La regione del lago di Como, spesso trascurata dai ticinesi nonostante sia a due passi da casa, è di grande interesse e adatta per una gita di una o due giornate. Da Lugano ci si dirige verso Gandria e Porlezza e quindi Menaggio, che si raggiunge in poco più di mezz’ora. È questa la prima sosta del nostro percorso. Questo borgo, che si affaccia sulla parte settentrionale del lago di Como, offre un gradevole centro storico e un’interessante chiesa – S. Stefano – di impianto romanico. Si prosegue per pochi chilometri in direzione sud verso Cadenabbia, situata in posizione incantevole di fronte a Bellagio ed unita da un viale di platani, la via del Paradiso, a Tremezzo. Qui si trova la tardo barocca Villa Carlotta, dove i capolavori della natura e dell’ingegno umano convivono in perfetta armonia. Commissionata nel XVII secolo dal marchese Giorgio Clerici, che desiderava un edificio imponente ma sobrio, fu con il successivo proprietario – l’imprenditore e collezionista d’arte Gian Battista Sommariva – che la villa toccò il suo sommo splendore. Il giardino fu trasformato in uno straordinario parco romantico e la dimora venne impreziosita con opere di Canova, Thorvaldsen e Hayez. L’ultimo proprietario, il duca di Saxe-Meiningen, appassionato botanico, diede il tocco finale al parco, favorito dalla fertilità del terreno. Una piacevole passeggiata (calcolate circa 2 ore per la visita), tra alberi secolari, rododendri, azalee e rarità botaniche, offre splendide vedute sul lago e su Bellagio. L’itinerario prosegue in direzione sud fino a Lenno, dove un servizio di motoscafi garantisce i collegamenti con la deliziosa Villa Balbianello, il cui fascino si sprigiona dall’ambiente nel suo insieme. È forse la più seducente delle numerose dimore del lago per la sua posizione isolata, immersa tra acqua e verde in un paesaggio quasi selvaggio, ingentilito dalle raffinate forme dell’architettura settecentesca. Si ritorna a Tremezzo, dove in traghetto si raggiunge Bellagio. Situata in splendida posizione alla base del promontorio che divide il lago nei rami di Como e di Lecco, questa località di fama internazionale offre un interessante centro storico e la visita di due ville di grande interesse: Serbelloni e Melzi. La leggenda vuole che Villa Serbelloni sorga sulle rovine della residenza di Plinio il Giovane. Molto piacevole la passeggiata (attenzione: solo con visite guidate, due volte al giorno, durata circa 2 ore) nel vastissimo parco; tratti di bosco con piante secolari percorsi da sentieri si alternano a radure e piante esotiche si intrecciano a coltivazioni di fiori. La tranquillità del sito e gli spettacolari punti di vista sulle diverse diramazioni del lago di Como rendono questa visita indimenticabile. Tornati in paese un itinerario storico (chiedere il prospetto all’ufficio del turismo) accompagna a Villa Melzi. Fu costruita all’inizio dell’Ottocento da un illuminato politico milanese, stimato da Napoleone Bonaparte. Le linee ed i volumi architettonici dovevano essere sobri ed eleganti per mettere in risalto il meraviglioso paesaggio circostante. L’insieme configura un luogo di rara armonia ammirato da grandi artisti come Stendhal e Franz Liszt, che vi soggiornarono. Nel giardino, ricchissimo di piante rare ed esotiche, si avvicendano alberi secolari, siepi di camelie, boschi di azalee e rododendri giganti, con raffinati monumenti ed opere d’arte. Giunti a questo punto la vostra giornata volgerà al termine, così come lo spazio offerto da questa rubrica. Prima di riprendere la strada per il Ticino, se vi rimane ancora un po’ di tempo, raggiungete il pittoresco borgo di Varenna con il traghetto. Vi potrete visitare Villa Monastero con il suo bel parco.
