Perù – La dura impronta spagnola sul Perù precolombiano

Perù – Il Machu Picchu gioiello Inca
Perù – Le misteriose Linee di Nazca
Perù – Tutto il fascino dell’Amazzonia

Quando si parla del periodo precolombiano in Perù il pensiero corre subito all’impero Inca, nonostante questa civiltà fosse stata preceduta da altre culture altrettanto affascinanti ed estremamente evolute. Ma allora perché degli Incas sappiamo molto, mentre per quanto riguarda i loro antenati siamo costretti ad attenerci alle ipotesi degli archeologi? Sostanzialmente perché tutte queste popolazioni, Incas inclusi, non avevano un sistema di scrittura. Della giovane civiltà Inca, nata un secolo prima dello sbarco dei conquistadores, sappiamo molto perché quando gli Spagnoli condotti da Pizarro conquistarono il Perù nel XVI secolo avevano cronisti al seguito, che ci hanno trasmesso numerose testimonianze raccolte all’epoca. I cronisti, in mancanza di testi scritti, basavano le loro ricerche su fonti orali, che li informavano in modo preciso sulla cultura Inca, ma non avevano nessun interesse a raccontare la lunga e complessa storia dei popoli precedenti. Il loro intento era di proporre agli europei un’immagine gloriosa di sé, presentando le Ande come una terra popolata da selvaggi ai quali solo l’arrivo degli Inca portò la luce della civiltà.
Gli Spagnoli dominarono le colonie latinoamericane per quasi quattro secoli, fino all’inizio dell’Ottocento. In Perù la maggior parte delle realizzazioni architettoniche Inca vennero letteralmente smontate dagli invasori e con quel raffinato materiale – pietre perfettamente levigate – vennero costruiti i palazzi e le chiese cattoliche dei conquistadores. Per questa ragione, salvo Machu Picchu, che non fu mai scoperto dagli Spagnoli, sono giunte a noi nella loro integrità ben poche costruzioni incaiche. Per contro le principali città del Paese propongono un’interessante architettura coloniale, che ricorda moltissimo quella della terra madre: la Spagna. Le testimonianze più interessanti del periodo coloniale – almeno quelle sopravvissute ai numerosi terremoti sono rappresentate da palazzi, ma soprattutto da edifici religiosi. I principali a Lima, dove nella cattedrale sono custodite le spoglie di Pizarro, ad Arequipa, dove si può visitare un complesso religioso di 20 mila metri quadrati, una vera e propria cittadella nella città, e nella magnifica Cuzco, dove nel centro storico il tempo sembra essersi fermato al periodo coloniale.
Di particolare interesse a Cuzco e dintorni le opere prodotte dalla Esquela Cuzquena di pittura, alla quale si devono sorprendenti combinazioni tra l’arte europea del XVII secolo e la fantasia degli artisti andini legati alla loro tradizione. Uno degli esempi più eloquenti è rappresentato nella cattedrale di Cuzco dalla raffigurazione di una Madonna, che indossa una gonna a forma di montagna, orlata da un fiume che scorre. Un’immagine che ricorda quella della Pachamama, la Madre Terra della civiltà Inca. A noi piace pensare che questo adattamento della Vergine Maria in un personaggio religioso andino fosse anche un modo per resistere e ribellarsi al modo opprimente con cui gli Spagnoli imposero la loro religione e la loro cultura alle popolazioni indigene.

Perù – Le misteriose Linee di Nazca

Perù – Il Machu Picchu gioiello Inca
Perù – Tutto il fascino dell’Amazzonia
Perù – La dura impronta spagnola sul Perù precolombiano

Una sorta di galleria d’arte all’aperto e uno dei più affascinanti interrogativi archeologici del mondo propongono animali disegnati sulle sabbie del deserto. Per spiegare le origini si sono scomodati persino gli extraterrestri.

Un colibrì, un pellicano, un ragno, un puma, una lunghissima lucertola, una scimmia con una stravagante coda arrotolata e, non poteva mancare, un condor dall’enorme apertura alare. Una galleria d’arte all’aperto incisa nella sabbia del deserto, uno dei più affascinanti misteri archeologici del mondo. Stiamo parlando delle cosiddette “Linee di Nazca” in Perù, attorno alle quali sono nate un’infinità di interpretazioni. Ma come ha affermato la matematica e archeologa tedesca Maria Reiche, conosciuta come la “señora de Nazca”, che ha dedicato la sua vita a studiarle, su un fatto tutti concordano: “rappresentano un meraviglioso equilibrio tra paesaggio e arte. Ciò che mi appassionò sin dall’inizio – ha affermato in un’intervista la studiosa oggi scomparsa – fu questa mediazione e intreccio tra natura e cultura. E l’uomo antico ha saputo rispettare questo accordo”. A scoprire queste opere d’arte a cielo aperto fu l’archeologo americano Paul Kosok nel 1939, quando sorvolando il deserto notò una serie di lunghissime linee e di enormi figure incise nel paesaggio. Maria Reiche cominciò a studiarle e a ‘restaurarle’ nel 1946. “È stato sufficiente spostare polvere e sassi – spiegava ai turisti durante una conferenza quotidiana che teneva nei saloni dell’hotel de Turistas a Nazca – per fare emergere porzioni di superficie più chiare perché meno esposte al sole, che si sono mantenute inalterate per molti secoli grazie alla quasi totale assenza di precipitazioni e di vento nella zona”. Quanto alla realizzazione di queste enormi figure, che si estendono per centinaia di metri, la studiosa riteneva che fossero state realizzate prima su modelli in scala ridotta per poi riproporli sul terreno grazie all’utilizzo di lunghe corde.
Per ammirare i misteriosi disegni, che si estendono nella Pampa di San José su una superficie di 500 chilometri quadrati, vengono organizzati da varie società durante tutta la giornata voli con piccoli aerei. I velivoli volteggiano per circa mezz’ora sopra le magiche figure offrendo ai turisti vedute davvero sorprendenti.
Ma il mistero sulle fantomatiche linee rimane irrisolto, anche perché la civilta Nazca non possedeva un sistema di scrittura attraverso il quale comunicare ai posteri la sua storia. Maria Reiche era convinta che le linee rappresentassero una sorta di calendario astronomico correlato ai punti in cui i corpi celesti sorgevano e tramontavano verso oriente e verso occidente. L’archeologo peruviano Toribo Mejia a Xesspe riteneva invece che fossero state create per camminare o danzare, probabilmente a scopi rituali. Dopo aver studiato il fenomeno per un decennio, Anthony Aveni, uno dei principali archeoastronomi del mondo è arrivato alla conclusione che si trattasse di sentieri percorsi durante riti per propiziare la pioggia. Non è mancato chi ha scomodato anche gli extraterrestri per spiegare il mistero di Nazca.

La civiltà Nazca
Le sabbie del deserto su cui si estendono le Linee di Nazca nascondevano anche le tracce di una delle numerose culture preincaiche presenti in Perù. La civiltà Nazca, esistita tra il 200 e l’800 dopo Cristo, è famosa per le sue ceramiche riccamente decorate, che hanno permesso di studiarne la storia. Alcune delle figure rappresentate sugli oggetti rinvenuti dagli archeologi – motivi e disegni di ogni genere, da piante e animali a feticci e divinità – riecheggiano le stesse Linee di Nazca.
Il museo archeologico della vicina cittadina di Ica e il museo Antonini di Nazca espongono numerosi oggetti di questa civiltà, tra cui una ricca collezione di ceramiche. Particolarmente impressionanti sono una serie di mummie incredibilmente ben conservate (da quelle di bimbi a quella di un piccolo macaco) e una ricca presenza di teschi. Alcuni presentano tracce di interventi chirurgici. Le civiltà preincaiche praticavano infatti delicate operazioni al cranio. E, a quanto sembra, in molti casi con successo. Altri mostrano invece importanti deformazioni. Nel rispetto di credenze religiose, ai neonati veniva infatti fasciata la testa per ottenere crani allungati. Altri ancora finivano appesi alla cinture dei guerrieri, che esibivano orgogliosi i teschi delle vittime uccise in combattimento.

Acquedotti e cimiteri Nazca
Nei dintorni dell’animata e simpatica cittadina di Nazca si possono visitare acquedotti e cimiteri risalenti all’epoca delle famose Linee. L’acquedotto, che portava l’acqua dalle montagne verso la città, è costruito in sasso ed è intercalato da una serie di pozzi, dove si può scendere fino all’acqua seguendo un tragitto a spirale. I due cimiteri si trovano invece in un desolato deserto verso sud non distanti uno dall’altro. Quello di Cahuachi, dove gli scavi sono tuttora in corso, era probabilmente destinato ai notabili. Su un rilievo naturale si erge un imponente gruppo di sei piramidi e un luogo destinato alla mummificazione. A Chauchilla, invece, sparse su un terreno desertico polveroso si vedono letteralmente migliaia di tombe destinate alla gente comune. Alcune, profanate dai tombaroli, sono state lasciate aperte e offrono alla vista del visitatore corpi mummificati di persone sole, di coppie o di intere famiglie. Il luogo è molto suggestivo, ma per certi aspetti anche macabro, perché i tombaroli hanno sparpagliato frammenti di ossa sul terreno che sono tuttora visibili.

