Stati Uniti – Viaggiando nella Storia

Stati Uniti – I miti dell’America
Stati Uniti – La metropoli che inventò i grattacieli

Da Philadelphia, culla della Nazione, a New Orleans, uno dei principali porti delle navi dei negrieri. Poi, lungo le rive del Mississippi visitando le grandi piantagioni dove lavoravano decine di migliaia di schiavi.

Il nostro viaggio inizia nella culla della storia a stelle e strisce: Philadelphia. La città dove nel 1774 si tenne il primo congresso tra i coloni della Nuova America per discutere dei loro rapporti con la corona inglese. Dove nel 1776 il secondo congresso decretò la separazione dalla Gran Bretagna e il 4 luglio adottò la dichiarazione d’indipendenza. Dove nel 1787 venne ratificata la costituzione americana (proprio qui si trovano tutti i documenti originali). Queste tappe fondamentali della storia statunitense si celebrarono nell’Indipendence Hall e dal suo campanile si udì la campana, la Liberty Bell, suonare a festa.
Nel nucleo più antico di questa storica città è stato istituito l’Indipendence National Historical Park, il miglio quadrato più ricco di storia di tutta l’America, costituito da dodici isolati con case in mattoni rossi, nei quali si possono ripercorrere le tappe salienti della nascita della nazione, dal 1776 al 1800, anni durante i quali Philadelphia fu capitale del paese.
Il luogo più magico, dove vennero prese le decisioni più importanti, è l’Indipendence Hall. Accanto si trovano la Congress Hall, dove si tennero le riunioni della prima camera dei deputati e del primo senato e la Old City Hall, sede della prima corte suprema. Non distante è stato costruito un museo per accogliere la Liberty Bell, la campana che scandì i momenti salienti della nascita della nazione, assurta in seguito a simbolo della libertà, anche durante la guerra di secessione per la liberazione degli schiavi.
Non lontano dal centro storico, immersa tra costruzioni moderne, si trova Elfreth’s Alley, una pittoresca viuzza, considerata la più antica degli Stati Uniti, che fu abitata fin dal 1727. Philadelphia offre anche interessanti musei, in particolare il Museum of Art (splendida collezione di arte europea dal 1850 al 1900), e un nuovo centro urbano situato sull’altra sponda del fiume Delaware, con un’imponente City Hall in stile Secondo Impero francese completata nel 1901.

New Orleans culla del jazz
Il nostro viaggio prosegue in aereo verso New Orleans (circa 3 ore di volo), un’altra città che svolse un ruolo importante nella giovane storia americana. Il suo porto, assieme a quello di Charleston (situata a nord est), fu infatti uno dei principali punti di approdo degli schiavi provenienti dall’Africa e dalle colonie francesi a partire dall’inizio del XVIII secolo. Alcuni di loro acquistarono la libertà e – assieme agli abitanti di origine francese e spagnola residenti nel Quartiere Francese – diedero origine alla cultura creola, che tanto influenzò la musica e la gastronomia cittadine, frutto di un crogiuolo di razze e di culture. Gli anglo-americani, che arrivarono verso metà Ottocento, vennero mal tollerati e invitati a insediarsi in “nuovi” quartieri nati attorno al centro storico.
La musica jazz nacque a New Orleans, in questo clima culturale, verso la fine del XIX secolo, influenzata soprattutto dalle popolazioni di cultura africana e si affinò all’inizio del Novecento nei bar e nei bordelli del Quartiere Francese.
New Orleans è una città diversa da tutte le altre degli Stati Uniti. Grazie alla sua mentalità festaiola, si dice che i suoi abitanti prendano la vita con calma (The Big Easy). Distrutta a due riprese nel Settecento da due devastanti incendi (1788 e 1794), la sua architettura tradisce origini europee, piuttosto spagnole che francesi, adattate a un clima subtropicale. Questo si spiega con il fatto che nel 1760 Luigi XV cedette la città con i vasti territori attorno a suo cugino spagnolo Carlo III, il quale la governò fino a pochi mesi prima che Napoleone vendesse per 15 milioni di dollari l’amplissima regione, a cui apparteneva anche New Orleans, al presidente americano Thomas Jefferson.
Fondata nel 1718 su un territorio paludoso, la città deve il suo sviluppo alla posizione vicino alla foce del Mississippi, il fiume più lungo degli Stati Uniti (3778 chilometri). Oggi la sua economia si basa sui pozzi di petrolio del Golfo del Messico e sul turismo (è una delle città più visitate del paese).

Il Quartiere Francese
Nel 2005 l’uragano Katrina ha distrutto l’80 per cento di New Orleans. La città sorge infatti un metro e mezzo sotto il livello del mare e i suoi argini sono stati sopraffatti dalla violenza delle acque. Solo il Quartiere Francese, il centro storico, è stato risparmiato dagli allagamenti. Ed è soprattutto qui che si concentrano le visite turistiche. Lo si può comodamente percorrere a piedi in lungo e in largo in una giornata (musei a parte). Cuore del centro è la francese Place d’Armes, poi ribattezzata Jackson Square in onore di un eroe della liberazione. Sulla piazza si affaccia la cattedrale d’ispirazione neogotica ricostruita nel 1794. Accanto sorgono due palazzi gemelli. Il Cabildo, eretto dal governo spagnolo nel 1799, e il Presbytère edificato nel 1813 per ospitare i vescovi della Louisiana. Oggi il primo fa parte del museo storico cittadino e il secondo presenta un’interessante mostra sul Mardi Gras, il famosissimo carnevale di New Orleans. Sui due lati di Jackson Square si allineano altri due edifici gemelli del 1840 commissionati da una baronessa dopo un viaggio in Europa. I loro balconi in ghisa costituirono un esempio per molti altri palazzi cittadini. Sul quarto lato della piazza scorre il Mississippi, che si può ammirare da un belvedere. Poco lontano sorge il French Market, mercato cittadino nell’antichità, oggi trasformato in centro commerciale con ristoranti.
Ma per scoprire New Orleans bisogna camminare con il naso per aria lungo Royal street, Bourbon street e Lachartres street, risalendo anche le vie perpendicolari a queste tre strade parallele. Si ammirano splendidi palazzi cittadini, molti dei quali, come vedremo in seguito, edificati dai ricchissimi proprietari delle piantagioni di cotone lungo le rive del Mississippi, che amavano trascorrere lunghi periodi in città. Oltre i confini del Quartiere Francese, anticamente abitato soprattutto dai creoli, sorgono le zone costruite dagli angloamericani. L’urbanistica è sempre squadrata ma le case sono lontane le une dalle altre e sono caratterizzate da una loggia sull’entrata. Presentano quelle architetture romantiche che sono passate nell’immaginario collettivo come le classiche case dell’America d’inizio Novecento. È piacevole passeggiare per questi quartieri, soprattutto alla vigilia del 4 luglio, festa dell’indipendenza, quando molte case sono addobbate a stelle e strisce.

Le piantagioni lungo il Mississippi
Il nostro viaggio prevede il trasferimento in automobile da New Orleans a Chicago attraversando gli stati della Louisiana, Mississippi, Tennessee, Kentucky, Indiana e Illinois. Ci rechiamo così all’aeroporto di New Orleans per noleggiare un’automobile, un comodo suv della Dodge. La prima tappa è la cosiddetta River Road, la strada che percorre le rive del Mississippi su entrambe i lati per quasi 200 chilometri da New Orleans a Baton Rouge, lungo la quale si trova una splendida collezione di case coloniche delle piantagioni. Prima della guerra di Secessione (1861-1865) ce n’erano più di 2 mila. Oggi alcune sono state trasformate in musei. L’architettura di queste imponenti residenze, costruite con il lavoro degli schiavi, è in stile europeo, ma adattato al clima subtropicale. L’entrata principale era rivolta verso il fiume per poter accogliere gli ospiti che arrivavano in barca. Per prevenire il propagarsi degli incendi le cucine erano staccate dalla costruzione principale. Gli arredamenti ricordano quelli delle antiche ville aristocratiche e nobiliari europee di campagna. Molte residenze comprendevano un’ala separata, la cosiddetta garçonnière, dove andavano ad abitare i giovani uomini della famiglia al compimento dei 15 anni.
Le spartane case degli schiavi sorgevano a distanza. Si possono spesso visionare documenti sull’acquisto degli schiavi, con indicato il prezzo e le caratteristiche della ‘merce’ umana.
Visitiamo tre piantagioni. Le caratteristiche generali sono le stesse, anche le storie dei loro fondatori di origine europea sono simili, ma ogni “plantation” offre spunti diversi di riflessione.
Laura Plantation è l’unica che propone visite guidate anche in lingua francese. La sua storia è interessante perché la conduzione era stata affidata a donne della famiglia. La regola voleva che per garantirne la continuità la proprietà fosse in mano al figlio più promettente. E qui in ben due occasioni il testimone toccò a due donne, giudicate più idonee, nonostante ci fossero figli maschi a disposizione. Questa piantagione, come molte altre, proseguì la sua attività anche dopo la guerra di Secessione (1861-1865) che decretò la fine della schiavitù. Gli schiavi diventarono però uomini liberi solo sulla carta. Attraverso il sistema della mezzadria i neri continuavano infatti a coltivare la terra ed erano costretti a cedere la gran parte del raccolto al proprietario. Che per giunta li ripagava con gettoni che potevano utilizzare solo al negozio della ‘plantation’, gestito naturalmente dalla proprietà.
A pochi chilometri si può visitare la splendida Oak Plantation, residenza di campagna che veniva abitata per otto, nove mesi all’anno. I suoi proprietari, come quasi tutti i signori delle piantagioni, si trasferivano infatti per lunghi periodi nelle loro ricche residenze a New Orleans o a Natchez, che avevano caratteristiche architettoniche più cittadine. Molto spesso compivano anche lunghi viaggi in Europa. Colpiscono a Oak Plantation gli splendidi viali di accesso alle entrate anteriore e posteriore della casa colonica costituiti da querce centenarie che offrono un quadro indimenticabile.
Un centinaio di chilometri più a nord in direzione di Natchez, a Francisville visitiamo Rosedown Plantation, con il suo bel giardino all’italiana. Ma ciò che più colpisce è l’arredamento. Se in molte altre residenze i mobili non sono più quelli originali, ma sono stati sostituiti con altri dell’epoca, qui il tempo sembra essersi fermato: tutto è rimasto intatto!

Natchez, una perla
Anche se non molto nota Natchez è una vera perla degli Stati Uniti, che custodisce lo splendore architettonico del sud del primo Ottocento, cioè del periodo precedente la guerra di Secession. L’urbanistica è squadrata e urbana come quella di New Orleans, ma le case non sono una a ridosso dell’altra come nelle grandi città e come nel Quartiere Francese. I quartieri sono costituiti da splendide ville con parco caratterizzate da architetture classiche e austere. Passeggiando per le vie del centro si può percorrere un viaggio a ritroso nella storia immaginando quello che doveva essere questa regione nella prima metà dell’Ottocento. Alcune residenze sono diventate musei e si possono visitare. Nel centro cittadino vanno segnalate la graziosa Rosalie e l’imponente Stanton Hall, che si trovano ai due estremi della città. Camminando tra una e l’altra e seguendo una piccola guida distribuita sul posto si possono ammirare le vie più suggestive. Lontane dal centro, immerse in immensi parchi, sorgono invece Rosalie e l’incompiuta Longwood.
A differenza delle residenze che abbiamo visitato nelle ‘plantation’ queste sono ville di città, non di campagna, ma anch’esse si ispirano all’architettura europea. Le storie dei loro proprietari sono molto interessanti. Ascoltandole ci si rende conto come tutto da queste parti sia sempre da riferire alla guerra di Secessione (1861-1865) che contrappose il sud schiavista al nord modernizzatore. Questa regione, prima del conflitto, vantava più milionari di qualsiasi altra parte degli Stati Uniti eccetto New York. Dopo la guerra, con la vittoria dei nordisti e l’abolizione della schiavitù tutto cambiò e molte famiglie persero le loro immense fortune, accumulate sullo sfruttamento degli schiavi. Interessante a questo proposito la storia del proprietario di Longwood, filonordista: come spesso accade nelle guerre civili fu osteggiato dapprima dai sudisti e in seguito anche dai nordisti. Perse così tutta la sua fortuna e non riuscì a ultimare il suo progetto megalomane che prevedeva un’enorme e originalissima casa ottagonale che culminava con una cupola. Anche il ricchissimo proprietario di Stanton Hall, che per la sua residenza fece arrivare dall’Europa gli oggetti più assurdi, perdette tutti i suoi averi in seguito alla guerra.

