Armenia – Monasteri e fortezze immersi in una natura selvaggia

Armenia – La tragedia del genocidio all’inizio del Novecento
Armenia – La rinascita iniziò dalla laguna veneta
Armenia – L’amara verità storica del genocidio armeno
Armenia – La letteratura del viaggiatore

L’itinerario parte dalla capitale Yerevan ricca di musei che testimoniano una storia difficile ma ricca e prosegue in uno spettacolare territorio montagnoso alla scoperta di antichissime chiese e monasteri, di fortezze e caravanserragli situati lungo la Via della Seta.

Nonostante le continue occupazioni e i tentativi di assimilazione, di conversione e di annientamento l’etnia armena è sopravvissuta alle vicende storiche avverse fondandosi sulla fede cristiana e sulla millenaria cultura espressa in una lingua con un alfabeto proprio. Dalle avversità storiche ha saputo trarre anche aspetti positivi assimilando nel vocabolario, nell’arte, nella cucina, negli usi e costumi l’essenza delle civiltà di cultura e religione diverse con cui la sua popolazione è venuta suo malgrado in contatto. Visitando oggi l’Armenia come turisti si percepisce questa ricchezza.
L’architettura religiosa, dato l’alto significato del Cristianesimo nella storia armena, costituisce certamente l’elemento caratterizzante di questo paese. Chiese e monasteri sono spesso appollaiati sopra dirupi o situati in magnifiche vallate, dove il corso delle acque ha scavato profondi canyon. Ma sono interessanti anche le visite alle fortezze, erette in luoghi impervi per difendere il territorio dalle continue invasioni, e ai caravanserragli, siti di sosta per i commercianti che percorrevano la mitica Via della Seta. Al di fuori della capitale Yerevan, dove vive un terzo degli oltre 3 milioni di abitanti (all’estero se ne contano quasi 9 milioni), il paesaggio è agreste, spesso senza vegetazione, dato che ci si trova sovente sopra i 2000 metri di altezza. Dietro qualsiasi curva della strada bisogna essere pronti a frenare perché molto spesso le mandrie di mucche o di pecore scambiano l’asfalto per il pascolo. Zona vulcanica ad alto rischio sismico l’Armenia in molte regioni offre visioni lunari. Il lago Sevan (il terzo lago più alto del pianeta, situato, con i suoi 110 km2 di superficie, a 1900 metri) offre uno dei paesaggi più suggestivi: di un color azzurro scuro si contrappone al marrone delle montagne desertiche. Il tragitto che lo collega a Yerevan, attraverso il passo Selim, è particolarmente affascinante. Si attraversano profonde pareti rocciose per raggiungere paesaggi desertici e poi, ad un tratto, spuntano villaggi verdissimi, simili ad oasi, in mezzo a montagne spettrali. I paesini sono rurali e molto poveri, ma il territorio, salvo durante il rigido inverno, è molto fertile. E di spazio non ne manca. A tratti abbiamo attraversato zone viticole. Per affrontare temperature che scendono di molti gradi sotto lo zero i contadini, una volta colta l’uva, devono interrare i tralci per dissotterrarli in primavera. Il paesaggio forse più straordinario è la vallata in cui si trova il monastero di Noravank. Si attraversa per 8 chilometri un canyon con pareti altissime di color rosso e giunti nel fondovalle si scorge il monastero in uno spettacolare scenario di rocce rosate.

Radici del passato a Yerevan
Nella capitale i grigi palazzi dell’epoca sovietica convivono con i grattacieli moderni di stampo occidentale. Abbondano i musei che illustrano la ricca e tormentata storia di questo popolo. Su due colline situate ai due estremi della città sorgono due monumenti simbolo: il Memoriale per le vittime del genocidio con l’annesso museo e l’imponente e fiera statua della Madre Armenia, che sostituì quella di Stalin la notte stessa in cui giunse la notizia della sua morte. Ma il sacrario della cultura armena è considerata la grande biblioteca di manoscritti Matenadaran, che si erge come una cattedrale in cima al viale più importante di Yerevan. Dedicata all’inventore dell’alfabeto armeno, Mesrop Mashtots la cui statua troneggia all’entrata, custodisce 17 mila manoscritti, in gran parte armeni, e 100 mila documenti medievali e moderni. All’interno una fiera scritta avverte il visitatore: “Seppur siamo una piccola nazione, anche noi abbiamo compiuto opere di prodezza e di valore che crediamo meritino di essere ricordate”. L’orgoglio con cui la nostra apprezzatissima guida locale, Vahé, ci mostra quei preziosi manoscritti salvati dalle malvagità della storia è commovente.
Nella neoclassica e suggestiva Piazza della Repubblica, restaurata con garbo, accanto alla sede del governo e di alcuni ministeri, un edificio imponente ospita il museo statale di Storia armena, che illustra le principali tappe dal paleolitico all’epoca moderna. Le sale più suggestive sono quelle iniziali dove sono esposti reperti di eccezionale qualità artistica, che attestano l’elevato grado di questa civiltà nell’antichità, sin dall’epoca urartea risalente al primo millennio a.C. Ma l’oggetto esposto forse più eccezionale è una scarpetta, la più antica mai scoperta al mondo, che risale a 5500 anni fa, recentemente rinvenuta in una grotta.

Gli edifici religiosi
Il poeta russo Osip Mandelstam definì questa terra, dove ogni pietra narra la storia del suo popolo, “regno di pietre urlanti”. Ed in effetti tutti gli edifici sono costruiti in basalto, perché offriva maggiore resistenza alle devastazioni. L’architettura religiosa, con le sue soluzioni originali che avrebbero influenzato notevolmente lo stile degli edifici religiosi in tutta Europa, è senz’altro quella che più caratterizza l’Armenia. Come fa notare lo storico dell’arte italiano Alpago Novello, l’architettura sacra armena si distingue per semplicità e chiarezza, per la presenza di volumi geometrici elementari organizzati in modo simmetrico. Tanto da far associare a Cesare Brandi, in un famoso articolo intitolato “Le chiese di cristallo”, questi volumi di forme elementari “organizzati secondo assi simmetrici con una rigorosa logica di tipo geometrico-matematico, alle formazioni cristalline naturali”.
Per capire queste costruzioni bisogna distinguere due periodi. Dal VII al IX secolo l’architettura medievale presenta due aspetti originali: da una parte l’inserimento della cupola al centro della chiesa ricorrendo a soluzioni statiche interessanti e spesso ardite, dall’altra un certo contrasto tra un esterno monumentale e quadrangolare e un interno molto lineare e luminoso.
Dal IX al XIV secolo, invece, sorgono importanti monasteri che riprendono i motivi architettonici precedenti, ma con l’aggiunta di nuove esperienze. È in questo periodo che nasce il cosiddetto “gavit”, elemento tipico dell’architettura armena, tanto che non esiste una traduzione italiana di questo termine. Si tratta di una sala collocata davanti all’entrata che fungeva da vestibolo, luogo di sepoltura riservato ai notabili e di ritrovo per i cittadini. Non solo i cristiani, ma anche gli infedeli potevano incontrarsi qui e discutere, socializzare e commerciare. L’ingresso in chiesa era invece consentito solo a chi era battezzato.
“La scelta di costruire i complessi monastici in posizione dominante in fondo a profonde valli o sulla cima di altopiani difficilmente accessibili – scrive Nadia Pasqual, autrice della miglior guida in italiano sull’Armenia – garantiva la sicurezza di questi edifici che avevano la fondamentale funzione di produrre e conservare il patrimonio culturale nazionale e che in alcuni casi divennero anche importanti centri politici. Questi ambienti impervi e isolati facilitavano inoltre il raccoglimento e la concentrazione necessari ai religiosi per coltivare la profonda spiritualità che ancora oggi ammanta questi luoghi carichi di suggestioni”.
Un altro simbolo dell’Armenia sono i khatchkar: letteralmente significa croci di pietra. Si tratta di lastre di pietra finemente scolpite per rappresentare simboli cristiani, spesso la croce. Sono presenti in quasi tutti gli edifici religiosi – chiese, monasteri, cimiteri – incastonati nelle pareti o piantati nel terreno. In tutto il paese ne sono state censite oltre 30 mila, ma mi sono rimaste in particolare nella mente le numerosissime presenti nel suggestivo cimitero di Noraduz, che sorge sulle rive del lago Sevan. Camminare tra queste tombe sepolcrali indorate dai licheni in una giornata di sole in riva al lago incoronato dalle montagne è un’esperienza davvero indimenticabile.

I principali siti archeologici
Essendo il nostro viaggio organizzato dalla Società archeologica ticinese, un’attenzione particolare è stata dedicata alla visita dei principali siti archeologici. La maggior parte si trova negli immediati dintorni della capitale. Il più antico è Agarak, scoperto di recente. Risale al 2800-2600 a.C. e sorge su una base naturale in basalto. Sembra si trattasse di un luogo di culto, che si estendeva su un’area molto vasta.
Il sito forse più affascinante, Metsamor, appartiene invece all’epoca urartea attorno al 1200 a.C. Il luogo era noto come centro metallurgico – si vedono ancora le fornaci – e soprattutto per le sue attività astronomiche. Sembra che gli studiosi dell’epoca avessero individuato le costellazioni, fossero riusciti a suddividere l’anno in dodici periodi e conoscessero la stella Sirio che decretava l’inizio del nuovo anno. Conoscenze che venivano utilizzate per il culto, ma certamente preziose anche per l’agricoltura e quindi per organizzare la vita economica. Il museo annesso presenta i reperti trovati durante gli scavi, soprattutto nelle tombe, dove i notabili venivano seppelliti con i loro schiavi. La presenza di una splendida ranocchia in pietra e di un sigillo di fattura mesopotamica indicano come il commercio fosse già molto sviluppato.
Pure di epoca urartea è Erebuni, situata alle porte dell’attuale Yerevan e fondata nel 782 a.C. in un’epoca di relativa stabilità politica. Della città rimangono le fondamenta della muraglia, del palazzo reale, dei vasti magazzini, dei quartieri militari e dell’area sacra. Nel museo annesso si possono vedere le tubature in pietra completamente chiuse che servivano per trasportare l’acqua dalla montagna lontana 40 chilometri.
Con la visita di Garni ci spostiamo invece in epoca romana. L’edificio più suggestivo, in parte ricostruito dai sovietici, risale al 77 d.C. Fu edificato in basalto, caratteristica che lo differenzia dagli altri templi romani, con il denaro che Tiridate I d’Armenia ricevette dall’imperatore Nerone.