Lima, la città dei re
Diciamo la verità, Lima è una città interessante per i suoi musei, è probabilmente una città seducente per viverci, ma non è una bella città. Da aprile a ottobre è immersa nella nebbia e il suo cielo, come scrive il premio Nobel peruviano Mario Vargas Llosa è “color cenere”. Si dice che Pizarro fondò qui la “città dei re” perché essendo sbarcato in estate non si rese conto del suo clima mutevole.
Il centro storico che si sviluppa attorno alla Plaza Mayor conserva ancora una certa eleganza con le vestigia architettoniche più visibili e raffinate dell’epoca coloniale. Un reticolo di affollate stradine risalenti ai tempi di Pizarro ospita la maggior parte di edifici coloniali giunti intatti fino ai nostri giorni. Più volte distrutta da terribili terremoti, saccheggiata e occupata dall’esercito cileno durante la guerra del Pacifico (1879-1883), terra di rifugio per milioni di contadini andini che negli anni Ottanta sfuggirono dalla follia dei guerriglieri, Lima aveva 300 mila abitanti nel 1930, 3 milioni e mezzo negli anni ’70 e oggi si avvicina ai 10 milioni.
Prima di partire per un itinerario nel Perù vale la pena di visitare il Museo Nacional de Arqueología, il Museo Larco (Tesoros del antiguo Perú), ed eventualmente altri come il Museo Oro del Perú o quello de la Nación, per rendersi conto del quadro storico del paese antecedente l’avvento della civiltà Inca. Prima del 1532, quando Francisco Pizarro approdò con i suoi uomini sulla costa settentrionale del Perù, le Ande erano infatti già state testimoni dell’ascesa e del declino di numerose civiltà. Tra queste, la cultura Chavin, che fiorì attorno al primo millennio avanti Cristo ed è considerata la madre delle civiltà peruviane; la civiltà Nazca; i bellicosi Wari, che verso il 600 dopo Cristo costruirono una capillare rete stradale e, ovviamente, gli Incas, il cui impero arrivò a estendersi dalla Colombia meridionale fino a metà dell’odierno Cile.

Itinerario
1° giorno Ticino-Lima
2° giorno Lima
3° giorno Lima-Isole Ballestas-Nazca
4° giorno Nazca
5° giorno Nazca-Arequipa
6° giorno Arequipa-Canyon del Colca
7° giorno Canyon del Colca-Lago Titicaca (Puno)
8° giorno Lago Titicaca
9° giorno Lago Titicaca-Cuzco
10° giorno Cuzco
11° giorno Cuzco-Urubamba-Aguas Calientes (Machu Picchu)
12° giorno Machu Picchu-Cuzco
13° giorno Cuzco-Puerto Maldonado (Amazzonia)
14° giorno Amazzonia
15° giorno Puerto Maldonado-Lima
16° e 17° giorno Lima-Ticino

Per saperne di più
Perù Lonely Planet, Torino 2010
Perù Rough Guides, Feltrinelli, Milano 2013
Perù National Geographic, Vercelli 2010

Perù – Tutto il fascino dell’Amazzonia

Perù – Il Machu Picchu gioiello Inca
Perù – Le misteriose Linee di Nazca
Perù – La dura impronta spagnola sul Perù precolombiano

Diviso in tre zone naturalistiche, la costa, la sierra, ossia la catena montuosa andina, e la selva, cioè la foresta pluviale amazzonica, il territorio del Paese offre al turista una straordinaria molteplicità di bellezze naturalistiche e storiche.

Quando si parla di Perù il pensiero corre subito al Machu Picchu e alle misteriose Linee di Nazca, ma questo affascinante paese dell’America latina è molto interessante anche per le sue bellezze naturali: la foresta amazzonica, sinonimo di avventura e di scoperta; le vallate solcate dai condor, animali sacri per la civiltà inca; le immense spiagge oceaniche lungo la costa occidentale; le isole Ballestas, considerate delle Galapagos in miniatura; i paesaggi montani andini; il lago Titicaca con le sue isole galleggianti, dove secondo la tradizione sulla Isla del Sol nacquero Manco Càpac, il primo Inca, e Mama Ocllo sua sorella e consorte.

Il fascino della foresta amazzonica
Forse perché sinonimo di avventura, la scoperta naturalistica più affascinante del viaggio è certamente l’incontro con la foresta amazzonica meridionale. Nei bellissimi resort rispettosi dell’ambiente e immersi nella vegetazione tropicale, dal sorgere del sole al tramonto si è accompagnati da un assordante canto di uccelli. Durante la giornata si può partecipare a gite lungo i fiumi Tambopata o Madre de Dios, entrambi affluenti del Rio delle Amazzoni, e avventurarsi lungo canali e sentieri che penetrano nella foresta alla scoperta di caimani, scimmie, uccelli di ogni genere, bradipi, tapiri e ogni sorta d’insetti. Osservando le guide muoversi in quel paesaggio tanto affascinante quanto inospitale ci si rende conto di come la nostra società abbia perso il contatto con la natura e i suoi segreti.
La foresta amazzonica meridionale del Perù è considerata uno dei migliori luoghi del Sud America per osservare gli animali nel loro habitat. Questa regione, con il bacino idrografico del Rio Madre de Dios, suo cuore pulsante, abbraccia una larga fascia di foresta pluviale compresa tra le Ande e il confine con la Bolivia e il Brasile. Gran parte del territorio è protetto all’interno del perimetro dei parchi nazionali e delle riserve naturali. Il Perù si è infatti distinto per la salvaguardia di questo patrimonio mondiale e quando si sorvola la zona il verde brillante della foresta peruviana spicca accanto al color ruggine delle aree deforestate oltre il confine. Secondo l’Instituto de Investigaciones de la Amazonia Peruana (IIAP), questo paese ospita più specie di uccelli (circa 1800) di qualsiasi altra nazione del pianeta e figura al vertice della classifica anche per mammiferi, pesci di acqua dolce, anfibi e piante da fiore. Circa un quinto delle farfalle del mondo svolazza in queste foreste.
La giungla occupa il 50 per cento del territorio peruviano, ma accoglie solo il 5 per cento della popolazione e nella profondità della foresta parecchie tribù sono entrate in contatto con la nostra civiltà solo negli ultimi cinquant’anni, mentre ancora recentemente sono stati scoperti gruppi rimasti isolati dal resto del mondo.
Questo piccolo Eden è raggiungibile in aereo da Lima o da Cuzco con destinazione Puerto Maldonado, la caotica città situata all’affluenza dei fiumi Tambopata e Madre de Dios. Prossimamente sarà attraversata dalla Carretera Interoceanica, che collegherà l’Oceano Atlantico all’Oceano Pacifico attraversando il Brasile e il Perù.

Isole galleggianti sul lago Titicaca
Secondo le credenze andine da un’isoletta del lago Titicaca partirono Manco Càpac, il primo Inca, e Mama Ocllo, sua sorella e consorte, entrambi creature del dio Sole, alla ricerca dell’ombelico del mondo, che individuarono a Cuzco dove ebbe origine la civiltà Inca. Il lago si trova nel punto in cui lo spoglio altipiano andino incontra le leggendarie vette e le fertili vallate delle Ande a quasi 4 mila metri ed è considerato il bacino navigabile ad alta quota più grande al mondo. La sua più importante attrazione turistica è costituita dalle isole flottanti, sorta di enormi zattere formate da strati di canne, abitate dagli indios Uros nella baia di Puno, la cittadina più importante che si affaccia sulle acque del Titicaca nella regione peruviana. L’attività principale di questa popolazione è il turismo. E questo toglie un po’ di fascino alla visita, perché non si capisce fino a che punto ci si trovi di fronte a una realtà autentica oppure artefatta ad uso commerciale.
Le circa ottanta isolette si raggiungono in un’ora di navigazione dal porto di Puno. Per accedere al villaggio galleggiante si paga un pedaggio e a ogni barca viene assegnata un’isola diversa da visitare. Su ognuna abitano più famiglie, fino a un massimo di circa trenta persone. La nostra imbarcazione si dirige verso un’isoletta dove vivono due famiglie. Ci riceve il capo di quella minuscola comunità e ci racconta la storia dei suoi antenati, che nel XV secolo, spaventati dall’arrivo degli Inca, si rifugiarono a vivere in piccole imbarcazioni sul lago. Proseguirono la loro esistenza su queste case-zattera fino alla metà dell’Ottocento, quando scoprirono che le radici della pianta di totora, una specie vegetale tipica del lago, avevano la proprietà di galleggiare. Assemblarono così queste radici in blocchi cubici di circa un metro di lato con un palo conficcato al centro per poterli legare tra loro fino ad ottenere un’ampia superficie piana, sopra la quale venivano poi depositati strati incrociati di foglie secche della stessa pianta, la totora. Queste isole, che richiedono una continua manutenzione, hanno una durata di circa trent’anni, dopo di che devono essere abbandonate a causa del terribile odore prodotto dal marciume che si produce nella base a contatto con l’acqua. Le singole isole sono ancorate tra loro tramite pali conficcati nel basso fondo del lago, ma se un vicino diventa scomodo possono essere facilmente spostate. I loro abitanti si mantengono vendendo graziosi prodotti artigianali ai turisti e coltivando i terreni di loro proprietà lungo la costa del lago.

