Camerun – Un medico ticinese nel Camerun, il ricordo di Giuseppe Maggi

Camerun – Tutta l’Africa in un solo paese
Camerun – Dove il tempo sembra essersi fermato
Camerun – Stregato dalla gente e dai colori nel mio primo viaggio in Africa

Nel diario di viaggio ho scritto di quanto sia rimasto colpito dalla dolcezza e dalla gentilezza di quella gente e di come non si possa giudicare un viaggio del genere con gli stessi parametri di altre esperienze. Esiste però, purtroppo, anche un rovescio della medaglia, che sarebbe ingenuo e scorretto tacere, anche perché in parte chiama in causa la nostra civiltà occidentale. Raccontavo di come Douala, la capitale economica del Camerun, sia una brutta città costruita in epoca coloniale, che della nostra cultura ha recepito solo gli elementi peggiori. In Camerun ho incontrato un anziano italiano che con orgoglio mi raccontava come noi europei abbiamo portato la civilizzazione in Africa. E no, le cose non stanno proprio così. Il colonialismo certamente, ma per diversi aspetti anche certe forme di turismo, della nostra civiltà hanno “esportato” soprattutto il peggio. Basti pensare alla politica. Quali esempi abbiamo fornito e cosa abbiamo fatto per preparare quei Paesi a gestire l’indipendenza, dopo che ci siamo impossessati delle loro maggiori risorse? Il Camerun ha conquistato l’indipendenza nel 1960, dopo aver subito la dominazione dei tedeschi dapprima e dei francesi e degli inglesi in seguito, ed è subito finito sotto un padre padrone: il presidente Hamadou Ahijio, che ha governato per 22 anni. Il potere è poi passato a Paul Biya, che ha apparentemente “democratizzato” il Paese, portandolo al poco invidiabile primato di Stato più corrotto del mondo. In Camerun bisogna pagare per avere buoni voti a scuola, per entrare all’università, per disporre di un letto in ospedale, persino per ottenere un funerale decente. La corruzione segue abitudini e rituali, frutto di regole e norme di comportamento che condizionano la quotidianità. Ed è un vero peccato perché il Camerun ha di un interessante potenziale economico, potendo contare sull’esportazione di caffè, cacao, cotone, banane, olio di palma, legname e petrolio. Questo Paese, il cui reddito pro capite è uno dei più elevati del continente, può vantare la quasi totale autosufficienza alimentare. Se all’estero questo piccolo Stato, oggi purtroppo considerato a rischio per il turismo, è noto per aver dato le origini al giocatore di calcio Eto’o e al tennista Noah, in Ticino è invece conosciuto per essere stato la seconda patria del dottor Giuseppe Maggi, il medico di Caneggio che ha dedicato quarant’anni della sua vita alla battaglia contro la malaria e molti altri mali che affliggono le popolazioni più povere del Camerun del nord. Nella sua lunga attività, che gli valse anche una candidatura al premio Nobel per la pace, il medico ticinese ha costruito in Camerun cinque ospedali, quattro dei quali nel corso degli anni si sono resi autonomi. L’ultima sua creazione, invece, continua ad essere gestita da “L’Opera Umanitaria Dr. Maggi”, che porta avanti il sogno del fondatore – di cui quest’anno ricorre il venticinquesimo della morte – con un’équipe di cinquanta sanitari, tutti africani.

Turchia – Sulle orme dei Greci e dei Romani

Turchia – Re Mida e le antiche civiltà
Turchia – Il fascino di Istanbul ieri e oggi, una società in rapidissima crescita

Alla scoperta della mitica Troia, che ispirò i poemi di Omero; di Pergamo con la sua straordinaria biblioteca; di Efeso, considerata la Pompei turca; di Didima, celebre per le sentenze del suo oracolo; di Afrodisia, la città dell’amore; delle cascate pietrificate di Pamukkale, emblema della Turchia turistica.

Le coste turche che si affacciano sul Mar Egeo, distanti un tiro di schioppo dalle isole greche, sono state nel corso dell’antichità fortemente legate alla cultura dapprima greca e in seguito romana. Risultano ricchissime di luoghi che testimoniano questo passato. L’Associazione archeologica ticinese ha organizzato un interessante viaggio nella regione alla scoperta dei siti più significativi e più interessanti. Ecco il mio diario di viaggio.

Il nostro itinerario non poteva non iniziare dalla mitica Troia, che deve il suo fascino letterario ai poemi di Omero. Nell’Iliade, il poeta narra le conseguenze del rapimento della bellissima Elena che fu sottratta al marito Menelao, re greco di Sparta, dal troiano Paride. Furioso Menelao mosse guerra a Troia, che fu vinta dopo dieci anni grazie al celebre stratagemma del cavallo di legno ideato dall’astuto Ulisse; Elena fu restituita al legittimo sposo. Nell’Odissea, Omero racconta invece il travagliato viaggio di ritorno a casa di Ulisse e la morte di Achille, colpito da Paride, figlio di Menelao, al tallone, unico punto vulnerabile del suo corpo.
È probabile che l’epica omerica sia basata sul ricordo di una serie di guerre del XIII secolo a.C. dovute a rivalità commerciali tra i greci di Micene e i troiani. Troia era infatti situata in posizione strategica su una bassa catena di colline, dalle quali si potevano controllare i traffici via mare e via terra.
Per secoli gli studiosi pensarono che i luoghi descritti da Omero fossero unicamente fonte della sua fantasia. Fino a quando, nel 1871, un archeologo dilettante, Heinrich Schliemann – un inquieto uomo d’affari tedesco che visse a lungo in Russia –, non portò alla luce Troia. Gli scavi hanno rivelato ben nove antiche città sovrapposte con datazione risalente fino al 3000 a.C. Oggi si ritiene che la città a cui si riferiscono le vicende narrate da Omero appartenga al VI periodo. Di fatto, per immaginarsi come poteva essere, bisogna lavorare molto di fantasia, ma se si ha la fortuna di disporre di una valida guida, come è successo a noi, si riesce comunque a vivere la magia di quel luogo immerso in una splendida natura. Gli oggetti più significativi trovati durante gli scavi sono esposti al museo archeologico di Istanbul.

A Pergamo s’inventò la pergamena
Il nostro viaggio prosegue a sud verso Pergamo, famosa per la sua biblioteca e per la scoperta della carta pergamena. In funivia si raggiunge l’acropoli, situata sulla cima di una collina, da cui si gode una magnifica vista sulla vallata fino al mare.
La vera nascita di questa città, di cui si hanno tracce già nel VI secolo a.C., risale ad Alessandro Magno, che morì nel 323 a.C. senza designare un successore. I suoi generali si spartirono allora il suo regno e Lisimaco assunse il controllo di gran parte della regione egea. Stanziatosi a Pergamo con un cospicuo tesoro di 9’000 talenti, partì per una guerra di conquista senza fare ritorno. Il suo luogotenente Filetero si appropriò così del tesoro e strinse una serie di alleanze militari con i vicini, che permisero ai suoi discendenti di far fiorire uno dei centri più importanti del mondo ellenistico, famoso soprattutto per la sua straordinaria biblioteca che vantava un patrimonio di oltre 200 mila volumi. Per far crescere la città e conferirle sempre maggior prestigio si progettarono monumenti importanti prendendo Atene come modello.
La biblioteca assunse una tale importanza da far temere ai responsabili di quella di Alessandria, ricca di ben 700 mila volumi, che alcuni suoi famosi studiosi potessero lasciare l’Egitto attratti da Pergamo. Per scongiurare questa concorrenza gli Egiziani sospesero l’esportazione del papiro del Nilo. Gli scienziati di Pergamo si misero allora al lavoro e inventarono la pergamena ricavata da pelli di animali.
Visitando l’acropoli ci si può rendere conto delle enormi proporzioni della biblioteca e dello splendore dei monumenti principali, come l’altare di Zeus, i cui straordinari bassorilievi – capolavoro dell’arte ellenistica – sono stati trasferiti a Berlino da Carl Humann, l’ingegnere tedesco che nell’Ottocento scoprì la città mentre stava costruendo una linea ferroviaria.

Alle origini della medicina
Un altro punto di grande interesse di Pergamo riguarda la visita dell’Asclepeion: ospedale e scuola di medicina tra i più famosi dell’antichità. Creato in epoca ellenistica, raggiunse il massimo della fama nel periodo romano quando vi lavorò Galeno, considerato il padre della medicina occidentale. Il malato veniva curato fisicamente e psicologicamente. La diagnosi veniva rivelata al paziente, mentre si trovava in uno stato di sogno-dormiveglia, dal dio Asclepio (Esculapio).
Si accede al sito percorrendo una lunga via sacra su cui anticamente si affacciavano botteghe. Su una colonna con bassorilievi è inciso un serpente, simbolo del dio della medicina. Esattamente come il serpente che si spoglia della propria pelle e risorge a nuova vita, così i pazienti dell’Asclepeion si spogliavano delle loro malattie. E tra costoro si annoverano nomi celebri come Adriano, Marco Aurelio e Caracalla.