New York – Le mille storie diverse che vivono in una sola città
New York – Alla riscoperta degli itinerari dei nostri antenati emigranti
New York – New York riassume il mondo moderno
New York – Due volti diversi per gli Stati Uniti
Visitata ogni anno da 50 milioni di turisti è una città dove ci si sente a proprio agio, dove di giorno e di sera si passeggia senza pericoli e non ci si sente sopraffatti dallo stress: un’immagine molto diversa dalle mie attese
Ogni anno è visitata da 50 milioni di turisti che portano un indotto di 32 miliardi di dollari. Il tempo minimo per farsi un’idea della città è una settimana. In questa sede non ha senso suggerire itinerari. Avendo pochi giorni a disposizione la nostra visita si limita all’isola di Manhattan: lunga 20 chilometri e larga 3,5, che è facilmente percorribile in metropolitana. Per allestire il vostro programma a seconda dei vostri interessi consiglio di consultare la “Guida Verde” della Michelin. Nelle prossime righe cercherò di elencare le principali tematiche su cui si è concentrata la mia visita.
Un’antologia della nostra civiltà
Quando si pensa alla Grande Mela vengono prima di tutto alla mente i suoi grattacieli. I primi sorsero a cavallo tra l’Otto e il Novecento in stile Art Déco. Il più noto è certamente l’Empire State Building realizzato nel 1931 e che per 40 anni rimase l’edificio più alto al mondo. Offre una straordinaria vista su Manhattan e su tutta la città. Percorrendo i notissimi viali di Manhattan che attraversano tutta la metropoli (Avenue of the Americas, Fifth Avenue, Madison Avenue, Park Avenue e le street laterali 42ma, 57ma,…) si potrà ammirare l’evoluzione dell’architettura newyorchese, fino ad arrivare alle opere più moderne dei cosiddetti archistar, cioè gli autori di maggior fama. “Qui abbiamo sempre avuto il mito dell’altezza – ha spiegato a ”Meridiani” (New York, dic. 2010) Rick Bell, il direttore del Center for Architecture – e quindi tutti hanno cercato di stupire costruendo edifici via via più alti. Da qualche anno, però, si tenta di meravigliare con forme architettoniche originali e futuristiche, elaborate e spettacolari”. La nuova architettura sfrutta moltissimo la luce per migliorare la qualità di vita. Per avere una città sempre più vivibile il sindaco Bloomberg (al suo terzo mandato) si è impegnato a realizzare aree verdi e pedonali. “L’importante – osserva Bell – è che ci si sia resi conto che le metropoli sono fatte per le persone e non per le automobili”. Gli spazi verdi in città sono ricercatissimi e curatissimi. Alcuni grattacieli propongono addirittura giardini interni al piano terreno.
Un’opera estremamente interessante è stato il recupero di una vecchia ferrovia sopraelevata trasformata in un lungo e stretto giardino paesaggistico curato e di sicura bellezza denominato High Line nella zona di Chelsea, da cui si guarda sulla città con occhi nuovi e da un appassionante punto di vista. Ma il polmone verde di Manhattan rimane Central Park, un microcosmo di flora e fauna in simbiosi con grattacieli e traffico, inquinamento e turisti. Realizzato nella metà dell’800 offre 340 ettari di alberi, rocce, laghetti, stagni, percorsi pedonali, dove è piacevolissimo rilassarsi dopo le impegnative visite agli straordinari musei che si affacciano sul parco. Nel giro di poche centinaia di metri si trovano quattro musei che offrono una panoramica straordinaria e unica sulla storia dell’arte universale. Consiglio di visitarne uno al giorno il mattino, quando si è freschi, e di dedicare il pomeriggio alla visita dei vari quartieri della città.
Lezione eccezionale di storia dell’arte
Definirei addirittura scoraggiante il Metropolitan Museum, dove potreste trascorrere settimane, perché espone opere eccezionali a partire dall’arte egizia ai nostri giorni. Le audio guide sono mal fatte e trovare un percorso relativamente veloce per apprezzare le opere più straordinarie è difficile. Vale la pena di preparare la visita da casa.