Itinerario

1° giorno
Lugano-Zurigo-Yerevan

2° giorno
Yerevan-Garni-Geghard

3° giorno
Agarak-Aruch-Dashtadem-Harich-Gyumri

4° giorno
Odzun-Haghpat-Sanahin-Tumanyan

5° giorno
Dilijan-Lago Sevan

6° giorno
Noraduz-Selim-Noravank-Yerevan

7° giorno
Echimiadzin-Metsamor

8° giorno
Erebuni-Artashat-Dvin

9° giorno
Hovanavank-Saghmosavan-Amberd

10° giorno
Yerevan-Zurigo-Lugano

Bibliografia

Armenia Polaris, Firenze 2010
Georgia, Armenia, Azerbaigian Lonely Planet, Milano 2008
Armenia Braot, Bucks (England), 2003
Claude Murafian et Ericc van Lauwe, Atlas Historic de l’Arménie, Paris 2001

Armenia – La rinascita iniziò dalla laguna veneta

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Sull’isola di San Lazzaro poco distante da Piazza San Marco, un abate armeno nel XVIII secolo fondò un convento dove lavorare in silenzio per salvare l’Armenia non con le mani, ma attraverso la valorizzazione della sua cultura.

Una minuscola isola, situata nella laguna di Venezia, da cui si gode una splendida vista sulla Serenissima, ha svolto un ruolo determinante per la salvaguardia dell’identità armena e per la rinascita di questo popolo nel XVIII secolo, proprio mentre il territorio della madre patria era conteso, come ormai avveniva da secoli, tra russi, ottomani e persiani. Quando si temeva che tutto dovesse andare per il peggio, a San Lazzaro una comunità di religiosi condotta dall’abate Mechitar lavorava in silenzio per salvare la cultura, la lingua e la religione di una civiltà che sembrava destinata a scomparire. Il fondatore della congregazione con sede a Venezia era convinto di poter salvare l’Armenia non con le armi, ma attraverso la valorizzazione della sua cultura.
Era questa una delle tante comunità armene che si erano costituite all’estero. La tragica storia di questo popolo ha infatti portato ad un esodo nel corso dei secoli. L’attuale Armenia, costituitasi come stato indipendente dal 1991, conta circa 4 milioni di abitanti. La maggioranza degli armeni – si calcola oltre 8 milioni – vive però al di fuori dei confini nazionali: in Georgia, negli Stati Uniti, in Russia (soprattutto a Mosca), in Francia e in altri paesi europei, in Libano, in Siria, in Iran, in Turchia, in Australia, in America meridionale. In Italia abitano diverse comunità, che in tutto contano tra le 2 mila e le 3 mila persone, sparse in varie regioni. Ma quella storicamente più importante si trova tuttora sull’isola di San Lazzaro, nella laguna veneziana. La nostra guida armena Vahé Lazarian, che ci ha fatto conoscere e amare il suo paese, ha studiato armenologia per ben dodici anni a San Lazzaro. Durante un suo soggiorno in Italia ci ha condotti alla scoperta dell’isola e della sua storia.

Mechitar era nato in Armenia e a ventiquattro anni si era trasferito a Costantinopoli seguito da alcuni discepoli decisi a salvare il proprio paese risvegliando la fede, la cultura e la lingua del loro popolo. Ma ben presto i turchi si accorsero dei suoi intenti e Mechitar nel 1701 fu costretto a fuggire con i suoi seguaci. Riparò in Grecia, a Modone, una cittadina controllata dai veneziani. I turchi arrivarono anche lì e Mechitar nel 1715 si trasferì a Venezia, che in quei tempi era uno dei centri editoriali più importanti al mondo. Non poteva capitare meglio, data la sua intenzione di pubblicare in lingua armena le traduzioni di numerose opere riguardanti i campi più svariati della cultura. Le numerose isolette della laguna ospitavano monasteri ed i veneziani non erano propensi ad accettare una nuova congregazione. Ma gli armeni erano influenti e ben visti in città, perché abili commercianti che garantivano il collegamento con le Indie, con la Persia e con il resto dell’Europa. Tanto che, secondo un detto veneziano, ci vorrebbero ben sette ebrei per fare un armeno. Dopo due anni di permanenza in città la congregazione ottenne il permesso di trasferirsi sull’isola di San Lazzaro, ormai disabitata da due secoli, dapprima in affitto e in seguito come proprietaria. Riuscirono a resistere perfino all’ordine di Napoleone di sopprimere tutte le congregazioni religiose. San Lazzaro rimane così l’unica isola nella laguna veneta ad aver conservato, unitamente a San Francesco del Deserto, la sua antica funzione conventuale. Sul modo in cui la congregazione armena riuscì ad evitare l’ordine napoleonico esistono diverse spiegazioni, di cui alcune romanzesche. Le abilità diplomatiche dei sacerdoti mechitaristi sembrano comunque essere fuori discussione. La congregazione, anche da un profilo religioso, gode infatti da sempre di uno statuto speciale: è infatti riconosciuta sia dalla chiesa cattolica romana, sia da quella armena e da secoli funge da anello di congiunzione, da ponte tra le due religioni. La prospettiva culturale di Mechitar si rivela così caratterizzata da una rara ampiezza di vedute, soprattutto nel saper integrare il patrimonio spirituale e teologico dell’Oriente con quello dell’Occidente. Come scrive lo studioso italiano Claudio Gugerotti, “Mechitar diede alla cultura armena uno slancio inedito e certamente straordinario proprio perché comprese, con intelligenza rara, che si poteva essere cosmopoliti senza snaturarsi”.
L’influsso culturale della congregazione venne riconosciuto dagli storici armeni sin dall’Ottocento. Nel secolo successivo lo scrittore Arshag Tchobanian affermò che “nessuna istituzione armena ebbe un influsso così originale, così profondo e permanente sugli armeni nel diffondere lo spirito, il gusto, i costumi occidentali quanto la Casa di Mechitar”. Lo storico Arakel Babachanian scrisse addirittura che l’opera di Mechitar “segna l’inizio di un’epoca tutta nuova nella storia del nostro progresso spirituale” al punto da proporre di “denominare quell’epoca (cioè fin oltre la metà dell’Ottocento ndr.) come epoca mechitariana”.

San Lazzaro degli Armeni, che si raggiunge in quindici minuti di vaporetto da San Marco, è un pezzo di Oriente trapiantato nella Laguna. La visita è consentita ogni giorno dalle 15 alle 17.
Quando i sacerdoti mechitaristi arrivarono sull’isola nel 1717 trovarono solo una piccola chiesa e alcune capanne. Iniziarono quindi l’edificazione dell’attuale monastero e l’ampliamento della superficie dell’isola. L’ultima tappa fu ultimata nel 1850.
Dal pontile, situato a fianco della darsena ottocentesca, si gode una splendida vista sulla Serenissima. Il giardino che circonda il monastero è un’oasi di pace. Ispirò il poeta inglese Lord Byron che trascorse alcuni periodi a San Lazzaro, dove apprese la lingua armena, “un idioma ricco, che ripagherebbe chiunque della fatica di impararlo”.
Attraverso il giardino si entra nel convento. L’architettura non è orientale, salvo le decorazioni della chiesa. Visitato il refettorio, un interessante ambiente settecentesco dominato da un’imponente Ultima Cena di Pier Antonio Novelli, si attraversano numerosi corridoi adornati di dipinti donati al monastero e si sale al primo piano decorato da stucchi settecenteschi dove si trova la biblioteca, che costituisce la grande attrattiva della visita. Ospita oltre 200 mila volumi, di cui la grande maggioranza antichi. La scelta delle opere è stata concepita da Mechitar come raccolta degli strumenti necessari alle attività di ricerca, che spaziavano dalla teologia alla filosofia, dalle scienze alla storia, alla letteratura. Nel contempo l’abate ha impegnato la Congregazione nella raccolta di antichi manoscritti, con l’invio di confratelli in Oriente e in America e, quando non era possibile acquisire alcuni esemplari, venivano copiati. Il convento ospitava fino a pochi anni fa anche una tipografia che in 250 anni di attività ha stampato oltre 4 mila volumi frutto di ricerche o traduzioni in lingua armena prodotte dai padri della comunità, che oltre a praticare la preghiera si dedicano tuttora al lavoro intellettuale a favore della cultura armena. Dai tipi della casa editrice di San Lazzaro sono però uscite numerose altre opere stampate in ben 36 lingue. Dal 1967 i preziosissimi manoscritti sono custoditi in un nuovo edificio circolare a prova di fuoco, che li ha risparmiati da un furioso incendio divampato nel 1975.