A Efeso si respira l’aria del passato
Efeso è certamente il sito più spettacolare del nostro itinerario, tanto che alcuni la considerano la Pompei turca. Visitando questa città, che in età romana fu capitale di una provincia e raggiunse una popolazione di 250 mila abitanti, la vita del passato sembra ancora animare le rovine. Camminando lungo le vie dell’epoca romana, su cui si affacciano imponenti fontane, si possono visitare le terme, il grande teatro, la splendida biblioteca di Celso, che è stata rimessa in piedi, la piazza del mercato, il tempio di Adriano, i curiosi gabinetti pubblici, il postribolo e i quartieri abitativi.
Efeso era già prospera nel 600 a.C., ma ciò che noi oggi visitiamo risale all’età romana. Era un centro commerciale e religioso di grande importanza. Il suo monumento più rinomato, di cui rimane però purtroppo poco da vedere, è certamente il tempio eretto in onore di Cibele dapprima, di Artemide in seguito, e considerato nell’antichità una delle sette meraviglie al mondo. Il santuario, che venne più volte ricostruito, fu meta di pellegrinaggi a partire dall’800 a.C.. Sorprende per le sue incredibili dimensioni, 110 metri per 55, se paragonate a quelle di un tempio normale che erano di 30 metri per 10.

Dall’oracolo a Didima invece che a Delfi
Proseguiamo in direzione sud e raggiungiamo Mileto, che dal 700 a.C. al 700 d.C., quando le acque del mare lambivano ancora la città, fu un importante centro commerciale e amministrativo, grazie al suo porto. Famosa per la sua urbanistica molto moderna, affascinante per le sue terme, il suo monumento più imponente è il grande teatro, che a testimonianza dell’importanza della città, poteva ospitare 15 mila spettatori. Collegato a Mileto da una via sacra lunga 17 chilometri, ancora oggi in aperta campagna, sorge il suggestivo tempio di Apollo a Didima, dove operava un oracolo considerato autorevole quanto quello di Delfi. Giunti sul posto i pellegrini ponevano le loro domande ai sacerdoti, che attraversando una galleria – tuttora esistente – entravano nel tempio e le riferivano all’oracolo, il quale ispirato da dio proponeva le sue risposte, che venivano poi comunicate ai fedeli. Il sito è molto ben conservato e permette di immaginare queste dinamiche di culto.

Afrodisia, città della dea dell’amore
Lasciamo la costa lungo il Mar Egeo per inoltrarci nell’entroterra. Situata su un altopiano all’altezza di 600 metri ci accoglie Afrodisia, circondata da montagne. Molto meno affollata, ma ben conservata quasi quanto Efeso, rende bene l’idea della grandiosità e delle imponenti dimensioni delle città classiche. Per molti secoli fu soprattutto un luogo sacro, dove si celebrava il culto di Afrodite (o in età romana di Venere) e ancor prima della dea assira dell’amore e della guerra: Nin. Si trasformò in città solo nel II secolo a.C. e divenne capitale della provincia romana della Caria. La maggior parte delle rovine, in buono stato di conservazione, risale dunque al periodo di Roma. Il monumento più celebre è certamente l’imponente tempio di Afrodite, trasformato in basilica cristiana attorno al 500 d.C.. Impressionante lo stadio, che con i suoi 270 metri di lunghezza e una capienza di 30 mila spettatori era uno dei più grandi del mondo antico. La città è famosa anche per la sua scuola di scultura. Nel piccolo museo sono esposte alcune opere, come la statua di Afrodite, che testimoniano l’abilità degli scultori locali.

Cascate pietrificate a Pamukkale
Le cascate pietrificate di Pamukkale rappresentano una delle immagini turistiche più celebrate della Turchia moderna. Si tratta di bianche e splendenti formazioni calcaree, formatesi in seguito all’azione delle acque mineralizzate calde che, scorrendo lungo la parete rocciosa, si raffreddano e depositano il calcio di cui sono ricche. Nel corso dei secoli si sono create suggestive vasche di travertino attorno alle quali i Romani costruirono una grande stazione termale, denominata Hierapolis, per sfruttare le proprietà curative, note da millenni, di queste acque.
Attorno a questa incredibile e unica attrazione turistica era nata negli scorsi decenni una grande speculazione, che aveva gravemente compromesso il fascino del luogo. Nel corso degli ultimi anni le costruzioni abusive sono state distrutte e Hierapolis ha riacquistato il suo enorme charme. Ai turisti è ancora permesso bagnarsi nelle vasche di travertino, che sono di nuovo rifornite dalle originali sorgenti, mentre anni fa venivano dirottate verso le terme di improvvisati alberghi.
Accanto alle cascate pietrificate si può visitare l’antica Hierapolis fondata in età romana. Particolarmente suggestiva la necropoli, con più di 1200 tombe, costituite da tumuli, sarcofagi o monumenti sepolcrali a forma di casa, e in qualche caso anche di palazzo. Al termine della nostra visita abbiamo percorso il lungo viale su cui si allineano queste testimonianze funerarie illuminate dall’ultima luce del giorno, dopo avere assistito allo spettacolo delle cascate pietrificate che riflettono i colori del tramonto.

Itinerario

1° giorno
Lugano-Milano-Istanbul-Canakkale

2° giorno
Canakkale-Troia-Pergamo-Kusadasi

3° giorno
Kusadasi-Efeso-Mileto e Didima-Kusadasi

4° giorno
Kusadasi-Afrodisia-Hierapolis (Pamukkale)

5° giorno
Pamukkale-Usask-Gordio-Ankara

6° giorno
Ankara-Hattusa-Yazilikaya-Alachahöyük-Ankara

7° giorno
Ankara-Istanbul

8° giorno
Istanbul

9° giorno
Istanbul-Milano-Ticino

Bibliografia
Turchia Clup Guide, Milano 1989
Turchia Le Guide Mondatori, Milano 2011

Turchia – Il fascino d’Istanbul ieri e oggi, una società in rapidissima crescita

Turchia – Sulle orme dei Greci e dei Romani
Turchia – Re Mida e le antiche civiltà

Il nostro itinerario archeologico in Turchia alla scoperta dei vari periodi di civilizzazione di questo affascinante Paese non poteva non terminare con una sosta di due giorni – troppo breve – a Istanbul, l’antica Costantinopoli. La prima volta che visitai questa splendida metropoli è stato oltre quarant’anni fa, quando non avevo ancora vent’anni. Fu amore a prima vista. Era il mio primo incontro con l’Oriente. E allora l’atmosfera orientale la si respirava davvero a pieni polmoni. Ricordo che sull’antico ponte di Galata gli uomini fumavano la tipica pipa ad acqua, il “narghilé”. Girando per le vie del centro storico, all’ombra dei monumenti che testimoniano secoli di storia, incontravo molte donne con il volto coperto. E poi ricordo i canti dei “muezzin” al tramonto per chiamare i fedeli alla preghiera e la gente che al Gran Bazar interrompeva il lavoro per recarsi alla moschea. Sono poi tornato sulle rive del Bosforo più volte a distanza di anni. Negli anni Ottanta mi ci recai – con grande sorpresa di amici e colleghi – per visionare un modernissimo impianto di impaginazione per giornali. Gli americani avevano deciso di installare lì il loro modello pilota per l’Europa. Era un segno che quella società si stava muovendo, soprattutto nella sua metropoli principale. Oggi di quella Istanbul che avevo visto da ragazzo e che tanto avevo amato rimane poco. Nel centro storico, il quartiere per intenderci di Santa Sofia e della Moschea Blu, case fatiscenti stanno per essere restaurate e la nostra guida ci dice con orgoglio: “Vedrete, fra qualche anno che meraviglia diventerà questo quartiere!”. Lontano dai luoghi storici e turistici la metropoli si è sviluppata ed europeizzata all’inverosimile e conta ormai 16 milioni di abitanti. In piazza Taksim, il centro moderno, le ragazze vestono all’occidentale. Per incontrare donne velate bisogna salire sulla spianata del Topkapi, davanti alla Moschea Blu, dove giungono le turiste da Paesi arabi lontani. Lo stesso discorso vale per il Gran Bazar, uno dei mercati più famosi al mondo, dove la merce esposta è ormai globalizzata. La periferia di Istanbul è sterminata, con grattacieli bene ordinati. Vi si respira la stessa atmosfera che in Cina: ovunque si volga lo sguardo si vedono cantieri edilizi, a testimonianza di una crescita economica rapidissima. La stessa impressione l’ho provata ad Ankara, ma anche nelle campagne del sud-ovest e del centro del Paese. Le antiche case contadine giacciono ormai abbandonate: sono state sostituite da grandi caseggiati disposti secondo un preciso piano regolatore. In un vasto campo, accanto a un villaggio agricolo, mi ha colpito la presenza di uno di questi casermoni: solitario come una pianta in mezzo alla campagna. Ma presto sarà affiancato da altri, che sorgeranno in modo ordinato, perché in questo Paese la crescita è inarrestabile. Come europeo, se penso a ciò che sta avvenendo nel vecchio continente, non posso non interrogarmi sugli anni a venire e giungere alla conclusione che noi stiamo probabilmente finendo un ciclo, mentre in Turchia si guarda ancora al futuro con fiducia.

Turchia – Re Mida e le antiche civiltà

Turchia – Sulle orme dei greci e dei romani
Turchia – Il fascino di Istanbul ieri e oggi, una società in rapidissima crescita

Dall’epoca romana ed ellenistica facciamo un salto indietro nel tempo alla scoperta delle più antiche civiltà che hanno popolato l’attuale Turchia. Tra cui quella del famoso Re Mida, che trasformava in oro tutto ciò che toccava.