Invece, il museo Frick propone un’incredibile collezione privata esposta in una splendida villa di inizio Novecento. Quasi ogni opera è un capolavoro ed il percorso (circa 3 ore) è agevolato da un’ottima audio guida. Così come al Guggenheim Museum (circa 2 ore) dove la visita consiste in una straordinaria lezione di storia dell’arte sul periodo che va dalla fine dell’800 fino alla Prima Guerra Mondiale (gli allestimenti cambiano periodicamente). Non solo i contenuti, ma anche il contenitore è un’opera artistica di grande valore del famoso architetto Frank Lloyd Wright (1867-1959), padre della moderna architettura americana. Il Museum of Modern Art (MOMA) propone, invece, una panoramica della scultura e della pittura dal 1880 ad oggi con interessanti sezioni dedicate anche al design e alla fotografia (calcolare 3 ore, con una buona audio guida).
Ogni quartiere è un mondo a sé
Manhattan propone una miriade di quartieri diversissimi tra loro che costituiscono ciascuno un mondo a sé e sono estremamente interessanti da esplorare. La parte alta della città (Uptown) che si sviluppa attorno a Central Park è caratterizzata dalle residenze di lusso. Più a nord si trova Harlem, il quartiere dei latinoamericani. Sotto Central Park sorgono i grattacieli, le vie commerciali, gli alberghi più prestigiosi, e Times Square, dove si concentrano teatri, cinema, locali notturni, bar e dove schermi giganteschi proiettano immagini televisive e pubblicità generando un incredibile sfavillio di luci e bagliori. A est di Times Square, all’altra estremità della 42ma strada, si trova la sede delle Nazioni Unite, dove si può visitare la sala dell’assemblea generale, il governo del mondo. Nonostante i suoi detrattori, l’ONU rimane l’unica istituzione a livello mondiale dove tutte le nazioni si possono confrontare pacificamente. Composta da 191 paesi membri, ha come scopo la “difesa della pace e della sicurezza internazionale, la promozione dell’autodeterminazione e della parità dei diritti, dell’incoraggiamento del benessere economico e sociale”. Principi sacrosanti, che purtroppo riesce a garantire solo in parte. Ma almeno ci prova!
Più a sud si trovano i quartieri più pittoreschi. East Village, Greenwich Village, Soho, Lower East Side, Little Italy, Chinatown e Tribeca che presentano ognuno una propria personalità e rappresentano un tassello di quell’unico microcosmo interrazziale e multiculturale che è Downtown (la città bassa). Oggi gli edifici rimessi a nuovo ospitano scintillanti boutiques, hotel, musei dalle forme sperimentali e templi della gastronomia. Certo, perché tra le arti contemporanee, oltre alla moda e al design, va annoverata anche la cucina. Potete trovare ristoranti di tutte le nazionalità: la guida rossa della Michelin (New York City, Restaurants, 2011) propone indirizzi qualificati riguardanti la cucina di 50 paesi. La stessa guida vi propone anche una vasta scelta di alberghi. Vi consiglio di risiedere a Downtown, a Soho o a Greenwich, dove la sera potrete passeggiare lungo vie animate alla ricerca della gastronomia etnica (in generale è preferibile prenotare).
Sulla punta meridionale di Manhattan, dove nel XVII secolo sorsero le prime abitazioni, si trova il cosiddetto Financial District, caratterizzato come la Middle Town da grattacieli modernissimi. È qui che l’11 settembre 2001 avvenne il tragico attacco terroristico alle torri gemelle del World Trade Center ed è qui che nel 1792 ventiquattro intermediari si riunirono per fondare il primo mercato borsistico di New York. Nella camera blindata della Federal Reserve, che sorge a poca distanza (visitabile solo prenotando con settimane di anticipo), sono conservate le riserve auree di un’ottantina di stati. È considerato il maggiore deposito di oro al mondo con un valore di mercato di 90 miliardi di dollari.
A poche centinaia di metri partono i battelli che portano alla statua della libertà e ad Ellis Island, porta d’entrata per milioni di persone in America tra il 1892 e il 1954.