Armenia – L’amara verità storica del genocidio armeno

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Armenia – La letteratura del viaggiatore

Alcuni anni fa, durante un viaggio in Turchia con un gruppo di amici, approfittai di un lungo trasferimento in torpedone per promuovere una discussione con la nostra guida, un intellettuale turco. Lessi due brani: uno sulla questione curda e il secondo sul genocidio armeno. Terminata la mia lettura, che voleva certamente essere provocatoria, il nostro accompagnatore esclamò adirato: “Mi è capitato raramente di ascoltare tante sciocchezze in così poco tempo”. L’ambiente si raggelò e solo dopo qualche giorno riuscimmo a spiegarci. La sua reazione era chiaramente difensiva, nonostante fosse critico verso il suo governo. In quell’occasione capii che molti turchi non sono ancora pronti a discutere su certi argomenti e il genocidio armeno figura tra quelli più tabù.
Quest’anno, nell’ambito di un viaggio in Armenia organizzato dall’Associazione Archeologica Ticinese, ho visitato con grande interesse a Yerevan il museo del genocidio e mi è tornato alla mente quello scontro con la guida turca. La barbarie di quella tragedia, iniziata nell’aprile del 1915, che ha portato all’eliminazione nel giro di sette anni di oltre un milione e mezzo di armeni – uomini, donne, anziani e bambini – è ampiamente documentata. Eppure Ankara si ostina a negare quei fatti: perché?
Ai tempi del genocidio il territorio armeno era spartito tra Impero ottomano, Russia zarista e Persia. Nel corso della prima guerra mondiale Russia e Turchia combattevano su fronti opposti. Accadde così che ci furono armeni arruolati nei due eserciti in guerra tra loro. Secondo la storiografia ufficiale turca gli armeni ottomani, manipolati dai russi, non sarebbero stati soldati leali, ed avrebbero anzi costituito una presenza nemica all’interno dello stesso esercito ottomano assassinando numerosi turchi. Le autorità sarebbero pertanto state costrette a deportare questi soldati per ragioni di sicurezza interna. Questo non può comunque in nessun caso giustificare l’eliminazione di un intero popolo, donne, anziani e bambini compresi. La realtà è probabilmente un’altra. Questi episodi di “antiturchismo” armeno furono sfruttati come pretesto per eliminare un’importante presenza cristiana in Turchia, considerata un ostacolo alla realizzazione del panturchismo, favorevole all’unione di tutti i popoli asiatici di origine turca. Oggi il governo di Istanbul ha una posizione più sfumata e mette in dubbio il numero di vittime denunciate dagli armeni per evitare di dover riconoscere che si sia trattato di un genocidio, cioè del tentativo di eliminare un popolo. D’altra parte alcuni intellettuali turchi hanno recentemente chiesto al loro governo di arrendersi di fronte all’evidenza. La mancata ammissione del genocidio costituisce pure un ostacolo per l’accettazione della Turchia nella Comunità europea.
Ma perché allora ostinarsi a negare questa verità, seppur scomoda?
Non è certamente facile per uno Stato ammettere che la sua storia ufficiale vada riesaminata. Anche perché se è vero che il genocidio è avvenuto prima di Atatürk, il padre della Turchia moderna, è altrettanto vero che tra i collaboratori dell’eroe nazionale figuravano anche ideologi del panturchismo e dello sterminio degli armeni. La storiografia ufficiale celebra infatti politici che – qualora il genocidio venisse riconosciuto – dovrebbero essere considerati da un giorno all’altro criminali per avere commesso atrocità contro gli Armeni. Inoltre Yerevan potrebbe chiedere riparazioni territoriali, economiche o di altra natura, sebbene sostenga di non volerlo fare. A livello internazionale il genocidio è riconosciuto da una ventina di Stati, tra cui anche la Svizzera. Si tratta quindi effettivamente di una situazione di non facile soluzione per Ankara, che può ben spiegare il nervosismo della guida turca di cui parlavo all’inizio.

Armenia – La letteratura del viaggiatore

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Armenia – La rinascita iniziò dalla laguna veneta

La letteratura costituisce certamente un forte incentivo a viaggiare. Chi non ha mai sognato di visitare i luoghi che fanno da scenario al suo romanzo preferito? A me piace, quando ciò si rivela possibile, concretizzare questi sogni e partire per vedere “dal vivo” i paesaggi dei libri che leggo. Qualche volta però succede il contrario: si visita un paese, si scoprono orizzonti fino a quel momento sconosciuti, si gustano cibi particolari, si ascoltano musiche nuove e nasce il desiderio di accostarsi alla letteratura. Come scrivono gli autori di quel paese? Come vedono la loro realtà? Quali i loro pensieri, il loro vissuto, i problemi che affrontano? Così è successo per l’Armenia. Dopo il viaggio, e soprattutto dopo la sconvolgente visita al museo del genocidio a Yerevan, mi sono trovato a cercare scritti su questo tema. E nella biblioteca di casa ecco un libro dalla copertina suggestiva che mi ha colpito: “La masseria delle allodole”. Quanta forza possano avere le pagine di un libro lo ha dimostrato proprio il successo di quest’opera, che ha segnato l’esordio narrativo di Antonia Arslan (Rizzoli 2004). Muovendosi con sensibilità nel territorio fertile di emozioni che si situa tra ricordi familiari, ricerca storica e invenzione poetica, la Arslan (in origine Arslanian) ha raccontato le vicende armene con tale intensità da attirare l’attenzione di un pubblico vasto, che si è allargato ancora di più quando dal romanzo è stato tratto un film diretto dai fratelli Taviani. Il genocidio armeno è giunto così nelle case dei lettori – e degli spettatori – con grande forza. Antonia Arslan è nata a Padova da una famiglia di origine armena. Laureata in archeologia, per molti anni ha insegnato presso l’università della sua città, pubblicando nel contempo saggi letterari, contribuendo alla traduzione dell’opera del poeta armeno Varuyan e curando opere inerenti la storia del genocidio. Il salto verso il narrativo è del 2004. “Non potevo farne a meno” ha più volte ripetuto. E forse la spinta è arrivata dai ricordi d’infanzia: quel nonno serio e severo che l’accompagna a trovare “il suo santo” nella basilica padovana, che nei suoi tardi anni condivide con lei le immagini mai cancellate della sua patria lontana. Quel nonno arrivato in Italia da ragazzino per frequentare il Collegio armeno di Venezia, prestigiosa scuola per i rampolli delle famiglie più importanti della piccola nazione, e che non aveva mai più potuto tornare nella sua terra d’origine. Quel nonno che aveva sognato di portare in Armenia la moglie italiana e i suoi figli, la famiglia che nel frattempo si era creato in Italia, un progetto a lungo accarezzato con il fratello rimasto a casa e bruscamente spezzato proprio dai fatti del 1915. I maschi Arslanian brutalmente uccisi, le donne e i bambini spinti con altre migliaia di armeni verso il deserto siriano in una marcia forzata che ogni giorno faceva le sue vittime tra fame, febbre e violenze. Rinuncerà il nonno – dopo questo orrore – al suo passato, concedendosi solo nei suoi ultimi anni la nostalgia per quella terra, per gli affetti familiari perduti, per i sapori e i colori della sua infanzia. Una nostalgia che passerà alla nipotina e che costituirà – molti anni dopo – il motore della ricerca alla base della Masseria delle allodole. I profumi dell’Oriente (quelli del pane, dello yoghurt, dei dolci), le abitudini particolari di un parentado che dopo la diaspora (qualcuno in effetti si salverà) si espande su diversi continenti, le parole del nonno che ricorda la casa antica sulle colline e le dolci giornate di vendemmia: l’eco di quella cultura si fa materia di studio – delle proprie origini, ma anche di pagine di storia che non possono cadere nell’oblio.

Un piccolo paradiso sulla porta di casa

Amo molto viaggiare e scoprire paesi lontani con culture e mentalità diverse dalla nostra. Apprezzo però moltissimo anche il Ticino con i suoi laghi, le sue valli e le sue montagne. Purtroppo non sono un alpinista, per cui certe mete mi sono precluse. Con mia moglie cerchiamo però di scoprire itinerari che siano alla nostra portata. E ce ne sono davvero molti, anche per semplici escursionisti della domenica. Quando scopro paesaggi meravigliosi poco distanti da casa, mi chiedo come sia possibile che non li abbia conosciuti prima e, quasi, mi arrabbio con me stesso.
Vorrei suggerire oggi un’escursione ai laghetti alpini Tremorgio e Leit in valle Leventina, sopra Rodi Fiesso. La gita è davvero alla portata di tutti. In pochi minuti una teleferica sale dal fondo valle fino alla capanna Tremorgio, che si affaccia sullo splendido laghetto. Come racconta Plinio Grossi nei suoi splendidi itinerari dedicati ai laghetti alpini (cfr. www.laghettialpini.ch) la leggenda narra che Tremor, luogotenente di Carlo Magno aveva il suo castello su uno sperone roccioso del Tremorgio e doveva sempre lottare contro la Befana, che gli giocò un perfido tiro: Tremor sposò un’affascinante principessa ma un giorno s’accorse che al posto dei piedi aveva le zampe d’oca. La giovane moglie era l’odiata Befana travestita. Vistasi scoperta scatenò un terribile terremoto e al posto del castello di Tremor apparve una voragine piena d’acqua azzurra, così profonda che si dedusse fosse collegata con l’inferno. Attorno al lago cresceva l’Aquilegia alpina con la corolla sormontata dalla corona ducale a cinque punte. La Befana aveva mutato in fiore il luogotenente di Carlo Magno. Il laghetto è quindi un luogo di poesia e di leggende. Secondo alcuni geologi la sua origine sarebbe addirittura legata all’impatto con un meteorite di qualche decina di metri di diametro.
Fatto sta che il luogo è paradisiaco, anche se le sue acque sono sfruttate da quasi un secolo per produrre energia elettrica (attualmente dall’Azienda Elettrica Ticinese, che è proprietaria anche della filovia e della capanna).
In poco meno di un’ora di cammino si raggiunge la vasta piana dell’Alpe Compolungo, un luogo idilliaco, solcata da un limpidissimo e silenzioso ruscello. È nota soprattutto per i suoi minerali esaminati da molti studiosi. Un esemplare classificato come Alessandrite, addirittura esposto al museo di storia naturale di Milano nella collezione del conte Borromeo. I prati in estate presentano una vegetazione ricchissima e variopinta. Salendo verso il lago Leit, che si raggiunge in circa 45 minuti, il pascolo si fa roccia. Il paesaggio cambia fisionomia e “obbedisce agli ordini rigorosamente montani del Pizzo Prèvat – come osserva Plinio Grossi – che l’ombra rende ancora più liscio”. Salito un promontorio si scopre d’improvviso il laghetto, “stupendamente diviso – spiega Grossi – in quattro distinti e indipendenti settori tonali: c’è dapprima all’esterno il verde, segue il marrone chiaro, vi è quindi il viola e infine l’azzurro messo lì per far da contrasto con il bianco quasi irreale del Passo Campolungo”. In ulteriori 45 minuti, su un sentiero piuttosto ripido e disagevole, si raggiunge un’altra perla, il lago Varozzeira, un po’ nascosto con una graziosa isoletta che lo contraddistingue. Si ritorna alla capanna Leit, aperta fino a metà ottobre, dove la guida alpina Luciano Schacher cucina la polenta servita con gli squisiti formaggi dell’alpe Geira in Val Piumogna oppure dell’alpe Cadonigo. Più in basso, vicino all’arrivo della teleferica, alla capanna Tremorgio aperta fino a inizio ottobre potrete gustare l’ottima cucina nostrana dell’estroverso Stelio Colombo.