Visitiamo i siti archeologici dell’età ittita, che corrisponde al secondo millennio a.C., e dei regni di Frigia del leggendario re Mida (VIII secolo a.C.) e di Lidia del ricchissimo Creso (VI secolo a.C.) che seguirono al mondo ittita. Prosegue così l’itinerario organizzato dall’Associazione archeologica ticinese in terra turca, con tappa naturalmente anche ad Ankara per visitare il prestigioso Museo delle civiltà anatoliche, dove sono stati raccolti gli oggetti più preziosi provenienti dai principali siti archeologici.
Al di fuori del mondo mesopotamico, gli Ittiti sono il popolo civilizzato più antico che si conosca di quel periodo. Di grande importanza è l’età definita del “grande impero” (XIII secolo a.C.), durante il quale gli Egiziani e gli Ittiti si divisero il mondo di allora. Dopo la guerra di Kadesh (1290 a.C.), in cui i due eserciti si scontrarono senza veri vincitori e vinti, i sovrani dei due paesi finirono per stringere un patto di alleanza di estrema modernità, tanto da prevedere addirittura l’estradizione per chi compiva reati. È di questo periodo anche la conquista di uno sbocco sul Mar Egeo, che apriva agli Ittiti nuovi confini. Gli elevati livelli culturali raggiunti da questa civiltà sono testimoniati dagli splendidi oggetti rinvenuti sui siti archeologici. La storia di questo popolo di origine indoeuropea la si conosce invece grazie alla scoperta di diverse tavolette scritte in caratteri cuneiformi, che soltanto dopo molti anni di studi è stato possibile decifrare. Parlano dei loro rapporti con gli Assiri e con l’Egitto, ma anche di contratti, di codici, di leggi, di procedure e di riti religiosi, di profezie degli oracoli e di letteratura. La forza militare degli Ittiti era determinata dall’uso della cavalleria, che grazie alla scoperta di un carro da guerra con ruote a raggi, si spostava con particolare rapidità di movimento sul campo di battaglia. A bordo del carro prendevano posto l’auriga, un arciere e un soldato con lo scudo per garantire la difesa.

Hattusa, capitale dell’impero ittita
Molto suggestiva è la visita di Hattusa, l’immensa capitale dell’impero ittita, con le sue solide mura costruite in pietra, che anticamente si estendevano per sei chilometri e con diverse porte di accesso, tra le quali imponenti e ben conservate sono quelle dette “dei leoni” e “del re”, dalle statue che le fiancheggiano, i cui originali sono attualmente conservati ad Ankara, così come diversi altri oggetti qui rinvenuti, tra i quali due recipienti in terracotta di notevoli proporzioni (90 centimetri) a forma di toro, in ottimo stato di conservazione.
Oggi dei grandi palazzi di un tempo sopravvivono solo le fondamenta in pietra calcarea, ma il sito sprigiona un fascino particolare: all’armonia delle colline color del grano su cui è stata costruita la città, si contrappongono imponenti e minacciosi massi rocciosi che conferiscono al luogo una forza incredibile. Questa atmosfera quasi soprannaturale è ancor più presente in uno straordinario santuario rupestre del XIII secolo a.C. (Yazilikaya). Il tempio è stato ricavato dalla natura e si compone di due gallerie su cui sono stati scolpiti magnifici bassorilievi a sfondo religioso. Celebre è il “Corteo delle dodici divinità” raffigurate da guerrieri armati.
Una trentina di chilometri verso nord separano Hattusa da Alacahöyük, centro fiorente della cultura preittita Hatti, dove sono state rinvenute tredici prestigiose tombe reali risalenti a un periodo tra il 2200 e il 1900 a.C.. Questi sepolcri di forma rettangolare –lunghi fino a 7 metri e larghi 3 – erano protetti da un muro in pietra grezza ricoperto di travi in legno su cui venivano posti i crani e gli zoccoli degli animali sacrificati durante i riti funebri. Gli scavi hanno portato alla luce oggetti artistici di bronzo, oro e argento di incomparabile bellezza, che raffigurano la concezione del mondo di allora e che venivano usati durante i servizi divini. Oggi sono esposti ad Ankara e rappresentano una buona parte del tesoro archeologico del Museo delle civiltà anatoliche.

I tesori di Creso re dei Lidi e di Re Mida del regno dei Frigi
I regni di Lidia e Frigia si riferiscono allo stesso territorio, popolato prima dai Frigi, che si sostituirono agli Ittiti, e in seguito dai Lidi, che furono soppiantati dai Persiani.
Gordio, la capitale dell’antica Frigia, si trova un centinaio di chilometri a ovest di Ankara. Il paesaggio è molto suggestivo perché cosparso di tumuli funerari, la maggior parte dei quali non ancora scavati dagli archeologi. Si tratta insomma di una grande necropoli all’aperto, che si può bene osservare dalla collina più elevata su cui sorgeva l’acropoli. Il tumulo più alto – 60 metri di altezza e 300 di diametro – ospita la tomba intatta di un re frigio dell’VIII secolo a.C., che si presume si chiamasse Mida o Gordio. Al tumulo si accede da una galleria laterale attraverso un lungo corridoio che conduce a una sorta di casetta in legno di cedro e circondata da tronchi di ginepro. Vi è stato rinvenuto il corpo di un uomo di età stimata tra i 60 e i 65 anni, alto 1 metro e 59 centimetri, intorno al quale erano deposti alcuni oggetti funerari, esposti in parte nel museo adiacente e in parte – i più preziosi e in particolare due tavolini pieghevoli in legno intarsiato – al Museo delle civiltà anatoliche di Ankara.
Legate a re Mida sono nate molte leggende. La più famosa tramanda una lezione morale sull’avidità. Si narra infatti che il re frigio abbia chiesto a Dioniso il potere di trasformare in oro tutto ciò che toccava. Ben presto si accorse di essere stato preso alla lettera: il cibo al tatto si trasformava in oro, così come accadde alla figlia durante un affettuoso abbraccio. Il re chiese allora a Dioniso di liberarlo da questa maledizione. Questi gli disse di immergersi nel fiume, le cui sabbie divennero aurifere.
Nel Museo Archeologico di Usak è esposto invece il cosiddetto “Tesoro di Creso”, costituito da uno splendido corredo per banchetti in argento, da gioielli e da una serie di tavole dipinte: tutti oggetti risalenti alla seconda metà del VI secolo a.C. e che furono al centro di un piccante giallo internazionale. Proveniente da tumuli funerari scavati da tombaroli, il tesoro finì negli Stati Uniti al Metropolitan Museum di New York. La polemica scoppiò nell’85 quando il prestigioso museo presentò una mostra in cui vennero annunciati straordinari reperti greco-orientali. Un giornalista americano, dopo avere intuito la provenienza del tesoro, prese contatto con un collega turco. Ne nacque un’inchiesta giornalistica internazionale, che, facendo leva su dissidi sorti tra i tombaroli turchi, poté dimostrare come il tesoro fosse stato trafugato negli Stati Uniti dalla Turchia. La questione assunse risvolti penali e politici e nel giro di dieci anni gli oggetti tornarono a Usak, dove erano stati rubati.

Itinerario

1° giorno
Lugano-Milano-Istanbul-Canakkale

2° giorno
Canakkale-Troia-Pergamo-Kusadasi

3° giorno
Kusadasi-Efeso-Mileto e Didima-Kusadasi

4° giorno
Kusadasi-Afrodisia-Hierapolis (Pamukkale)

5° giorno
Pamukkale-Usask-Gordio-Ankara

6° giorno
Ankara-Hattusa-Yazilikaya-Alachahöyük-Ankara

7° giorno
Ankara-Istanbul

8° giorno
Istanbul

9° giorno
Istanbul-Milano-Ticino

Bibliografia
Turchia Clup Guide, Milano 1989
Turchia Le Guide Mondatori, Milano 2011

Ungheria – Le città e i villaggi, la corona di Budapest

Ungheria – In campagna tra chiese e castelli
Slovacchia – Con Bratislava amore a prima vista

Il percorso proposto esclude la capitale, alla scoperta di quella che potremmo chiamare l’altra Ungheria, una destinazione poco gettonata dal turismo internazionale, ma forse per questo particolarmente interessante.

Budapest, come Londra per la Gran Bretagna o Parigi per la Francia, è il fulcro attorno a cui ruota la vita dell’Ungheria. È una splendida città, meta ideale per un fine settimana prolungato. L’itinerario che vi propongo si articola escludendo la capitale, alla scoperta di quella che potremmo chiamare l’altra Ungheria. Si tratta di una destinazione solitamente poco gettonata e forse proprio per questo interessante. Durante il nostro soggiorno abbiamo incontrato molti turisti locali, ma pochi che venivano dall’estero. Salvo quando ci si avvicinava a Budapest, come a Visegrad o Szentendre. Certo, se non siete mai stati nella capitale, sarebbe davvero un peccato non dedicarle alcuni giorni, ma tenete conto che è facilmente raggiungibile, sia in aereo, sia via Danubio da Praga e da Vienna.
Il percorso qui descritto è facilmente praticabile partendo da casa con la propria vettura, perché per raggiungere la frontiera ungherese non occorrono più di sette ore passando per il Friuli. Non si vedono cose eccezionali, ma si trascorre una piacevole settimana visitando simpatiche cittadine e villaggi, castelli ricchi di tradizione e monumenti religiosi antichi quanto la storia di questo paese.