Itinerario
1° giorno Zurigo-Philadelphia
2° giorno Philadelphia-New Orleans
3° giorno New Orleans
4° giorno (330 km – 4h) New Orleans – River Road – Natchez
5° giorno Natchez
6° giorno (800 km – 9h) Natchez – Nashville (per la Natchez Trace PKWY)
7° giorno (350 km – 4h) Nashville – Lexington
8° giorno (130 km – 2h) Lexington – Frankfort – Louisville
9° giorno (500 km – 5h) Louisville – Chicago
10°-15° giorno Chicago
16° giorno Chicago – Locarno

Per saperne di più
Usa Est La guida verde Michelin, Milano 2009
Stati Uniti centrali The Rough Guide, Milano 2009
Stati Uniti orientali Lonely Planet, Torino 2012
Chicago Lonely Planet, Torino 2014
T. Harry Williams, La guerra civile americana, in Storia del mondo contemporanea Milano 1982

Stati Uniti – I miti dell’America

Stati Uniti – Viaggiando nella storia
Stati Uniti – La metropoli che inventò i grattacieli

Elvis Presley, la musica country, Abramo Lincoln, uno dei padri della nazione, e l’enfant terrible Muhammad Ali, la corsa di cavalli del Kentucky Derby, sono solo alcuni dei grandi simboli che incontriamo nel nostro viaggio da New Orleans a Chicago, attraversando da sud a nord il cuore del paese.

Il nostro viaggio da New Orleans verso Chicago attraversando il centro degli Stati Uniti prosegue verso Nashville, la capitale della musica country e del Tennessee, un altro stato profondamente conservatore, tanto che il parlamento ha recentemente approvato un progetto di legge per rendere la Bibbia testo ufficiale dello stato. Una strada panoramica di 643 chilometri, facilmente percorribili in un giorno, collega Natchez a Nashville. L’arteria, chiusa al traffico commerciale, senza semafori e – attenzione – senza stazioni di benzina, segue un’antichissima pista tracciata da bufali e cacciatori preistorici. La Natchez Trace Parkway, questo è il nome della strada, è curata dal National Park Service e l’erba ai lati è rasa come nei parchi cittadini. Si guida per ore immersi nel verde incrociando poche automobili, qualche motociclista, alcuni ciclisti e senza incontrare nessuna zona abitata, salvo abbandonare la Trace per raggiungere qualche villaggio dove rifocillarsi e soprattutto fare il pieno di benzina. Fino a metà Ottocento, quando i battelli a vapore iniziarono a navigare nelle due direzioni lungo il Mississippi, questa pista era battuta da 10 mila viaggiatori all’anno. Si trattava di coraggiosi avventurieri del Kentucky e in genere del nord, che trasportavano merci lungo il fiume fino a New Orleans, dove vendevano anche le loro chiatte per il legname e ritornavano a casa percorrendo la Trace, perseguitati da maltempo, animali selvatici, indiani ostili e terreno accidentato.

La città natale di Elvis Presley
Poco oltre metà strada tra Natchez e Nashville una piccola deviazione porta a Tupelo, la città natale di uno dei miti dell’America moderna: Elvis Presley. Entrando in città numerosi cartelli stradali indicano “birthplace” (luogo di nascita), dando per scontato che tutti sappiano di chi. Su una collina appena fuori città, in un quartiere povero, sorge la casa della famiglia Presley, dove Elvis nacque l’8 gennaio 1935 assieme al suo gemello Jesse che morì subito dopo avere assaporato la luce del mondo. Si tratta di una piccola abitazione lunga e stretta, costituita da due sole stanze, che i genitori costruirono nel 1934. Il mobilio è stato ricostituito con mobili dell’epoca, così che l’arredamento risulti identico a quello del giorno in cui nacque Elvis. Suggestiva è anche la visita della chiesetta frequentata dai Presley, che è stata trasferita qui dalle vicinanze. Ci si siede sui banchi e ai lati scendono degli schermi su cui viene proiettato un filmato che ripropone l’atmosfera delle tonanti cerimonie religiose a cui assistette il giovane Elvis, ritmate da quei gospel che tanto influenzarono la sua musica in seguito. Il piccolo museo colloca il periodo della gioventù di Elvis nel contesto storico locale e nazionale, illustrando la vita del sud negli anni antecedenti la seconda guerra mondiale. La continuazione della storia incredibile che trasformò un giovane camionista in uno dei miti dell’America moderna la si può seguire al Country Music Hall of Fame & Museum di Nashville, che dedica un’intera sezione a Elvis, mostrando video dei suoi concerti, esponendo le sue chitarre, i suoi stravaganti vestiti e perfino la sua Cadillac con le maniglie d’oro.
Raggiungiamo Nashville in serata. Pernottiamo in un’antica stazione in stile liberty trasformata in albergo. È il 4 luglio, festa dell’Indipendenza. La città, culla del country, è addobbata a festa. Musica nei bar, nei locali notturni della centralissima Broadway Road e in piazza, dove si tiene uno splendido spettacolo di fuochi pirotecnici accompagnati dall’orchestra sinfonica cittadina. Nei locali notturni la musica imperversa fino all’alba. Ne giriamo alcuni: animatissimi. Tutti con musica di buon livello. Ricordate il film “Le ragazze del Coyote Ugly” dove le avvenenti cameriere ballano in modo sfrenato e sexy sul bancone di un bar da cowboy? Ebbene quel locale si trova proprio qui a Nashville.

La culla del country
Nashville è considerata la culla della musica country, nata all’inizio del Novecento come risultato dell’interazione tra le tradizioni musicali folk britanniche e irlandesi importate dai coloni anglosassoni con gli inni spiritual e gospel cantati dagli schiavi afroamericani e dai loro discendenti. Una trasmissione radiofonica (The Grand Ole Opry) trasmessa sin dal 1925 da un’emittente di Nashville e tuttora molto ascoltata negli Stati Uniti ha scoperto in quasi un secolo di storia i grandi cantanti di questo genere. Tanto che gli artisti country potevano dire di avere raggiunto il successo solo dopo avere superato l’esame dell’Opry e aver suonato nel prestigiosissimo Ryman Auditorium, un’ex chiesa in mattoni rossi, che si trova nel centro città e dove si tenevano i concerti. Oggi anche i 2 mila posti messi a disposizione in questa sala non sono più sufficienti e alcuni concerti si tengono in un nuovo gigantesco teatro fuori città.
Ma anche lungo tutta la centralissima Broadway vi sono bar dove musicisti di talento suonano dopo il tramonto. Nel vastissimo Country Music Hall of Fame & Museum il genere viene rivisitato in tutti i suoi aspetti, le sue tendenze ed evoluzioni. Raccoglie cimeli di grandi star (abiti, stivali, strumenti, persino automobili), filmati, fotografie e registrazioni, che si possono ascoltare in sofisticate cabine.
È davvero peccato avere poco tempo a disposizione, ma il nostro viaggio verso Chicago è ancora lungo. La nostra prossima tappa ci porta nel Kentucky, la terra dei cavalli purosangue. Ma prima di raggiungere Lexington ci imbattiamo in un altro mito: quello del presidente Abramo Lincoln.

Lincoln, padre della democrazia
Una deviazione di pochi chilometri dalla statale US-31 East ci porta al National Historic Site dove si trova una riproduzione simbolica della capanna in cui il 12 febbraio 1809 nacque Abramo Lincoln, il padre dell’America moderna, il presidente che sconfisse il fronte sudista nella guerra di Secessione (1861-1865) e decretò la fine della schiavitù. La capanna in legno è racchiusa all’interno di un Memorial Building, monumentale ricostruzione di un tempio greco in granito e marmo con 56 gradini, che simboleggiano gli anni della vita di Lincoln, assassinato a Washington il 14 aprile 1865. La capanna dove Lincoln trascorse la sua adolescenza (pure riprodotta) si trovava a pochi chilometri di distanza dal luogo di nascita, in un’altra splendida zona di campagna.
Risalgono a questo periodo i suoi primissimi di schiavi incatenati e spinti a forza lungo la strada. “Il compito di Lincoln, – scrive T. Harry Williams nel Volume X di “Storie del mondo contemporaneo” della Cambridge – il più difficile che sia toccato a uno statista americano, era quello di conservare la nazione. Egli doveva ricostruire l’Unione (dalla quale gli Stati schiavisti del sud si erano scissi ndr.), dirigere la guerra civile e nello stesso tempo dar vigore all’unità di propositi del popolo”. Ci riuscì grazie alle sue “qualità di statista – forza morale e intellettuale, profonda comprensione dello spirito della sua epoca e dell’opinione pubblica, straordinaria abilità politica – e alla volontà di impiegare queste qualità nella realizzazione del suo proposito”. Ma Lincoln possedeva anche “un’altra qualità dello statista, la passione. La sua era la passione della democrazia – conclude T. Harry Williams – del più grande esempio mondiale di democrazia, l’Unione americana, quella che egli chiamava l’ultima, la migliore speranza della terra”.

Nel regno dei cavalli
Proseguiamo verso Lexington nel Kentucky, considerata “la capitale mondiale del cavallo”, attraversando il cosiddetto Bluegrass Country. Deve il suo nome al fatto che in primavera i pascoli fioriscono di minuscoli boccioli azzurri. È un susseguirsi di prati ondulati, punteggiati di allevamenti di cavalli – sembra che ce ne siano oltre 450 – recintati da steccati bianchi, con al centro belle dimore coloniche. In questa regione si pratica l’allevamento da oltre 250 anni. Il Kentucky Horse Park, situato sui terreni da pascolo di un ex allevamento, è il luogo in cui si celebra il cavallo in tutte le sue forme: un grande museo ne illustra la storia e l’evoluzione, la Parade of Breeds (Parata delle razze) presenta alcune delle 50 razze di cavalli ospitate nel parco, nella Hall of Champions vengono invece fatti sfilare alcuni grandi campioni documentando i loro successi con filmati. La visita permette anche di girare liberamente per le scuderie che ospitano centinaia di purosangue.
Gli amanti delle corse non possono mancare di visitare a Louisville, che dista circa un’ora di automobile, il Churchill Downs dove il primo sabato di maggio si celebra uno degli appuntamenti ippici più importanti al mondo: il Kentucky Derby, il più vecchio evento sportivo degli Stati Uniti, praticato sin dal 1875, con in palio un premio di 1 milione di dollari. Si può visitare l’ippodromo dove in 2 minuti i campioni percorrono i 2 chilometri della corsa e il cavallo vincitore viene sommerso da una pioggia di petali di rosa. Un museo racconta la storia dei cavalli e dei fantini più celebri, mentre un video a 360 gradi permette di vivere l’atmosfera che si respira in quel luogo il primo sabato di maggio, quando l’élite della società del sud si dà appuntamento per assistere al grande evento, preceduto da un festival che dura ben due settimane.

