della Michelin. Nelle prossime righe cercherò di elencare le principali tematiche su cui si è concentrata la mia visita.

Un’antologia della nostra civiltà
Quando si pensa alla Grande Mela vengono prima di tutto alla mente i suoi grattacieli. I primi sorsero a cavallo tra l’Otto e il Novecento in stile Art Déco. Il più noto è certamente l’Empire State Building realizzato nel 1931 e che per 40 anni rimase l’edificio più alto al mondo. Offre una straordinaria vista su Manhattan e su tutta la città. Percorrendo i notissimi viali di Manhattan che attraversano tutta la metropoli (Avenue of the Americas, Fifth Avenue, Madison Avenue, Park Avenue e le street laterali 42ma, 57ma,…) si potrà ammirare l’evoluzione dell’architettura newyorchese, fino ad arrivare alle opere più moderne dei cosiddetti archistar, cioè gli autori di maggior fama. “Qui abbiamo sempre avuto il mito dell’altezza – ha spiegato a ”Meridiani” (New York, dic. 2010) Rick Bell, il direttore del Center for Architecture – e quindi tutti hanno cercato di stupire costruendo edifici via via più alti. Da qualche anno, però, si tenta di meravigliare con forme architettoniche originali e futuristiche, elaborate e spettacolari”. La nuova architettura sfrutta moltissimo la luce per migliorare la qualità di vita. Per avere una città sempre più vivibile il sindaco Bloomberg (al suo terzo mandato) si è impegnato a realizzare aree verdi e pedonali. “L’importante – osserva Bell – è che ci si sia resi conto che le metropoli sono fatte per le persone e non per le automobili”. Gli spazi verdi in città sono ricercatissimi e curatissimi. Alcuni grattacieli propongono addirittura giardini interni al piano terreno.
Un’opera estremamente interessante è stato il recupero di una vecchia ferrovia sopraelevata trasformata in un lungo e stretto giardino paesaggistico curato e di sicura bellezza denominato High Line nella zona di Chelsea, da cui si guarda sulla città con occhi nuovi e da un appassionante punto di vista. Ma il polmone verde di Manhattan rimane Central Park, un microcosmo di flora e fauna in simbiosi con grattacieli e traffico, inquinamento e turisti. Realizzato nella metà dell’800 offre 340 ettari di alberi, rocce, laghetti, stagni, percorsi pedonali, dove è piacevolissimo rilassarsi dopo le impegnative visite agli straordinari musei che si affacciano sul parco. Nel giro di poche centinaia di metri si trovano quattro musei che offrono una panoramica straordinaria e unica sulla storia dell’arte universale. Consiglio di visitarne uno al giorno il mattino, quando si è freschi, e di dedicare il pomeriggio alla visita dei vari quartieri della città.

Lezione eccezionale di storia dell’arte
Definirei addirittura scoraggiante il Metropolitan Museum, dove potreste trascorrere settimane, perché espone opere eccezionali a partire dall’arte egizia ai nostri giorni. Le audio guide sono mal fatte e trovare un percorso relativamente veloce per apprezzare le opere più straordinarie è difficile. Vale la pena di preparare la visita da casa.
Invece, il museo Frick propone un’incredibile collezione privata esposta in una splendida villa di inizio Novecento. Quasi ogni opera è un capolavoro ed il percorso (circa 3 ore) è agevolato da un’ottima audio guida. Così come al Guggenheim Museum (circa 2 ore) dove la visita consiste in una straordinaria lezione di storia dell’arte sul periodo che va dalla fine dell’800 fino alla Prima Guerra Mondiale (gli allestimenti cambiano periodicamente). Non solo i contenuti, ma anche il contenitore è un’opera artistica di grande valore del famoso architetto Frank Lloyd Wright (1867-1959), padre della moderna architettura americana. Il Museum of Modern Art (MOMA) propone, invece, una panoramica della scultura e della pittura dal 1880 ad oggi con interessanti sezioni dedicate anche al design e alla fotografia (calcolare 3 ore, con una buona audio guida).