Francia – Nel Languedoc-Roussillon vicino alla frontiera spagnola

Francia – Nelle terre dove si consumò la tragedia degli eretici catari
Francia – L’armonia di Toulouse tra passato e presente

Un viaggio nel cuore dei territori che diedero i natali o ospitarono personaggi chiave della cultura francese come Molière, Toulouse-Lautrec, Matisse e Gauguin. Alla scoperta di città che hanno saputo conciliare tradizione storica e sviluppo industriale. Sulla splendida Côte Vermeille che al tramonto si colora di rosso.

Lasciate alle spalle la Costa Azzurra e la Provenza, oltrepassato il Rodano, si prosegue verso sud lungo la costa mediterranea fino al confine con la Spagna catalana per scoprire un mondo meno turistico che vi sorprenderà. Ci troviamo nel Languedoc-Roussillon. Le rocche catare ricordano le sanguinose battaglie del medioevo, ma anche il tempo in cui la lingua d’oc univa la storia e la letteratura di questa terra per raccontare la sua leggenda. Fondata sull’antico latino del clero, ma più viva, più docile e galante, la lingua dei trovatori del XII secolo compì il miracolo di unificare le genti del Sud e di incantare le corti vicine con la sua poesia. La Languedoc ama tuttora conservare la sua eredità occitana, così come il Roussillon, possedimento spagnolo fino al trattato dei Pirenei (1659), mantiene forti accenti d’influenza catalana. Questa terra appassionata, bruciata dal sole e ricca di tradizioni, ha fatto parte della Catalogna per secoli. Francese sulla carta resta profondamente catalana nell’animo, con la sua lingua, con le sue fiestas in cui la sangria scorre a fiumi e con la sua danza folcloristica chiamata sardana.
Il Languedoc-Roussillon offre una ricchezza immensa di natura, storia, arte e cultura, ma anche le grandiose officine che hanno visto nascere il supersonico Concorde e i modernissimi Airbus. Per visitare tutte le città e i luoghi degni di nota ci vorrebbero settimane. Il nostro itinerario, che si articola su nove giorni, è frutto di scelte impietose, dettate da interessi storici – castelli e conventi che furono protagonisti della tragica vicenda della corrente cattolica dissidente dei Catari – e artistici per quanto riguarda le città.

Albi, città natale di Toulouse-Lautrec
La terra si tinge di rosso, man mano che ci si avvicina ad Albi, dello stesso colore dei mattoni con cui sono costruiti i monumenti e le case di questa città, come quelli della vicina Toulouse, che dista una settantina di chilometri. Su uno sperone di roccia che domina il fiume Tarn svetta maestosa la cattedrale di Santa Cecilia. È circondata da verdi poggi che creano un suggestivo contrasto con il vermiglio dei mattoni. A vederla da lontano ricorda una fortezza vittoriosa a testimonianza dello spietato potere della Chiesa che tra il XII e il XIII secolo annientò il movimento eretico dei catari, chiamati anche albigesi perché ebbero le loro origini in questa città. Capolavoro del gotico meridionale è considerata una delle cattedrali architettonicamente più importanti di Francia. Massiccia e severa all’esterno, internamente è ingentilita da un recinto marmoreo che delimita il coro, così abilmente scolpito nel calcare bianco da apparire come un ricamo.
Sulla stessa piazza si affaccia l’ex sede arcivescovile, un maestoso palazzo seicentesco che ospita la più ricca collezione al mondo di opere di Toulouse-Lautrec. Il pittore del Moulin Rouge, narratore sagace, brillante e quasi impertinente d’un preciso contesto storico, cioè l’alba della Bella Èpoque, nacque ad Albi nel 1864 da una ricca famiglia nobile. Fragile, sgraziato, minato dal nanismo morì a 37 anni alcolizzato e malato di sifilide. Pittore alieno dai falsi pudori e da ogni moralismo, incompreso dalla famiglia che gli chiedeva di firmarsi con uno pseudonimo, ebbe un’esistenza infelice nonostante il successo della sua opera. Le sue composizioni sono animate da facoltosi signori e prostitute d’alto rango: al centro si trova spesso una donna con i capelli tinti di biondo o di rosso, uno sguardo invitante, il trucco pesante, l’aria sfrontata; gli uomini sono in seconda fila: buoni, s’intuisce, solo per il loro denaro.

Toulouse, patria del Concorde, ma…
Toulouse è una città affascinante e per me è stata una scoperta. Si racconta che la “ville rose” sia rosa all’alba, dorata a mezzogiorno e fiammeggiante al tramonto, una magia prodotta dalle tonalità che assumono i mattoni d’argilla del fiume Garonna con cui sono costruiti i palazzi, i muri, le splendide chiese del settimo centro urbano di Francia. Nonostante abbia una popolazione di oltre mezzo milione di abitanti e sia sede dell’industria aeronautica francese ed europea si offre al visitatore con un’atmosfera rilassata e simpatica che lo fa sentire a proprio agio. Passeggiando per le antiche vie del centro storico si percepisce una vitalità moderna e al tempo stesso la tradizione di questa città che fu capitale dell’antico Languedoc e vide nascere all’inizio del XIV secolo la più antica società letteraria europea per perorare la causa della langue d’oc, la lingua della Francia meridionale. Il papato considerava Toulouse una roccaforte per consolidare il suo potere temporale, per riconquistare la Spagna sottraendola ai musulmani e per estirpare l’eresia catara. Nel XVI secolo la città conobbe un momento di splendore perché depositaria del segreto dell’ “oro blu”, un colore ottenuto dal pastel, una pianta il cui fogliame macerato e lavorato dava una tintura azzurra indelebile. Un secolo più tardi un visionario costruì il Canal du Midi per collegare Toulouse al Mediterraneo. Nell’ottocento arrivò il collegamento con l’Atlantico tramite il Canal de la Garonne. Anche la storia dell’aviazione deve molto a questa città, oggi capitale europea dell’aeronautica con gli enormi stabilimenti, ogni anno visitati da centinaia di migliaia di persone, dove vengono costruiti i prestigiosi Airbus.
La maestosa cattedrale di St. Sternin, la più grande chiesa romanica d’Europa, sta a testimoniare l’importanza attribuita dal papato a Toulouse. Costruita tra la fine del XI e la metà del XIII secolo costituiva una tappa d’obbligo per i pellegrini che seguivano il cammino verso Santiago di Compostela. Sostavano qui per venerare l’inestimabile raccolta di reliquie di santi ospitate nel deambulatorio.
Precorre invece di quasi due secoli la costruzione delle volte acute proposte dal tardo gotico la soluzione escogitata dall’architetto nel convento dei Jacobins per unire due chiese con un’ardita volta a nervature composta da 22 archi radiali.
Da non perdere inoltre la ricca collezione di sculture e capitelli romanici del XII esposte nel Musée des Augustins.

Dalla Pézenas, di Molière…
Passeggiando per le vie lunghe e strette di Pézenas si incontrano dimore signorili e residenze seicentesche adorne di eleganti balconi in ferro battuto ed elaborati portali che riportano indietro nel tempo. La cittadina ha mantenuto la sua struttura antica. Place Gambetta non è probabilmente cambiata molto rispetto al seicento, quando il grande commediografo francese Jean-Baptiste Poquelin detto Molière (1622-1673) si sedeva nella bottega del barbiere Gély per ascoltare le chiacchiere dei clienti e trarne ispirazione per le sue pièce, che proponevano una critica feroce alla morale dell’epoca, mettendo in luce gli aspetti comici della vita mondana del tempo. Attento osservatore della realtà, Molière può essere considerato un precursore del teatro moderno. Nel palazzo Peyrat viene proposto uno spettacolo con filmati tridimensionali che percorre le tappe principali della vita del grande commediografo, partendo dall’infanzia quando il nonno materno gli trasmise la passione per il teatro, passando per i momenti difficili della carriera per giungere al trionfo dell’attore-autore, grande conoscitore dei gusti del pubblico e apprezzato dal sovrano Luigi XIV.

…alla Collioure di Matisse e Derein
La Côte Vermeille deve il suo nome al colore rosso-rosato che assume al tramonto. Inoltrandosi nella campagna ai piedi dei Pirenei tra vigneti e coltivazioni di mandorli e fichi si può salire verso un’emozionante “Haute corniche”. Larga poco più di un’automobile costeggia il mare, evidenziandone tutta la gamma dei blu, e offre indimenticabili vedute sulla costa scogliosa e sui suoi villaggi. Quando si scende e si percorre la litoranea quelle borgate che si affacciano sul mare perdono lo charme che avevano osservati dall’alto, salvo Collioure. Questa affascinante cittadina si affaccia su due porticcioli separati dal castello del XIII secolo e offre un piacevole lungomare che porta a una seicentesca chiesina fortificata da cui si dipartono viuzze dai balconi fioriti e pittoresche scalinate su cui si annidano i caffè all’aperto. “Nessun cielo di Francia è più bello di quello di Collioure. Mi basta aprire le imposte della mia stanza per avere davanti a me tutti i colori del Mediterraneo”. Così scriveva Henri Matisse (1869-1954) nell’estate del 1905 al collega pittore André Derain (1880-1954) per convincerlo “che un soggiorno qui è assolutamente necessario per il suo lavoro”. Derain lo raggiungerà e quell’estate i due colleghi lavoreranno fianco a fianco davanti al mare di Collioure: il colore deflagrerà violento dalle loro tele per dare vita al “fauvisme”, un movimento senza regole e senza divieti, ribelle e anarchico, rivoluzionario, che contrapponeva la verità dell’emozione alla consueta verità della visione. La violenza di quella luce del sud cancellava la profondità, appiattiva i volumi, sopprimeva le ombre e, soprattutto esaltava i colori facendoli esplodere sulla tela “come cartucce di dinamite”.