Da vedere
High Line Chelsea La vecchia ferrovia sopraelevata trasformata in giardino
Empire State Building Realizzato nel 1931, per 40 anni rimase l’edificio più alto al mondo
Central Park Un microcosmo di flora e fauna grande 340 ettari
Guggenheim Museum Progettato dal famoso architetto Frank Lloyd Wright
Museum of Modern Art (MOMA) Offre un’importante panoramica di opere dal 1880 ad oggi
Soho La sera potrete passeggiare lungo le vie animate
Financial District Nel 1792 qui venne fondato il primo mercato borsistico di New York
Ellis Island Porta d’entrata per milioni di persone in America
Le guide
Consiglio di utilizzare soprattutto New York Michelin, la guida verde e di leggere il libro di Corrado Augias “I segreti di New York“, Oscar Mondadori.
Altre guide
New York Washington Touring Editore
New York City Lonely Planet
New York Meridiani, dicembre 2010
Per scoprire ristoranti e alberghi affidatevi all’insuperabile guida Michelin rossa dedicata esclusivamente a New York City.
New York riassume il mondo moderno
New York – Le mille storie diverse che vivono in una sola città
New York – Alla riscoperta degli itinerari dei nostri antenati emigranti
New York – Due volti diversi per gli Stati Uniti
È un vero peccato scoprire New York solo dopo aver compiuto i 60 anni, perché è una splendida città che si presta ad essere goduta in diversi momenti della vita. L’ho visitata spinto da mia moglie, che ne ha sempre sentito parlare in famiglia come prima tappa americana dei parenti emigrati in California. Mi aspettavo una città caotica, opprimente. Non ho trovato nulla di tutto questo e ho trascorso una settimana piacevolissima. Ho alloggiato a Soho, nella Downtown, la zona certamente più pittoresca della città, che da una decina di anni è diventata molto alla moda: è vivace ed è la meta preferita di chi ama lo shopping, ma anche di chi apprezza la buona cucina! Fino a non molti anni fa era un quartiere malfamato, dove proliferavano prostituzione, droga e malavita. Oggi si esce tranquillamente la sera per passeggiare lungo stradine vivacissime, animate da negozi, bar e ristorantini molto frequentati dai giovani.
Della Grande Mela si è detto per anni che fosse una città pericolosa. Oggi ci si sposta sia di giorno che di sera senza problemi sentendosi assolutamente a proprio agio. Anche perché i newyorchesi sono molto gentili. Se ti fermi in strada a consultare una piantina, subito qualcuno si avvicina e ti chiede se hai bisogno di spiegazioni. In Ticino, dove i turisti sono a malapena tollerati, abbiamo davvero da imparare a questo proposito…
Come scrive il noto giornalista italiano Corrado Augias nel suo libro “I segreti di New York”, questa “è la città dove è nata la vita moderna, intendo dire il luogo in cui la vita moderna ha assunto, anche se nata altrove, un suo stile, una cifra riconoscibile che le ha consentito di imporsi ovunque come paradigma della modernità”.È stata la prima metropoli (nel 1898 era la città più popolata del mondo): qui sono sorti i primi grattacieli, è stata costruita la prima metropolitana, è stato realizzato il primo ascensore, le prime reti di radiodiffusione hanno trasmesso da New York. Wall Street ha dato le origini alla finanza moderna, Madison Avenue alla pubblicità. La Grande Mela ha visto nascere i più interessanti fenomeni culturali, letterari e visivi del XX secolo. Oltre 300 anni fa, quando era ancora una colonia britannica, qui si posero le basi per la libertà di stampa.
“A New York – osserva ancora Augias – l’Europa c’è, si sente, si vede, senza l’Europa New York semplicemente non esisterebbe. Tuttavia anche la presenza europea, quella fisica degli individui e quella immateriale della cultura, su questa sponda dell’Atlantico si è trasformata, resta riconoscibile, è vero, ma è anche diventata un’altra cosa”. Fatta di molte etnie, piena di italiani, di ebrei, di latinoamericani, di cinesi, di neri, di anglosassoni e ora anche di russi di nuova immigrazione, la Grande Mela ha una fisionomia composita dove nessuno sembra riuscire ad imporre il suo tratto distintivo. Secondo un recente studio nella città americana più raccontata dalla letteratura e dal cinema si parlano 800 lingue. Chi conosce bene gli Stati Uniti sostiene che New York non è una tipica città americana. No, certamente, è la capitale del mondo occidentale. E non solo perché ospita le Nazioni Unite, ma perché è un’antologia vivente, nel bene e nel male, dello sviluppo del mondo moderno. Rappresenta un simbolo di quell’America aperta e liberale, che ho amato ed amo, dei Roosevelt, dei Kennedy, e ora anche di Obama. Un paese che persegue gli ideali della libertà e cerca di garantire ai suoi cittadini pari opportunità di partenza. È un’affermazione molto discutibile – ne sono conscio – perché questo stesso paese ha rappresentato a tratti anche la negazione di questi ideali.