I condor della Valle del Colca
Dalla graziosa cittadina di Arequipa una strada sale verso la Reserva Nacional Salinas y Aguada Blanca, un altipiano di 367 mila ettari a quota 4300 metri. Il paesaggio è armonioso e offre la possibilità di osservare al pascolo tre dei quattro (la quarta specie è il guanaco) camelidi presenti nell’America del sud: alpaca, lama e soprattutto le rarissime vigogne. La lana di questi ultimi animali, che vivono allo stato selvaggio nella prateria della riserva naturale, è considerata la più pregiata al mondo: una sciarpa costa tra i 700 e i 1000 franchi svizzeri. Le vigogne possono essere tosate solo ogni sette anni e al massimo due, tre volte durante la loro esistenza. Per farlo i campecinos si raccolgono in cerchio circondando i loro greggi. Gli animali spaventati si lasciano così trattare e la lana viene poi consegnata allo Stato che la affida a ditte specializzate per la lavorazione.
Oltrepassata la Reserva, la strada si fa sempre più accidentata, prosegue attraverso il desolato altipiano passando per il suo punto più alto a quota 4800 metri e infine scende verso lo spettacolare Canyon del Colca, che si allunga per un centinaio di chilometri tra vette vulcaniche superiori ai 6000 metri di quota. Il canyon, considerato il più profondo al mondo, fu originato da un’enorme faglia geologica creatasi tra due vulcani. Sullo sfondo a nord troneggia il maestoso Mismi Nevado, considerato la sorgente del Rio delle Amazzoni.
Il paesaggio agricolo della Valle del Colca, punteggiato di cactus, è caratterizzato da terrazzamenti preincaici, che si spingono quasi fin sulle vette per sfruttare qualsiasi spazio coltivabile, ed è scolpito da una miriade di muretti che lo rendono particolarmente affascinante. Le case in sasso sono circondate da recinti, dove il bestiame viene sistemato dopo il tramonto, mentre durante il giorno può pascolare liberamente nell’ampia prateria. La vallata ospita anche un elegante resort (Colca Lodge), ben inserito nell’ambiente.
La strada si spinge fino al belvedere della Cruz del Condor, dove con un po’ di fortuna si possono ammirare i condor volteggiare nel cielo. Alti fino a un metro e con un apertura alare che raggiunge i 3 metri e un peso che supera i 10 chilogrammi, questi imponenti animali trovano nel Canyon del Colca il loro habitat ideale: per spiccare il volo devono infatti lanciarsi dall’alto verso il basso sfruttando in seguito le correnti ascensionali per prendere quota. Vivono fino a 50 anni e si nutrono delle interiora degli animali. Il loro modo di cacciare è molto singolare: sui ripidi pendii del canyon sorvolano sopra malcapitati quadrupedi che spaventati dalla loro minacciosa presenza precipitano a valle diventando un prelibato bottino. In estate emigrano invece verso il mare dove si cibano della placenta dei leoni marini, di cui sono particolarmente ghiotti.

Tra pellicani e leoni marini
Le isole Ballestas, 280 chilometri a sud di Lima, sono considerate le Galapagos dei poveri. Formate da scogli frequentati da folti branchi di foche, leoni marini, pinguini e da oltre 4 milioni di uccelli, soprattutto pellicani e cormorani, possono essere facilmente raggiunte in meno di un’ora di navigazione in barca a motore da Paracas. Le imbarcazioni si accostano alle isole letteralmente ricoperte da colonie di animali per osservarli da vicino. Il suolo è completamente ricoperto da deiezioni di uccelli (guano) che raggiungono i due metri di altezza per una produzione annuale di 20 tonnellate. Considerato uno dei migliori fertilizzanti al mondo il mercato del guano è stato floridissimo nel XIX secolo prima dell’introduzione dei fertilizzanti chimici. Ha quindi conosciuto un periodo di crisi, ma oggi torna di grande interesse per le coltivazioni biologiche.
Navigando verso le isole Ballestas si osserva la famosa Candelabra, una gigantesca forma a tre bracci, alta più di 150 metri e larga almeno 50, incisa sulle colline sabbiose della costa. Nessuno sa esattamente a quando risalga, né chi ne sia l’autore, ma le teorie abbondano, come accade per le famose Linee di Nazca.

Itinerario
1° giorno Ticino-Lima
2° giorno Lima
3° giorno Lima-Isole Ballestas-Nazca
4° giorno Nazca
5° giorno Nazca-Arequipa
6° giorno Arequipa-Canyon del Colca
7° giorno Canyon del Colca-Lago Titicaca (Puno)
8° giorno Lago Titicaca
9° giorno Lago Titicaca-Cuzco
10° giorno Cuzco
11° giorno Cuzco-Urubamba-Aguas Calientes (Machu Picchu)
12° giorno Machu Picchu-Cuzco
13° giorno Cuzco-Puerto Maldonado (Amazzonia)
14° giorno Amazzonia
15° giorno Puerto Maldonado-Lima
16° e 17° giorno Lima-Ticino

Per saperne di più
Perù Lonely Planet, Torino 2010
Perù Rough Guides, Feltrinelli, Milano 2013
Perù National Geographic, Vercelli 2010

Corsica – Coste selvagge e rocce scolpite

Corsica – L’introversa terra di Napoleone
Corsica – La battaglia della Corsica per un’identità oppressa
Corsica – Per Napoleone la Corsica era solo “un’escrescenza”

Un percorso dal golfo di Porto con le sue indimenticabili “guglie” vulcaniche rosse, che emergono dal Mediterraneo erose dall’acqua e dal vento, alle dolci colline della Falange con i villaggi affacciati sul mare.

I greci la chiamavano Kallisté, la più bella: un nome quanto mai appropriato per la Corsica, la splendida isola che ha ispirato numerosi scrittori e pittori, come Matisse, il quale sosteneva che il suo amore per il sud era proprio nato durante un soggiorno ad Ajaccio.
Arrivando in aereo, sopra il velo di foschia steso sul mare si vedono emergere le cime delle impervie montagne (50 vette superano i 2000 metri) illuminate dal sole. Man mano che ci si abbassa si scorgono ampi golfi, villaggi annidati sulle montagne, dolci colline. E’ proprio la scoperta di indimenticabili paesaggi marini, collinosi e montani a farvi amare questo splendido paese con oltre 1000 chilometri di coste e con cime che toccano i 2700 metri.
Ogni anno oltre 2 milioni di turisti atterrano o sbarcano sull’ “Ile de Beauté”: i due terzi sono francesi, seguiti da italiani, tedeschi e inglesi. Con soli 300 mila abitanti, nonostante il suo territorio corrisponda a un quinto di quello elvetico, l’isola è poco abitata. Il nostro itinerario si sviluppa lungo la costa occidentale – più esposta ai venti e più frastagliata rispetto a quella orientale diritta e monotona – e visita le parti più spettacolari della Corsica: il Golfo di Porto con le sue indimenticabili rocce vulcaniche rosse che emergono dal mare, scolpite dall’acqua e dal vento; le dolci colline della Balagne con i villaggi affacciati sul Mediterraneo e il Cap Corse, la selvaggia regione a nord dell’isola, che punta il dito verso il continente.
Per evitare due scali, scegliamo il volo diretto più vicino al Ticino che parte dall’aeroporto di Basilea-Mulhouse, ma l’isola è raggiungibile anche in traghetto da Livorno (circa 4 ore) e dalla costa francese (circa 10 ore). Il volo Easy Jet da Basilea atterra ad Ajaccio, capitale dell’isola, dove noleggiamo un’automobile di piccole dimensioni, dato che le strade sono molto strette. Nonostante l’isola abbia dimensioni ridotte – è lunga 183 chilometri e larga 83 – la circolazione è molto lenta (40 chilometri orari di media), salvo su poche arterie principali dove il traffico è più scorrevole.
Rimandiamo la visita di Ajaccio, animata, talvolta caotica e simpatica città, alla fine del viaggio e ci dirigiamo verso il Golfo di Porto, la meta più spettacolare del nostro viaggio. Lungo la strada costiera del Golfo di Sagone (il più ampio dell’isola) si ha un primo approccio alla bellezza selvaggia del paesaggio con il mare di un blu profondo che spicca tra gli scogli rosa e il verde della macchia mediterranea. A Cargese, il villaggio che chiude il golfo, vive una colonia di 300 famiglie greche, che sbarcarono in Corsica dal Peloponneso nel 1676 per sfuggire a una faida in corso nel loro paese. Oggi vivono pienamente inserite nello stile di vita corso, anche se osservano ancora la liturgia religiosa greca e celebrano i matrimoni seguendo l’antica tradizione di incoronare gli sposi con foglie di vite e rami di olivo.