Itinerario

1° giorno
Locarno-Castillon du Gard (646 km)

2° giorno
Castillon du Gard-Albi

3° giorno
Albi-Tolosa-Carcassone (135 km)

4° giorno
Carcassone-Fontfroide-St. André de Roquelongue (70 km)

5° giorno (Castelli Catari)
St. André de Roquelongue-Termes- Ch. Aguilar-Ch. Queribus-Ch. Peyrepertuse-Cucugnan (130 km)

6° giorno (Conventi)
Cucugnan-St. Antoine-Serratone-St. Michel-Moltig (135 km)

7° giorno (La Côte Vermeille)
Moltig-Collioure (150 km)

8° giorno
Collioure-Pézenas-Salon de Provence (326 km)

9° giorno
Salon de Provence-Locarno (635 km)

Francia – Nelle terre dove si consumò la tragedia degli eretici catari

Francia – Nel Languedoc-Rouissilon vicino alla frontiera spagnola
Francia – L’armonia di Toulouse tra passato e presente

La magica Carcassonne risveglia il nostro immaginario del Medioevo. I suoi Cinque figli”, i castelli degli eretici, arroccati su speroni rocciosi, si mimetizzano nella natura. La pace dei conventi mal si concilia con le violenze perpetrate dalla Chiesa contro i catari.

Riprendiamo il nostro itinerario nella Francia del sud, nella regione del Languedoc-Roussillon. Lasciate alle spalle Costa Azzurra e Provenza, oltrepassato il Rodano, proseguiamo verso sud lungo la costa mediterranea fino al confine con la Spagna catalana per scoprire natura, storia, arte e cultura di questa splendida regione ancora risparmiata dai grandi flussi turistici. Nella prima parte ci siamo soffermati soprattutto sulla visita di alcune città di grande interesse artistico del Languedoc, che diedero i natali a illustri personaggi del mondo culturale francese come Toulouse Lautrec e Molière. Ci siamo però inoltrati anche nel Roussillon, sulla Côte Vermeille, per scoprire i meravigliosi paesaggi che hanno ispirato Henri Matisse e André Derein, fondatori del “Fauvisme”.
Questo itinerario ci porta invece nella selvaggia terra dei catari, in quel Roussillon che fu possedimento spagnolo fino al trattato dei Pirenei (1659). Questa terra appassionata, bruciata dal sole e ricca di tradizioni, ha fatto parte della Catalogna per secoli. Francese sulla carta resta ancora oggi profondamente catalana nell’animo, con la sua lingua, con le sue fiestas in cui la sangria scorre a fiumi e con la sua danza folcloristica chiamata sardana. Questa terra vide però anche consumarsi la tragedia dei catari, aderenti a un movimento di dissidenti cattolici che furono fisicamente eliminati da una “santa” alleanza tra la chiesa di Roma e la monarchia parigina interessata a mettere le mani sul sud della Francia. Visiteremo i principali castelli e monumenti che furono teatro di questa triste pagina di storia.

Gli eretici al rogo
“Là dove non vale la benedizione, prevarrà il bastone. Capi e prelati riuniranno la potenza delle nazioni contro questo paese, ne distruggeranno le torri, i muri e vi ridurranno alla servitù”: così tuonava San Domenico contro i religiosi catari e i regnanti che li tolleravano. Ne susseguì una carneficina al grido: “Uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi”.
Nel 1209 papa Innocenzo III proclamò la crociata contro gli eretici della Francia del sud. Il suo significato non era solo religioso, ma anche politico. Offriva ai signori del nord, fedeli al cattolicesimo, l’opportunità di espandere i propri territori alla regione molto prospera del Midi, dove la sua capitale Toulouse era considerata una delle città più importanti d’Europa dopo Roma e Venezia. La crociata non fu una guerra lampo, durò a lungo. Bisognerà infatti attendere fino al 1271 per la liquidazione della questione catara, anche se l’ultimo eretico fu eliminato dall’Inquisizione nel 1321. A mucchi furono giustiziati sulle pubbliche piazze: su cataste di legno, inginocchiati, legati mani e piedi a pali, dati in pasto alle fiamme in terrificanti olocausti collettivi.
Quale era la loro colpa? In che cosa consisteva la loro eresia? Erano convinti della santità dello spirito umano, opera di Dio, imprigionato nel corpo, opera di Satana così come tutta la materia. Aborrivano la Chiesa di Roma, credevano nella reincarnazione, ma non che Dio si fosse incarnato in Gesù, negavano i sacramenti. Una certa libertà di spirito, la mancanza di un potere centrale, una concezione egualitaria e l’anticlericalismo erano elementi tipici del Midi che costituivano un terreno fertile per il movimento cataro, tollerato se non condiviso da molti regnanti.

L’indimenticabile Carcassonne…
Carcassonne e i suoi “cinque figli”, i castelli di Peyrepertuse, Puilaurens, Termes, Aguilar e Quéribus, furono roccaforti albigesi. Carcassonne cadde nelle mani dei crociati nel 1209 dopo un lungo assedio. I suoi “cinque figli”, su cui si estende il nostro itinerario, situati nella campagna, costituirono l’ultimo ritiro degli eretici e vennero conquistati molti anni dopo.
Ai tempi dell’assedio la città di Carcassonne non possedeva ancora tutte le fortificazioni costruite in seguito dai re di Francia e giunte nel loro splendore fino a noi. La sua cittadella è la più grande fortezza d’Europa. Si compone di un nucleo fortificato, del castello dei conti, e di una doppia cerchia di mura: la cinta esterna, dotata di 14 torri e separata da quella interna composta di 24.
Carcassonne è una città magica. Già da lontano risveglia il nostro immaginario del Medioevo: è la concretizzazione delle fortezze che ci immaginavamo quando da ragazzini giocavamo ai soldatini. Anche una volta superate le mura non ne rimarrete delusi. Invasione dei turisti a parte: è il terzo luogo più visitato di Francia, dopo Parigi e Mont Saint Michel. Vale la pena di pernottare dentro la cinta – ci sono diversi alberghi – perché verso sera le strette viuzze si svuotano, i negozi di souvenir abbassano le saracinesche, così che passeggiando si può lasciar cavalcare la propria fantasia e fermare il tempo. Fare il giro delle mura esterne, splendidamente illuminate di notte, è quasi commovente. Il castello è bene visitarlo il mattino presto, prima che sia troppo affollato. Un’audioguida, molto valida, vi propone il commento dell’architetto che nell’Ottocento iniziò i restauri di questo luogo indimenticabile. Di fronte alle vetrate della basilica di St-Nazaire, considerate tra le più importanti di Francia, rimanete incantati come davanti a un caleidoscopio.
Avevo visitato Carcassonne cinquant’anni fa da ragazzino e poi non ci ero più tornato. Temevo di rimanere deluso, ma non è stato così: è stata una piacevole conferma!

…e i suoi “cinque figli”
Quando ormai tutto il Midi era conquistato dai crociati, i cosiddetti “cinque figli di Carcassonne”, i formidabili castelli di Peyrepertuse, Puilaurens, Termes, Aguilar e Quéribus, situati su impressionanti speroni rocciosi, diedero rifugio ai predicatori catari. Per anni i pellegrini affluivano a migliaia per ascoltare i loro sermoni. Per lungo tempo questa situazione fu tollerata perché considerata non minacciosa dalla chiesa di Roma. La repressione giunse però anche qui e dopo assedi drammatici ed estenuanti anche queste fortezze, ritenute per secoli inespugnabili, caddero nelle mani dei crociati e gli eretici furono bruciati vivi. L’ultimo ad arrendersi fu il castello di Quéribus, che assomiglia a una protuberanza della roccia e si erge sopra il pittoresco villaggio di Cucugnan proponendo una vista incredibile sulla pianura sottostante fino al Mediterraneo e ai Pirenei.
Una visita di una giornata permette di visitarli tutti, salvo Puilaurens, che rimane un po’ fuori mano rispetto al nostro itinerario. La strada scorre suggestiva in una regione agreste tra colline, vigneti, piccoli passi e gole profonde. In questa zona selvaggia e montagnosa, qua e là si scorgono all’ultimo momento in cima a speroni rocciosi le rovine dei castelli. A Peyrepertuse se non sapeste che lassù si annida una fortezza, architettonicamente la più interessante, da lontano non la notereste, tanto bene è mimetizzata nella natura, che sembra appartenerle. Solitamente si compie l’ultimo tratto a piedi prima di raggiungere le rovine dei manieri, che lasciano bene immaginare come si potesse svolgere la vita all’interno della cinta muraria.
Le cinque fortezze, che subirono varie trasformazione nel corso dei secoli, ebbero un importante valore strategico di protezione della frontiera francese con l’Aragona, fino al 1659 quando il trattato dei Pirenei attribuì il Roussillon alla Francia.

Luoghi di pace e di silenzio
L’armonia architettonica, la serenità, il silenzio, gli splendidi e solitari paesaggi che contraddistinguono i monasteri del Roussillon mal si conciliano con le violenze commesse dai crociati cattolici contro i catari. Eppure alcuni di questi monasteri costituirono delle vere roccaforti della chiesa di Roma contro i catari. È il caso della sobria ed elegante abbazia cistercense di Fontfroide. Si annida nella ridente gola di un vallone, che ricorda la dolcezza della Toscana. Nel 1203 Papa Innocenzo III diede a due monaci di questo monastero l’incarico di combattere l’eresia catara che dilagava nei dintorni. Fu proprio l’assassinio di uno di loro a fornire nel 1209 il pretesto per scatenare la crociata contro gli Albigesi. Poco distante, nella cittadina di Lagrasse, un’altra importante abbazia, poco distante dai castelli dove si rifugiarono i predicatori catari, ricorda la potenza della chiesa di Roma nella zona.
A sud dei castelli di Quéribus e di Peyrepertuse una strettissima strada di montagna, che corre a ridosso delle rocce, attraversa le profonde e impressionanti gole di Galamus. A metà del tragitto, arroccato sulla roccia sotto la strada sorge un suggestivo eremo, che si può raggiungere in pochi minuti a piedi.
Proseguendo verso sud in direzione dei Pirenei, appollaiato su una collina dove il mondo sembra finire, sorge il priorato di Serrabone, una delle meraviglie dell’arte romanica nel Roussillon. Dirigendosi verso sud ovest, in una cornice magnifica e selvaggia, si può salire a piedi verso St-Martin-du-Canigou: un altro gioiello del romanico, essenziale, austero, quasi lugubre all’interno della chiesa. Un altro luogo da finis terrae: la solitudine e la maestosità del paesaggio spiegano di per sé il motivo per cui dei monaci siano venuti fin quassù a ricercare la serenità.