Alì, l’enfant terrible
La simpatica Louisville è famosa anche in quanto città natale di Muhammad Alì, figura carismatica, provocatoria e controversa sia dentro il ring che fuori. Il suo impatto mediatico non ha avuto eguali nel mondo sportivo. Detentore del titolo mondiale dei pesi massimi a intervalli tra il 1964 e il 1978, campione olimpionico nel 1960 a Roma, Muhammad Alì è stato personaggio importante anche per il suo attivismo politico contro la segregazione razziale e molto discusso per la sua decisione di abbracciare la religione mussulmana nel 1975 abbandonando il suo nome di nascita di Cassius Clay. Il suo rifiuto nel 1967 di arruolarsi per il Vietnam e la sua conseguente condanna che lo tenne lontano per 4 anni dal ring lo resero un’icona della controcultura americana degli anni Sessanta. La fondazione da lui creata ha costruito un vastissimo museo, dove si possono ripercorrere le tappe fondamentali della sua movimentata vita utilizzando i più moderni ritrovati della multimedialità. La fondazione ha come scopo di “preservare gli ideali del suo fondatore, di promuovere il rispetto, la speranza e la comprensione e di indurre adulti e bambini a realizzarsi al meglio (to be as great as they can be)”.
Poco distante dal Muhammad Alì Center, sulla Mainstreet di Louisville, si trova il museo del baseball, che espone all’entrata un’enorme mazza alta 36 metri.
Il nostro viaggio prosegue verso Chicago, che dista circa 500 chilometri, percorribili su comode autostrade.

Itinerario
1° giorno Zurigo-Philadelphia
2° giorno Philadelphia-New Orleans
3° giorno New Orleans
4° giorno (330 km – 4h) New Orleans – River Road – Natchez
5° giorno Natchez
6° giorno (800 km – 9h) Natchez – Nashville (per la Natchez Trace PKWY)
7° giorno (350 km – 4h) Nashville – Lexington
8° giorno (130 km – 2h) Lexington – Frankfort – Louisville
9° giorno (500 km – 5h) Louisville – Chicago
10°-15° giorno Chicago
16° giorno Chicago – Locarno

Per saperne di più
Usa Est La guida verde Michelin, Milano 2009
Stati Uniti centrali The Rough Guide, Milano 2009
Stati Uniti orientali Lonely Planet, Torino 2012
Chicago Lonely Planet, Torino 2014
T. Harry Williams, La guerra civile americana, in Storia del mondo contemporanea Milano 1982

Chicago – La metropoli che inventò i grattacieli

Stati Uniti – Viaggiando nella storia
Stati Uniti – I miti dell’America

Città intelligente, dinamica, aperta, dove si può “tastare il polso dell’America”. Ricca di parchi e straordinari musei, offre una delle più pregevoli e raffinate combinazioni di architettura moderna al mondo. Fu qui che, a fine Ottocento, l’urbanistica ha cambiato volto.

Yes, we can”. Ricordate lo slogan con cui Barak Obama ha vinto le elezioni presidenziali americane nel 2008? Ebbene questo potrebbe essere anche il simbolo della sua Chicago. Una città intelligente, dinamica, aperta, partecipativa. Un esempio sopra tutti può spiegare e giustificare questi aggettivi. Nel 1871 un terribile incendio devastò il centro città: andò distrutto il 70 per cento delle costruzioni, che erano in legno. La forza propositiva di questa metropoli l’aiutò a rinascere in tempi brevi: in un solo anno vennero costruiti 10 mila nuovi edifici e nel giro di poco tempo la popolazione era raddoppiata. Nel 1893, poco più di vent’anni dopo la terribile catastrofe, venne organizzata l’Esposizione Universale Colombiana per dimostrare al mondo che Chicago era risorta. Con sfoggio di architettura neoclassica e di tecnologie moderne la manifestazione ebbe oltre 27 milioni di visitatori, che consacrarono la città a livello internazionale. Il talento di un gruppo di giovani architetti creò la Chicago School of Architectur. Una scuola di grande importanza per l’architettura moderna. Fu infatti in questa città che negli anni Ottanta dell’Ottocento sorse il primo grattacielo, stimolato dalla ricerca di nuovi spazi che si potevano trovare solo costruendo in altezza. I primi edifici avevano ancora una struttura tradizionale, retta da spesse pareti alla base che reggevano il peso dell’edificio, fino a quando nel 1884 l’architetto William Le Baron Jenny elaborò la nuova tecnologia dello scheletro in acciaio a cui venivano ancorate le pareti interne. Tecnologia che in seguito si perfezionò ulteriormente per meglio radicare gli edifici nel terreno paludoso e per ridurre gli effetti dei venti. Sì, perché Chicago viene anche definita “la città del vento”. I progressi nella progettazione di ascensori più efficienti permisero sempre più ai grattacieli di crescere in altezza. Nel Monadnock Building si può vedere nello stesso edificio una parte in muratura del 1891 e la rivoluzionaria struttura con scheletro in acciaio di due anni dopo. Una passeggiata nel centro di Chicago permette di ammirare molti esempi che illustrano lo sviluppo dei grattacieli da fine Ottocento ai giorni nostri.
Come affermava la famosa attrice Sarah Bernhardt a Chicago si può tastare “il polso dell’America”. Spesso viene chiamata la seconda, pensando alla rivale New York come alla prima. Ma tra le due città, entrambe estremamente affascinanti, esiste a mio parere una diversità: Chicago è profondamente americana, mentre la metropoli della grande mela è universale.
Per visitare Chicago è necessaria almeno una settimana. La città è ricca di spazi verdi soprattutto lungo le rive del Michigan, quinto bacino d’acqua al mondo, che assomiglia più al mare che ai nostri laghi. Tra una visita e l’altra ci si può sempre rilassare in uno degli ampi parchi senza sentirsi oppressi dal caos del centro urbano, ricco comunque di arterie molto ampie che rendono piacevole anche passeggiare in città. Un’altra caratteristica di Chicago è la ricchezza di musei con concezione moderna (purtroppo ancora molto rari in Europa), che trasformano spesso la visita in un’esperienza interattiva.
Si consiglia di scegliere un albergo sulla parte nord della Michigan Avenue, lungo il cosiddetto Magnificent Mile, che consente di effettuare tutte le visite a piedi, ricorrendo raramente all’uso dei taxi che hanno per altro costi molto ragionevoli. Acquistando una Chicago Go Card (190 dollari per 5 giorni) si accede a musei, talvolta evitando le code, alle crociere, ai bus turistici e alle visite guidate.

Un tuffo nella storia
La nostra visita inizia dal Chicago History Museum, che si trova a nord della città. Prima di entrare nel vivo dell’argomento offrendo un’accurata ricostruzione della storia cittadina, questo museo propone un’interessante riflessione critica sul valore della libertà. Un’altra dimostrazione di come questa città desideri mostrarsi come modello di apertura e democrazia. Il tema viene affrontato toccando i momenti cruciali della storia americana: le lotte sindacali, quelle per i diritti civili e per il suffragio alle donne, per la libertà delle comunità indiane, contro la schiavitù, contro la repressione durante la seconda guerra mondiale nei confronti dei cittadini americani di origine giapponese.
Il museo ripercorre quindi le tappe salienti di una storia quasi bicentenaria, che iniziò nel 1837 quando Chicago ottenne lo statuto di città e contava 4 mila abitanti. Lo sviluppo nell’Ottocento era legato ai trasporti, sia via fiume, che collegavano il centro degli Stati Uniti al Mississippi, sia ferroviari: nel 1860 Chicago era diventato il più importante snodo al mondo. Fu soprattutto grazie alle vie di collegamento che la città divenne un crogiolo di idee innovative, che le permisero di risollevarsi dopo il terribile incendio del 1871.
Il percorso museale si conclude con un altro inno alla libertà rappresentato dai discorso di uno dei padri dell’America: il presidente Abramo Lincoln, l’uomo a cui si deve l’abolizione della schiavitù e la creazione di uno stato moderno fondato sulla libertà e sulle pari opportunità: utopie purtroppo non sempre rispettate.
L’History Museum si trova ai bordi dell’amplissimo Lincoln Park, che ospita lo zoo, diverse spiagge lacustri e confina con un animato quartiere della città, dove ha sede lo stadio di baseball degli amatissimi Chicago Cubs.
Dopo la visita al museo e un momento di rilassamento nel parco, la nostra giornata prosegue con una passeggiata lungo l’ampio e frequentatissimo Magnificent Mile, la parte nord di Michigan Avenue, elegante mecca dello shopping, su cui si affaccia il John Honcock Center, uno dei grattacieli più rinomati della metropoli, da cui si gode una vista imperdibile. All’ultimo piano un ottimo ristorante abbina panorama e gastronomia.
A piedi raggiungiamo poi Navy Pear, l’animato molo sul lago, che attira folle di visitatori, a cui offre una miriade di negozi e ristorantini (soprattutto fast food: siamo negli Stati Uniti…) e la famosissima ruota panoramica alta 45 metri. Se avete fortuna, al tramonto dal Navy Pear, potete ammirare lo splendido skyline di Chicago che colora la città di rosso.

Un viaggio nell’architettura
Una seconda giornata la consacriamo esclusivamente a una delle più pregevoli e raffinate composizioni di architettura moderna del pianeta: il centro di Chicago, che, come abbiamo scritto sopra, ha visto nascere i primi grattacieli al mondo.
La Chicago Architecture Fondation (224 South Michigan Avenue) organizza interessanti escursioni a piedi (circa 2 ore), con guide anche in francese e italiano, nel Loop (centro storico) e una suggestiva crociera (circa 90 minuti) lungo i canali che percorrono la città. Due proposte per ammirare e capire l’evoluzione architettonica e tecnica dei grattacieli a partire dalla fine dell’Ottocento fino ai giorni nostri. Durante il trasferimento tra la sede della Chicago Architecture Fondation e l’imbarco per la crociera si attraversa il Millenium Park, un’altra dimostrazione del dinamismo di questa città. Fino a non molti anni fa su quest’area, che gode di un’interessante posizione centrale sorgeva un brutto caseggiato. Con un ambizioso progetto da 500 milioni di dollari questo luogo è stato trasformato in uno dei maggiori centri di attrazione cittadina. Si tratta di uno straordinario complesso di luoghi d’interesse, una sorta di galleria d’arte all’aperto. Ospita uno splendido auditorium, opera di Frank Gehry, dove in estate si tengono concerti a ingresso libero; una fontana di Jaume Plensa alta 15 metri costituita da due torri di mattoni in vetro, da cui sgorgano cascate sotto le quali nelle calde giornate si rinfrescano grandi e piccini; la goccia d’acqua più pesante al mondo (110 tonnellate), la scultura in argento liscio di Anish Kapoor, dove i turisti si fotografano specchiati e deformati; la passerella sopraelevata design di Gehry, che collega il centro città alla riva del lago, da cui si gode una splendida vista sullo skyline cittadino.