Uno spettacolo naturale
Tutto un popolo mostruoso, un serraglio di incubi pietrificati dalla volontà di qualche dio stravagante”. Guy de Maupassant durante un viaggio in Corsica nel 1880 descrisse così le “Calanche”, che si trovano tra Porto e Piana. Soprattutto al tramonto, quando si colorano di sfumature dal rosso al viola, le particolari formazioni rocciose (i cosiddetti tafoni) scavate dal vento e dall’acqua si presentano come esili colonne, strane teste, torri appuntite alte fino a 300 metri. Il modo migliore per apprezzarle è una facile passeggiata (a metà strada tra Porto e Piana, in località Tête de chien) che attraversa angusti passaggi intorno a sagome simili ad alberi e caverne e porta fino a Château Fort, una spianata dalla quale si possono godere scorci superbi sul golfo e sulle “Calanche”.
Le rocce che spuntano perpendicolari dalle acque del Mediterraneo, sono spettacolari soprattutto se ammirate dal mare. In partenza da Porto diverse compagnie (meglio scegliere quelle con piccole imbarcazioni) organizzano escursioni di mezza giornata nel golfo, che permettono di raggiungere anche la meravigliosa riserva naturale di Scandola, accessibile solo via acqua. Si tratta di un altro sbalorditivo scenario naturale costituito da un sistema di grotte e faglie originate dalle eruzioni vulcaniche avvenute 250 milioni di anni fa. Anche qui i colori degli scogli, che variano dal grigio carbone del granito ai rossi incandescenti e ai viola ruggine del porfido, contrastano con il blu profondo del mare e il verde della vegetazione ricca di specie rare. Notevole anche il patrimonio faunistico della regione dove si possono osservare le caprette selvatiche arrampicarsi sulla roccia e con un po’ di fortuna il falco pescatore planare su nidi che occupano le punte degli scogli.
Una bellissima passeggiata a piedi (circa 5 ore andata e ritorno, con scarpe da montagna) permette di raggiungere la torre genovese che si trova sulla punta del Capo Rosso, estremità meridionale del golfo di Porto, da cui il panorama è splendido. Il sentiero parte da un ampio posteggio che si trova sulla Route de Ficajola, lasciando Piana in direzione della Plage d’Arone. Durante tutto il viaggio in Corsica abbiamo incontrato numerose di queste torri, sempre situate in luoghi con magnifici panorami. Ne rimangono una sessantina delle originali 85 realizzate lungo il litorale, visibili una dall’altra, in modo da poter comunicare tra loro. Avevano scopi difensivi, soprattutto per cautelarsi dalle incursioni dei pirati, e formavano una capillare rete di controllo che, grazie a un sistema di segnalazioni, permetteva a un messaggio di essere diramato in tutta l’isola in appena un’ora.
Terminata l’escursione – è consigliabile partire il mattino presto perché tutto il tragitto è esposto al sole – proseguendo sulla spettacolare Route de Ficajola si raggiunge la bellissima spiaggia di Arone, dove nel corso della seconda guerra mondiale, il 7 febbraio 1943, il sottomarino Casabianca sbarcò i primi carichi di armi e provviste per i partigiani corsi che combattevano l’esercito di Mussolini, presente sull’isola con ben 85 mila soldati.

I ridenti villaggi della Balagne
Un ultimo splendido panorama sul golfo di Porto con le sue meraviglie naturali lo si può ammirare prendendo la “D81”, denominata in questo tratto Route des Plages, in direzione di Calvi, quando si giunge in vetta al Col de la Croix. La strada prosegue quindi per alcuni chilometri nell’entroterra, ma si può riprendere lo spettacolare percorso lungo la costa imboccando la stretta e un po’ sconnessa “D81a” fino a Calvi, che appare da lontano con le sue belle spiagge di sabbia e con l’inconfondibile cittadella medievale fortificata a picco sul mare. Le vie del centro storico, invase dai turisti, sono animate e caotiche.
Si prosegue verso l’entroterra alla scoperta della Balagne, terra di ridenti colline affacciate sul mare e uno dei territori più fertili dell’isola. Seguendo la D151 si scoprono alcuni dei villaggi più suggestivi di questa regione agricola fortemente legata alla tradizione corsa. Passando per Montemaggiore, che offre uno splendido panorama sul golfo di Calvi dal sagrato della sua chiesa barocca, valicando il Col de Salvi, che pure offre belle vedute sulla regione, si arriva a Sant’Antonino, il più pittoresco e il più noto villaggio della Balagne. Arroccato a nido d’aquila su uno sperone roccioso il paese fortificato, costruito per difendersi dagli attacchi dei Saraceni, si erge a 500 metri sul livello del mare ed è disposto a cerchio. Le sue origini, come quelle del vicino borgo di Pigna, pure molto pittoresco, sono tra le più antiche dell’isola e risalgono al IX secolo. Con i suoi edifici color arancione accalcati l’uno contro l’altro, con la sua pianta circolare e le sue strette viuzze ricoperte di ciottoli e passaggi a volta sembra essere rimasto intatto da secoli.
La storia della Balagne è stata caratterizzata dalle lotte fra i clan di Corbara e di Sant’Antonino fino al XIX secolo, epoca in cui quest’ultimo visse l’apice del suo splendore. Lotte che hanno portato a violenti spargimenti di sangue spesso basati su un esasperato senso dell’onore. Bastava un adulterio, un’offesa o una diffamazione di qualsiasi tipo per portare a interminabili faide tra clan, perché ogni membro sapeva di poter contare per tutta la vita sull’incondizionata e assoluta solidarietà dei membri della sua famiglia allargata. I clan regolavano così le loro dispute senza ricorrere alla legge, facendosi giustizia da sé: l’omicidio era considerato un sacro dovere nei confronti della famiglia.

Itinerario

1° giorno (70 km – 1.30h) Basilea – Ajaccio – Piana
2° giorno Il Golfo di Porto – La riserva naturale di Scandola – Les Calanches
3° giorno (200 km – 5h) Piana – Calvi – La Balagne – Saint-Florent
4° giorno (120 km – 3h) Saint-Florent – Patrimonio – Cap Corse – Erbalunga
5° giorno (200 km – 4h) Erbalunga – Serra di Piano – Col de Teghime – Corti – Ajaccio
6° giorno (30 km) Ajaccio – Il gofo di Ajaccio – La Route des Sanguinaires e Pointe de la Parate
7° giorno (140 km) Costa Sud del Golfo d’Ajaccio
8° giorno Ajaccio – Basilea

Per saperne di più
Corse La Guide Vert Michelin, Clermont-Ferrand 2011
Corsica Rough Guides, Vallardi, Milano 2009
Corsica Lonely Planet, Torino 2013

Corsica – La battaglia della Corsica per un’identità oppressa

Corsica – Coste selvagge e rocce scolpite
Corsica – L’introversa terra di Napoleone
Corsica – Per Napoleone la Corsica era solo “un’escrescenza”