Ogni quartiere è un mondo a sé
Manhattan propone una miriade di quartieri diversissimi tra loro che costituiscono ciascuno un mondo a sé e sono estremamente interessanti da esplorare. La parte alta della città (Uptown) che si sviluppa attorno a Central Park è caratterizzata dalle residenze di lusso. Più a nord si trova Harlem, il quartiere dei latinoamericani. Sotto Central Park sorgono i grattacieli, le vie commerciali, gli alberghi più prestigiosi, e Times Square, dove si concentrano teatri, cinema, locali notturni, bar e dove schermi giganteschi proiettano immagini televisive e pubblicità generando un incredibile sfavillio di luci e bagliori. A est di Times Square, all’altra estremità della 42ma strada, si trova la sede delle Nazioni Unite, dove si può visitare la sala dell’assemblea generale, il governo del mondo. Nonostante i suoi detrattori, l’ONU rimane l’unica istituzione a livello mondiale dove tutte le nazioni si possono confrontare pacificamente. Composta da 191 paesi membri, ha come scopo la “difesa della pace e della sicurezza internazionale, la promozione dell’autodeterminazione e della parità dei diritti, dell’incoraggiamento del benessere economico e sociale”. Principi sacrosanti, che purtroppo riesce a garantire solo in parte. Ma almeno ci prova!
Più a sud si trovano i quartieri più pittoreschi. East Village, Greenwich Village, Soho, Lower East Side, Little Italy, Chinatown e Tribeca che presentano ognuno una propria personalità e rappresentano un tassello di quell’unico microcosmo interrazziale e multiculturale che è Downtown (la città bassa). Oggi gli edifici rimessi a nuovo ospitano scintillanti boutiques, hotel, musei dalle forme sperimentali e templi della gastronomia. Certo, perché tra le arti contemporanee, oltre alla moda e al design, va annoverata anche la cucina. Potete trovare ristoranti di tutte le nazionalità: la guida rossa della Michelin (New York City, Restaurants, 2011) propone indirizzi qualificati riguardanti la cucina di 50 paesi. La stessa guida vi propone anche una vasta scelta di alberghi. Vi consiglio di risiedere a Downtown, a Soho o a Greenwich, dove la sera potrete passeggiare lungo vie animate alla ricerca della gastronomia etnica (in generale è preferibile prenotare).
Sulla punta meridionale di Manhattan, dove nel XVII secolo sorsero le prime abitazioni, si trova il cosiddetto Financial District, caratterizzato come la Middle Town da grattacieli modernissimi. È qui che l’11 settembre 2001 avvenne il tragico attacco terroristico alle torri gemelle del World Trade Center ed è qui che nel 1792 ventiquattro intermediari si riunirono per fondare il primo mercato borsistico di New York. Nella camera blindata della Federal Reserve, che sorge a poca distanza (visitabile solo prenotando con settimane di anticipo), sono conservate le riserve auree di un’ottantina di stati. È considerato il maggiore deposito di oro al mondo con un valore di mercato di 90 miliardi di dollari.
A poche centinaia di metri partono i battelli che portano alla statua della libertà e ad Ellis Island, porta d’entrata per milioni di persone in America tra il 1892 e il 1954.

Da vedere
High Line Chelsea La vecchia ferrovia sopraelevata trasformata in giardino
Empire State Building Realizzato nel 1931, per 40 anni rimase l’edificio più alto al mondo
Central Park Un microcosmo di flora e fauna grande 340 ettari
Guggenheim Museum Progettato dal famoso architetto Frank Lloyd Wright
Museum of Modern Art (MOMA) Offre un’importante panoramica di opere dal 1880 ad oggi
Soho La sera potrete passeggiare lungo le vie animate
Financial District Nel 1792 qui venne fondato il primo mercato borsistico di New York
Ellis Island Porta d’entrata per milioni di persone in America

Le guide
Consiglio di utilizzare soprattutto New York Michelin, la guida verde e di leggere il libro di Corrado Augias “I segreti di New York“, Oscar Mondadori.

Altre guide
New York Washington Touring Editore
New York City Lonely Planet
New York Meridiani, dicembre 2010

Per scoprire ristoranti e alberghi affidatevi all’insuperabile guida Michelin rossa dedicata esclusivamente a New York City.