New York – Alla riscoperta degli itinerari dei nostri antenati emigranti
di Carla Rezzonico Berri
New York – Le mille storie diverse che vivono in una sola città
New York – New York riassume il mondo moderno
New York – Due volti diversi per gli Stati Uniti
Il pellegrinaggio della memoria inizia a Manhattan, al molo di Battery Park, dove salpano i traghetti per le due isolette della baia dell’Hudson: Liberty Island e Ellis Island La “corona” della Statua della Libertà, miraggio per i viaggiatori di terza classe delle navi, è ritornata ad essere visitabile dopo otto anni di chiusura seguiti al tragico 11 settembre.
Anni ’60, in un villaggio della Valle Verzasca. Arriva la postina con la sua borsa di cuoio, si ferma davanti alla casa e bussa alla porta, che comunque non è mai chiusa a chiave. Lascia sul tavolo della cucina il quotidiano. Di lettere ne arrivano poche, ma questa mattina una busta di colore azzurrino, con un bordo blu e rosso, di carta leggerissima, spicca sopra il giornale. “Hanno scritto ‘quelli d’America’ ” , commenta mio padre.
Una scena così chissà in quante case ticinesi era consueta, quando cellulari e posta elettronica non avevano ancora invaso le nostre giornate e – soprattutto – quando i legami transoceanici creati dall’emigrazione non si erano ancora affievoliti. Sì, perché in ogni casa – o quasi – qualcuno, a fine Ottocento, a inizio Novecento, aveva solcato i mari inserendosi in quell’immenso flusso migratorio che svuotò le regioni più povere del Ticino (e dell’Europa) di forze giovani.
Erano lettere di emigranti che con lungimiranza e un incredibile lavoro di ricerca lo studioso e storico Giorgio Cheda riunì negli anni ’70, prima che quei legami si allentassero con le generazioni che si susseguono e la lingua comune che si perde – e le testimonianze finissero nel fuoco, nella spazzatura o presso qualche antiquario.
Ne avevo un mazzetto anch’io, custodite con cura dalla nonna per decenni e poi affidatemi forse perché le conservassi dopo di lei, a ricordo di quei fratelli andati lontano e mai più tornati.
E così, avendo l’opportunità di visitare New York, la mia “prima America”, non ho potuto fare a meno di andare a rileggerle. Certo, la magnifica porta degli States i miei antenati l’hanno appena intravvista prima di dirigersi verso la California dove erano attesi da parenti e compaesani. Scrive un fratello della nonna, partito appena diciannovenne: “19 novembre 1915. (…) siamo stati sull’acqua 15 giorni per arrivare a New Jork. (…) Quando siamo (s)barcati non abbiamo potuto scrivere perche siamo partiti subito col treno per San Francisco, ed abbiamo impiegato altri 6 giorni di treno”. Ma il viaggio sul mare è stato buono, aggiunge, quasi un divertimento. Non ha avuto i problemi dell’emigrante di Someo che racconta delle acque agitate, di dieci giorni di burrasca continua: “Il giorno 25 si ebbe lo sbarco a New Jork al primo mettere piede fermo in terra stentavo andare in piedi e dondollavo come un ubbriaco” (entrambe le lettere in G. Cheda, L’emigrazione ticinese in California, Dadò 1981).