Itinerario

1° giorno
Locarno-Castillon du Gard (646 km)

2° giorno
Castillon du Gard-Albi

3° giorno
Albi-Tolosa-Carcassone (135 km)

4° giorno
Carcassone-Fontfroide-St. André de Roquelongue (70 km)

5° giorno (Castelli Catari)
St. André de Roquelongue-Termes- Ch. Aguilar-Ch. Queribus-Ch. Peyrepertuse-Cucugnan (130 km)

6° giorno (Conventi)
Cucugnan-St. Antoine-Serratone-St. Michel-Moltig (135 km)

7° giorno (La Côte Vermeille)
Moltig-Collioure (150 km)

8° giorno
Collioure-Pézenas-Salon de Provence (326 km)

9° giorno
Salon de Provence-Locarno (635 km)

Francia – L’armonia di Toulouse tra passato e presente

Francia – Nel Languedoc-Roussillon vicino alla frontiera spagnola
Francia – Nelle terre dove si consumò la tragedia degli eretici catari

La piazza principale di Toulouse, su cui si affaccia una delle chiese romaniche più importanti di Francia, è cosparsa delle lucine blu che delimitano le piste degli aeroporti. La città è infatti sede dell’Aérospatiale, la patria del Concorde e la fabbrica degli Airbus. Agli aerei deve pertanto la sua ricchezza attuale: quelle lucine sono un grazie per l’occupazione e per l’indotto che quell’industria produce. Ma sono anche un segno della capacità di sottolineare il senso del tempo che passa e del presente che si sovrappone al passato.
Il sud della Francia, di cui propongo un itinerario nella regione del Languedoc-Roussillon, offre una ricchezza immensa di natura, storia, arte e cultura, ma ospita pure grandiose officine dove vengono costruiti gran parte degli aerei che solcano i cieli del mondo intero. Non si tratta di un caso, ma di una tradizione verso l’innovazione che affonda le sue radici nella storia.
Nel XIII secolo Toulouse era considerata una delle città più importanti d’Europa dopo Roma e Venezia. La spietata crociata indetta nel 1209 da Papa Innocente III contro gli eretici albigesi con l’appoggio dei signori del nord, interessati a conquistare il sud, pose fine alla dinastia dei Raymond, che avevano garantito quattro secoli di prosperità.
Nel Cinquecento la città tornò ad essere famosa nel mondo perché depositaria del segreto dell’ “oro blu”: il pastel, una pianta il cui fogliame macerato e lavorato dava una tintura azzurra indelebile, che un secolo più tardi sarà sostituito dall’indaco proveniente dalle Indie e dalle Americhe.
Già i romani, Carlo Magno, Francesco I ed Enrico IV avevano accarezzato l’idea di collegare l’Atlantico al Mediterraneo, ma questo folle progetto fu messo in pratica a Toulouse da Pierre-Paul Riquet (1604-1680), un uomo ricco e geniale. Gli scavi iniziarono nel 1667. Furono realizzati a mano da 12 mila uomini sul tragitto dei 241 km che dividevano la città dal Mediterraneo. Il Canal du Midi, largo 19 metri con un’ottantina di chiuse, capolavoro dell’ingegneria idraulica, fu inaugurato nel 1681. Una flotta di 24 imbarcazioni trainate da cavalli compì il viaggio inaugurale. Quest’opera diede un forte impulso all’economia del sud della Francia, stimolando un intenso traffico di vino, grano, olio, spezie, tessuti e altri prodotti. Rimaneva però incompiuto il romantico sogno di Riquet di navigare tra i due mari. Perché si realizzasse si dovrà attendere fino al 1856 quando attraverso un’altra opera ciclopica, il Canal de la Garonne, Toulouse veniva collegata all’Atlantico. Era il trionfo della modernità. Eppure pochi anni più tardi con l’avvento dei collegamenti ferroviari i due canali apparvero all’improvviso vie di comunicazione lente e ormai antiquate.
Ma il fuoco dell’innovazione non si spense e pochi anni dopo, nel 1870, un altro pioniere, Clémonet Ader, poneva le basi per il futuro dell’industria aeronautica con la costruzione a Toulouse di aerostati e dirigibili. Nel 1918 Pierre Latécoère costruì un velivolo per l’esercito francese impegnato nella prima guerra mondiale. Da Toulouse vennero stabiliti collegamenti aerei postali con l’Africa e le Americhe. Venivano poste le basi per la nascita di un’industria che negli anni Cinquanta produsse il Caravelle, uno dei primi aerei a reazione per voli internazionali di linea. Dagli stabilimenti di Toulouse il 2 marzo 1969 prese il volo il Concorde, primo e unico aereo supersonico per viaggiatori. Oggi dagli stabilimenti dell’Aérospatiale escono i prestigiosi Airbus, frutto di un consorzio tra ditte francesi, inglesi, tedesche e spagnole, che contendono il mercato all’americana Boeing. Decine di migliaia di persone ogni anno visitano questi stabilimenti come se si trattasse di un parco divertimenti e gli accompagnatori non mancano di mettere in evidenza i pregi delle creature francesi rispetto a quelle del concorrente d’oltre Oceano.

Cipro – La storia “occupata” dai turchi

Cipro – Viaggio nel sud di cultura greca
Cipro – Una città divisa tra due culture
Cipro – Un viaggio nella storia

Tra città antiche, rovine di castelli, chiesette bizantine in riva al mare e l’incontaminata punta est.

Cultura, arte, storia, gastronomia e mare, ma non solo mare! Sono questi gli ingredienti di un viaggio sull’isola di Cipro. Situata in una posizione strategica, laddove il Mediterraneo ondeggia tra Europa, Asia e Africa, ha vissuto in stretta contiguità con le principali civiltà dei tempi antichi. Egizi, greci, romani, bizantini, francesi, genovesi, veneziani, ottomani, britannici e turchi si sono stabiliti nel corso dei secoli sull’isola lasciando interessanti testimonianze storico-culturali. La natura, poi, ci ha messo del suo, creando splendidi paesaggi marini, molti dei quali, purtroppo, sono stati e stanno per essere irrimediabilmente compromessi dalla speculazione edilizia: uno scenario, ahimé, frequente in moltissimi paesi.
Il nostro itinerario prevede il giro dell’isola, che richiede una decina di giorni, cambiando albergo quasi ogni sera. Si consiglia di percorrerlo in primavera o autunno, perché in estate il clima è troppo caldo. Gli spostamenti non sono comunque molto lunghi: le due penisole situate alle estremità est e ovest – i due luoghi di mare più affascinanti di Cipro – distano poco più di 200 chilometri, e le coste nord e sud circa 100. Le strade sono belle, il traffico scorrevole – salvo in prossimità delle città – e la guida è a sinistra in ricordo del periodo coloniale britannico. Le guide raccontano di grandi difficoltà per noleggiare una vettura al sud e trasferirsi al nord. In effetti alcune compagnie non noleggiano auto a chi prevede di visitare entrambe le parti dell’isola. Avis, comunque, non fa difficoltà e potete facilmente passare la frontiera in diversi punti: all’entrata vi si chiede unicamente di stipulare un’assicurazione particolare per i giorni che trascorrete a nord. Nei check point di confine, nel giro di pochi minuti, vi verranno concessi sia il visto per entrare, che la polizza per l’auto.

La più ricca del Mediterraneo
Con la conquista araba nel 1291 dell’ultimo baluardo crociato in Terrasanta (Acri) molti mercanti genovesi, veneziani e franchi spostarono a Famagosta le loro attività. La città crebbe velocemente fino a diventare probabilmente la più ricca del Mediterraneo. Questo periodo d’oro durò circa due secoli, fino al 1372, quando a causa di uno scontro tra veneziani e genovesi, che assunsero il controllo, gli abitanti più ricchi e illustri lasciarono la città. Quando i veneziani riconquistarono il potere 117 anni più tardi eressero le grandi mura e i bastioni per tenere lontani gli ottomani, che nel 1571 presero comunque Famagosta.
All’interno delle sue mura cinquecentesche, questa tranquilla cittadina conserva le splendide testimonianze della sua epoca d’oro. Dall’alto dei bastioni, il panorama si estende su un tappeto di verde, alberi e orti da cui spuntano le rovine delle cento chiese della città dei mercanti. Il punto di riferimento dell’orizzonte cittadino è comunque il sottile minareto aggiunto alla cattedrale gotica di San Nicola, costruita a cavallo tra XII e XIV secolo sul modello di quelle di Notre-Dame a Parigi e di Chartre. Quel minareto, così come quello simile che ha trasformato in moschea la cattedrale gotica di Santa Sofia a Nicosia, può essere considerato l’emblema della storia di questo paese ancora oggi diviso tra due culture: quella musulmana e quella greco-ortodossa. Grazie alla completa assenza di arredi e al colore chiaro di pareti, colonne e volte, l’interno della cattedrale, ora moschea, sembra ancora più maestoso con i suoi enormi sette pilastri che reggono l’imponente struttura. Intorno alla mole della cattedrale sorgono decine di antichi palazzi e chiese, grandi e piccole, intere o scoperchiate dalla violenza delle battaglie o solo dall’incuria.
Non lontano dal centro storico sorge una città fantasma fatta di strade asfaltate, di grattacieli e di grandi alberghi: il sobborgo di Varosha, che prima dell’”occupazione” turca del 1974 era il centro turistico balneare più in voga dell’isola. Davanti all’avanzata dell’esercito turco la popolazione greca fuggì portando con sé pochi oggetti personali. Dopo oltre trent’anni di abbandono la zona è oggi spettrale, con le case vuote e la vegetazione cresciuta ovunque.