Quattro cittadine e la dominazione turca
Tra le città e cittadine visitate durante questo itinerario nell’altra Ungheria, cioè oltre Budapest, quella che più mi ha affascinato è senz’altro Sopron, incuneata all’interno del territorio austriaco. In effetti il Trattato del Trianon, con cui gli Alleati vittoriosi nel 1920 dopo la prima guerra mondiale ridisegnarono a Versailles l’Europa, assegnava questa cittadina all’Austria. Un anno più tardi i suoi abitanti chiamati alle urne optarono però risolutamente per ritornare ungheresi. Per celebrare questo avvenimento sulla piazza principale del centro storico si erge la Porta della Lealtà con una decorazione che mostra l’Ungheria circondata da cittadini inginocchiati e lo stemma di Sopron che da allora include il titolo di “Civitas Fidelissima”. Gli Austriaci vi si recano per fare acquisti, per cenare nei numerosi ristoranti e per le cure odontoiatriche: ci sono studi dentistici ovunque! Per noi turisti, invece, Sopron con i suoi 115 monumenti e 240 edifici antichi, può essere considerata a giusta ragione “la città più storica dell’Ungheria”. Non essendo mai stata devastata dai Mongoli o dai Turchi, il centro storico ha infatti conservato il suo impianto medievale con una commistione di gotico e barocco. La seconda guerra mondiale ha provocato gravi danni, ma la città antica è stata restaurata con molto garbo. Circondato dai quartieri moderni il centro storico è costruito a ferro di cavallo attorno alla piazza principale (Fö Ter). Si articola su quattro vie pavimentate a grossi ciottoli e fiancheggiate da abitazioni dipinte con colori pastello. Passeggiando per le strette viuzze pedonalizzate, sia di notte come di giorno, si ha l’impressione di tornare indietro nel tempo.
Un’altra cittadina molto caratteristica e affascinante è Szentendre. Appare come un villaggio romantico che si estende sulla riva destra del Danubio a 19 chilometri da Budapest. Numerosi artisti hanno trovato in questi luoghi una fonte di ispirazione. La “Montmartre del Danubio” – così l’ha definita Claudio Magris – si presenta come un delizioso complesso di case dai colori autunnali, con giardini segreti e vicoletti che si snodano fino alle chiese in cima alle colline. Accanto a luoghi di culto cattolici se ne trovano anche di ortodossi, eretti da cittadini serbi che erano riparati qui nel lontano ‘600 quando i Turchi avevano invaso il loro paese.
Sebbene sia considerata da molti come la più bella città d’Ungheria, dopo la capitale, sono rimasto invece parzialmente deluso da Pecs, che si trova a sud del paese. La sfortuna ha voluto che la visitassi di lunedì, giorno in cui i suoi numerosi e interessanti musei sono chiusi. In particolare mi sono perso il Csontvary Muzeum, dedicato alle opere dell’omonimo grande artista nato nel 1853, lo stesso anno di Van Gogh, con cui non ha avuto in comune solo la data di nascita, ma anche un’esistenza altrettanto tragica. Apprezzato in Francia, ma non nel suo paese, oppresso da una personalità instabile e ossessiva che sconfinava nella malattia mentale, morì a Budapest solo e senza un soldo. La sua opera, messa all’asta dai parenti, venne acquistata quasi in blocco da un giovane architetto, che ne riconobbe la genialità. Picasso, scoprendo questo artista in occasione di una mostra a Parigi, affermò con poca modestia: “Non sapevo, che oltre a me, ci fosse un altro grande pittore in questo secolo”.
Situata in un avallamento e protetta dai venti, questa città dal clima mediterraneo è famosa, oltre che per la cultura (di cui fu eletta capitale europea nel 2010), anche per i suoi vini. Buona parte del centro storico è pedonalizzato e passeggiare è piacevole. Molto suggestiva la piazza dove sorge la cattedrale e quella che ospita il Belvarosi Templon: un’antica moschea costruita verso il 1580 dai Turchi utilizzando le pietre recuperate dalla demolizione di una chiesa cattolica medievale. Alla partenza dei Saraceni, quest’edificio è stato trasformato in chiesa cattolica, dopo aver abbattuto il minareto. Un episodio che bene esprime il trauma vissuto da questo paese durante la dominazione turca.
Anche Eger, una cittadina situata nel nord-est del paese, ha una storia legata al periodo dell’occupazione ottomana. Condotti da Istvan Dobo, un eroe nazionale, 2000 soldati nel 1552 resistettero per un mese a un esercito di oltre 100 mila Turchi. La leggenda narra che il comandante ungherese sostenne le truppe sfinite grazie ai poteri magici di un vino locale. Siccome i soldati non si asciugavano educatamente la bocca, i Turchi pensarono che bevessero sangue di toro. A quel punto gli invasori abbandonarono impauriti il campo e il vino locale assunse il nome di Bikaver, cioè sangue di toro. Aneddoti a parte, la cittadina, dominata da un imponente castello molto ricostruito, è piuttosto deludente, salvo una piazza e alcune belle vie che salgono al maniero, affiancate da costruzioni antiche.

Due villaggi rurali molto diversi fra loro
Kozeg, annidata sulle alture subalpine lungo il confine austriaco, propone uno dei centri storici più belli d’Ungheria. È una Sopron in miniatura, sia per la sua posizione, sia per la sua bellezza. Le sue case barocche e l’ambiente riflettono secoli di influenza austriaca e tedesca, quando era chiamata Güns. Come Sopron è disposta a ferro di cavallo e si articola su poche arterie principali collegate da stradine su cui si affacciano case e palazzi antichi dai colori tenui. Come Eger è famosa per la sua eroica resistenza ai Turchi durante l’assedio del 1532: per un mese il sultano Solimano, diretto a Vienna con 100 mila soldati, fu tenuto in scacco da 400 combattenti guidati dal capitano Miklos Jurisics. Dopo diciannove assalti il sultano abbandonò la campagna fino all’anno successivo, quando Vienna era ormai pronta a difendersi.
Di natura completamente diversa è invece lo splendido villaggio di Hollokö, considerato il più bello d’Ungheria e dichiarato patrimonio dell’Umanità dall’Unesco. Situato su un’altura in mezzo a un paesaggio cosparso di vigneti, pur essendo realmente abitato assomiglia a un museo etnografico all’aperto. È una sorta di Corippo ungherese. Molte delle sue case sono state adibite a museo, altre sono state acquistate da intellettuali della capitale per salvare questo luogo più volte distrutto da incendi, ma sempre ricostruito con le tecniche antiche, salvo i tetti che nel passato erano in paglia. Le strutture portanti delle case sono in legno e gli interni sono decorati come una volta. Isolato dalle aree di sviluppo economico – l’acqua e l’elettricità sono giunte qui solo nel 1959 – il villaggio è stato protetto dalle trasformazioni e può vantare oggi un aspetto quasi incontaminato. Era abitato da una minoranza etnica di origine slovacca chiamata Paloc, per la quale la gerarchia familiare era molto importante e si esprimeva anche nell’ubicazione delle abitazioni. La prima casa di una famiglia, dove abitava il ramo più anziano, era collocata sul bordo di una delle due strade principali su cui si articola il villaggio. I discendenti costruivano in seguito le loro case sulla stessa parcella, che si estendeva perpendicolarmente alla strada.

Itinerario
Locarno – Kutas (921 km)
Kutas – Pecs – Kutas (200 km)
Kutas – Gödöllo – Eger /365 km)
Eger – Belapatfalva – Szilvasvarad – Lillafüred (50 km)
Lillafüred – Eger – Hollöko – Szentendre – Visegrad (245 km)
Visegrad – Esztergom – Pannonhalma – Bratislava (215 km)
Bratislava – Fertörakos – Sopron (85 km)
Sopron – Fertöd – Köszeg – Tatzmannsdorf (105 km)
Tatzmannsdorf – Locarno (Via Udine) (874 km)

Bibliografia
Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia Le Guide Routard, Milano 2008
Ungheria Touring Editore, Milano 2011
Ungheria Le Guide Mondadori, Milano 2009
Budapest e l’Ungheria La Guida verde Michelin, Milano 2009
Ungheria The Rough Guide, Vallardi, Milano 2007
Ungheria Lonely Planet, Torino 2009
Slovacchia Touring Editore, Milano 2010
Bratislava Morellini Editore, Milano 2009

Slovacchia – Con Bratislava amore a prima vista

Ungheria – Le città e i villaggi, la corona di Budapest
Ungheria – In campagna tra chiese e castelli