La Corsica è una terra splendida, con paesaggi incontaminati e ricca di tradizioni. Quest’isola non è però nota alla cronaca solo per le sue bellezze naturali, ma anche per i disordini e per le violenze causate dai movimenti autonomisti. Disordini e violenze che trovano certamente una spiegazione nella sua posizione geografica strategica che l’ha sempre resa terra di conquista per le potenze europee e del Mediterraneo. Nel corso dei secoli la Corsica è infatti stata ambita preda di pisani, genovesi, francesi, saraceni, spagnoli, britannici, senza dimenticare le truppe dell’Impero Romano e quelle del germanico Sacro romano impero.
Tutti questi occupanti hanno sempre tenuto in scarsa considerazione le aspirazioni dei corsi, che si sono battuti per secoli contro gli usurpatori stranieri. A lasciare la maggiore impronta sull’isola sono certamente stati quasi cinque secoli di dominazione genovese, dal 1284 al 1768, che seguivano a oltre due secoli (1077-1284) di occupazione pisana. Genova era confinata in un piccolo territorio e la Corsica era di notevole importanza strategica per lo sviluppo dei suoi commerci. Non fu quindi un caso se si affrettò a trasformarla in una sua roccaforte, adottando una politica repressiva e colonialista, erigendovi fortezze e una cintura di centinaia di torri di guardia, molte delle quali si possono ammirare ancora oggi.
L’unico serio episodio di autonomia dell’isola è legato alla straordinaria figura di Pascal Paoli, intellettuale brillante e illuminato che leggeva Montesquieu, intratteneva corrispondenza con Rousseau e che donò alla Corsica uno dei primi testi costituzionali democratici al mondo, facendo parlare di sé in tutti i salotti del continente.Quello che mise in piedi dal 1755 al 1769 con Corti capitale, fu un vero Stato moderno, che ebbe però breve vita e scomparve un anno dopo il trattato di Versailles del 1768, con cui Genova vendeva l’isola ai francesi, nonostante un tentativo di alleanza di Paoli con gli inglesi. Con un decreto del 1789 la Francia stabilì che “la Corsica fa parte dell’impero e che i suoi abitanti saranno retti dalla stessa Costituzione che governa gli altri francesi”. E sarà proprio il più illustre figlio dell’isola, Napoleone Bonaparte, durante il suo regno a francesizzare definitivamente la Corsica. Da allora i movimenti indipendentisti hanno continuato a battersi con alterne fortune, ma commettendo anche diversi eccessi, come l’assassinio il 6 febbraio 1998 del prefetto francese Claude Erignac, il più alto rappresentante dello Stato sull’isola. Fino a quell’episodio molti corsi avevano manifestato una certa simpatia per l’iniziativa dei nazionalisti, unici ai loro occhi a difendere la causa insulare. Oggi, anche a causa di diversi scandali che hanno coinvolto gli autonomisti, molti cittadini si chiedono se la violenza, che in un recente passato ha colpito l’isola, si giustificasse davvero con le rivendicazioni politiche o se non fosse invece il frutto di una lotta tra bande in cerca di arricchimento personale.

Corsica – L’introversa terra di Napoleone

Corsica – Coste selvagge e rocce scolpite
Corsica – La battaglia della Corsica per un’identità oppressa
Corsica – Per Napoleone la Corsica era solo “un’escrescenza”

Alla scoperta di Cap Corse, la selvaggia regione a nord dell’isola che punta il dito verso il continente, di Corti, patria dell’indipendentismo isolano, e di Ajaccio, dove tutto ricorda la figura dell’imperatore e le sue imprese.

Prosegue il nostro itinerario in Corsica, l’isola che i greci chiamavano Kallisté, la più bella. Dopo aver visitato le meraviglie naturali del Golfo di Porto e aver girovagato tra le colline della Balagne arriviamo a St. Florent, da cui partiremo per visitare la regione costiera del Cap Corse e inoltrarci in seguito nelle regioni montagnose all’interno dell’isola per visitare Corti, l’antica capitale della Corsica indipendente e concludere il nostro viaggio ritornando sulla costa occidentale nel Golfo di Ajaccio.

Patrimonio, capitale del vino corso
Il grazioso villaggio costiero di St. Florent, considerato la Saint-Tropez dell’isola, è avvolto come una conchiglia dalle colline della regione agricola del Nebbio, di cui è capoluogo. A pochi chilometri dal mare si trova Patrimonio, punta di diamante della produzione vitivinicola dell’isola, con 500 ettari coltivati a vigna. Sin dal tempo dei Romani nei suoi vigneti abbarbicati sotto le spettacolari pareti bianche dei monti che circondano il paese si producono alcuni tra i migliori vini della Corsica. Come l’olio d’oliva e il formaggio di pecora, il vino è un prodotto curato da secoli e nel quale si rivela tutta la ricchezza dei sapori del Paese. Nel corso degli ultimi quarant’anni il vino corso ha fatto un notevole salto di qualità e la viticoltura è diventata un fattore economico importante: porta infatti il 30 per cento degli introiti agricoli. I vitigni più diffusi sono, per i vini bianchi, il Vermentino e il Moscato e, per i rossi, gli autoctoni Nielluccio, il più tipico dell’isola, e Sciaccarellu, con cui si produce un vino simile al chiantigiano Sangiovese.

Un dito puntato sul continente
Non ho mai visto una strada simile. Si arrampica letteralmente lungo la parete di una roccia che sovrasta il mare, con un sentiero che in alcuni tratti non è più ampio di un piede”. Così annotava nel suo diario a proposito di Cap Corse James Boswell, un viaggiatore inglese sbarcato sull’isola nel 1765. Oggi esiste una strada costiera lunga 110 chilometri, ma la situazione per gli automobilisti rimane critica, perché in molti tratti due veicoli non incrociano. Sebbene tortuosa questa arteria permette di percorrere una delle regioni più selvagge e spettacolari, spesso considerata un’isola nell’isola, un mondo a parte, perché rimase per secoli accessibile solo via mare, fino a quando, all’inizio dell’Ottocento, Napoleone costruì la strada. Forse anche per questo il paesaggio è rimasto selvaggio e spettacolare, scandito dalle torri costruite in epoca genovese per proteggere gli abitanti dalle incursioni saracene. Villaggi di pescatori e borghi arroccati sulle alture si alternano con morbidi rilievi coperti dalla macchia mediterranea che piomba nel mare da altezze vertiginose. Questa lingua di terra, particolarmente spettacolare sulla costa ovest, lunga 40 chilometri e larga 10, come un muto rimprovero appare sulle carte geografiche come un dito puntato verso quella Genova che per secoli dominò la Corsica. La macchia (maquis in francese), un intrico di rovi che arriva solitamente al ginocchio ma può anche crescere fino a due volte la statura di un uomo, ricopre ormai molte aree un tempo coltivate ed emana un profumo tanto particolare che Napoleone Bonaparte era convinto di poter riconoscere la sua isola a occhi chiusi fidandosi solo del suo olfatto. Una caratteristica appariscente dei pittoreschi villaggi che si alternano soprattutto lungo la costa occidentale sono le “ville degli Americani”, le “maisons d’Américains”, cioè le case di corsi emigrati nei Caraibi o in America Latina costruite con il denaro guadagnato nelle miniere d’oro o nelle piantagioni di caffè e di canna da zucchero. Si tratta spesso di stupefacenti palazzi coloniali con facciate ornate da balconi, circondati da terrazze coltivate a giardino con palme e piante esotiche e, naturalmente, con una splendida vista sul mare. Sono testimonianze storiche di una regione profondamente segnata dall’emigrazione. In un’isola di montanari poco aperti al mondo esterno i capo-corsini erano invece marinai e pescatori per tradizione, propensi ad allargare i propri orizzonti e conoscere lidi più lontani. Il fenomeno dell’emigrazione all’inizio dell’Ottocento interessò comunque tutta l’isola. La destinazione più frequente era la Francia, seguita dall’Italia, soprattutto Pisa e Livorno. Molti si fecero invece tentare dal sogno delle Americhe, soprattutto dal Perù, dal Messico e dal Venezuela. Seguì poi l’avventura coloniale, soprattutto nell’Africa del nord. Oggi in Corsica vivono 300 mila persone, mentre si conta che tra i 700 e gli 800 mila Corsi abbiano lasciato l’isola e 500 mila vivano in Francia.
Agli amanti del trekking il Cap Corse offre una splendida passeggiata, il cosiddetto “Sentiero dei doganieri” (“Sentier des Douaniers”) che collega in circa 8 ore di cammino il romantico paesino di pescatori di Centuri a Macinaggio, percorrendo la punta del capo e attraversando un paesaggio incontaminato.
Il nostro itinerario prevede invece di pernottare a Erbalunga sulla sponda orientale di Cap Corse, da cui nei giorni di bel tempo le isole toscane dell’Elba e di Capraia sembrano a un tiro di schioppo. “Nid des Peintres”, questo rifugio di molti pittori famosi si raccoglie attorno a una torre imponente e a un minuscolo porto di pescatori, che ospita un ottimo e pittoresco ristorante: “Le Pirate”.