Sono musei? No, experience!
Alcune giornate a Chicago vanno consacrate alla visita dei principali musei della città, che si trasformano in vere e proprie “experience”, a seconda dei propri interessi.
Iniziamo dall’Art Institut of Chicago, uno dei principali musei al mondo. Come al Louvre di Parigi o al Metropolitan di New York è necessario operare delle scelte se si ha una sola giornata a disposizione. E allora vale certamente la pena di iniziare dalle sale dedicate ai pittori impressionisti. Qui si trova infatti la principale collezione al mondo dopo quella del Musée d’Orsay di Parigi. Come mai? Come si sa i pittori impressionisti erano fortemente osteggiati in Francia e molti sono morti in miseria. I loro mercanti, trovando difficoltà a vendere le opere nel vecchio continente, si rivolsero così al nuovo, dove ebbero maggiore fortuna. La collezione delle opere di Monet dell’Art Institut è eccezionale. Ma questo museo propone anche capolavori di Caillebotte, Seurat, Degas, Gauguin, Matisse, Renoir, Manet e Van Gogh (un’intera sala con una decina di tele è dedicata a quest’ultimo). Molto interessante anche la collezione degli artisti americani influenzati dagli impressionisti.
Un altro museo dove si potrebbero trascorrere giornate intere è il Field Museum of Natural History, che conta ben 36 mila metri quadrati di sale. Non ci si lasci scoraggiare da queste dimensioni e non si manchi di rendere visita a Sue, il più completo scheletro (perfettamente conservato) di Tyrannosaurus rinvenuto finora. È stato ritrovato nel Sud Dakota, è vissuto tra i 67 e i 65 milioni di anni fa, è lungo 12,8 metri, alto 4 e si pensa che pesasse 7 tonnellate. Interessante anche l’esposizione Evolving Planet, che narra la vita sulla terra dall’epoca prima dei dinosauri fino all’era glaciale.
Dopo una passeggiata nel Grant Park, gli appassionati di astronomia non possono rinunciare a visitare nelle vicinanze l’Adler Planetarium&Astronomy museum, il più vecchio planetario dell’emisfero occidentale. Anche i non esperti in materia rimangono affascinati dagli sky shows, spettacoli che si tengono sotto la cupola originale del planetario o in uno dei teatri con il soffitto a volta dove vengono proposte visioni in 3D. Prima di lasciare il Planetarium vale la pena di fermarsi a contemplare non più il cielo, ma lo skyline cittadino, che da qui propone una delle sue migliori prospettive.
Altre esperienze imperdibili si possono vivere al Museum of Science and Industry, dove si ammirano un sottomarino tedesco della seconda guerra mondiale, alcune navicelle spaziali del programma americano di conquista dello spazio, il primo treno veloce al mondo e dove si può partecipare a “experiences” come la visita di una miniera di carbone, che è stata completamente ricostruita con tanto di cunicoli e di trenini-carrelli che trasportano i visitatori.

Da non perdere
Una giornata meno impegnativa può essere dedicata alla visita dello Shee Aquarium e della Willis Tower.
L’acquario coperto più grande al mondo possiede 250 mila animali acquatici di 2000 specie. Anche qui, come nei principali musei, vengono organizzati diversi show durante la giornata, come il pasto degli squali o il suggestivo spettacolo dei delfini e delle orche.
Non si può infine lasciare Chicago senza essere saliti sulla famosa Sears Tower, oggi Willis Tower, uno dei grattacieli più alti al mondo. Bisogna prendersi il tempo necessario perché le code possono essere molto lunghe, ma la spettacolare vista da quota 441 metri di altezza ripaga ampiamente dell’attesa.

Itinerario
1° giorno Zurigo-Philadelphia
2° giorno Philadelphia-New Orleans
3° giorno New Orleans
4° giorno (330 km – 4h) New Orleans – River Road – Natchez
5° giorno Natchez
6° giorno (800 km – 9h) Natchez – Nashville (per la Natchez Trace PKWY)
7° giorno (350 km – 4h) Nashville – Lexington
8° giorno (130 km – 2h) Lexington – Frankfort – Louisville
9° giorno (500 km – 5h) Louisville – Chicago
10°-15° giorno Chicago
16° giorno Chicago – Locarno

Per saperne di più
Usa Est La guida verde Michelin, Milano 2009
Stati Uniti centrali The Rough Guide, Milano 2009
Stati Uniti orientali Lonely Planet, Torino 2012
Chicago Lonely Planet, Torino 2014
T. Harry Williams, La guerra civile americana, in Storia del mondo contemporanea Milano 1982

Perù – Il Machu Picchu gioiello Inca

Perù – Le misteriose Linee di Nazca
Perù – Tutto il fascino dell’Amazzonia
Perù – La dura impronta spagnola sul Perù precolombiano

A 180 chilometri dalla città di Cuzco, considerata l’ombelico del mondo, in fondo alla Valle Sacra e circondata da una magica atmosfera, sorge una montagna interamente scolpita. Visitarla è un’esperienza indimenticabile.

Quando si parla del Perù il pensiero corre subito al Machu Picchu e alla civiltà inca. E in effetti la visita alla Montagna Sacra non delude le aspettative. Nonostante il fortissimo afflusso di turisti – alcune migliaia al giorno – Machu Picchu grazie alla sua magia e alla sua vastità regge bene l’impatto. È situato in fondo a una strettissima valle percorribile solo in treno e chiusa da imponenti montagne con una vegetazione amazzonica. La cima di una di queste vette, che si raggiunge in corriera dal villaggio turistico di Aguas Caliente o dopo un affascinante trekking di quattro giorni che percorre tutta la Valle Sacra, è stata completamente costruita dalla civiltà inca. Quando si arriva su quella cima, nonostante ci si trovi a un’altezza di soli 2400 metri, sembra di avere raggiunto il tetto del mondo. Tutt’attorno, altre montagne più alte, che il mattino sono sovente immerse nella nebbia, conferiscono al luogo un’atmosfera ancora più suggestiva. In basso le acque del Fiume Sacro che scorre sinuoso verso il Rio delle Amazzoni circondano la montagna. I palazzi, i templi e i terrazzamenti sono interconnessi da più di un centinaio di scalinate in pietra a forte pendenza. Colpisce la capacità degli Inca di integrare la natura esistente nei loro progetti architettonici. Attorno a un’enorme roccia già presente sul luogo sono per esempio stati costruiti tre templi (dedicati al sole, alla terra e all’acqua) incorporando questo elemento naturale considerato sacro nell’intervento architettonico dell’uomo. In qualsiasi punto ci si trovi si possono ammirare terrazzamenti spettacolari che sembrano tagliare i pendii scoscesi, trasformando le montagne in giardini pensili. La cittadella, progettata ed edificata a metà del Quattrocento dall’imperatore Pachacuti, non fu mai trovata dagli Spagnoli e fu quindi risparmiata fino alla sua scoperta nel 1911 dalle razzie dei conquistadores e dei tombaroli. A riportare alla luce le rovine ricoperte da una fitta vegetazione fu l’esploratore statunitense Hiram Bingham, convinto di aver scoperto la favolosa città perduta di Vilcabamba, ultimo rifugio degli Inca perseguitati dai conquistadores. Questa tesi venne però smentita in seguito dagli archeologi, nonostante siano tuttora costretti ad affidarsi a supposizioni sulla natura del Machu Picchu, dato che la civiltà inca, così come quelle che la precedettero, non possedeva un sistema di scrittura e quindi non tramandò le sue conoscenze. Ciò nonostante la presenza di numerosi edifici sacri indica che si trattava di un centro cerimoniale, anche se nelle urbanizzazioni inca non esisteva quasi mai una rigida separazione tra il sacro e ciò che apparteneva al mondo del commercio e dell’economia. Di conseguenza questa cittadella è considerata dagli archeologi un classico e ben conservato esempio di centro urbano inca suddiviso in quattro zone: abitativa, agricola, sacra (con particolare attenzione all’astronomia) e artigianale.

Cuzco, ombelico del mondo
Se Machu Picchu è il maggiore gioiello della cultura inca giunto fino a noi, il centro dell’impero incaico distava quasi 200 chilometri – oggi percorribili in treno – e si trovava a Cuzco. Secondo la leggenda, nel XII secolo, Inti, il dio sole, alla ricerca di un territorio per il suo popolo guardò verso la terra e creò Manco Càpac, il primo inca, e Mama Ocllo, sua sorella e consorte. La coppia nacque sull’Isola del Sole nel Lago Titicaca, da dove intrapresero un lungo cammino. Inti consegnò a Manco una verga d’oro chiedendogli di trovare un terreno in cui sarebbe riuscito a conficcarla fino a farla scomparire: quello sarebbe stato l’ombelico del mondo. Nacque così l’affascinante città di Cuzco, indiscussa capitale archeologica del continente sudamericano e oggi una delle città più turistiche della terra.
L’espansione che portò alla creazione dell’impero inca iniziò solo con il nono re Pachacutec, che si rivelò anche un eccellente urbanista, ideando Cuzco a forma di puma: un animale sacro. Fino ad allora gli Inca avevano dominato solo una piccola zona attorno alla capitale. Il successore di Pachacutec, suo figlio Tùpac Yupanqui nella seconda metà del XV secolo conquistò altri territori. Alla sua morte l’impero si estendeva da Quito in Ecuador fino a sud di Santiago del Cile, passando per tutta la costa dell’oceano Pacifico.
Gli Spagnoli, guidati da Francisco Pizarro, conquistarono Cuzco l’8 novembre del 1533 con un manipolo di uomini. Ma dopo avere occupato e saccheggiato la città rivolsero la loro attenzione soprattutto alla nuova capitale Lima e Cuzco entrò in un lento letargo diventando una delle tante città coloniali. Nel corso delle guerre di conquista gli Spagnoli avevano saccheggiato oro e argento e avevano letteralmente smontato gli edifici e utilizzato i raffinati materiali per costruire chiese cattoliche e palazzi. Oggi Cuzco è certamente la città del Perù che testimonia in modo più affascinante i fasti dell’architettura coloniale. Le numerose vie che convergono sulla splendida e pittoresca Plaza de Armas, cuore della Cuzco inca e in seguito fulcro della città dei conquistadores, conducono nei vari quartieri che risalgono all’epoca della conquista spagnola. Ma allo stesso tempo, in città e negli immediati dintorni, rimangono importanti testimonianze dell’impero inca e della curiosa urbanistica a forma di puma, con la piazza centrale situata nella posizione del petto dell’animale sacro e la testa nella collina dove si trova la fortezza di Sacsayhuamán.

Nel cuore della civiltà inca
A pochi passi da Plaza de Armas, nella posizione delle zampe posteriori del puma, si trovava Koricancha, il più ricco tempio dell’impero inca che aveva le pareti completamente rivestite in oro e argento (si parla di 700 lamine d’oro massiccio del peso di 2 chilogrammi ciascuna), dove si ritiene fossero custoditi i corpi mummificati di diversi sovrani inca e dove i sacerdoti sembra studiassero le attività dei corpi celesti. I blocchi dei muri in pietra levigata sono incastrati in maniera così precisa che tra uno e l’altro non si riesce a inserire un foglio di carta. La posizione di questo tempio era stata accuratamente studiata: dal complesso si diramavano dozzine di sentieri sacri diretti verso oltre 300 centri cerimoniali o altri luoghi di culto. Costruito all’inizio del XV secolo, pochi decenni più tardi fu saccheggiato dai conquistadores, in parte distrutto e in seguito trasformato in chiesa cattolica dai domenicani. Oggi il sito si presenta come una strana combinazione di elementi architettonici inca e coloniali, sormontati da un modernissimo tetto protettivo in metallo e vetro.
Su una collina, attualmente nella periferia della città, in corrispondenza della testa del puma, si trova Sacsayhuamán, che fu una fortezza, ma probabilmente anche un centro cerimoniale. Le sue mura corrono a zig zag per 600 metri sull’altipiano e sono considerate uno dei grandi tesori archeologici del Sud America, anche se della struttura originale non rimane che il 20 per cento. Dopo la conquista gli Spagnoli “smontarono” infatti molti muri, convinti che fossero opera del diavolo, e utilizzarono le pietre perfettamente levigate per costruire le loro case a Cuzco, ma lasciarono sul posto i massi più imponenti perché erano troppo pesanti: mediamente 300 tonnellate ciascuno. Ci si chiede come avessero fatto gli Inca a trasportarli fin lì dalle cave distanti diversi chilometri.
Ai margini della città si possono visitare altri luoghi sacri. A Qenqo su un altare ricavato dalla roccia e dominato da una scultura raffigurante un puma si effettuavano supplizi di animali, il cui sangue scorreva verso una grotta sottostante lungo canali scavati nel sasso. A Puka Pukara (Forte Rosso), lungo la strada che porta alla Valle Sacra, venivano probabilmente ospitati i viandanti. Mentre a Tambo Machay, un luogo soprannominato “il Bagno degli Inca”, si può ammirare un tempio dedicato al culto dell’acqua, che sgorga tuttora dalla roccia.