Sono arrivato a Bratislava in Slovacchia una calda sera di tarda estate ed è stato amore a prima vista. È una di quelle città che ti affascinano: pur non possedendo monumenti di eccezionale valore, è vivace, offre un gradevole centro pedonalizzato ricco di storia e di magnifiche bellezze architettoniche, animato dalla presenza di molti giovani che affollano i numerosi locali a tutte le ore del giorno e della notte. A Bratislava bere birra è un’abitudine per le persone di ogni età. La si gusta a colazione, a pranzo e a cena ed è molto difficile convincere gli slovacchi che sorseggiare un caffé possa essere altrettanto piacevole. L’architettura della città, differente dallo stile classico di Praga, è costituita da edifici gotici, barocchi e rococò. Il grigiore del periodo comunista è stato cancellato da un crescente benessere che attira le giovani generazioni. La città sembra ormai totalmente integrata nell’Europa più moderna, grazie anche alla vicinanza con Vienna, che dista solo 60 chilometri. Molti viaggiatori già nei secoli scorsi visitavano Bratislava per il Grand Tour, perché si trovava sulla via per o da Praga, Budapest e Vienna. Oggi un numero sempre maggiore di turisti ha scoperto che la città è una meta di grande valore. Eppure questa capitale stenta a scrollarsi di dosso il complesso della sorella minore rispetto alla vicina Praga. La sua visita, sebbene si trovi in Slovacchia, si inserisce perfettamente nell’itinerario in Ungheria, trovandosi a poca distanza da alcune delle mete più interessanti del viaggio. Oltre che città-simbolo dell’hockey su ghiaccio (la nazionale slovacca è stata campione del mondo nel 2002), tra giugno e settembre Bratislava diventa anche una capitale internazionale della musica, grazie al prestigioso Summer Cultural Festival, inaugurato nel 1975 e molto cresciuto nel corso degli anni, tanto che oggi conta 200 spettacoli su più di 20 palcoscenici, un cast di oltre 1500 persone provenienti da venti Paesi e attira oltre 70 mila spettatori.
La posizione della città sul confine di tre Paesi è una delle cause del suo travagliato passato. Bratislava è stata infatti costantemente contesa tra Austria e Ungheria e anche i re polacchi avanzarono talvolta pretese. La rivalità tra Austria e Ungheria continuò fino al 1526, quando i turchi sconfissero gli ungheresi e occuparono Buda. Il regno di Ungheria fu così annesso alla casa degli Asburgo e nel 1536 Bratislava (che allora si chiamava Pressburg) divenne la capitale d’Ungheria. Ecco un altro motivo per cui questa visita si inserisce bene nell’itinerario ungherese. La città fu capitale del regno d’Ungheria per oltre due secoli, fino al 1784 con il nome magiaro di Pozsony. La Dieta ungherese si riunì a Bratislava fino al 1848 e anche l’autorità religiosa risiedette fino al 1820 nella vicina Trnava. Per tornare ad essere capitale, Bratislava dovette attendere il 1992, quando, dopo la caduta dell’impero sovietico (1989), la Cecoslovacchia si divise in due Stati indipendenti: Cechia e Slovacchia di cui Bratislava è la capitale.Sono alcuni antichi palazzi e l’atmosfera che si respira per le strade la maggiore attrattiva del centro storico di Bratislava, in gran parte pedonalizzato. Un’area non grande, che si può visitare a piedi perdendosi nelle anguste stradine del centro e visitando i numerosi palazzi e musei, tra cui il duomo di San Martino, che per secoli ha fatto da scenario alle cerimonie di incoronazione dei sovrani ungheresi. Salendo all’imponente castello (in via di restauro), da dove si gode una splendida vista sulla città, si possono visitare gli interni che ospitarono la corona ungherese nel periodo in cui Bratislava fu capitale del regno magiaro.

Ungheria – In campagna tra chiese e castelli

Ungheria – Le città e i villaggi, la corona di Budapest
Slovacchia – Con Bratislava amore a prima vista

Prosegue il nostro itinerario nell’Ungheria meno nota, alla scoperta di castelli, di luoghi di culto e di alcuni paesaggi da cartolina. In quei territori tanto amati dall’imperatrice Sissi, come il Palazzo Reale di Gödöllö dove amava rifugiarsi lontano dai frastuoni della capitale dell’impero.

L’itinerario magiaro che vi proponiamo esclude la capitale, alla scoperta di quella che potremmo chiamare l’altra Ungheria. Si tratta solitamente di una destinazione poco gettonata e forse proprio per questo interessante. Il percorso qui descritto è facilmente praticabile partendo da casa con la propria vettura, perché per raggiungere la frontiera ungherese non occorrono più di sette ore passando per il Friuli. Nella prima parte vi abbiamo proposto la visita alle principali città (Sopron, Szentendre, Pecs ed Eger) e a due graziosissimi villaggi rurali (Kozeg e Hollokö). Di seguito vi proponiamo invece la scoperta di due splendidi castelli rivali, di due monumenti religiosi molto differenti tra loro in quanto uno rappresenta il potere della Chiesa, mentre l’altro la spiritualità e di alcuni luoghi noti per il loro paesaggio come il lago Ballaton e il punto in cui il Danubio, alle porte di Budapest, compie una vertiginosa svolta.

Due castelli rivali
I palazzi Gödöllö, situato 30 chilometri a nord-est della capitale, e Esterhazy, vicino al confine con l’Austria, si contendono il primato di più bel castello barocco del paese. Il primo è legato alla memoria dell’imperatore Francesco Giuseppe e dell’imperatrice Elisabetta, la celebre Sissi. Il secondo è famoso per aver ospitato per ben trent’anni Joseph Haydn quale direttore dell’orchestra di corte.
Soprannominato “piccola Versailles” o “Versailles ungherese” palazzo Esterhazy fu costruito dal principe Miklos “il Vanitoso” nella seconda metà del Settecento con la convinzione che “ogni cosa che può fare il Kaiser io posso farla meglio”. L’edificio, in stile rococò, conta 126 camere e si affaccia su un parco di 300 ettari con giardino alla francese. Era famoso per le meravigliose feste organizzate dal principe Miklos, in cui si mescolavano la musica, la danza, i giochi, la caccia, i balletti e i pasti abbondanti. I festeggiamenti proseguivano fino a notte inoltrata sotto il fragore dei fuochi d’artificio (mostrati in un video all’entrata). Miklos ricevette ospiti illustri come la regina Maria Teresa e lo scrittore tedesco Goethe e con lui lavorò per 30 anni Haydn, che così commenta quel periodo: “il mio principe era soddisfatto di tutti i miei lavori e ricevevo la sua approvazione; messo a capo di un’orchestra potevo dedicarmi a istruttive esperienze, osservare ciò che produce l’effetto o il calo d’interesse e, di conseguenza, correggere, aggiungere, in breve osare; isolato dal resto del mondo, nessuno poteva tormentarmi o farmi dubitare delle mie capacità ed ero quindi spinto a diventare orginale”.
Il Palazzo Reale di Gödöllö fu invece costruito nello stesso periodo dalla dinastia dei Grassalkowich, un’altra importante famiglia nobile ungherese, e acquistato nel 1867 dallo Stato per offrirlo all’imperatore d’Austria Francesco Giuseppe e all’imperatrice Elisabetta in occasione della loro incoronazione come sovrani d’Ungheria. La famiglia reale, e Sissi in modo particolare, amavano molto il castello, lontano dal protocollo della corte di Vienna. La regina conquistò ben presto gli abitanti del posto. “In occasione dei suoi soggiorni a Gödöllö – scrive Jean Paul Bled nel libro Rodolfo e Mayerling (edizioni Fayard) – si forma attorno all’imperatrice una corte completamente diversa da quella di Vienna. Elisabetta non è sottomessa alle regole vincolanti che ormai detesta. Inoltre, dato che Francesco Giuseppe soggiorna solo per brevi periodi, Sissi è l’astro attorno al quale tutto gravita”. Nel castello, che dispone di uno splendido parco di 28 ettari, si possono visitare i saloni e gli appartamenti reali, comprese le stanze segrete che Sissi fece costruire per godere di qualche momento di privacy, lontano dalla frenetica vita pubblica.

Potenza e spiritualità della chiesa ungherese
Budapest esclusa, la cattedrale di Esztergom e il monastero benedettino di Pannonhalma sono i due luoghi più significativi del cattolicesimo ungherese. La cattedrale con la sua imponente mole e il suo ruolo storico simboleggia gli aspetti meno simpatici della Chiesa, quelli legati al potere. Nell’abbazia di Pannonhalma, che sorge in un luogo idilliaco, si respirano invece i valori della spiritualità religiosa.
L’enorme cupola blu – 33 metri di diametro, 71 di altezza, coronata da 24 colonne – della cattedrale di Esztergom è visibile da lontano, quasi a dimostrare che da oltre un millennio costituisce il fulcro del cattolicesimo ungherese. L’attuale struttura ottocentesca sostituisce la cattedrale di Sant’Adalberto del XII secolo, distrutta nel Settecento dai Turchi in ritirata. Costruita su una scarpata molto ripida che domina il Danubio, non ha grande valore architettonico, ma si impone per la sua enorme mole, mentre al suo interno custodisce un piccolo gioiello: la cinquecentesca cappella Bakòcz, risparmiata dai Turchi. Di puro ed elegante stile rinascimentale toscano in marmo rosso, fu smontata in 1600 pezzi per far posto alla cattedrale ottocentesca e quindi ricostruita al suo interno. Nella cripta della cattedrale sono sepolti i cardinali di mille anni di storia magiara.
Anche la storia dell’abbazia di Pannonhalma è antica quanto quella dell’Ungheria. La località è sede abbaziale dal 1002, anno in cui Santo Stefano, primo sovrano magiaro, convertì il suo popolo al cristianesimo. Il monarca fece appello ai monaci affinché l’aiutassero a cristianizzare il paese. I religiosi, venuti da Cluny, edificarono sulla collina un’abbazia retta dalla regola di San Benedetto.
Nel corso dei secoli la chiesa e gli edifici ad essa annessi furono rasi al suolo, ricostruiti e restaurati parecchie volte. Di conseguenza il complesso giunto a noi è caratterizzato da una commistione di stili architettonici estremamente eterogenei. Di particolare pregio un portale gotico che dalla chiesa si apre su uno splendido chiostro del XIII secolo. Il momento più suggestivo della visita è costituito dalla magnifica biblioteca in stile Impero, con 400 mila volumi, dove si può ammirare il più antico manoscritto ungherese. L’abbazia è circondata da splendidi vigneti, le cui uve vengono vinificate in una moderna cantina, dove si può degustare il nettare dei monaci.