Corti, capitale dell’indipendenza
Prima di puntare su Corti, che dista circa due ore d’automobile da Erbalunga, se il cielo è azzurro e la giornata nitida vale la pena di fare una piccola deviazione verso il Col de Teghime, ma soprattutto verso la Serra di Pigno a quota 960 metri, da cui si gode uno splendido panorama sui due versanti del Cap Corse.
Come una pietra preziosa incastonata in una corona di montagne”: con questa suggestiva immagine la guida Lonely Planet descrive la posizione di Corti, essenza dell’anima corsa e custode dell’identità insulare, situata allo sbocco di diverse valli e circondata da montagne frastagliate in un paesaggio davvero scenografico. Il centro storico, dominato dalla vertiginosa fortezza a nido d’aquila che sorge sopra uno sperone roccioso, è caratterizzato da un labirinto di strette strade a ciottoli che confluiscono nella vivacissima piazza principale, dedicata all’eroe dell’indipendenza Pasquale Paoli. Da un imponente statua il “babbu di a patria” rivolge il suo sguardo imperioso verso l’animatissimo corso principale, pure a lui dedicato. La cittadina vivace e accogliente con le sue antiche dimore e le botteghe artigiane conta 7 mila abitanti, ma durante il periodo scolastico si anima di giovani che frequentano la sua università – unica sull’isola – che propone le facoltà di diritto, economia e studi ambientali, ma soprattutto lingua, storia e letteratura corse. Obiettivo principale dell’istituto è infatti quello di studiare e valorizzare la cultura locale. Dopo un lungo periodo di esistenza clandestina, trent’anni fa la lingua corsa è stata protagonista di una stupefacente rinascita. Oggi viene insegnata a scuola ed è parlata con fierezza da un terzo della popolazione. Gli studiosi la considerano l’ultimo latino antico ancora parlato. Di origini celtiche liguri e con una forte influenza del toscano medievale, si dice che se Dante tornasse in vita la capirebbe! Nella fortezza di Corti si può visitare il museo etnografico che propone un suggestivo viaggio nella storia dell’isola.
Questa simpatica cittadina è considerata la patria del nazionalismo insulare, perché dal 1755 al 1769 fu la capitale del primo e unico Stato corso indipendente della storia voluto da Pasquale Paoli, che proclamò una delle prime costituzioni democratiche del mondo. L’esperienza si concluse nel 1769 dopo che i genovesi vendettero la Corsica alla Francia e l’esercito indipendentista fu sconfitto da quello francese.

La regione di Ajaccio patria di Napoleone
Il nostro itinerario nel nord ovest della Corsica si conclude ad Ajaccio con la visita del centro storico e del suo splendido golfo. In questa città tutto parla del suo figlio più illustre: Napoleone Bonaparte. Strade, monumenti e musei ricordano l’incredibile destino di questo grande uomo che nel 1811 per decreto imperiale elesse la sua città natale capitale dell’isola a scapito di Bastia, ma che con la Corsica ebbe sempre un difficile rapporto.
Le case dai colori caldi del magnifico lungomare dominato dalla cittadella fortificata costruita dai genovesi per intimidire la rivoltosa nobiltà locale, i fastosi palazzi che si affacciano su ampi viali fiancheggiati da palme, le vie animate – per non dire caotiche – del centro creano un’atmosfera meridionale rilassata molto apprezzata dai turisti. Lungo l’animatissima strada pedonale dedicata al Cardinal Fesch, zio di Napoleone, si affacciano boutique e ristoranti di lusso, oltre all’eccezionale museo d’arte Fesch e alla Chapelle Impériale dove sono sepolti i membri della famiglia Bonaparte. Poco distante si possono visitare anche il Salon Napoléon nel palazzo del municipio, che conserva alcuni cimeli dell’imperatore, e la sua casa natale.
Il Golfo di Ajaccio è uno dei più ampi dell’isola e offre interessanti gite sia in battello, sia in automobile. Percorrendo la cosiddetta “Route des Sanguinaires” in direzione ovest si raggiunge il grande posteggio della Punta della Parata, da cui si prosegue a piedi (andata e ritorno circa un’ora) verso la punta per poi salire alla torre genovese, dove il panorama spazia sulla costa rocciosa del golfo e sulle suggestive Îles Sanguinaires, che tanto ispirarono lo scrittore francese Alphonse Daudet. Il loro nome è dettato dal colore che assumono al tramonto. Di ritorno verso Ajaccio seguendo le indicazioni per Capo di Feno, in pochi chilometri si raggiunge l’idilliaca Plage de Grand Capo. Se da Ajaccio ci si dirige invece in direzione sud si incontrano dapprima innumerevoli belle spiagge di sabbia bianca, ma con scarso fascino, dato che la zona è molto costruita e turistica. Per trovare un’altra spiaggetta idilliaca in un luogo incontaminato bisogna invece dirigersi verso Capu Muro, che chiude a sud il golfo, e scendere lungo una strada dissestata a Cala d’Orzu. Invece di scendere al mare si può anche proseguire fino al termine della strada, dove inizia un facile (sono comunque necessarie scarpe da montagna) ma suggestivo sentiero tra la macchia mediterranea, che in due ore tra andata e ritorno porta alla torre genovese di Punta Guardiola, con una splendida vista su tutto il Golfo di Ajaccio.

Itinerario
1° giorno (70 km – 1.30h) Basilea – Ajaccio
Ajaccio – Piana
2° giorno Il Golfo di Porto – La riserva naturale di Scandola – Les Calanches
3° giorno (200 km – 5h) Piana – Calvi – La Balagne – Saint-Florent
4° giorno (120 km – 3h) Saint-Florent – Patrimonio – Cap Corse – Erbalunga
5° giorno (200 km – 4h) Erbalunga – Serra di Piano – Col de Teghime – Corti – Ajaccio
6° giorno (30 km) Ajaccio – Il golfo di Ajaccio – La Route des Sanguinaires e Pointe de la Parate
7° giorno (140 km) Costa Sud del Golfo d’Ajaccio
8° giorno Ajaccio – Basilea

Per saperne di più
Corse La Guide Vert Michelin, Clermont-Ferrand 2011
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Corsica – Per Napoleone la Corsica era solo “un’escrescenza”

Corsica – Coste selvagge e rocce scolpite
Corsica – L’introversa terra di Napoleone
Corsica – La battaglia della Corsica per un’identità oppressa

Napoleone Bonaparte è certamente il più illustre cittadino corso e ad Ajaccio, sua città natale, tutto parla di lui. Nacque nel 1769, un anno cruciale per la storia dell’isola perché segnò il passaggio dalla dominazione genovese a quella francese. Proprio in quell’anno infatti s’infranse il sogno del patriota Pascal Paoli di creare una Corsica indipendente, retta da una costituzione tanto liberale e innovativa da richiamare l’attenzione di Jean-Jacques Rousseau, che accarezzò l’idea di trasferirsi sull’isola per studiarne e scriverne la storia.
Napoleone ha certamente conferito una fama internazionale alla sua città natale, che nel 1811 venne decretata “cité imperiale”. Sebbene ad Ajaccio oggi la sua presenza sia ancora ovunque, molti abitanti considerano l’imperatore come un francese che ha fatto unicamente i suoi interessi e quelli della Francia, in disaccordo con il movimento indipendentista dell’eroe isolano Paoli. Talvolta questa disapprovazione, soprattutto all’interno delle frange indipendentiste, viene espressa in modi eclatanti: qualche anno fa la statua di Napoleone nella piazza principale di Ajaccio fu imbrattata. Paradossalmente, fu infatti proprio questo figlio della Corsica – condotto dal destino nella Parigi della Rivoluzione, ai piedi delle piramidi d’Egitto, ai confini dell’Europa, a Jena, a Trafalgar, nella lontana Russia -, ad adoperarsi per la francesizzazione dell’isola.
Lo stesso Napoleone d’altra parte serbava una certa amarezza nei confronti del suo luogo natio. Uno dei generali che lo aveva seguito in esilio a Sant’Elena raccontò di un colloquio in cui Napoleone gli citò un’affermazione di M. de Choisel, secondo cui “se fosse stato possibile si sarebbe dovuto spingere la Corsica sotto il mare con un tridente” e l’imperatore aggiunse con animosità: “Aveva ragione, quest’isola non è nient’altro che un’escrescenza!”.
Anche la storia della famiglia Bonaparte non facilita i rapporti con chi ha creduto o crede nell’indipendenza dell’isola. Carlo, il padre di Napoleone, era infatti segretario e sostenitore di Pascal Paoli, ma quando i francesi sconfissero definitivamente l’eroe isolano nella battaglia di Ponte-Nuovo egli giunse a patti con loro, sia diventando il rappresentante della nobiltà corsa all’Assemblea Nazionale, sia utilizzando i suoi contatti con il governatore francese sull’isola per ottenere l’istruzione gratuita per i propri figli. Fu così che il giovane Napoleone all’età di 9 anni lasciò l’isola grazie a una borsa di studio per l’accademia militare di Brienne, sul continente, un’istituzione voluta proprio per educare i figli della nobiltà alla loro condizione, e proseguì poi il curriculum alla prestigiosa École Militaire di Parigi. Dopo lo scoppio della Rivoluzione tornò in Corsica per promuovere con entusiasmo lo spirito rivoluzionario nella sua terra natale. Entrò però in conflitto con Paoli e i suoi seguaci, che nel 1793 cacciarono dall’isola lui e la sua famiglia. Napoleone aveva ormai fatto la sua scelta per una Corsica francese, tanto che cambiò il suo nome da Napoleone a Napoléon. Sulla sua isola ritornò una sola volta, quando fu costretto ad ormeggiare, al rientro dalla campagna in Egitto.