New York riassume il mondo moderno

New York – Le mille storie diverse che vivono in una sola città
New York – Alla riscoperta degli itinerari dei nostri antenati emigranti
New York – Due volti diversi per gli Stati Uniti

È un vero peccato scoprire New York solo dopo aver compiuto i 60 anni, perché è una splendida città che si presta ad essere goduta in diversi momenti della vita. L’ho visitata spinto da mia moglie, che ne ha sempre sentito parlare in famiglia come prima tappa americana dei parenti emigrati in California. Mi aspettavo una città caotica, opprimente. Non ho trovato nulla di tutto questo e ho trascorso una settimana piacevolissima. Ho alloggiato a Soho, nella Downtown, la zona certamente più pittoresca della città, che da una decina di anni è diventata molto alla moda: è vivace ed è la meta preferita di chi ama lo shopping, ma anche di chi apprezza la buona cucina! Fino a non molti anni fa era un quartiere malfamato, dove proliferavano prostituzione, droga e malavita. Oggi si esce tranquillamente la sera per passeggiare lungo stradine vivacissime, animate da negozi, bar e ristorantini molto frequentati dai giovani.
Della Grande Mela si è detto per anni che fosse una città pericolosa. Oggi ci si sposta sia di giorno che di sera senza problemi sentendosi assolutamente a proprio agio. Anche perché i newyorchesi sono molto gentili. Se ti fermi in strada a consultare una piantina, subito qualcuno si avvicina e ti chiede se hai bisogno di spiegazioni. In Ticino, dove i turisti sono a malapena tollerati, abbiamo davvero da imparare a questo proposito…
Come scrive il noto giornalista italiano Corrado Augias nel suo libro “I segreti di New York”, questa “è la città dove è nata la vita moderna, intendo dire il luogo in cui la vita moderna ha assunto, anche se nata altrove, un suo stile, una cifra riconoscibile che le ha consentito di imporsi ovunque come paradigma della modernità”.È stata la prima metropoli (nel 1898 era la città più popolata del mondo): qui sono sorti i primi grattacieli, è stata costruita la prima metropolitana, è stato realizzato il primo ascensore, le prime reti di radiodiffusione hanno trasmesso da New York. Wall Street ha dato le origini alla finanza moderna, Madison Avenue alla pubblicità. La Grande Mela ha visto nascere i più interessanti fenomeni culturali, letterari e visivi del XX secolo. Oltre 300 anni fa, quando era ancora una colonia britannica, qui si posero le basi per la libertà di stampa.
A New York – osserva ancora Augias – l’Europa c’è, si sente, si vede, senza l’Europa New York semplicemente non esisterebbe. Tuttavia anche la presenza europea, quella fisica degli individui e quella immateriale della cultura, su questa sponda dell’Atlantico si è trasformata, resta riconoscibile, è vero, ma è anche diventata un’altra cosa”. Fatta di molte etnie, piena di italiani, di ebrei, di latinoamericani, di cinesi, di neri, di anglosassoni e ora anche di russi di nuova immigrazione, la Grande Mela ha una fisionomia composita dove nessuno sembra riuscire ad imporre il suo tratto distintivo. Secondo un recente studio nella città americana più raccontata dalla letteratura e dal cinema si parlano 800 lingue. Chi conosce bene gli Stati Uniti sostiene che New York non è una tipica città americana. No, certamente, è la capitale del mondo occidentale. E non solo perché ospita le Nazioni Unite, ma perché è un’antologia vivente, nel bene e nel male, dello sviluppo del mondo moderno. Rappresenta un simbolo di quell’America aperta e liberale, che ho amato ed amo, dei Roosevelt, dei Kennedy, e ora anche di Obama. Un paese che persegue gli ideali della libertà e cerca di garantire ai suoi cittadini pari opportunità di partenza. È un’affermazione molto discutibile – ne sono conscio – perché questo stesso paese ha rappresentato a tratti anche la negazione di questi ideali.

New York – Alla riscoperta degli itinerari dei nostri antenati emigranti

di Carla Rezzonico Berri

New York – Le mille storie diverse che vivono in una sola città
New York – New York riassume il mondo moderno
New York – Due volti diversi per gli Stati Uniti

Il pellegrinaggio della memoria inizia a Manhattan, al molo di Battery Park, dove salpano i traghetti per le due isolette della baia dell’Hudson: Liberty Island e Ellis Island La “corona” della Statua della Libertà, miraggio per i viaggiatori di terza classe delle navi, è ritornata ad essere visitabile dopo otto anni di chiusura seguiti al tragico 11 settembre.