La svolta verso Budapest del bel Danubio blu
Dal profilo naturalistico non ho francamente trovato l’Ungheria particolarmente interessante. Il lago Ballaton e le zone boschive dei Monti Matra e del Parco nazionale del Bükk, famose per le loro risorse termali, per chi abita una regione come la nostra sono piuttosto deludenti. Affascinante, per contro, la cosiddetta Dunakanyar, la curva compiuta dal Danubio prima di raggiungere Budapest.
Luogo privilegiato da cui ammirare il lago Balaton è il grazioso, ma molto turistico, villaggio di Tihany. In particolare dall’abbazia che sovrasta l’abitato la vista sulle acque del lago più grande d’Europa – ma non si direbbe – è davvero splendida. Sono rarissimi i borghi che si affacciano sulle rive, ma numerose le zone balneabili. Siccome la profondità media è di 2 metri e mezzo, in estate la temperatura dell’acqua è molto gradevole. È il luogo privilegiato di vacanza degli Ungheresi, assieme alle regioni boschive del nord-est del paese, dove si trova il Parco nazionale del Bükk, percorso da suggestive strade panoramiche, che attraversano fittissimi boschi di faggio (bükk), e da svariati trenini a scopo turistico.
I monti Matra, più collinosi e meno boschivi, ospitano la montagna più alta del paese: 1014 metri. Dall’alto della torre della televisione, nelle giornate di bel tempo, si gode una vista su tutta l’Ungheria.
È difficile non rimanere affascinati dalla vista del Danubio, splendida dallo storico castello reale di Visegrad, ridotto in rovine dai Turchi. Dall’alto di quella collina ricca di avvenimenti storici si osserva il bel Danubio blu – il fiume cosmopolita che parte dalla Foresta Nera e collega l’Occidente all’Asia – svoltare a novanta gradi verso Budapest in un suggestivo paesaggio. Quale modo migliore per concludere un itinerario in terra magiara?

Itinerario
Locarno – Kutas (921 km)
Kutas – Pecs – Kutas (200 km)
Kutas – Gödöllo – Eger /365 km)
Eger – Belapatfalva – Szilvasvarad – Lillafüred (50 km)
Lillafüred – Eger – Hollöko – Szentendre – Visegrad (245 km)
Visegrad – Esztergom – Pannonhalma – Bratislava (215 km)
Bratislava – Fertörakos – Sopron (85 km)
Sopron – Fertöd – Köszeg – Tatzmannsdorf (105 km)
Tatzmannsdorf – Locarno (Via Udine) (874 km)

Bibliografia
Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia Le Guide Routard, Milano 2008
Ungheria Touring Editore, Milano 2011
Ungheria Le Guide Mondadori, Milano 2009
Budapest e l’Ungheria La Guida verde Michelin, Milano 2009
Ungheria The Rough Guide, Vallardi, Milano 2007
Ungheria Lonely Planet, Torino 2009
Slovacchia Touring Editore, Milano 2010
Bratislava Morellini Editore, Milano 2009

Stati Uniti – Grand Canyon e Monument Valley

Stati Uniti – Bryce Canyon e Death Valley
Stati Uniti – Da San Francisco a Los Angeles
Stati Uniti – Quando la natura diventa artista, ecco il fascino dei grandi parchi
Stati Uniti – I nostri legami con la California attraverso la storia degli emigranti

I parchi nazionali del “Far West” negli Stati Uniti offrono certamente alcuni dei paesaggi più spettacolari e straordinari al mondo. L’itinerario che tocca gli stati della California, dell’Arizona, dello Utah e del Nevada richiede tra i 15 e i 20 giorni per visitare velocemente anche Los Angeles, San Francisco e la suggestiva costa atlantica che collega queste due metropoli molto particolari.
Un volo Swiss diretto collega Zurigo a Los Angeles in tredici ore all’andata e undici al ritorno. Si arriva nella metropoli californiana la sera e il mattino seguente si può iniziare subito l’itinerario, rimandando la visita di Los Angeles alla fine del viaggio, oppure si può fare il contrario.

Da Los Angeles a Palm Springs
Lasciata Los Angeles ci inoltriamo quasi subito nel deserto e in un paio d’ore – 200 chilometri circa – si raggiunge Palm Springs, una sorta di oasi di lusso assurta agli onori della cronaca negli anni Sessanta quando veniva scelta come meta di vacanza da artisti famosi come Frank Sinatra ed Elvis Presley. Da allora molte persone facoltose hanno costruito le loro ville in quartieri con strade perpendicolari che paiono tracciate con il righello. Prima dell’arrivo degli Yankee la zona era abitata dalle tribù indiane dei Cahuilla (oggi gestiscono le case da gioco della valle) attratte dalle acque che scendono dalle San Jacinto Mountains, che costituiscono il vero punto di interesse del luogo. In dieci minuti, con una funivia di fabbricazione svizzera e rotante su sé stessa – per garantire la splendida vista a tutti gli occupanti – si sale fino a 3 mila metri, passando dal deserto a una vegetazione alpina e compiendo un’escursione termica equivalente a quella che si registra spostandosi in automobile dal Messico al Canada. Il panorama spazia dal deserto all’oasi di Palm Springs punteggiata da campi da golf e da centri di villeggiatura d’élite, che contrastano con i pini caratteristici dei percorsi escursionistici che si diramano dalla vetta. Ma per noi è ora di proseguire verso la regione del Grand Canyon. Facciamo tappa per la notte a Kingman in Arizona, un anonimo agglomerato di stazioni di servizio e di motel, in uno dei quali ci fermiamo posteggiando la nostra automobile sotto la camera che ci ospiterà per la notte: proprio come si vede nei film americani.
Il mattino seguente partiamo per il Grand Canyon percorrendo un lungo tratto della mitica Route 66, quella che il romanziere John Steinbeck chiamò la “Mother Road”, la madre di tutte le strade, costruita nel 1926 per collegare Chicago con la lontana Los Angeles. Ricordate il film “On the road” in cui il protagonista percorre questa storica arteria a bordo di una Harley Davidson?
Città di riferimento del famoso parco è Grand Canyon Village, solito centro squadrato e senz’anima, ricco di motel e stazioni di servizio, che raggiungiamo in fine mattinata. Se si prenota con molto anticipo si ha forse la fortuna (che noi non abbiamo avuto) di trovare posto a El Tovar hotel, una struttura in legno d’inizio Novecento situata sui bordi del precipizio del Grand Canyon.

Grand Canyon l’arte della natura
Nessuna fotografia e nessuno testo può descrivere ciò che si vede e si prova di fronte al Grand Canyon. È un’esperienza che va vissuta di persona e che vi consiglio caldamente di fare. Ogni descrizione rischia di essere banale. Posso solo dire che mentre camminavamo per circa quattro ore lungo il precipizio e ci si presentavano visioni sempre diverse con colori continuamente differenti, esaltati dalle diverse posizioni del sole, pensavo che nessun essere umano riuscirà mai ad eguagliare la straordinaria potenzialità artistica della natura.
Ci sono voluti quasi due miliardi di anni per creare questa meraviglia, una fessura lunga 445 chilometri, larga 16 e profonda circa 1600 metri, con centinaia di canyon laterali. All’alba e al tramonto la luce colora in modo intenso e magico le pareti rocciose: strisce di verde, blu, porpora, rosa, arancione, oro, giallo e bianco definiscono una successione di antichi strati, che permettono di effettuare uno straordinario viaggio geologico a ritroso nel tempo.
Questo luogo affascina i visitatori sin dai primi anni della rivoluzione industriale, quando giungevano nel canyon alla ricerca dell’ideale romantico della natura selvaggia per abbracciare il concetto di bellezza sublime. Oggi è visitato annualmente da cinque milioni di turisti provenienti da ogni angolo del mondo. In automobile si giunge fino al Visitor center del versante sud (quello nord è raramente visitato), da cui si prosegue con un efficiente servizio gratuito di bus navetta che collega i vari punti panoramici. Una comoda passeggiata di circa 12 chilometri a picco sul precipizio collega i “view points” più spettacolari del lato sud-ovest. Vale la pena di percorrerla in 3-4 ore perché i panorami si modificano davanti a voi come in un caleidoscopio. Sul fondo si scorge dall’alto il tranquillo percorso del fiume Colorado, che ha scavato il canyon nel corso di milioni di anni. I più allenati possono anche scendere al fiume, ma l’escursione richiede due giorni, dato l’elevato dislivello (oltre 1600 metri) e le temperature del periodo estivo, che soprattutto in basso superano facilmente i 40 gradi.