La vera cultura del territorio vive tra i vigneti del Lavaux

Un paesaggio culturale che coniuga l’essere umano con la natura esprimendo un lungo ed intimo rapporto tra la popolazione e il suo territorio”. Con questa impegnativa motivazione la regione del Lavaux, tra Losanna e Vevey, è stata inserita tra i patrimoni mondiali dell’umanità.Un paesaggio spettacolare, ma anche un luogo vissuto e testimone di una storia viticola antica di oltre mille anni. Una passeggiata a piedi in questa regione, soprattutto nelle prime settimane dell’ autunno, è un’esperienza indimenticabile.
Il Lavaux, che ha saputo resistere alla tentazione dell’urbanizzazione e si estende su una lunghezza di circa 40 chilometri, ha centri storici molto ben conservati e oltre 10 mila terrazzamenti a picco sul lago, costruiti dall’uomo nel corso dei secoli, che si animano in modo particolare durante il periodo della vendemmia. La regione è denominata la Terra dei tre soli, in virtù dei quali la vigna gode di una condizione privilegiata: il sole del cielo, di cui beneficiano i pendii più ripidi; il sole del lago, che funge da specchio; il sole dei muri, che immagazzinano il calore. Qui tutto ruota attorno alla viticoltura, i cui segreti sono stati tramandati nei secoli, nonostante le difficoltà legate ai ripidi pendii, alla filossera e ai capricci del tempo. I vini bianchi che nascono da questa terra arida e sassosa racchiudono una lunga tradizione. Nonostante l’esiguità del territorio, sono differenti tra loro a seconda delle diverse zone di produzione. A portare la viticoltura – disboscando questi scoscesi pendii lacustri e costruendo i primi stretti terrazzamenti – furono dei monaci all’inizio dell’XI secolo. Da allora questo mosaico della natura si è sviluppato e si propone in tutta la sua bellezza agli occhi del viandante moderno, che scopre non solo un paesaggio indimenticabile, ma anche la sua storia, percependo la volontà dei suoi abitanti di continuare a rimanere testimoni di un patrimonio unico al mondo. Passeggiando tra i vigneti del Lavaux si sente un’intensa interazione, rara ai giorni nostri, tra l’uomo e la natura, tra il viticoltore e la sua terra. Sul posto è distribuito un prospetto che indica tre itinerari alla scoperta di questo straordinario territorio, ma se non avete molto tempo raggiungete St. Saphorin in treno e iniziate da questo incantevole villaggio, stretto attorno alla sua chiesa cinquecentesca, un percorso a piedi a metà collina.
Il tratto più spettacolare e selvaggio è quello iniziale che porta fino a Rivaz, dove c’è un centro di degustazione che vi permetterà di scoprire i vini della regione. La passeggiata prosegue tra vigneti terrazzati , attraverso la zona del celebre Dézaley, quindi i borghi medievali di Epesses e Riex con la graziosa cappella del XV secolo, per giungere Cully in riva al lago e risalire a Grandvaux: dalla piazza potrete ammirare ancora dall’alto le zone attraversate, prima di risalire sul treno nella locale stazione.

Germania – Un “vecchio Est” da riscoprire

Germania – Atmosfere nordiche e medievali
Germania – Nella vita di due anziani la storia della Germania
Germania – Il peso di una guerra atroce sulle grandi città tedesche

Viaggio a Dresda, la Firenze tedesca, distrutta, come tante città, dai bombardamenti degli alleati durante la seconda guerra mondiale. E Sanssouci, la Versailles prussiana. Verso il Mar Baltico e i suoi bianchi villaggi.

Nella tragica estate del ’68 mi trovavo nella Germania Occidentale per seguire dei corsi di lingua tedesca all’università di Heidelberg, quando il mondo fu scosso per l’invasione di Praga da parte delle truppe del Patto di Varsavia (Unione Sovietica, Bulgaria, Ungheria, Polonia e Germania dell’Est), che ponevano fine al sogno di Alexander Dubcek di creare un “socialismo dal volto umano”. Proprio in quel periodo avevo programmato di recarmi a Berlino in auto. Visto quanto succedeva in Cecoslovacchia ero un po’ reticente ad attraversare la Germania dell’Est per raggiungere Berlino, allora divisa dal muro che separava la zona occidentale e quella orientale. Il mio amore per la scoperta mi indusse però a partire. Per raggiungere l’attuale capitale tedesca da occidente esistevano tre corridoi di accesso attraverso i territori dell’est. Ho scelto quello più a sud. Giunto alla frontiera tra le due Germanie, per entrare all’est si valicava un stretta porta tra due massicci blocchi di cemento armato e si accedeva a un altro mondo. Alla dogana veniva rilasciato un lasciapassare con indicato l’orario di entrata e quello entro cui si sarebbe dovuto lasciare il paese. Dato questo clima intimidatorio la Germania dell’Est non era ovviamente una meta turistica. Dopo la caduta dell’ “impero sovietico” e la riunificazione delle due Germanie (1990) mi ero sempre ripromesso di visitare l’ex DDR, cioè quella parte del paese che per quasi mezzo secolo aveva vissuto sotto un regime comunista. Ecco la ragione di questo mio viaggio, che poi si estenderà anche verso Lubecca e Amburgo, che sono sempre appartenute alla sfera occidentale. Ho tralasciato Berlino, che richiede un appuntamento a sé.

Dresda, la Firenze della Germania
Per raggiungere Dresda dal Ticino sono necessarie tra le 8 e le 9 ore di automobile, su autostrade trafficate, ma dove chi ama guidare lo può fare libero dalle “frustrazioni” dovute ai limiti di velocità. Il primo approccio a questa città, che era considerata la culla del barocco tedesco, evidenzia i gravissimi danni subiti dai bombardamenti degli Alleati durante la seconda guerra mondiale. Lo stesso quadro lo troveremo nelle altre città che visiteremo nel corso del viaggio. A Dresda, tutto il centro storico fu raso al suolo e anche il resto della città fu quasi completamente distrutto. A differenza di altri centri, che purtroppo andavano colpiti perché determinanti per il potere nazista, sulla necessità della distruzione della “Firenze dell’Elba” gli storici avanzano molti dubbi, tanto che Churchill, dopo il conflitto si distanziò da quell’operazione militare.
Dopo la riunificazione delle due Germanie, quindi nel corso dell’ultimo ventennio, molti monumenti sono stati restaurati o, meglio detto, ricostruiti. Dresda ha così in piccola parte riacquistato la bellezza settecentesca, ben celebrata nelle tele del Canaletto, con la Frauenkirche e la Semperoper, con il castello di Augusto II il Forte (1670-1733) e l’annessa Ehemalige Katolische Hofkirche, con lo splendido Zwinger, il palazzo eretto a gloria del principe che diede alla città il suo splendore barocco. Quell’Augusto il Forte, principe assolutista che si autonominò re Sole, affascinato dalle corti italiane e da Versailles, ossessionato dall’ostentare la sua grandezza, acquisì stravaganti collezioni di oreficeria e di gioielli, esposti per materiale (ambra, smeraldo, argento, eccetera) nella straordinaria Grünes Gewölbe. Il sovrano sassone collezionò anche eccezionali opere di grandi maestri antichi raccolte alla Gemäldegalerie Alte Meister, che non ha nulla da invidiare ai più rinomati musei del mondo. Un’altra perla è costituita dal Porzellansammlung, la più vasta collezione di porcellane al mondo con oggetti provenienti dal Giappone e dalla Cina, ma soprattutto dalla prima manifattura europea che ebbe la sua sede dapprima a Dresda e in seguito nella vicina cittadina di Meissen.

Castello Sanssouci, Versailles prussiana
Il castello di Sanssouci, che significa in francese senza preoccupazioni, costituiva per il re di Prussia Federico il Grande (1712-1786) il rifugio da Berlino e dalla moglie Elisabetta Cristina, entrambe poco amate. Questo sovrano, sebbene nemico del principato di Sassonia, aveva in comune con Augusto il Forte l’amore per le arti e per la cultura francese. A Potsdam, in uno splendido scenario a una cinquantina di chilometri da Berlino, immerso in un parco di 300 ettari, costruì alcuni edifici, tra cui spicca la sua austera residenza barocca a un piano, affacciata su giardini a terrazza che digradano verso il parco. Essendo presentata dalle guide come “la più grande opera artistica di questo genere in Germania”, mi aspettavo di trovare anche qui ostentazione di ricchezza e uno sfoggio di potenza attraverso l’architettura. E invece Sanssouci non è nulla di tutto ciò, ma la residenza intima di un sovrano potente per sfuggire alla vita di stato e dedicarsi alla cultura e all’arte ed incontrare ospiti con cui spesso sembra litigasse. Così come successe con il filosofo francese Valtaire, che dopo tre anni di permanenza a corte se ne andò denunciando i comportamenti dittatoriali di Federico e accusandolo di trattare “il mondo intero come uno schiavo”.
Le stanze preferite dal sovrano, veri capolavori del rococò prussiano, erano quella della musica, l’intima biblioteca, ricchissima di testi in lingua francese, dove nessuno all’infuori di lui aveva accesso, e quella dei marmi, dove si svolgevano le “tavole rotonde filosofiche”. Per percorrere a piedi il vastissimo parco ed ammirare le altre residenze, alcune successive a Federico, bisogna calcolare un paio d’ore. La visita a Sanssouci, per evitare lunghe attese, è consigliabile prenotarla via internet.