Anni ’60, in un villaggio della Valle Verzasca. Arriva la postina con la sua borsa di cuoio, si ferma davanti alla casa e bussa alla porta, che comunque non è mai chiusa a chiave. Lascia sul tavolo della cucina il quotidiano. Di lettere ne arrivano poche, ma questa mattina una busta di colore azzurrino, con un bordo blu e rosso, di carta leggerissima, spicca sopra il giornale. “Hanno scritto ‘quelli d’America’ ” , commenta mio padre.
Una scena così chissà in quante case ticinesi era consueta, quando cellulari e posta elettronica non avevano ancora invaso le nostre giornate e – soprattutto – quando i legami transoceanici creati dall’emigrazione non si erano ancora affievoliti. Sì, perché in ogni casa – o quasi – qualcuno, a fine Ottocento, a inizio Novecento, aveva solcato i mari inserendosi in quell’immenso flusso migratorio che svuotò le regioni più povere del Ticino (e dell’Europa) di forze giovani.
Erano lettere di emigranti che con lungimiranza e un incredibile lavoro di ricerca lo studioso e storico Giorgio Cheda riunì negli anni ’70, prima che quei legami si allentassero con le generazioni che si susseguono e la lingua comune che si perde – e le testimonianze finissero nel fuoco, nella spazzatura o presso qualche antiquario.
Ne avevo un mazzetto anch’io, custodite con cura dalla nonna per decenni e poi affidatemi forse perché le conservassi dopo di lei, a ricordo di quei fratelli andati lontano e mai più tornati.
E così, avendo l’opportunità di visitare New York, la mia “prima America”, non ho potuto fare a meno di andare a rileggerle. Certo, la magnifica porta degli States i miei antenati l’hanno appena intravvista prima di dirigersi verso la California dove erano attesi da parenti e compaesani. Scrive un fratello della nonna, partito appena diciannovenne: “19 novembre 1915. (…) siamo stati sull’acqua 15 giorni per arrivare a New Jork. (…) Quando siamo (s)barcati non abbiamo potuto scrivere perche siamo partiti subito col treno per San Francisco, ed abbiamo impiegato altri 6 giorni di treno”. Ma il viaggio sul mare è stato buono, aggiunge, quasi un divertimento. Non ha avuto i problemi dell’emigrante di Someo che racconta delle acque agitate, di dieci giorni di burrasca continua: “Il giorno 25 si ebbe lo sbarco a New Jork al primo mettere piede fermo in terra stentavo andare in piedi e dondollavo come un ubbriaco” (entrambe le lettere in G. Cheda, L’emigrazione ticinese in California, Dadò 1981).
New York per loro, per tanti emigranti, era solo un luogo di passaggio. Il grande porto che accoglieva milioni di persone in cerca di fortuna. Per noi oggi, alla ricerca di radici familiari, il pellegrinaggio della memoria inizia a Battery Park, dove salpano i traghetti che portano sulle due isolette situate nella baia, alla foce del fiume Hudson: Liberty Island, con la simbolica e celebre Statua della Libertà, e Ellis Island, per lunghi anni ingresso obbligato per chi sbarcava negli Stati Uniti.
Siamo in centinaia, di ogni nazionalità, sull’imbarcazione che percorre lentamente il tragitto che separa Liberty Island da Manhattan. L’emozione di tutti è palpabile: foto a raffica, mentre la grande statua (“Miss Liberty”, la chiamano, e qualche giorno più tardi la vedremo in una bella mostra al museo dei nativi americani rifatta a mo’ di bambola) si avvicina e alle nostre spalle i grattacieli si fanno più piccoli, con il caratteristico profilo che si staglia contro il cielo.
La statua, che celebra l’amicizia franco-americana – fu un dono al Nuovo Mondo della Francia –, è alta 46 metri (a cui si aggiungono 47 metri di piedistallo) e raffigura una donna incoronata che calpesta la tirannia simbolizzata da catene; nella mano sinistra regge la tavola con la dichiarazione dell’indipendenza (1776), con la destra alza la torcia con il fuoco della libertà. La corona ha sette punte, quanti i continenti e i mari verso cui irradia sentimenti di speranza e libertà. Costruita a Parigi, fu donata agli Stati Uniti nel 1883 e varcò l’oceano in casse: fu assemblata a New York e inaugurata nel 1886. Alla sua creazione parteciparono illustri personalità dell’epoca: Édouard René de Laboulaye ne fu l’ideatore, Frédéric Auguste Bartholdi il progettista, Gustave Eiffel, che costruì la famosa torre, partecipò all’impresa quale ingegnere. Costituita da un’armatura in acciaio rivestita da 300 placche in rame, con il tempo ha assunto il caratteristico colore. Negli anni Ottanta, in occasione del suo centesimo compleanno, è stata restaurata.