Antelope Canyon e Monument Valley
Il mattino seguente percorriamo in automobile il lato sud-est, che propone altri belvedere con panorami spettacolari. In tre ore (220 km) raggiungiamo la cittadina di Page, da dove parte un’escursione organizzata (è necessario prenotare, anche via internet), per visitare l’Antelope Canyon, uno straordinario corridoio tra due pareti rocciose in arenaria considerato il paradiso dei fotografi e riprodotto in migliaia di immagini, ma stranamente trascurato dalle principali guide turistiche. L’escursione in fuoristrada attraversa alcuni chilometri di deserto in una riserva della tribù indiana Navajo prima di giungere al profondissimo e strettissimo canyon – in alcuni punti ci passa a malapena una persona – illuminato dalla luce che penetra dall’alto creando immagini molto particolari. La roccia è levigata e propone tutte le tonalità dal rosa al rosso porpora. Le fotografie che mostrano le sue venature e forme strane, esaltate dalla luce zenitale tenue, ricordano opere di scultura moderna. Lo spettacolo mi fa di nuovo riflettere sulle potenzialità artistiche della natura.
Usciti dal canyon, ci troviamo vicino al Lake Powell, un vastissimo lago artificiale navigabile. Ha sommerso una vallata e offre visioni surreali con spuntoni di roccia che emergono minacciosi e imponenti dalle acque tranquille. Lo si visita noleggiando imbarcazioni a bordo delle quali si possono trascorrere alcuni giorni. Il nostro programma di viaggio non prevede purtroppo questa opportunità, per cui proseguiamo verso la Monument Valley, che raggiungiamo nel tardo pomeriggio dopo altre due ore e mezzo di automobile (180 km). Si trova in una riserva indiana dei Navajo situata a cavallo tra gli stati dell’Arizona e dello Utah, dove cambia anche il fuso orario: è un’ora più avanti. Decidiamo di rimandare la visita del Parco nazionale all’indomani mattina anche perché alloggiamo al Goulding’s Lodge, un albergo storico che propone un piccolo museo sulla storia cinematografica del luogo, dove si può visitare la camera di John Wayne e assistere, in una piccola sala cinematografica, alle proiezioni di opere indimenticabili come “Il massacro di Fort Apache” del 1948 o “I cavalieri del Nord Ovest” dell’anno seguente che furono girati qui. Dal 1938, quando il celeberrimo regista John Ford girò in questi luoghi “Ombre rosse” con uno sconosciuto John Wayne nel ruolo di Ringo Kid, la Monument Valley divenne infatti il set prediletto dei film western. Il piccolo museo è un po’ trasandato e decadente, ma è forse proprio questo il suo fascino. Le fotografie ingiallite sono numerosissime e presentano gli attori che hanno alloggiato al Goulding’s. Molti anche i cartelloni di quei film che per me hanno rappresentato l’immagine dell’America del West.
La mattina alle 9 parte la nostra gita organizzata della durata di circa quattro ore in fuoristrada lungo le piste della Monument Valley guidati da un Navajo. Nudi contrafforti in arenaria e impervi pinnacoli di roccia si ergono fino a 300 metri di altezza da un terreno desertico relativamente piatto di sabbia rossa. Il sole basso del mattino esalta con una luce sorprendentemente intensa i colori della roccia. Con l’immaginazione vedo John Wayne cavalcare veloce in quel paesaggio da sogno, sicuramente tra i più spettacolari di tutta l’America.
Queste terre non vanno però purtroppo ricordate solo per i racconti epici dei film western, bensì anche in quanto teatro di una delle vicende più vergognose della storia statunitense: il trasferimento forzato di alcune migliaia di Navajo, noto come Long Walk (lunga marcia), per 500 chilometri verso il New Mexico. Dopo quattro anni di stenti fu infine concesso loro di tornare nelle loro terre. Oggi qui vivono ancora circa 100 mila nativi americani che parlano la propria lingua, un linguaggio così complesso che è stato usato come codice segreto dall’esercito statunitense durante la seconda guerra mondiale.

Itinerario

1° giorno
Zurigo-Los Angeles

2° giorno
Los Angeles

3° giorno
Los Angeles-Palm Springs (194 km)
Palm Springs-Kingman (386 km)

4° giorno
Route 66
Kingman-Seligman (140 km)
Seligman-Grand Canyon (160 km)

5° giorno
Grand Canyon-Page (220 km)
Page-Monument Valley (180 km)

6° giorno
Monument Valley-Arches Np (270 km)

Stati Uniti – Quando la natura diventa artista, ecco il fascino dei grandi parchi

Stati Uniti – Grand Canyon e Monument Valley
Stati Uniti – Bryce Canyon e Death Valley
Stati Uniti – Da San Francisco a Los Angeles
Stati Uniti – I nostri legami con la California attraverso la storia degli emigranti

I parchi nazionali del Far West degli Stati Uniti offrono certamente alcuni dei paesaggi più spettacolari al mondo. Nessuna fotografia e nessuno scritto possono descrivere ciò che si vede e si prova di fronte a tanta bellezza. Mentre visitavo questi luoghi riflettevo sul fatto che nessun essere umano riuscirà mai ad eguagliare la straordinaria potenzialità artistica della natura. Se poi qualcuno appartiene alla mia generazione, cresciuta con il mito dei film western, l’emozione risulta amplificata, in quanto richiama immagini lontane legate all’infanzia e all’adolescenza. È un viaggio che vale veramente la pena di fare una volta nella vita. Lo si può effettuare individualmente senza la necessità di iscriversi a un gruppo organizzato. Muniti di un navigatore, negli Stati Uniti ci si sposta in automobile senza problemi, persino in metropoli come Los Angeles o San Francisco. Con buone guide (Michelin verde, Lonely Planet, Rough Guide) si può pianificare l’itinerario a proprio piacimento e con internet si possono effettuare le prenotazioni degli alberghi e di alcuni luoghi da visitare, dell’aereo – esiste un volo diretto della Swiss da Zurigo per Los Angeles – e dell’automobile. Data la natura del viaggio alla scoperta dei parchi nazionali è inevitabile percorrere alcuni tratti sterrati, perciò vale la pena di orientarsi verso un veicolo 4×4. Le strade lungo l’itinerario non sono trafficate e normalmente permettono di mantenere una media di 90-100 chilometri orari. È così possibile spostarsi in quattro o cinque ore da un parco all’altro percorrendo infinite strisce di asfalto tracciate nel deserto, che scorrono diritte, senza curve per centinaia di chilometri, attraversando sempre incantevoli paesaggi lunari. Il modo più efficace per visitare la regione, che attraversa gli stati della California, dell’Arizona, dello Utah e del Nevada, è di fermarsi nei parchi il primo mattino e il tardo pomeriggio ed effettuare gli spostamenti durante le ore più calde. Il termometro sfiora infatti spesso i 40 gradi e nella Death Valley anche i 50, ma il clima è molto secco. Attenzione, però, perché a San Francisco e sulla costa oceanica in direzione di Los Angeles, abbiamo trovato anche temperature molto fresche (11-13 gradi) a causa delle nebbie tipiche dei mesi di luglio e agosto. Il tempo necessario per percorrere l’itinerario proposto è di almeno 15 giorni, ma meglio prevederne una ventina. La gente negli Stati Uniti è molto gentile e sempre disposta ad aiutare i turisti. Gli alberghi sono funzionali. Nelle regioni dei parchi, salvo qualche struttura storica che cito nel diario di viaggio, i pernottamenti più comodi sono nei motel. I più affidabili sono quelli appartenenti alle grandi catene come Holiday Inn e Best Western. Sono simili a quelli che si vedono nei film, con il posteggio davanti alla camera. I costi sono ragionevolissimi: tra i 100 e 150 franchi a notte per una doppia o tripla (non fa differenza).

Stati Uniti – Bryce Canyon e Death Valley

Stati Uniti – Grand Canyon e Monument Valley
Stati Uniti – Da San Francisco a Los Angeles
Stati Uniti – Quando la natura diventa artista, ecco il fascino dei grandi parchi
Stati Uniti – I nostri legami con la California attraverso la storia degli emigranti

Prosegue il nostro itinerario attraverso i parchi nazionali dell’America dell’Ovest. Dopo il Grand Canyon, l’Antelope Canyon e la Monument Valley ci dirigiamo nello Utah verso l’Arches National Park. Il trasferimento richiede poco più di tre ore d’automobile (270 km) attraversando paesaggi desertici tanto incantevoli che il governo degli Stati Uniti sta pensando di trasformare in Parco nazionale l’intero stato dello Utah. La città di riferimento dell’Arches National Park è Moab, un villaggio minerario (si estraeva uranio fino agli anni Cinquanta) con strade perpendicolari, sviluppatosi soprattutto negli ultimi anni per accogliere i turisti che visitano Arches e Canyonlands.

Arches National Park, architettura naturale
La nostra visita inizia nel tardo pomeriggio e prosegue il mattino seguente. Percorriamo dapprima la strada asfaltata di circa 30 chilometri che serpeggia attraverso il Parco: unica traccia umana in un territorio lunare composto da dune pietrificate e massicci speroni di arenaria dalle forme più disparate. Nella roccia milioni e milioni di anni di erosione provocati da acqua, sole, vento e gelo, hanno scolpito oltre ottocento archi naturali di varie forme e dimensioni. I colori della pietra vanno dal verde all’ocra, dal bianco al rosso e si mescolano con il verde scuro dei ginepri. Il più spettacolare, a mezz’ora di cammino dalla carrozzabile, è il Landscape Arch, che con i suoi 93 metri di diametro figura tra i più ampi al mondo. Ma il monumento naturale più bello del parco è certamente il “Delicate Arch”, un piccolo arco del trionfo in roccia abbarbicato sull’orlo di un profondo canyon. Nessuno potrebbe mai immaginare che sia solo opera della natura. Lo si può raggiungere con una lunga passeggiata o ammirare da un belvedere più lontano camminando per mezz’ora. Imponente il “Double Arch”: una coppia di archi robusti che si sostengono a vicenda. È situato in una zona facilmente accessibile (Window), dove si trova la maggiore concentrazione di archi del parco.
Il nostro viaggio delle meraviglie prosegue verso un altro luogo di grande suggestione e di fama mondiale: il Bryce Canyon, dal quale ci separano oltre 400 chilometri, circa 7 ore di automobile, durante le quali si passa sorprendentemente da splendidi paesaggi desertici a una vegetazione di tipo alpino quando si sale a quasi 3000 metri. La strada panoramica HWY 12 prevede anche l’attraversamento del Capitol Reef National Park, caratterizzato da rocce variopinte che contrappongono la loro imponenza all’amenità delle fresche oasi ricche di piante da frutta che costeggiano il serpeggiante corso del Fremont River.