Radici storiche più antiche
La crescita di Famagosta iniziò nel VII secolo d.C. con l’arrivo degli abitanti dalla vicina Salamina (oggi dista meno di 10 chilometri), saccheggiata dagli arabi. Le origini di questo insediamento sono antichissime. Nell’epoca d’oro delle città-stato di Cipro (VII secolo a.C.) Salamina divenne il centro culturale ed economico più importante dell’intera isola. Alleatasi con Alessandro Magno subì l’influenza greca e nel 58 a.C. passò sotto il controllo dei romani diventando il principale centro mercantile dell’isola, nonostante Pafos (situata sulla costa ovest) fosse stata designata capitale ufficiale di Cipro. All’inizio dell’era cristiana rimase una città molto importante: uno dei suoi cittadini, l’apostolo Barnaba, uno dei discepoli di Cristo cui maggiormente si deve l’introduzione del cristianesimo sull’isola, visse e morì qui.
Salamina è considerato dagli esperti il sito archeologico più importante dell’isola. Vari monumenti, per lo più romani e bizantini, sono disseminati su una vasta area.
La visita è resa particolarmente suggestiva dalla vicinanza del mare, che conferisce alle rovine un fascino ulteriore. Si possono visitare il gymnasium, gli edifici termali, l’odeon, l’anfiteatro e due interessanti basiliche paleocristiane. Il monastero dell’apostolo Barnaba sorge immerso nel verde (in primavera) a tre o quattro chilometri di distanza da percorrere in auto. Sulla strada che porta al monastero si possono visitare le cosiddette tombe dei Re. Si tratta di sepolture risalenti all’VIII e al VII secolo a.C. Re e aristocratici venivano sepolti assieme agli oggetti più amati, a cibi, bevande, e persino ai loro cavalli e schiavi favoriti. All’entrata delle tombe si possono osservare, protetti da lastre di vetro, i macabri scheletri dei cavalli sacrificati.

Un paradiso terrestre
Pochi chilometri separano Salamina dalla meta più suggestiva del viaggio: la penisola di Karpas, una sorta di finis terrae. Campi coltivati, silenziosi e spopolati e un litorale spoglio segnano l’inizio dell’esile penisola. Il governo ha trasformato la zona in una grande riserva naturale volta alla tutela delle colonie di tartarughe che nidificano sulle vaste distese di sabbia di questo paradiso terrestre. Qui l’acqua sembra più blu e più limpida che in qualsiasi altra parte di Cipro – salvo l’altra penisola, quella di Akamas, situata sull’estremità opposta – e le curve della linea costiera sono più dolci e affascinanti. L’esplosione dei colori dei fiori selvatici in primavera, poi, ha qualcosa di magico. La strada scorre tra basse colline, che nascondono piccole pianure sabbiose popolate da bassi arbusti. Il tratto finale è il più emozionante e vi permette di raggiungere dapprima l’incantevole baia di Nangomi – oggi denominata Golden Beach – per poi proseguire verso Capo Sant’Andrea su una scomoda strada sterrata. Si ha l’impressione, appunto, di viaggiare verso la fine della terra, anche se le coste turche, siriane e libanesi distano a meno di 100 chilometri. Prima di raggiungere la punta ci si imbatte nel monastero dedicato all’apostolo Andrea, che secondo la tradizione sarebbe sbarcato qui. Fino al 1974 era meta di numerosi pellegrinaggi, ripresi recentemente grazie a un accordo tra i due governi. Il monumento, presidiato dai militari, giace però in uno squallido e quasi provocatorio stato di abbandono.
Un altro luogo incantato di questa penisola è la spiaggia di Agios Filon, dove in riva al mare sorge una chiesina del XII secolo, accanto al ristorante Oasis dove si possono gustare piatti genuini della regione. Proseguendo per 7 chilometri in direzione ovest su una strada sterrata lungo una splendida costa si raggiungono i ruderi di Afendrika, dove nel II secolo a.C. sorgeva una delle sei principali città di Cipro.
Ritorniamo verso Dipkarpaz, capoluogo della penisola, dove si trova il nostro albergo Villacasparis, nuovissimo e certamente il migliore in una zona dove le infrastrutture turistiche sono piuttosto vecchiotte. Prima di lasciare la penisola visitiamo ancora la chiesetta monastica dell’XI secolo, famosa perché dalle sue pareti vennero trafugati preziosi mosaici finiti negli Stati Uniti e recuperati dal governo di Cipro sud dopo una lunga battaglia legale.

Tre castelli verso Kyrenia
Per raggiungere il castello di Kantara, si segue una splendida strada costiera che scorre attraverso un paesaggio incontaminato. Giunti al villaggio di Davlos un’ottima strada porta al maniero costruito dai bizantini a una quota di circa 700 metri. Faceva parte di un sistema difensivo assieme a due altri castelli che si incontrano sulla via per Kyrenia: Buffavento e Sant’Ilarione. Dei tre è il meglio conservato. La vista da quel nido d’aquila, che sembra essere più opera della natura che dell’uomo, è straordinaria e spazia sui due versanti dell’isola, in quel punto piuttosto stretta. Ritornati a Davlos si ripercorre la strada litoranea, che per una ventina di chilometri continua ad offrire indimenticabili panorami marini. Poi, improvvisamente, ci si immette su una sorta di autostrada abbandonando l’antica carreggiata, che è stata soppressa. Lungo il mare sono sorti e stanno sorgendo villaggi turistici con l’offerta di casette, appartamenti e alberghi che hanno assolutamente snaturato la costa, ancora descritta dagli autori della guida Lonely Planet (edizione 2006) come idilliaca. Più ci si avvicina a Kyrenia e più la speculazione edilizia si intensifica. Prima di entrare in città saliamo in collina per visitare il grazioso villaggio di Bellapais, da cui si gode una splendida vista sulla costa ormai snaturata. Il villaggio deve la sua notorietà allo scrittore inglese, Lawrence Durrell, autore di un divertente romanzo ambientato in quel luogo: “Gli amari limoni di Cipro”.
Bellapais ospita anche le rovine di una suggestiva residenza monastica fondata nel XII secolo da monaci agostiniani in fuga dalla Palestina. Il suggestivo complesso, più volte distrutto dagli arabi, è stato accuratamente restaurato.
Kyrenia, dove abbiamo alloggiato all’ottimo e centrale hotel The Colony, è una città piuttosto caotica, ma il suo porticciolo conserva un’atmosfera rilassata che ricorda il passato. Vale la pena di cenare in uno dei numerosi ristorantini che vi si affacciano ed offrono cucina tipica cipriota anche se in versione un po’ turistica, ma decisamente piacevole. Il luogo, dominato dall’imponente castello costruito in epoca bizantina, è particolarmente romantico al tramonto e la sera.

Itinerario

1° giorno
Milano-Larnaka-Nicosia

2° giorno
Nicosia

3° giorno
Nicosia-Famagosta-Salamina- Dipkarpaz-Capo S.Andrea (210 km)

4° giorno
Dipkarpaz-Agios Filon-Kantara-Bellapais-Kyrenia (180 km)

5° giorno
Kyrenia-Troodos (200 km)

6° giorno
Troodos-Bagni di Afrodite (120 km)

7° giorno
Bagni di Afrodite-Pafos (50 km)

8°giorno
Pafos-Lara-Pafos (40 km)

9°giorno
Pafos-Kourion-Larnaka (150 km)

10° giorno
Larnaka-Milano

Bibliografia
Cipro The Rough Guide, Vallardi Viaggi, Perugia 2004
Cipro Lonely Planet, Torino 2006
Cipro Touring Club Italiano, Milano 2006
Cyprus Eyewitness Travel, London 2008
Cipro Meridiani, Milano 2006
Cipro top 10 Mondadori, Milano 2010

Cipro – Viaggio nel sud di cultura greca

Cipro – La storia “occupata” dai turchi
Cipro – Una città divisa tra due culture
Cipro – Un viaggio nella storia

Sulle montagne alla scoperta di solitarie chiesette bizantine, al mare alla scoperta di siti archeologici e di paesaggi selvaggi.

Proseguiamo il nostro itinerario alla scoperta di cultura, arte, storia, natura e gastronomia di Cipro. Nella prima parte abbiamo descritto il viaggio nella parte nord dell’isola, quella turca. Oggi proseguiamo il percorso a sud. Anche a meridione si trovano numerose testimonianze culturali e artistiche dei diversi popoli – egizi, greci, romani, bizantini, francesi, genovesi, veneziani, ottomani e britannici – che hanno fatto la storia di quest’isola. La natura è stata generosa con Cipro, anche se in diverse parti è stata irrimediabilmente compromessa dalla speculazione edilizia. Le montagne che sorgono al centro del paese e la penisola di Akamas all’estremo ovest sono comunque ancora luoghi incontaminati.

Chiese bizantine sulle montagne
Riprendiamo l’itinerario da Kyrenia nel nord del paese, per trasferirci al sud attraverso il check point di Morfou (Güzelyurt), verso le montagne del Troodos. Le valli che salgono verso le quote più alte delle montagne (fino a 2000 metri), dove d’inverno nevica abbondantemente, sono rimaste tra gli ambienti più integri e selvaggi dell’isola con i loro incantevoli boschi di cedro. Questa regione è il vero custode dell’anima più tradizionale e profonda dell’isola. Da qui provenivano le ricchezze che in passato hanno reso celebre Cipro nel Mediterraneo: il rame (cuprum in latino), che forse diede il nome all’isola, e il legname che fu utilizzato per varare ed equipaggiare le navi dei soldati e dei mercanti dal primo millennio a.C. in poi.
In ogni epoca questa catena montuosa ha costituito sia una barriera, sia una risorsa e, soprattutto durante l’era cristiana, ha offerto rifugio alla cultura ellenica. Furono la repressione e le gravi discriminazioni religiose perpetrate dai Lusignano a costringere il clero ortodosso a rifugiarsi su questi monti e a costruire le solitarie chiesette che costituiscono una delle mete artistiche più ragguardevoli dell’isola. Situate in luoghi discosti e suggestivi questi luoghi di culto, poco più grandi di un piccolo fienile, sono ricchi di affreschi e molto simili tra loro. Per proteggerli dalle frequenti nevicate furono aggiunti, in un secondo tempo, grandi tetti a spiovente, che ricordano più le montagne appenniniche e alpine che le coste mediterranee. “Visitare le chiesette affrescate dei monti Troodos è come aprire un volume di storia dell’arte al capitolo pittura bizantina”: è con questa motivazione che i nove edifici più significativi sono stati inseriti nel Patrimonio mondiale dell’Unesco. Gli affreschi avevano lo scopo di illustrare ai contadini analfabeti dell’epoca, quasi sotto forma di fumetto, i passi principali dei Vangeli.
La visita richiede tempo: diverse chiesette sono difficili da scovare, altre sono chiuse e per trovare la chiave bisogna rintracciare il custode nel paese vicino. L’organizzazione lascia a desiderare, ma scoprirle vale davvero la pena.
Checché ne dicano le guide i paesini del Troodos, così come quelli di tutta l’isola, sono poco attrattivi e spesso trasandati. Uno dei più graziosi è comunque Kakopetria, che offre anche un originale albergo ricavato da antiche case del villaggio restaurate con gusto, annesse a una taverna dove si possono gustare i piatti tipici e gli ottimi vini di queste vallate.
Questa regione impervia è legata anche alla storia recente dell’isola, perché era qui che durante l’epoca coloniale si nascondevano i combattenti per l’indipendenza di Cipro dai britannici.