Per visitarla occorre prenotarsi per tempo. Se l’intenzione è di accedere solamente all’isola per vedere la Libertà da vicino, e da tutte le angolazioni, basta prenotare il traghetto online all’indirizzo www.statuecruises.com (si eviteranno così le code che possono essere assai lunghe). Se invece volete salire sul basamento o mirate addirittura in alto, alla corona, sappiate che le visite sono ridotte a poche centinaia di visitatori al giorno e i tempi di attesa possono essere di settimane.
Ci accontentiamo dell’isola. Un gruppo di turisti si improvvisa coro – niente male, per la verità – e intona canti di libertà. Fioccano gli applausi. Contempliamo a lungo questo simbolo con sentimenti contrastanti: America uguale libertà? Il discorso è lungo e aperto.
Risaliamo sul traghetto e in pochi minuti sbarchiamo a Ellis Island. Qui, dal 1892 al 1954, sono passati circa 20 milioni di persone provenienti da ogni dove, sbarcati in America da navi su cui avevano viaggiato in terza classe (i passeggeri di prima e seconda erano sottoposti a controlli meno severi prima dello sbarco). La struttura è composta di diversi edifici e dal 1990 ospita il museo dedicato all’immigrazione.
L’inizio del percorso museale è di grande impatto. Una catasta di valigie, ceste in vimini, bauli in legno, sacchi e fagotti legati alla bell’e meglio, uno sopra l’altro, di ogni dimensione, di ogni provenienza. Qui si arrivava con bagagli, pene, preoccupazioni, speranze. La chiamano l’isola delle lacrime. Dietro ad ogni arrivo c’è stata una partenza: i familiari lasciati, la casa, gli amici, il proprio paese. Grandi fotografie in bianco e nero mostrano uomini, donne, bambini, vecchi all’arrivo. Sguardi stanchi e timorosi. Occhi che interrogano il futuro. La trafila burocratica per avere accesso al suolo americano comprendeva dapprima una visita medica, in particolare un temutissimo esame degli occhi (si cercavano i segnali di una malattia contagiosa, il tracoma, in presenza della quale il rimpatrio era immediato). Chi non superava questo primo scoglio veniva segnato con un gesso: una X sulla spalla che significava ulteriori approfondimenti. Anziani, malati mentali e contagiosi potevano essere rimpatriati immediatamente (statistiche ufficiali parlano del 2% di esclusi); le immagini dei respinti sono strazianti.
Arriviamo nella vastissima sala di registrazione, la “Registry Room”, e proseguiamo attraverso le sale del museo che seguono i migranti nelle loro peripezie esponendo documenti, immagini, oggetti, testimonianze orali: le lunghissime file agli sportelli, i controlli, la registrazione dei dati anagrafici, il cambio della valuta, l’acquisto dei beni di ristoro e quello dei biglietti ferroviari. Un’avventura che per alcuni durava qualche ora, per altri alcuni giorni. Lasciata alle spalle Ellis Island e sbarcati a Manhattan, di avventura ne iniziava un’altra.
La nostra giornata sulle isole è stata una lezione di storia. Non potevamo non concluderla con una puntata all’American Family Immigration History Center. Con 5 dollari avete accesso ai computer medianti i quali potete cercare le tracce dei vostri antenati nella vastissima banca dati dove sono stati registrati i passaggi a Ellis Island. Si calcola che 100 milioni di americani abbiano qui qualcosa da trovare delle loro radici. Una semplice ricerca permette di avere notizie sui passeggeri qui transitati: dati anagrafici, età all’arrivo, data di arrivo, nome della nave, ecc. Si possono anche acquistare copie facsimile dei documenti. Ricerche simili si possono fare sul sito www.ellisisland.org.