L’anfiteatro del Bryce Canyon
Il Bryce in effetti non è un canyon, ma un anfiteatro in pietra immerso in un vasto altopiano ammantato di fitto bosco a un altezza di 2400 metri. Lo spettacolo che offre è costituito da un tripudio di guglie e pinnacoli dai colori diversi e tutti caldi, che vanno dal giallo, al rosso e all’arancione. Queste straordinarie sculture naturali sono state erose nell’arenaria fangosa dal connubio fra inverni gelidi (qui la temperatura scende al di sotto dello zero per duecento notti all’anno) e precipitazioni estive. I pinnacoli presentano un cappello di roccia dura che si forma quando il fusto, più soffice, viene dilavato dalle piogge. Gli indiani Paiute, che vivevano in questa regione, diedero al luogo il complesso nome di “rocce rosse in piedi come uomini, in un canyon a forma di scodella”. Per i primi coloni che si dedicavano invece all’allevamento questo era considerato “un diavolo di posto dove perdere una mucca”.
Una strada panoramica di circa 30 chilometri percorre il parco e dà accesso a numerosi belvedere da cui ammirare l’incredibile anfiteatro naturale. I view points più spettacolari sono certamente il Bryce Point e, a poca distanza, i due punti Sunset e Sunrise che sono collegati tra loro da un sentiero che corre sul bordo superiore del Bryce Amphitheater, vicino al Visitor center. Se si ha la fortuna di trovare una stanza in uno dei semplici ma simpatici bungalow del Bryce Canyon Lodge si alloggia nel cuore di questo spettacolare belvedere. Ma la parte più emozionante e da non perdere della visita è una passeggiata di due ore scarse che scende in mezzo alle guglie e segue un sentiero che collega Sunset e Sunrise. Percorrendolo si ha l’impressione di passeggiare in un paesaggio surreale e incantato, indescrivibile a parole e pure con le immagini. Provare per credere!

A Las Vegas via Zion Park
Circa cinque ore di automobile – oltre 400 chilometri – separano la pace del Bryce Canyon dal frastuono di Las Vegas, la capitale mondiale del gioco d’azzardo. Ma prima di raggiungere questa incredibile città immersa nel deserto, dopo due ore di guida, giungiamo allo Zion National Park, che attraversiamo e visitiamo velocemente. Creato nel 1919, fu uno dei primi parchi nazionali americani. Si tratta di un canyon lungo 13 chilometri, largo e profondo 800 metri, una gola spettacolare incastrata fra imponenti pareti rocciose che amplificano il rumore delle fresche cascate. A valle delle alte falesie si trova un’oasi lussureggiante in cui scorre il Virgin River. In estate i collegamenti tra i punti più belli del parco sono affidati a un efficiente servizio navetta gratuito, che parte a intervalli regolari dal Visitor center. L’offerta escursionistica è amplissima, ma il nostro itinerario non prevede passeggiate, anche perché si tratta di un tipo di paesaggio a noi più familiare rispetto ai precedenti.
In altre tre ore raggiungiamo Las Vegas: caotica, affollata, caldissima. È un’altra America rispetto a quella dei giorni precedenti e di quelli che ci attendono. Si fatica a credere che un tempo fosse una città normale e che l’attuale fastoso Boulevard fosse un’arteria polverosa costeggiata dai soliti motel di periferia. Oggi ospita alberghi lussuosissimi e kitchissimi, come la piramide a 36 piani del Luxor o il castello pseudomedievale con tanto di ponte levatoio e torri merlate dell’Excalibur. Propone ricostruzioni esuberanti e meticolose della Grande Mela al New York–New York, di Venezia con tanto di campanile di San Marco, Palazzo dei Dogi e Ponte del Rialto al Venetian, della Tour Eiffel, ridotta a metà delle dimensioni, al Paris, dell’idilliaco villaggio sul lago di Como al Bellagio. Al Caesars Palace si è serviti da centurioni romani mezzi nudi e al Mirage si assiste ogni 15 minuti alle eruzioni di un vulcano. Ovunque macchinette mangiasoldi e tavoli verdi dove si può tentare la fortuna assieme a un popolo effervescente. Sbalorditi e storditi torniamo in camera non troppo tardi perché il giorno seguente ci attende una delle tappe più interessanti del viaggio: la Death Valley.

Il caldo torrido della Death Valley
È una delle zone più calde e incontaminate del pianeta. In estate la temperatura supera facilmente i 50 gradi. Un termometro lasciato esposto al sole può salire rapidamente oltre i 65 e letteralmente esplodere. Gli americani ci vengono dall’inizio di febbraio ad aprile, ma noi stranieri non ci lasciamo sfuggire anche in altre stagioni una visita in questo luogo che evoca tutto ciò che nella nostra immaginazione associamo ai deserti: paesaggio inospitale, caldo infernale, solitudine totale. Questo territorio ha rappresentato un ostacolo insormontabile per le carovane di emigranti che nell’Ottocento attraversavano l’America. Deve il suo nome proprio a un gruppo di disperati che nel 1849 cercò per settimane una via d’uscita da questa valle. Quando la trovarono, una donna si voltò ed esclamò “Good–bye, death valley”. Per noi turisti europei appare invece come un luogo incantato con gigantesche dune di sabbia, canyon marmorizzati, crateri di vulcani estinti, oasi ombreggiate, che si contrappongono a montagne di oltre 3 mila metri. Una straordinaria vista panoramica dall’alto si gode dal Dante’s View a quota 1668, che si raggiunge in automobile.
Gli appassionati di cinema ricorderanno l’indimenticabile “Zabriskie Point” di Michelangelo Antonioni, quando due giovani alla ricerca di se stessi fanno l’amore tra queste dune di sabbia pietrificate, dal nome appunto di Zabriskie Point. Una strada asfaltata conduce a Badwater, uno dei luoghi più bassi del pianeta, situato 86 metri sotto il livello del mare, sulle rive di un bianchissimo lago salato. Due piste a senso unico (Twenty Mule Team Canyon e Artists Drive) permettono di penetrare in un paesaggio desolato tra dune e colline con sfumature dal rosso cupo, al marrone e al color sabbia: si ha l’impressione di trovarsi fuori dal mondo, soprattutto se la sera prima si era a Las Vegas. Se si trova posto, vale la pena alloggiare nello storico Furnace Creek Inn, che accoglie turisti sin dal lontano 1927.
Il nostro itinerario tra i parchi nazionali volge al termine, ma ci attendono ancora una breve visita allo Yosemite e una piacevole sorpresa.

Un villaggio dimenticato
Senza molta convinzione seguiamo una deviazione raccomandata dalle guide verso Bodie State Historic Park e troviamo una piccola chicca: un antico villaggio minerario sperduto tra le montagne abbandonato all’inizio del Novecento. L’amministrazione dei parchi nazionali non è intervenuta con restauri, ma ha lasciato tutto com’era, senza nemmeno ordinare ciò che si trovava all’interno delle case, offrendo così ai visitatori uno spettacolo incredibile. Sembra di passeggiare sulla strada principale di uno di quei villaggi tipici dei film western con la chiesa, la scuola, la prigione, il saloon, l’albergo, il barbiere, eccetera. Mancano solo i cowboys, lo sceriffo e le ragazze al bancone che servono il whisky. Durante la corsa all’oro, nella seconda metà dell’Ottocento, questa cittadina aveva 10 mila abitanti e una pessima reputazione: si dice vi regnasse l’illegalità. Esaurito l’oro andò quindi decadendo e nel 1932 venne in gran parte distrutta da un incendio. Si sono salvati solo 150 edifici, che bastano però per far rivivere l’atmosfera ottocentesca dei periodi della febbre dell’oro.

Lo Yosemite, piccola Svizzera
Lo Yosemite è uno dei parchi più rinomati degli Stati Uniti – venne dichiarato Parco Nazionale dal Congresso nel lontano 1890 – e uno dei più amati dagli americani, ma per noi è meno sorprendente per i suoi paesaggi, splendidi ma familiari e molto simili a quelli alpini più idilliaci: prati verdi con le mucche al pascolo, foreste di conifere, placidi laghetti alimentati da romantici ruscelli. Offre innumerevoli possibilità di escursionismo ed è affollatissimo. Nei pressi di Yosemite Village il paesaggio diventa imponente, caratterizzato da mastodontiche pareti rocciose in granito, tra cui El Capitan, la rupe a picco ininterrotta più alta del mondo. La maggiore attrazione di questa zona è costituita da una sorprendente cascata che precipita per oltre 700 metri, dando vita a tre spettacolari salti. Purtroppo il tempo a disposizione è limitato e ci costringe ad operare delle scelte. Dedichiamo così poco, forse troppo poco tempo, alla visita di questo parco. Ci spostiamo per la notte nella zona sud, per avvicinarci ai boschi di sequoie giganti che abbiamo in previsione di visitare il mattino seguente, ma alle 9 il parcheggio è già esaurito e bisogna attendere. Decidiamo quindi di proseguire per la Napa Valley e per San Francisco che raggiungiamo passando dal mitico Golden Gate.

Itinerario

7° giorno
Moab-Bryce Canyon (440 km)
HWY12 (panoramica) Hanksville-Cannonville

8° giorno
Bryce Canyon-Las Vegas
– Bryce Canyon-Zion NP (150 km)
Zion NP-Las Vegas (270 km)

9° giorno
Las Vegas-Death Valley
Las Vegas-Furnace Creek (230 km)

10° giorno
Death Valley-Yosemite
Furnace Creek-Bodie (420 km)
Bodie-Fish Camp (200 km)

11° giorno
Yosemite-San Francisco
Fishcamp-Napa Valley (372 km)
Napa Valley-San Francisco (50 km)