Dalle montagne al mare
Per scendere dal Troodos verso la costa occidentale si passa dal monastero di Kykkos, uno dei più ricchi e venerati dell’isola, ma di scarso interesse artistico, perché riedificato nel 1831 dopo un incendio. L’arcivescovo Makarios, leader religioso e politico di Cipro durante il breve periodo di indipendenza e unità dell’isola, iniziò qui gli studi e servì come monaco novizio prima di usare il monastero come rifugio durante i giorni di appartenenza all’EOKA (Organizzazione nazionale per la lotta cipriota), che aveva il suo quartier generale nelle vicinanze. Di conseguenza Kykkos è fortemente legato alle lotte nazionaliste cipriote. Dopo la morte, Makarios è stato seppellito sulla collina sopra il monastero. Un imponente monumento ricorda la sua figura.
Una strada tortuosa e molto lenta, che attraversa suggestivi boschi di cedro, scende lentamente verso il mare offrendo splendidi panorami sulla costa. Percorrendo poi per una ventina di chilometri una piacevole litoranea si raggiunge Polis, che dà accesso alla splendida penisola di Akamas.

Qui apparve Afrodite
Divinità tra le più antiche del pantheon mediterraneo, Afrodite ha segnato questa terra con la sua leggenda. Dicono che apparve qui, dalla spuma delle onde sollevate dal vento. Dicono che portò con sé la bellezza, l’amore e i profumi sacri della rosa e del mirto. Figlia di Urano o forse di Zeus, è soprattutto figlia di Cipro, dove è approdata per volere degli dei.
Ai mortali era proibito spingersi fino ai bagni della dea, pena la morte. Oggi questo luogo, a una decina di chilometri da Polis, costituisce una delle mete turistiche più gettonate. I bagni possono anche lasciare delusi, ma la penisola di Akamas rimane una delle rare e ultime regioni cipriote veramente selvagge. Per una strana coincidenza, per molto tempo l’esercito inglese ha infatti utilizzato l’entroterra come poligono di tiro, allontanando i turisti e salvando così questa regione dalla speculazione edilizia. L’isolamento ha contribuito anche a proteggere flora e fauna, che sono ricchissime.
Il modo migliore per apprezzare appieno la penisola è compiere un’escursione di qualche ora a piedi. L’itinerario più gettonato è quello di Afrodite: 7 chilometri con un dislivello di 400 metri che si percorrono in due ore e mezzo. La prima parte è a picco sul mare con panorami meravigliosi: il colore delle acque propone tutte le gradazioni dal blu al turchese. La seconda parte del percorso si svolge invece nell’entroterra, in un paesaggio quasi desertico.
Un’altra escursione da non perdere è quella alle gole di Avakas, che parte dal versante opposto, cioè sud, della penisola e richiede due ore scarse. Si lascia l’auto in un posteggio in riva al mare (5 km a sud di Lara) e si attraversa dapprima uno splendido agrumeto con alberi di arancio, limone e pompelmo. Terminato questo primo tratto si imbocca il sentiero delle gole in mezzo ai campi. Rapidamente le pareti del canyon si stringono, fino quasi a toccarsi mentre il cielo azzurro sembra allontanarsi. Il sentiero si snoda sul fondo delle gole ingentilite, in primavera, da fiori spontanei e oleandri che crescono lungo il ruscello e addolciscono l’imponenza della natura.
Ritornati al parcheggio, percorrendo una strada sterrata e molto sconquassata, si raggiunge Lara, che offre una delle più belle spiagge selvagge dell’isola. La litoranea prosegue ma è percorribile solo con una vettura 4×4.
A una manciata di chilometri dai bagni di Afrodite, isolato in riva al mare, sorge il migliore albergo dell’isola: l’hotel Anassa, con le sue splendide terme. Il luogo, ma anche i prezzi, ricordano la costa Smeralda in Sardegna. A Pafos gli alberghi, di tutte le categorie, sono innumerevoli, ma senza carattere. Il villaggio è prettamente turistico e privo di fascino. Vi consigliamo però una sosta gastronomica in una delle migliori taverne di Cipro: Hondros, non lontano dal porto (cfr. la guida Lonely Planet). In questa locanda abbiamo gustato le migliori specialità della cucina cipriota, una versione rivista di quella greca: mussaka, spiedini, agnello, stufati e naturalmente pesce. Anche il vino è di ottima qualità.

Archeologia in riva al mare
I siti archeologici di Pafos e di Kourion, distanti tra loro una cinquantina di chilometri, sono particolarmente spettacolari grazie alla loro posizione in riva al mare, in un paesaggio quasi desertico, in cui l’unico rumore percepibile è quello delle onde che si infrangono sugli scogli. Secondo antiche leggende furono fondate dagli Argivi di ritorno dall’assedio di Troia. La loro origine risale invece all’epoca in cui Cipro faceva parte del regno dei Tolomei. Pafos divenne capitale dell’isola e anche in epoca romana rimase la città più importante. Raggiunse la sua massima fioritura nel III secolo d.C., come testimoniano gli eccezionali mosaici delle ville cittadine. “A quell’epoca – si legge sui testi dell’Unesco che hanno dichiarato queste opere Patrimonio mondiale dell’Umanità – l’Augusta Claudia Flavia Paphos, la sacra metropoli di tutte le città cipriote, era divenuta uno dei più importanti centri di produzione dei mosaici del mondo romano, mantenendo solidi legami con le coste orientali del Mediterraneo”. Questi mosaici, di grande valore artistico ed estetico, rappresentano episodi tratti dai miti greci.
Anche Kourion offre splendidi mosaici, oltre a un anfiteatro romano del II secolo a.C. (troppo restaurato) e le rovine di una basilica paleocristiana del V secolo. Ma il sito, visitatissimo per la sua spettacolarità, è famoso soprattutto per il santuario di Apollo: immagine classica dell’isola.
A Pafos non si può mancare di visitare le cosiddette Tombe dei re, scavate negli scogli in riva al mare. Situate poco oltre le mura dell’antica città, furono scavate a partire dal III secolo a.C. seguendo l’usanza e lo stile delle tendenze orientali diffuse a Cipro dagli alessandrini. Le tombe, destinate a famiglie aristocratiche, avevano una struttura molto elaborata con cortile, peristilio e colonne per accogliere i membri di un’intera famiglia.

Una città divisa in due
Nicosia dista una quarantina di chilometri dall’aeroporto principale di Cipro sud. La si può quindi visitare all’inizio o alla fine del viaggio. Il modo migliore per scoprirla è a piedi. Durante la visita ci si imbatte più volte nel muro, che divide la parte turca da quella greca, e nei bastioni, ottimamente conservati, costruiti dai veneziani tra il 1567 e il 1570 per tenere lontani – ma senza successo – i temuti invasori ottomani.
Nella parte sud meritano certamente una visita i musei archeologico e bizantino e la cattedrale.
Il museo archeologico espone alcuni oggetti eccezionali che testimoniano l’importanza dell’isola come crocevia culturale del mondo antico, partendo dall’8000 a.C. e arrivando fino all’epoca romana. Straordinaria una serie di duemila figurine in terracotta realizzate tra il 625 e il 500 a.C. Nel museo bizantino si potranno invece trovare alcune tra le migliori testimonianze di arte religiosa cipriota. La Madonna è sempre raffigurata sulle numerose icone con il volto triste, perché secondo la tradizione conosceva la fine che attendeva il bimbo che portava in braccio, dipinto sovente con parvenze di adulto. Nell’adiacente cattedrale Agios Ioannis si può invece ammirare un interessante ciclo di affreschi settecenteschi dedicati alla vita di San Barnaba, evangelizzatore dell’isola.
Nella parte nord della città l’edificio che maggiormente colpisce è l’antica cattedrale di Santa Sofia, costruita sul modello del gotico francese di Notre-Dame o di Chartres, ma trasformata in moschea con la presenza di due imponenti minareti ai lati della facciata. Altre costruzioni ricordano il carattere orientale della città: il caravanserraglio edificato dagli ottomani dopo la conquista del 1572 per ospitare viaggiatori e commercianti e i bagni turchi del Büyük Hammam, realizzato riutilizzando alcune strutture di una chiesa trecentesca.

Itinerario

1° giorno
Milano-Larnaka-Nicosia

2° giorno
Nicosia

3° giorno
Nicosia-Famagosta-Salamina- Dipkarpaz-Capo S.Andrea (210 km)

4° giorno
Dipkarpaz-Agios Filon-Kantara-Bellapais-Kyrenia (180 km)

5° giorno
Kyrenia-Troodos (200 km)

6° giorno
Troodos-Bagni di Afrodite (120 km)

7° giorno
Bagni di Afrodite-Pafos (50 km)

8°giorno
Pafos-Lara-Pafos (40 km)

9°giorno
Pafos-Kourion-Larnaka (150 km)

10° giorno
Larnaka-Milano

Bibliografia
Cipro The Rough Guide, Vallardi Viaggi, Perugia 2004
Cipro Lonely Planet, Torino 2006
Cipro Touring Club Italiano, Milano 2006
Cyprus Eyewitness Travel, London 2008
Cipro Meridiani, Milano 2006
Cipro top 10 Mondadori, Milano 2010