Due volti diversi per gli Stati Uniti

New York – Le mille storie diverse che vivono in una sola città
New York – Alla scoperta degli itinerari dei nostri antenati emigranti
New York – New York riassume il mondo moderno

Vi ho parlato del mio amore per l’America aperta e “liberal” dei Roosevelt, dei Kennedy e ora anche di Obama, un Paese che a tratti ha perseguito e persegue gli ideali di libertà e ha cercato e cerca di garantire ai suoi cittadini pari opportunità di partenza. In modo certamente meno ideologico, questo paese ha rappresentato per molti ticinesi, nel periodo a cavallo tra Otto e Novecento, la speranza di una vita migliore. Si veda a questo proposito l’articolo scritto da mia moglie Carla, nel quale narra la storia dei suoi antenati che hanno lasciato la Verzasca in cerca di fortuna oltre Oceano. Dopo due settimane calcati nella stiva di una nave sono giunti, come molti altri, nel Mondo Nuovo accolti dall’imponente mole della Statua della Libertà. Un monumento emblematico dell’America migliore, quella carica di valori su cui si sono costruite le nostre moderne democrazie. Ma purtroppo c’è stata ed è sempre in agguato anche un’altra America, quella che ha tradito questi suoi ideali per seguire una squallida realpolitik, quella che ha sostenuto spietate dittature in tutto il mondo ed ha contribuito a rovesciare governi democraticamente eletti per sostituirli con feroci giunte militari. Sono queste le due Americhe con cui si è confrontata la mia generazione. Per questo in certi momenti della mia vita ho amato questo paese e in altri l’ho detestato. Quando ero ragazzo, avevo undici anni, J. F. Kennedy è stato eletto presidente. Era il mio primo incontro con la politica. Un bell’incontro. Mi ero comprato il libro con i suoi discorsi e avevo fatte mie molte delle sue idee. Poi l’assassinio. Quel giorno lo ricordo come fosse oggi, sebbene siano passati quasi cinquant’anni. Mentre scrivo mi vengono ancora i brividi alla schiena. Ricordo che piansi moltissimo. Per me era un sogno infranto. Ma poi la speranza tornò con suo fratello Bob. Quando anche lui fu assassinato piansi meno ingenuamente e provai una forte rabbia. Avevo 19 anni: aveva vinto l’America negativa, buia, quella dei potenti che non volevano il progresso e che ricorrevano addirittura al crimine di stato per garantire i loro interessi. Qualche tempo dopo, mentre studiavo scienze politiche a Firenze, fu questa America che con i suoi servizi segreti aiutò a rovesciare Salvador Allende e a portare al potere una delle più odiose dittature dei nostri tempi, quella di Pinochet e dei suoi militari. Per me fu il colpo di grazia. Sperai allora che il progresso potesse giungere dalle nuove interpretazioni del socialismo: quelle dei paesi dell’Europa del nord e quella del compromesso storico di Enrico Berlinguer, che voleva unire le forze progressiste italiane di radice antifascista. Con l’America mi riconcilio a tratti, quando sale un presidente del partito democratico. Apprezzo Obama, che penso stia facendo il possibile in un mondo difficile, dove i valori dell’America aperta e “liberal” trovano tanta difficoltà ad affermarsi. Il mio pensiero torna allora ai nostri emigranti che agli albori del Novecento lasciarono un Ticino non in grado di garantire loro un futuro e partirono all’avventura per un mondo nuovo. Penso alla nostra politica nei confronti degli stranieri, a certe sparate della Lega e dell’Udc e mi vergogno, anzi mi indigno. Un Paese come il nostro, che ha lasciato partire tanti giovani, un secolo più tardi dimentica le sue radici storiche e umilia gli stranieri, siano essi esuli politici oppure gente alla ricerca di un futuro vivibile. Li dileggia nonostante ci aiutino a costruire il nostro benessere. Mi vergogno e mi arrabbio con la mia generazione, che sembra non essere riuscita a trasmettere nemmeno questi valori ai giovani che si accalcano alle urne per votare Lega e Udc. È la chiusura verso quegli ideali rappresentati dalla Statua della Libertà che accoglieva i nostri emigranti nel Mondo Nuovo.