Verso la Valle Sacra
Raggiungiamo la valle dove scorre il Fiume Sacro uscendo a ovest di Cuzco per passare da Maras, una località famosa per la sua miniera di sale. Il luogo è particolarmente suggestivo. In questa ripida vallata gli Inca hanno ricavato dei terrazzamenti, dove hanno scavato numerose vasche collegate tra loro da canali scolpiti nella roccia. L’acqua che sgorga dalla sorgente e finisce nelle vasche è fortemente salata (molto più di quella del mare), perché lungo il suo percorso attraversa una montagna costituita di sale. Una volta raccolta nelle vasche viene lasciata evaporare al sole per ottenere un sale purissimo. Ancora oggi i contadini del vicino villaggio utilizzano queste antiche saline degli Inca, gestendole in cooperativa come attività accessoria.
Da Maras la strada scende ripida verso la Valle Sacra, dove si raggiunge l’interessante sito archeologico di Ollantaytambo. La fortezza-tempio, che si trova in posizione strategica su un’antica via d’accesso alla regione amazzonica, fu l’ultima roccaforte inca a resistere all’esercito spagnolo. Osservandola si resta colpiti dai terrazzamenti in pietra che si stagliano contro il profilo naturale dei dirupi. La zona del tempio, finemente lavorata, si trova in cima alle terrazze. All’epoca della conquista erano in costruzione delle mura che non furono mai ultimate. In alto, sopra l’altra sponda del Fiume Sacro, si trovano altri edifici inca in rovina e una inquietante roccia scolpita, che rappresenta Wiracocha: il dio creatore del Perù osserva i turisti con sguardo particolarmente severo.
A Ollantaytambo termina la strada carrozzabile e parte il treno che porta ad Aguas Callente, da dove si sale in corriera al Machu Picchu. Oltre il villaggio di Ollataytambo la Valle Sacra si restringe fino a coincidere con il corso del tumultuoso fiume immerso in una vegetazione subtropicale, circondato da montagne torreggianti e dominato dalla cima innevata del Salcantay.

Itinerario
1° giorno Ticino-Lima
2° giorno Lima
3° giorno Lima-Isole Ballestas-Nazca
4° giorno Nazca
5° giorno Nazca-Arequipa
6° giorno Arequipa-Canyon del Colca
7° giorno Canyon del Colca-Lago Titicaca (Puno)
8° giorno Lago Titicaca
9° giorno Lago Titicaca-Cuzco
10° giorno Cuzco
11° giorno Cuzco-Urubamba-Aguas Calientes (Machu Picchu)
12° giorno Machu Picchu-Cuzco
13° giorno Cuzco-Puerto Maldonado (Amazzonia)
14° giorno Amazzonia
15° giorno Puerto Maldonado-Lima
16° e 17° giorno Lima-Ticino

Per saperne di più
Perù Lonely Planet, Torino 2010
Perù Rough Guides, Feltrinelli, Milano 2013
Perù National Geographic, Vercelli 2010

Perù – La dura impronta spagnola sul Perù precolombiano

Perù – Il Machu Picchu gioiello Inca
Perù – Le misteriose Linee di Nazca
Perù – Tutto il fascino dell’Amazzonia

Quando si parla del periodo precolombiano in Perù il pensiero corre subito all’impero Inca, nonostante questa civiltà fosse stata preceduta da altre culture altrettanto affascinanti ed estremamente evolute. Ma allora perché degli Incas sappiamo molto, mentre per quanto riguarda i loro antenati siamo costretti ad attenerci alle ipotesi degli archeologi? Sostanzialmente perché tutte queste popolazioni, Incas inclusi, non avevano un sistema di scrittura. Della giovane civiltà Inca, nata un secolo prima dello sbarco dei conquistadores, sappiamo molto perché quando gli Spagnoli condotti da Pizarro conquistarono il Perù nel XVI secolo avevano cronisti al seguito, che ci hanno trasmesso numerose testimonianze raccolte all’epoca. I cronisti, in mancanza di testi scritti, basavano le loro ricerche su fonti orali, che li informavano in modo preciso sulla cultura Inca, ma non avevano nessun interesse a raccontare la lunga e complessa storia dei popoli precedenti. Il loro intento era di proporre agli europei un’immagine gloriosa di sé, presentando le Ande come una terra popolata da selvaggi ai quali solo l’arrivo degli Inca portò la luce della civiltà.
Gli Spagnoli dominarono le colonie latinoamericane per quasi quattro secoli, fino all’inizio dell’Ottocento. In Perù la maggior parte delle realizzazioni architettoniche Inca vennero letteralmente smontate dagli invasori e con quel raffinato materiale – pietre perfettamente levigate – vennero costruiti i palazzi e le chiese cattoliche dei conquistadores. Per questa ragione, salvo Machu Picchu, che non fu mai scoperto dagli Spagnoli, sono giunte a noi nella loro integrità ben poche costruzioni incaiche. Per contro le principali città del Paese propongono un’interessante architettura coloniale, che ricorda moltissimo quella della terra madre: la Spagna. Le testimonianze più interessanti del periodo coloniale – almeno quelle sopravvissute ai numerosi terremoti sono rappresentate da palazzi, ma soprattutto da edifici religiosi. I principali a Lima, dove nella cattedrale sono custodite le spoglie di Pizarro, ad Arequipa, dove si può visitare un complesso religioso di 20 mila metri quadrati, una vera e propria cittadella nella città, e nella magnifica Cuzco, dove nel centro storico il tempo sembra essersi fermato al periodo coloniale.
Di particolare interesse a Cuzco e dintorni le opere prodotte dalla Esquela Cuzquena di pittura, alla quale si devono sorprendenti combinazioni tra l’arte europea del XVII secolo e la fantasia degli artisti andini legati alla loro tradizione. Uno degli esempi più eloquenti è rappresentato nella cattedrale di Cuzco dalla raffigurazione di una Madonna, che indossa una gonna a forma di montagna, orlata da un fiume che scorre. Un’immagine che ricorda quella della Pachamama, la Madre Terra della civiltà Inca. A noi piace pensare che questo adattamento della Vergine Maria in un personaggio religioso andino fosse anche un modo per resistere e ribellarsi al modo opprimente con cui gli Spagnoli imposero la loro religione e la loro cultura alle popolazioni indigene.

Perù – Le misteriose Linee di Nazca

Perù – Il Machu Picchu gioiello Inca
Perù – Tutto il fascino dell’Amazzonia
Perù – La dura impronta spagnola sul Perù precolombiano

Una sorta di galleria d’arte all’aperto e uno dei più affascinanti interrogativi archeologici del mondo propongono animali disegnati sulle sabbie del deserto. Per spiegare le origini si sono scomodati persino gli extraterrestri.

Un colibrì, un pellicano, un ragno, un puma, una lunghissima lucertola, una scimmia con una stravagante coda arrotolata e, non poteva mancare, un condor dall’enorme apertura alare. Una galleria d’arte all’aperto incisa nella sabbia del deserto, uno dei più affascinanti misteri archeologici del mondo. Stiamo parlando delle cosiddette “Linee di Nazca” in Perù, attorno alle quali sono nate un’infinità di interpretazioni. Ma come ha affermato la matematica e archeologa tedesca Maria Reiche, conosciuta come la “señora de Nazca”, che ha dedicato la sua vita a studiarle, su un fatto tutti concordano: “rappresentano un meraviglioso equilibrio tra paesaggio e arte. Ciò che mi appassionò sin dall’inizio – ha affermato in un’intervista la studiosa oggi scomparsa – fu questa mediazione e intreccio tra natura e cultura. E l’uomo antico ha saputo rispettare questo accordo”. A scoprire queste opere d’arte a cielo aperto fu l’archeologo americano Paul Kosok nel 1939, quando sorvolando il deserto notò una serie di lunghissime linee e di enormi figure incise nel paesaggio. Maria Reiche cominciò a studiarle e a ‘restaurarle’ nel 1946. “È stato sufficiente spostare polvere e sassi – spiegava ai turisti durante una conferenza quotidiana che teneva nei saloni dell’hotel de Turistas a Nazca – per fare emergere porzioni di superficie più chiare perché meno esposte al sole, che si sono mantenute inalterate per molti secoli grazie alla quasi totale assenza di precipitazioni e di vento nella zona”. Quanto alla realizzazione di queste enormi figure, che si estendono per centinaia di metri, la studiosa riteneva che fossero state realizzate prima su modelli in scala ridotta per poi riproporli sul terreno grazie all’utilizzo di lunghe corde.
Per ammirare i misteriosi disegni, che si estendono nella Pampa di San José su una superficie di 500 chilometri quadrati, vengono organizzati da varie società durante tutta la giornata voli con piccoli aerei. I velivoli volteggiano per circa mezz’ora sopra le magiche figure offrendo ai turisti vedute davvero sorprendenti.
Ma il mistero sulle fantomatiche linee rimane irrisolto, anche perché la civilta Nazca non possedeva un sistema di scrittura attraverso il quale comunicare ai posteri la sua storia. Maria Reiche era convinta che le linee rappresentassero una sorta di calendario astronomico correlato ai punti in cui i corpi celesti sorgevano e tramontavano verso oriente e verso occidente. L’archeologo peruviano Toribo Mejia a Xesspe riteneva invece che fossero state create per camminare o danzare, probabilmente a scopi rituali. Dopo aver studiato il fenomeno per un decennio, Anthony Aveni, uno dei principali archeoastronomi del mondo è arrivato alla conclusione che si trattasse di sentieri percorsi durante riti per propiziare la pioggia. Non è mancato chi ha scomodato anche gli extraterrestri per spiegare il mistero di Nazca.

La civiltà Nazca
Le sabbie del deserto su cui si estendono le Linee di Nazca nascondevano anche le tracce di una delle numerose culture preincaiche presenti in Perù. La civiltà Nazca, esistita tra il 200 e l’800 dopo Cristo, è famosa per le sue ceramiche riccamente decorate, che hanno permesso di studiarne la storia. Alcune delle figure rappresentate sugli oggetti rinvenuti dagli archeologi – motivi e disegni di ogni genere, da piante e animali a feticci e divinità – riecheggiano le stesse Linee di Nazca.
Il museo archeologico della vicina cittadina di Ica e il museo Antonini di Nazca espongono numerosi oggetti di questa civiltà, tra cui una ricca collezione di ceramiche. Particolarmente impressionanti sono una serie di mummie incredibilmente ben conservate (da quelle di bimbi a quella di un piccolo macaco) e una ricca presenza di teschi. Alcuni presentano tracce di interventi chirurgici. Le civiltà preincaiche praticavano infatti delicate operazioni al cranio. E, a quanto sembra, in molti casi con successo. Altri mostrano invece importanti deformazioni. Nel rispetto di credenze religiose, ai neonati veniva infatti fasciata la testa per ottenere crani allungati. Altri ancora finivano appesi alla cinture dei guerrieri, che esibivano orgogliosi i teschi delle vittime uccise in combattimento.

Acquedotti e cimiteri Nazca
Nei dintorni dell’animata e simpatica cittadina di Nazca si possono visitare acquedotti e cimiteri risalenti all’epoca delle famose Linee. L’acquedotto, che portava l’acqua dalle montagne verso la città, è costruito in sasso ed è intercalato da una serie di pozzi, dove si può scendere fino all’acqua seguendo un tragitto a spirale. I due cimiteri si trovano invece in un desolato deserto verso sud non distanti uno dall’altro. Quello di Cahuachi, dove gli scavi sono tuttora in corso, era probabilmente destinato ai notabili. Su un rilievo naturale si erge un imponente gruppo di sei piramidi e un luogo destinato alla mummificazione. A Chauchilla, invece, sparse su un terreno desertico polveroso si vedono letteralmente migliaia di tombe destinate alla gente comune. Alcune, profanate dai tombaroli, sono state lasciate aperte e offrono alla vista del visitatore corpi mummificati di persone sole, di coppie o di intere famiglie. Il luogo è molto suggestivo, ma per certi aspetti anche macabro, perché i tombaroli hanno sparpagliato frammenti di ossa sul terreno che sono tuttora visibili.