A nord verso il Mar Baltico
Circa 200 chilometri separano Potsdam, la città dove gli Alleati si incontrarono dopo la seconda guerra mondiale per decidere il futuro della Germania, dal Mar Baltico. Il nostro itinerario attraversa la bella regione dei laghi del Meclemburgo e punta direttamente a nord-est verso l’isola di Rügen, residenza di personaggi famosi come Bismark, Thomas Mann, Albert Einstein, ma anche del presidente della Germania Democratica Erich Honegger e di Hitler, il quale prima della guerra iniziò la costruzione, mai ultimata, di un villaggio di vacanze – “Kraft durch Freude”, forza attraverso la gioia – per 20 mila persone. Nella più grande isola tedesca, entrata nell’immaginario collettivo nazionale grazie ai popolari dipinti di Caspar David Friedrich, le coste e le campagne si fondono. Se ci si immagina di trovare strade panoramiche costiere si rimane delusi, ma la vista sul mare dalle falesie di gesso (Stubbenkammer) rese famose dalle opere di Friedrich è davvero magnifica. Luogo ideale per vacanze attive – escursioni a piedi, in bicicletta, a cavallo o in barca – l’isola di Rügen offre chilometri di spiagge bianche e alcuni incantevoli villaggi, che corrispondono a pennello con la nostra idea di Mare del Nord. I villaggi di Binz e in particolare di Sellin propongono “Seebrücke”, cioè lunghe passerelle rialzate in legno adagiate sull’acqua con costruzioni a padiglione delle Belle Époque. Le case che si affacciano lungo la passeggiata a mare di Binz sono caratteristiche della cosiddetta “Bäderarchitektur”, un’architettura vacanziera di fine Ottocento-inizio Novecento, caratterizzata da graziose e bianchissime ville dell’alta società tedesca, provviste di romantiche verande in legno intagliato e in ferro battuto. Per completare il quadro sulle bianche spiagge di sabbia non possono mancare le “Strandkörbe”, sedili in vimini per ripararsi dal vento del nord mentre si ammira il mare di un azzurro intenso.
Ma prima di lasciare Rügen vale ancora la pena di visitare Potbus, una cittadina termale neoclassica d’inizio Ottocento voluta dal principe dell’isola Guglielmo Malta I. Interessante anche la sontuosa residenza di caccia del nobile Jagdschloss Granitz da cui si gode un bellissimo panorama. Di Potbus, una sorta di follia pianificatoria in stile neoclassico, rimangono la bella piazza circolare (Circus) e il teatro, che sorgeva di fronte alla residenza principesca, distrutta negli anni Sessanta dal regime della Germania dell’Est in quanto considerata “un simbolo di repressione feudale”.

Schwerin, la sontuosa Isola del castello
Il nostro itinerario prevede a questo punto la visita di altre due città che si affacciano sul Mar Baltico: Stralsund, da cui parte il ponte che collega l’isola di Rügen al continente, e Wismar, una seducente città costruita in mattoni rossi. Sebbene si trovino entrambe sul territorio dell’ex Germania dell’Est, ne parleremo nella seconda parte quando ci occuperemo delle città della famosa Lega Anseatica, un’alleanza che difendeva gli interessi dei commercianti tedeschi, di cui Stralsund e Wismar erano importanti membri.
Concludiamo quindi il nostro percorso nell’ex Germania comunista con la visita di Schwerin, capitale di Meclemburgo e Pomerania Occidentale dopo la riunificazione. Situata in uno splendido paesaggio ricco di laghi e di foreste, questa simpatica cittadina amministrativa presenta nella bella Marktplatz dimore seicentesche a graticcio e a pignone e, poco distante, un bel duomo. Ma il suo gioiello è costituito dalla Schlossinsel (Isola del castello), che ospita la sontuosa residenza dei granduchi di Meclemburgo-Schwerin, in stile neorinascimentale con alcuni elementi gotici e barocchi. È stata costruita tra il 1845 e il 1857 dal granduca Paul Friedrich Franz II, dopo lo spostamento della corte da Ludwigslust a Schwerin nel 1837, rimodellando la sede dei propri antenati in stile rinascimentale danese e ispirandosi al castello francese di Chambord nella Loira. Con le sue torrette, cupole a lanterne e volte a bulbo questo edificio rappresenta uno dei monumenti civili più importanti dell’Ottocento tedesco. Sebbene questo castello soddisfi il nostro immaginario collettivo, ancora una volta, come abbiamo visto in precedenza, ci troviamo di fronte a un’ostentazione di ricchezza con eccessi decorativi ispirati alla “grandeur” delle corti francesi.

Itinerario
1°, 2°, 3° giorno (832 km – 8h) Locarno – Dresda
4° giorno (200 km – 2h) Dresda – Potsdam
5° giorno (350 km – 3.30h) Potsdam – Putbus – Binz
6° giorno (300 km – 4h) Binz – Kap Arkona – Sassnitz – Stralsund – Bad Doberan – Wismar – Benz
7° giorno (100 km – 1.30h) Wismar – Schwerin – Lubecca
8°, 9°, 10° giorno (100 km – 1.15h) Lubecca – Travemünde – Amburgo
11° giorno (425 km – 4h) Amburgo – Colonia
12° giorno (750 km – 8h) Colonia – Locarno

Per saperne di più
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Germania – Atmosfere nordiche e medievali
Germania – Il peso di una guerra atroce sulle grandi città tedesche

Da giovane, prima di iniziare i miei studi universitari a Firenze, ho trascorso alcuni mesi in Germania, dapprima ad Heidelberg, in seguito ad Amburgo, per rafforzare le mie conoscenze della lingua tedesca. Era la fine degli anni Sessanta. Approfittavo del weekend per visitare il Paese. Ma a quei tempi c’era una zona della Germania, quella dell’est, appartenente al blocco comunista, difficilmente accessibile al turismo. Mi è così sempre rimasto il desiderio di conoscere anche quella parte del Paese. Desiderio esaudito l’estate scorsa, venticinque anni dopo la caduta del Muro di Berlino e la riunificazione delle due Germanie.
La prima tappa del nostro viaggio è Dresda, quella che fu la Firenze del nord, che venne irrimediabilmente distrutta dai bombardamenti alleati nel corso della seconda guerra mondiale. Soprattutto dopo la riunificazione, parte della città è stata ricostruita, naturalmente senza raggiungere gli splendori dei tempi passati. La sera decidiamo di cenare in una birreria per gustare i piatti tipici regionali. Il locale ha lunghe tavolate dove ci si siede uno accanto all’altro, senza eccessiva privacy. Ci accomodiamo vicino a una coppia di anziani tedeschi e mi vien da pensare, gustando uno stinco di maiale, a tutti i cambiamenti politici e ai drammi provocati dalla guerra che devono aver vissuto quei due. Ma non oso rompere il ghiaccio. Sono loro a farlo quando ci sentono parlare italiano. È l’occasione per dare sfogo alla mia curiosità. Ci chiedono se amiamo la loro città e ci raccontano orgogliosi della ricostruzione e dei tempi d’oro del XVII e XVIII secolo. Io sono interessato a sapere come hanno vissuto la guerra, il nazismo, in seguito il comunismo, e infine il ritorno alla democrazia. Ulrich e sua moglie Hildegard hanno più di 80 anni. Durante la guerra avevano frequentato le scuole della Germania nazista. I padri di entrambi avevano perso la vita combattendo per Hitler. Il papà di Ulrich era un sostenitore del Führer, perché suo padre era stato un pezzo grosso dell’esercito prussiano durante la prima guerra mondiale. “Aveva vissuto come un’umiliazione – racconta Ulrich – le condizioni di pace imposte dai vincitori”: da qui le simpatie della sua famiglia per Hitler, “senza certo immaginare – aggiunge, quasi scusandosi – a quale catastrofe ci avrebbe portati”. Dopo la seconda guerra mondiale, il regime politico è radicalmente mutato e Ulrich ha proseguito gli studi, fino a conseguire il titolo di ingegnere nell’università gestita dai comunisti. “Mi sono concentrato sugli studi – osserva – cercando di rimanere il più lontano possibile dalla politica”. Durante gli anni del regime ha continuato a lavorare ignorando le riunioni del partito a cui veniva regolarmente invitato. “Ma dopo la caduta del muro di Berlino e la riunificazione della Germania mi sono sentito in obbligo di impegnarmi in politica”. Oggi Ulrich e Hildegard sono degli ammiratori della cancelliera Merkel perché sono convinti che sia riuscita a dare alla Germania quel prestigio e quel benessere che si merita.