Lima, la città dei re
Diciamo la verità, Lima è una città interessante per i suoi musei, è probabilmente una città seducente per viverci, ma non è una bella città. Da aprile a ottobre è immersa nella nebbia e il suo cielo, come scrive il premio Nobel peruviano Mario Vargas Llosa è “color cenere”. Si dice che Pizarro fondò qui la “città dei re” perché essendo sbarcato in estate non si rese conto del suo clima mutevole.
Il centro storico che si sviluppa attorno alla Plaza Mayor conserva ancora una certa eleganza con le vestigia architettoniche più visibili e raffinate dell’epoca coloniale. Un reticolo di affollate stradine risalenti ai tempi di Pizarro ospita la maggior parte di edifici coloniali giunti intatti fino ai nostri giorni. Più volte distrutta da terribili terremoti, saccheggiata e occupata dall’esercito cileno durante la guerra del Pacifico (1879-1883), terra di rifugio per milioni di contadini andini che negli anni Ottanta sfuggirono dalla follia dei guerriglieri, Lima aveva 300 mila abitanti nel 1930, 3 milioni e mezzo negli anni ’70 e oggi si avvicina ai 10 milioni.
Prima di partire per un itinerario nel Perù vale la pena di visitare il Museo Nacional de Arqueología, il Museo Larco (Tesoros del antiguo Perú), ed eventualmente altri come il Museo Oro del Perú o quello de la Nación, per rendersi conto del quadro storico del paese antecedente l’avvento della civiltà Inca. Prima del 1532, quando Francisco Pizarro approdò con i suoi uomini sulla costa settentrionale del Perù, le Ande erano infatti già state testimoni dell’ascesa e del declino di numerose civiltà. Tra queste, la cultura Chavin, che fiorì attorno al primo millennio avanti Cristo ed è considerata la madre delle civiltà peruviane; la civiltà Nazca; i bellicosi Wari, che verso il 600 dopo Cristo costruirono una capillare rete stradale e, ovviamente, gli Incas, il cui impero arrivò a estendersi dalla Colombia meridionale fino a metà dell’odierno Cile.

Itinerario
1° giorno Ticino-Lima
2° giorno Lima
3° giorno Lima-Isole Ballestas-Nazca
4° giorno Nazca
5° giorno Nazca-Arequipa
6° giorno Arequipa-Canyon del Colca
7° giorno Canyon del Colca-Lago Titicaca (Puno)
8° giorno Lago Titicaca
9° giorno Lago Titicaca-Cuzco
10° giorno Cuzco
11° giorno Cuzco-Urubamba-Aguas Calientes (Machu Picchu)
12° giorno Machu Picchu-Cuzco
13° giorno Cuzco-Puerto Maldonado (Amazzonia)
14° giorno Amazzonia
15° giorno Puerto Maldonado-Lima
16° e 17° giorno Lima-Ticino

Per saperne di più
Perù Lonely Planet, Torino 2010
Perù Rough Guides, Feltrinelli, Milano 2013
Perù National Geographic, Vercelli 2010

Perù – Tutto il fascino dell’Amazzonia

Perù – Il Machu Picchu gioiello Inca
Perù – Le misteriose Linee di Nazca
Perù – La dura impronta spagnola sul Perù precolombiano

Diviso in tre zone naturalistiche, la costa, la sierra, ossia la catena montuosa andina, e la selva, cioè la foresta pluviale amazzonica, il territorio del Paese offre al turista una straordinaria molteplicità di bellezze naturalistiche e storiche.

Quando si parla di Perù il pensiero corre subito al Machu Picchu e alle misteriose Linee di Nazca, ma questo affascinante paese dell’America latina è molto interessante anche per le sue bellezze naturali: la foresta amazzonica, sinonimo di avventura e di scoperta; le vallate solcate dai condor, animali sacri per la civiltà inca; le immense spiagge oceaniche lungo la costa occidentale; le isole Ballestas, considerate delle Galapagos in miniatura; i paesaggi montani andini; il lago Titicaca con le sue isole galleggianti, dove secondo la tradizione sulla Isla del Sol nacquero Manco Càpac, il primo Inca, e Mama Ocllo sua sorella e consorte.

Il fascino della foresta amazzonica
Forse perché sinonimo di avventura, la scoperta naturalistica più affascinante del viaggio è certamente l’incontro con la foresta amazzonica meridionale. Nei bellissimi resort rispettosi dell’ambiente e immersi nella vegetazione tropicale, dal sorgere del sole al tramonto si è accompagnati da un assordante canto di uccelli. Durante la giornata si può partecipare a gite lungo i fiumi Tambopata o Madre de Dios, entrambi affluenti del Rio delle Amazzoni, e avventurarsi lungo canali e sentieri che penetrano nella foresta alla scoperta di caimani, scimmie, uccelli di ogni genere, bradipi, tapiri e ogni sorta d’insetti. Osservando le guide muoversi in quel paesaggio tanto affascinante quanto inospitale ci si rende conto di come la nostra società abbia perso il contatto con la natura e i suoi segreti.
La foresta amazzonica meridionale del Perù è considerata uno dei migliori luoghi del Sud America per osservare gli animali nel loro habitat. Questa regione, con il bacino idrografico del Rio Madre de Dios, suo cuore pulsante, abbraccia una larga fascia di foresta pluviale compresa tra le Ande e il confine con la Bolivia e il Brasile. Gran parte del territorio è protetto all’interno del perimetro dei parchi nazionali e delle riserve naturali. Il Perù si è infatti distinto per la salvaguardia di questo patrimonio mondiale e quando si sorvola la zona il verde brillante della foresta peruviana spicca accanto al color ruggine delle aree deforestate oltre il confine. Secondo l’Instituto de Investigaciones de la Amazonia Peruana (IIAP), questo paese ospita più specie di uccelli (circa 1800) di qualsiasi altra nazione del pianeta e figura al vertice della classifica anche per mammiferi, pesci di acqua dolce, anfibi e piante da fiore. Circa un quinto delle farfalle del mondo svolazza in queste foreste.
La giungla occupa il 50 per cento del territorio peruviano, ma accoglie solo il 5 per cento della popolazione e nella profondità della foresta parecchie tribù sono entrate in contatto con la nostra civiltà solo negli ultimi cinquant’anni, mentre ancora recentemente sono stati scoperti gruppi rimasti isolati dal resto del mondo.
Questo piccolo Eden è raggiungibile in aereo da Lima o da Cuzco con destinazione Puerto Maldonado, la caotica città situata all’affluenza dei fiumi Tambopata e Madre de Dios. Prossimamente sarà attraversata dalla Carretera Interoceanica, che collegherà l’Oceano Atlantico all’Oceano Pacifico attraversando il Brasile e il Perù.

Isole galleggianti sul lago Titicaca
Secondo le credenze andine da un’isoletta del lago Titicaca partirono Manco Càpac, il primo Inca, e Mama Ocllo, sua sorella e consorte, entrambi creature del dio Sole, alla ricerca dell’ombelico del mondo, che individuarono a Cuzco dove ebbe origine la civiltà Inca. Il lago si trova nel punto in cui lo spoglio altipiano andino incontra le leggendarie vette e le fertili vallate delle Ande a quasi 4 mila metri ed è considerato il bacino navigabile ad alta quota più grande al mondo. La sua più importante attrazione turistica è costituita dalle isole flottanti, sorta di enormi zattere formate da strati di canne, abitate dagli indios Uros nella baia di Puno, la cittadina più importante che si affaccia sulle acque del Titicaca nella regione peruviana. L’attività principale di questa popolazione è il turismo. E questo toglie un po’ di fascino alla visita, perché non si capisce fino a che punto ci si trovi di fronte a una realtà autentica oppure artefatta ad uso commerciale.
Le circa ottanta isolette si raggiungono in un’ora di navigazione dal porto di Puno. Per accedere al villaggio galleggiante si paga un pedaggio e a ogni barca viene assegnata un’isola diversa da visitare. Su ognuna abitano più famiglie, fino a un massimo di circa trenta persone. La nostra imbarcazione si dirige verso un’isoletta dove vivono due famiglie. Ci riceve il capo di quella minuscola comunità e ci racconta la storia dei suoi antenati, che nel XV secolo, spaventati dall’arrivo degli Inca, si rifugiarono a vivere in piccole imbarcazioni sul lago. Proseguirono la loro esistenza su queste case-zattera fino alla metà dell’Ottocento, quando scoprirono che le radici della pianta di totora, una specie vegetale tipica del lago, avevano la proprietà di galleggiare. Assemblarono così queste radici in blocchi cubici di circa un metro di lato con un palo conficcato al centro per poterli legare tra loro fino ad ottenere un’ampia superficie piana, sopra la quale venivano poi depositati strati incrociati di foglie secche della stessa pianta, la totora. Queste isole, che richiedono una continua manutenzione, hanno una durata di circa trent’anni, dopo di che devono essere abbandonate a causa del terribile odore prodotto dal marciume che si produce nella base a contatto con l’acqua. Le singole isole sono ancorate tra loro tramite pali conficcati nel basso fondo del lago, ma se un vicino diventa scomodo possono essere facilmente spostate. I loro abitanti si mantengono vendendo graziosi prodotti artigianali ai turisti e coltivando i terreni di loro proprietà lungo la costa del lago.

I condor della Valle del Colca
Dalla graziosa cittadina di Arequipa una strada sale verso la Reserva Nacional Salinas y Aguada Blanca, un altipiano di 367 mila ettari a quota 4300 metri. Il paesaggio è armonioso e offre la possibilità di osservare al pascolo tre dei quattro (la quarta specie è il guanaco) camelidi presenti nell’America del sud: alpaca, lama e soprattutto le rarissime vigogne. La lana di questi ultimi animali, che vivono allo stato selvaggio nella prateria della riserva naturale, è considerata la più pregiata al mondo: una sciarpa costa tra i 700 e i 1000 franchi svizzeri. Le vigogne possono essere tosate solo ogni sette anni e al massimo due, tre volte durante la loro esistenza. Per farlo i campecinos si raccolgono in cerchio circondando i loro greggi. Gli animali spaventati si lasciano così trattare e la lana viene poi consegnata allo Stato che la affida a ditte specializzate per la lavorazione.
Oltrepassata la Reserva, la strada si fa sempre più accidentata, prosegue attraverso il desolato altipiano passando per il suo punto più alto a quota 4800 metri e infine scende verso lo spettacolare Canyon del Colca, che si allunga per un centinaio di chilometri tra vette vulcaniche superiori ai 6000 metri di quota. Il canyon, considerato il più profondo al mondo, fu originato da un’enorme faglia geologica creatasi tra due vulcani. Sullo sfondo a nord troneggia il maestoso Mismi Nevado, considerato la sorgente del Rio delle Amazzoni.
Il paesaggio agricolo della Valle del Colca, punteggiato di cactus, è caratterizzato da terrazzamenti preincaici, che si spingono quasi fin sulle vette per sfruttare qualsiasi spazio coltivabile, ed è scolpito da una miriade di muretti che lo rendono particolarmente affascinante. Le case in sasso sono circondate da recinti, dove il bestiame viene sistemato dopo il tramonto, mentre durante il giorno può pascolare liberamente nell’ampia prateria. La vallata ospita anche un elegante resort (Colca Lodge), ben inserito nell’ambiente.
La strada si spinge fino al belvedere della Cruz del Condor, dove con un po’ di fortuna si possono ammirare i condor volteggiare nel cielo. Alti fino a un metro e con un apertura alare che raggiunge i 3 metri e un peso che supera i 10 chilogrammi, questi imponenti animali trovano nel Canyon del Colca il loro habitat ideale: per spiccare il volo devono infatti lanciarsi dall’alto verso il basso sfruttando in seguito le correnti ascensionali per prendere quota. Vivono fino a 50 anni e si nutrono delle interiora degli animali. Il loro modo di cacciare è molto singolare: sui ripidi pendii del canyon sorvolano sopra malcapitati quadrupedi che spaventati dalla loro minacciosa presenza precipitano a valle diventando un prelibato bottino. In estate emigrano invece verso il mare dove si cibano della placenta dei leoni marini, di cui sono particolarmente ghiotti.

Tra pellicani e leoni marini
Le isole Ballestas, 280 chilometri a sud di Lima, sono considerate le Galapagos dei poveri. Formate da scogli frequentati da folti branchi di foche, leoni marini, pinguini e da oltre 4 milioni di uccelli, soprattutto pellicani e cormorani, possono essere facilmente raggiunte in meno di un’ora di navigazione in barca a motore da Paracas. Le imbarcazioni si accostano alle isole letteralmente ricoperte da colonie di animali per osservarli da vicino. Il suolo è completamente ricoperto da deiezioni di uccelli (guano) che raggiungono i due metri di altezza per una produzione annuale di 20 tonnellate. Considerato uno dei migliori fertilizzanti al mondo il mercato del guano è stato floridissimo nel XIX secolo prima dell’introduzione dei fertilizzanti chimici. Ha quindi conosciuto un periodo di crisi, ma oggi torna di grande interesse per le coltivazioni biologiche.
Navigando verso le isole Ballestas si osserva la famosa Candelabra, una gigantesca forma a tre bracci, alta più di 150 metri e larga almeno 50, incisa sulle colline sabbiose della costa. Nessuno sa esattamente a quando risalga, né chi ne sia l’autore, ma le teorie abbondano, come accade per le famose Linee di Nazca.

Itinerario
1° giorno Ticino-Lima
2° giorno Lima
3° giorno Lima-Isole Ballestas-Nazca
4° giorno Nazca
5° giorno Nazca-Arequipa
6° giorno Arequipa-Canyon del Colca
7° giorno Canyon del Colca-Lago Titicaca (Puno)
8° giorno Lago Titicaca
9° giorno Lago Titicaca-Cuzco
10° giorno Cuzco
11° giorno Cuzco-Urubamba-Aguas Calientes (Machu Picchu)
12° giorno Machu Picchu-Cuzco
13° giorno Cuzco-Puerto Maldonado (Amazzonia)
14° giorno Amazzonia
15° giorno Puerto Maldonado-Lima
16° e 17° giorno Lima-Ticino

Per saperne di più
Perù Lonely Planet, Torino 2010
Perù Rough Guides, Feltrinelli, Milano 2013
Perù National Geographic, Vercelli 2010

Il Far West – Nelle terre degli indiani d’America

Il Far West – Quando la storia è scolpita nella montagna
Il Far West – A Yellowstone, nel parco delle meraviglie
Il Far West – Nelle terre dell’emarginazione degli indiani del nord America
Il Far West – Nella cittadina di Buffalo Bill si rivive il grande sogno Usa

Sulle tracce dei cow boys, del generale Custer e di Toro Seduto, dei Sioux e degli Cheyenne. A Wounded Knee “dove morì il sogno di un popolo”. Nelle sterminate praterie segnate dai solchi lasciati dalle carrozze delle carovane dei pionieri.

Attraverso il mitico Far West. Quello delle sterminate praterie, punteggiate di mandrie di bovini sorvegliate dai cowboys. Quello delle lunghe carovane che emigravano da est a ovest, spinte dalla speranza verso un futuro migliore. Quello delle tribù indiane dei Sioux e degli Cheyenne, che convissero pacificamente con l’uomo bianco fino a quando i visi pallidi non minarono nel profondo la loro vita e le loro tradizioni distruggendo gli equilibri naturali che garantivano cibo e attività vitali. Quello delle epiche e tristi battaglie tra il Settimo Cavalleggeri del generale Custer e i pellerossa guidati da Cavallo Pazzo e Toro Seduto. Quello dei rodei, che costituiscono ancora oggi una delle principali attrazioni non solo turistiche.
È attraverso questo West, caratterizzato da paesaggi indimenticabili, che si sviluppa il nostro itinerario. Un percorso che intreccia pagine di storia degli Stati Uniti, a noi note perché narrate in capolavori cinematografici dedicati alla drammatica lotta tra poveri per la sopravvivenza: da una parte gli indiani diseredati del loro territorio e dall’altra centinaia di migliaia di coloni alla ricerca della terra promessa.
Il nostro viaggio inizia da Denver, capitale dello stato del Colorado, collegata con voli aerei diretti da Londra e da altre capitali europee. Come molte altre cittadine che visiteremo in seguito è stata fondata nella seconda metà dell’Ottocento sulla spinta della corsa all’oro. Oggi conta circa mezzo milione di abitanti ed è una delle otto città americane con squadre che militano in serie A nei quattro sport nazionali: baseball, basket, hockey e football. Durante l’annuale National Stock Show&Rodeo, uno dei maggiori spettacoli del genere, riesce a unire la tradizione del West ai tempi moderni. Denver è oggi un centro specializzato in servizi e alta tecnologia e, dopo Washington, è la seconda città americana con vocazione amministrativa. Il suo Civic Center ospita un campidoglio molto simile, sebbene in versione ridotta, a quello della capitale. Propone due interessantissimi musei che introducono alle tematiche storiche del nostro viaggio. Il Denver Art Museum ha due splendide sedi: una realizzata dall’italiano Giò Ponti, ispirata a una fortezza, ed un’altra, recentissima, di Daniel Libeskind, che interpreta un fiore in titanio, granito e vetro. Espongono straordinarie collezioni di oggetti dei nativi americani ed una mostra di opere d’arte dedicate al periodo della conquista del West. Il Denver History Museum presenta invece, sotto un profilo meno artistico ma più storico-didattico, la vita dei cowboy, degli indiani e dei colonizzatori.
Lasciamo la città il mattino di buon’ora, perché la tappa che ci attende è lunga e impegnativa, per dirigerci dapprima verso le montagne che hanno reso celebre lo stato del Colorado, noto per le sue rinomate stazioni di sport invernali. Prima di giungere ad Aspen, la località più in voga, svoltiamo a destra verso il Rocky Mountain National Park, attraversato da una strada panoramica (Trail Ridge Road) di circa 80 chilometri, che sale fino a 3700 metri e attraversa un paesaggio montano con 100 vette sopra i 3000 metri. La strada, intervallata da idilliaci laghetti alpini, che si possono godere dai numerosi View Points, scende poi ripida verso le estese pianure del West, dove si trova Fort Laramie: il nostro primo importante incontro con la storia. Sede del mitico Settimo Cavalleggeri del generale Custer, il forte si compone di una dozzina di costruzioni sopravvissute al tempo, dove si possono visitare le residenze dei comandanti, degli ufficiali e dei soldati: qui tutto è rimasto intatto, manca solo il sibilo della trombetta che chiamava i militi all’adunata.
A pochi chilometri dal Forte si visitano due altri luoghi suggestivi, che riconducono il visitatore alla seconda metà dell’Ottocento, quando su quei territori scorrevano lunghissime carovane di coloni dirette verso la terra promessa dell’Oregon: 400 mila persone, tra il 1841 e il 1869, si avventurarono da est a ovest. “Quando Dio creò l’uomo – scrisse un pioniere sul suo diario – sembrò avesse pensato di farlo ad est per lasciarlo andare a ovest”. Dove la roccia diventa collina è possibile vedere ancora le “Oregon Trail Ruts”, cioè i solchi scavati dalle migliaia di carri che transitarono in quel luogo. Poco distante, noto come “Register Cliff”, si possono osservare un centinaio di firme incise nella morbida roccia dai coloni in viaggio. Distante un’ottantina di chilometri verso est, a Scott’s Bluff, si sale su una montagna rocciosa da cui si gode una spettacolare vista sulle sterminate e brulle pianure attraversate dalle carovane. Il silenzio del luogo fa galoppare l’immaginazione.
Il quarto giorno del nostro intenso itinerario è quasi interamente dedicato al dramma della civiltà indiana. Ci dirigiamo verso la Pine Ridge Reservation, una delle più vaste riserve indiane degli Stati Uniti. Ed abbiamo l’impressione di entrare in un altro mondo: case abbandonate, auto scassate. Non ci vuole molto per rendersi conto, come scrivono le guide turistiche, che questa è una delle zone più arretrate degli Stati Uniti. Un chiaro segno che il problema dell’integrazione dei nativi americani, a distanza di un secolo e mezzo dalla conquista del West, non è ancora stato risolto. A pochi chilometri da Pine Ridge si visita il luogo in cui avvenne il massacro di Wounded Knee, che pose la parola fine alla conquista del West. Il 29 dicembre del 1890 il Settimo Cavalleggeri intercettò un gruppo di indiani in fuga dalla riserva e accampati in una valle. Intimò loro di consegnare le armi, ma durante un’ispezione partì accidentalmente un colpo dal fucile di un indiano e si scatenò il finimondo: 250 nativi americani, comprese donne e bambini, vennero massacrati dall’artiglieria appostata sulle colline.
Le parole finali di questa triste vicenda vennero scritte molti anni dopo da Alce Nero, il grande uomo sacro dei Sioux. “Non sapevo in quel momento che era la fine di tante cose. Quando guardo indietro, adesso, da questo alto monte della mia vecchiaia, vedo ancora le donne e i bambini massacrati, ammucchiati e sparsi lungo quel burrone serpeggiante. Nitidamente come li vidi con i miei occhi da giovane. E posso vedere che con loro morì un’altra cosa, laggiù, nella neve insanguinata, rimasta sepolta sotto la tempesta. Laggiù morì il sogno di un popolo. Era un bel sogno”.

Itinerario
1° giorno Locarno – Milano Malpensa – Denver
2° giorno Visita di Denver
3° giorno Denver – Grand Lake (164 km) / Parco – Torrington (279 km) / Torrington – Fort Laramie (32 km) / Fort Laramie – Scotts Bluff (84 km)
4° giorno Scotts Bluff – Pine Ridge – Wounded Knee Massacre

Per saperne di più
Usa ovest La Guida Verde Michelin, Milano 2010
Wyoming Edimar Editrice, Milano 1995

Il Far West – Nelle terre dell’emarginazione degli indiani del nord America

Il Far West – Nelle terre degli indiani d’America
Il Far West – Quando la storia è scolpita nella montagna
Il Far West – A Yellowstone, nel Parco delle meraviglie
Il Far West – Nella cittadina di Buffalo Bill si rivive il grande sogno Usa

La conquista del West da parte dei visi pallidi ai danni degli indiani, il lento scorrere delle carovane che si spostavano da est verso ovest attratte dalla speranza di una vita migliore, gli epici scontri tra la tribù dei Sioux e il Settimo cavalleggeri del generale Custer, la corsa all’oro tanto gravida di conseguenze, fanno da sfondo storico all’itinerario nel nord ovest degli Stati Uniti.
Due popoli, due culture, si sono affrontati e scontrati: da una parte guerrieri sobri e ascetici, scolpiti dal vento, figli dei monti e delle praterie, dall’altra l’avanzare del progresso, laico, borghese, mercantile, industriale e democratico, forgiato e scolpito nell’acciaio e animato dal carbone. Persero i pellerossa che concepivano una vita dipendente e sottomessa alla natura, ritmata dalle stagioni e da tradizioni secolari. Vinsero gli uomini bianchi, che volevano dominare e sfruttare il territorio: con ogni mezzo e ad ogni costo. Quando la ferrovia portò il progresso e l’ordine sociale venne imposto dai tribunali che applicavano le leggi dell’uomo bianco, gli ultimi guerrieri indiani furono rinchiusi nelle riserve. Riserve destinate ai nativi americani che esistono ancora oggi.
Quando ci si inoltra in questi territori si entra in un altro mondo: povero, caratterizzato da auto sgangherate, da abitazioni trasandate, da persone emarginate. Segno che a distanza di un secolo e mezzo da quel confronto impari, l’integrazione degli indiani nella civiltà americana non è compiuta.
I rapporti tra l’uomo bianco e i nativi americani per lungo tempo furono pacifici. Questo avvenne fino a quando i visi pallidi erano rappresentati da un numero contenuto di esploratori, “trapper” o “mountain man” (uomini sensibili alla natura come gli indiani), pacifici missionari (“black rober”, vesti nere), artisti in cerca di ispirazione. Ma quando il numero di emigranti iniziò ad aumentare a dismisura e, soprattutto, quando le terre sacre degli indiani furono invase da cacciatori di pellicce e da cercatori d’oro senza scrupoli, le relazioni amichevoli si trasformarono in ostilità; dopo il 1860 le tribù indiane iniziarono ad attaccare le carovane di pionieri che si dirigevano verso ovest. Era lo scontro tra due civiltà: una radicata da secoli nel territorio e profondamente attenta alle leggi della natura, l’altra preoccupata soprattutto di conseguire guadagni senza preoccuparsi della distruzione di quegli equilibri naturali che per secoli avevano garantito cibo e attività vitali agli indiani.
La svolta decisiva fu rappresentata dal “Gold Rush” (la corsa all’oro); il governo degli Stati Uniti, che in un primo tempo cercò di contenere l’aggressività dei cercatori d’oro, nel 1875 decise di voltare le spalle agli indiani rimangiandosi importanti promesse fatte. Questo portò alla vivace reazione dei pellerossa che decimarono il Settimo Cavalleggeri a Little Big Horn (1876) e alla successiva vendetta dell’uomo bianco, che culminò quattordici anni dopo nel massacro di Wounded Knee, dove, come scrisse più tardi il condottiero Alce Nero “morì il sogno di un popolo”.

Il Far West – Quando la storia è scolpita nella montagna

Il Far West – Nelle terre degli indiani d’America
Il Far West – A Yellowstone nel parco delle meraviglie
Il Far West – Nelle terre dell’emarginazione degli indiani del nord America
Il Far West – Nella cittadina di Buffalo Bill si rivive il grande sogno Usa

Le “sacre” Black Hills, luogo simbolo dello scontro tra indiani e visi pallidi. Il Badlands National Park, con i suoi bizzarri pinnacoli, è una meraviglia della natura e forse la tappa più spettacolare del viaggio. I presidenti degli Stati Uniti e Cavallo Pazzo si affrontano, “immortalati” nella roccia.

Prosegue il nostro itinerario attraverso il mitico Far West, quello delle praterie sterminate, delle brulle pianure disseminate di bufali, dei territori abitati dalle tribù indiane minacciate dal progresso dell’uomo bianco, quello dei cercatori d’oro e delle loro squallide città, caratterizzate dai saloon e dai bordelli, quello dei giocatori d’azzardo, dei rodei e dei cow boy alla Buffalo Bill.
Ci inoltriamo nelle Black Hills, cuore autentico del Sud Dakota e luogo simbolo dello scontro tra pellerossa e visi pallidi. Questa terra, considerata luogo sacro e centro del mondo dai nativi americani, fu loro assegnata dal trattato di Laramie del 1868 con la garanzia che nessun uomo bianco l’avrebbe mai profanata. Ma solo 6 anni dopo, nel 1874, il governo di Washington non mantenne quella promessa e organizzò una spedizione condotta dal generale Custer, per esplorare le Black Hills. “Mi aspetto di visitare – scriveva Custer prima della partenza – una regione del paese non ancora vista da occhi umani ad eccezione degli indiani, che la descrivono come straboccante di selvaggina di ogni genere, ricca di interessi scientifici e di una bellezza insuperabile come scenario naturale”. Durante il suo viaggio il generale, oltre a tutto questo, scoprì anche la presenza di oro e la notizia rimbalzò immediatamente sulla stampa. Un giornale di Chicago scrisse: “Tutta la terra delle Black Hills è impregnata d’oro dalle radici d’erba in giù”. Questa informazione scatenò le brame dei cercatori del prezioso metallo, che si precipitarono in quelle terre tanto care agli indiani invadendone le dolci colline. Il governo americano dapprima cercò di scoraggiarli, ma nel 1875 rinunciò a far rispettare quanto promesso ai pellerossa nel trattato di Laramie. La vigorosa reazione indiana culminò nella battaglia di Little Big Horn, dove venne decimato il Settimo Cavalleggeri.
La parte più bella della regione è quella compresa nel “Custer State Park”, attraversato da due spettacolari strade panoramiche: Wild Loop Road (29 km) e Needles High Way Scenic Drive (23 km). Il paesaggio è caratterizzato da un altipiano intervallato da armoniose colline, dove pascolano placidamente numerosi bisonti, e da montagne rocciose composte di spettacolari guglie e pinnacoli. Oltre il Parco, le Black Hills giustificano il loro nome di “Colline nere” con una fitta vegetazione di boschi scuri. Uno dei panorami più idilliaci è certamente quello del Sylvan Lake situato nei pressi dell’ingresso nord del Parco.
Il nostro itinerario prosegue verso Badlands National Park, un’altra meraviglia paesaggistica: forse la più spettacolare di tutto il viaggio. Partendo dalla località Scenic si percorre dapprima la Sage Creek Road e quindi la Badlands Loop Road, dove le praterie lasciano spazio a scenografiche colline rocciose, che a seconda delle ore del giorno assumono i colori pastello di una variopinta tavolozza: varie tonalità di rosa e rosso, azzurrognolo, verderame, sabbie color castano, ossido di ferro arancione e cenere vulcanica bianca. Le forme di queste montagnette sono bizzarre: pinnacoli, guglie che sembrano spuntare come cactus dall’arido terreno, creste seghettate. E lo spettacolo si protrae per una sessantina di chilometri con numerosi View Points, dai quali partono passeggiate di ogni genere.
Il giorno seguente ci rituffiamo nella storia. Iniziamo da “Mount Rushmore National Park”, nelle Black Hills, dove batte il cuore dei patrioti a stelle e strisce. Dal 1927 al 1941 l’artista americano Gutzon Borglum, con l’aiuto di 400 minatori ed esperti di esplosivo, ha scolpito nella montagna i visi di quattro storici presidenti americani: George Washington, il primo inquilino della Casa Bianca, Thomas Jefferson, autore della Dichiarazione di indipendenza, Abraham Lincoln, che pose fine alla schiavitù e Theodore Roosevelt, promulgatore di riforme chiave di politica ambientale ed economica. Il luogo scelto per realizzare questa monumentale opera per celebrare lo stato americano non è davvero dei più appropriati se si pensa alla storia delle Black Hills e ai torti commessi da quello stesso stato nei confronti dei nativi americani. Per sottolinearlo, a mezz’ora di strada, “per far sapere all’uomo bianco che anche i pellerossa hanno i loro eroi”, nel 1948 i Sioux hanno incaricato l’artista di origine polacca Korczak Ziolkowski di scolpire, in un’altra montagna delle Black Hills, Cavallo Pazzo (il condottiero di Little Big Horn) in sella al suo cavallo con il dito puntato verso “la mia terra, dove sono sepolti i miei morti”. Ma se a Mount Rushmore la ‘scultura’ è stata realizzata in 14 anni, il “Crazy Horse Memorial” dei Sioux dopo 65 anni è riuscito a scolpire appena il volto del capo indiano, anche perché orgogliosamente non vengono accettati aiuti statali. Un chiaro segnale che il passato non è ancora stato dimenticato!
Nella vicina città di Rapid City, fondata come luogo base di approvvigionamento per i cercatori d’oro, si può visitare il modernissimo e molto didattico “Journey Museum”, dedicato alla vita delle tribù indiane delle Blck Hills e alla conquista del West, con una sezione sulla spedizione del generale Custer ed una sulla costruzione della ferrovia.
Proseguiamo verso il tipico villaggio di Deadwood, altra creazione del Gold Rush, ed alle sue porte, a Lead, ci fermiamo a un view point per osservare “Homestake Gold Mine”, una miniera d’oro aperta nel 1876 e rimasta in attività fino al 2001: impressionante il varco di 1300 metri di lunghezza, 400 di larghezza e 150 di profondità scavato dall’uomo alla ricerca del metallo prezioso. Sulla Main Street di Deadwood si allineavano ai tempi 53 saloon e 33 bordelli, dove i cercatori d’oro potevano spendere le loro fortune. Al numero 10 l’Old Style Saloon è rimasto intatto, sebbene restaurato. Fu in questo locale che avvenne l’assassinio di Wild Bill Hickok uno dei pistoleri più veloci di tutto il West. Sceriffo, scout dell’esercito e giocatore professionista si trasferì a Deadwood nel 1876. per spennare i cercatori d’oro. Solitamente non si sedeva mai con la schiena rivolta verso l’entrata, ma quella sera lo fece e venne freddato mentre giocava a poker e teneva in mano una doppia coppia nera di assi e di otto. Da allora quella venne definita “la mano del morto” e da alcuni anni nella cittadina ogni sera alle 20 l’assassinio viene rievocato con tanto di attori, che poi si trasferiscono nel luogo in cui fu processato il colpevole.
Circa quattro ore di automobile, su strade diritte come quelle che si vedono nei film “on the road” attraverso un paesaggio piano ma mai monotono, ci separano dal “Theodore Roosevelt National Park”, eremo di uno di quei quattro presidenti di cui abbiamo visto il viso scolpito nella roccia a Mount Rushmore. Il Parco è suddiviso in due parti, sud e nord, distanti un centinaio di chilometri l’una dall’altra ed entrambi attraversate da strade panoramiche. Il tormentato paesaggio è di una desolata bellezza. Altipiani verdi e praterie si alternano a dirupi scoscesi, gole vertiginose, trafori e merletti preziosi modellati nel corso dei secoli dal vento, dall’acqua e dal ghiaccio.
Proseguiamo e in cinque ore di viaggio raggiungiamo “Little Bighorn Battlefield National Monument”, il luogo in cui il generale Custer, alla testa del suo mitico Settimo Cavalleggeri, perse la vita in battaglia contro gli indiani riportando un’umiliante sconfitta: 272 militi rimasero sul campo. Sul luogo diversi pannelli illustrano le strategie militari delle casacche blu e dei pellerosse.
Proseguiamo per Cody, la città fondata nel 1895 da Buffalo Bill (la sua figura è illustrata nell’articolo in penultima pagina), l’uomo che creò ad arte il mito del Far West, con il suo spettacolo, che portò in giro per il mondo. La città, molto turistica, gli dedica uno splendido museo in cui si racconta come questo precursore delle più moderne teorie del marketing costruì il mito del lontano West. In un’altra parte del museo, immersi in un ambiente di luci soffuse con cantilene indiane in sottofondo, si viene invece sapientemente guidati nella realtà culturale dei Sioux e di altre tribù. Ma non solo, un’ampia sezione è dedicata alla presenza indiana nella cultura a stelle e strisce. A Cody si può anche visitare un tipico villaggio del West di fine Ottocento ricostruito con antichi edifici, provenienti da varie parti della regione, sul luogo in cui sorsero le prime abitazioni volute da Buffalo Bill. Last but non least, ogni sera in estate, a partire dalle 20 si può assistere a uno spettacolo di rodeo.

Itinerario
4° giorno (196 km) Pine Ridge – Red Cloud – Hot Springs e Visita Custer State Park
5° giorno Sylvan Lake – Crazy Horse Memorial (20 km) / Crazy Horse Memorial – Mount Rushmore (25 km) / Mount Rushmore – Rapid City (40 km) / Rapid City – Homestake Gold Mine (80 km) / Homestake Gold Mine – Deadwood (5 km)
6° giorno Deadwood – Badlands National Park (90 km)
e Visita Badlands National Park
7° giorno Cedar Pass – Medora (513 km) e Visita del parco
8° giorno Medora – North Unit Visitor Center (110 km) / Visita del parco / Nord Unit Visitor Center – Hardin (500 km)
9° giorno Hardin – Custer Battlefield (35 km) / Custer Battlefield – Cody (285 km)

Per saperne di più
North&South Dakota Edimar Editrice, Milano
Stati Uniti occidentali Lonely Planet, Torino