New York per loro, per tanti emigranti, era solo un luogo di passaggio. Il grande porto che accoglieva milioni di persone in cerca di fortuna. Per noi oggi, alla ricerca di radici familiari, il pellegrinaggio della memoria inizia a Battery Park, dove salpano i traghetti che portano sulle due isolette situate nella baia, alla foce del fiume Hudson: Liberty Island, con la simbolica e celebre Statua della Libertà, e Ellis Island, per lunghi anni ingresso obbligato per chi sbarcava negli Stati Uniti.
Siamo in centinaia, di ogni nazionalità, sull’imbarcazione che percorre lentamente il tragitto che separa Liberty Island da Manhattan. L’emozione di tutti è palpabile: foto a raffica, mentre la grande statua (“Miss Liberty”, la chiamano, e qualche giorno più tardi la vedremo in una bella mostra al museo dei nativi americani rifatta a mo’ di bambola) si avvicina e alle nostre spalle i grattacieli si fanno più piccoli, con il caratteristico profilo che si staglia contro il cielo.
La statua, che celebra l’amicizia franco-americana – fu un dono al Nuovo Mondo della Francia –, è alta 46 metri (a cui si aggiungono 47 metri di piedistallo) e raffigura una donna incoronata che calpesta la tirannia simbolizzata da catene; nella mano sinistra regge la tavola con la dichiarazione dell’indipendenza (1776), con la destra alza la torcia con il fuoco della libertà. La corona ha sette punte, quanti i continenti e i mari verso cui irradia sentimenti di speranza e libertà. Costruita a Parigi, fu donata agli Stati Uniti nel 1883 e varcò l’oceano in casse: fu assemblata a New York e inaugurata nel 1886. Alla sua creazione parteciparono illustri personalità dell’epoca: Édouard René de Laboulaye ne fu l’ideatore, Frédéric Auguste Bartholdi il progettista, Gustave Eiffel, che costruì la famosa torre, partecipò all’impresa quale ingegnere. Costituita da un’armatura in acciaio rivestita da 300 placche in rame, con il tempo ha assunto il caratteristico colore. Negli anni Ottanta, in occasione del suo centesimo compleanno, è stata restaurata.
Per visitarla occorre prenotarsi per tempo. Se l’intenzione è di accedere solamente all’isola per vedere la Libertà da vicino, e da tutte le angolazioni, basta prenotare il traghetto online all’indirizzo www.statuecruises.com (si eviteranno così le code che possono essere assai lunghe). Se invece volete salire sul basamento o mirate addirittura in alto, alla corona, sappiate che le visite sono ridotte a poche centinaia di visitatori al giorno e i tempi di attesa possono essere di settimane.
Ci accontentiamo dell’isola. Un gruppo di turisti si improvvisa coro – niente male, per la verità – e intona canti di libertà. Fioccano gli applausi. Contempliamo a lungo questo simbolo con sentimenti contrastanti: America uguale libertà? Il discorso è lungo e aperto.
Risaliamo sul traghetto e in pochi minuti sbarchiamo a Ellis Island. Qui, dal 1892 al 1954, sono passati circa 20 milioni di persone provenienti da ogni dove, sbarcati in America da navi su cui avevano viaggiato in terza classe (i passeggeri di prima e seconda erano sottoposti a controlli meno severi prima dello sbarco). La struttura è composta di diversi edifici e dal 1990 ospita il museo dedicato all’immigrazione.
L’inizio del percorso museale è di grande impatto. Una catasta di valigie, ceste in vimini, bauli in legno, sacchi e fagotti legati alla bell’e meglio, uno sopra l’altro, di ogni dimensione, di ogni provenienza. Qui si arrivava con bagagli, pene, preoccupazioni, speranze. La chiamano l’isola delle lacrime. Dietro ad ogni arrivo c’è stata una partenza: i familiari lasciati, la casa, gli amici, il proprio paese. Grandi fotografie in bianco e nero mostrano uomini, donne, bambini, vecchi all’arrivo. Sguardi stanchi e timorosi. Occhi che interrogano il futuro. La trafila burocratica per avere accesso al suolo americano comprendeva dapprima una visita medica, in particolare un temutissimo esame degli occhi (si cercavano i segnali di una malattia contagiosa, il tracoma, in presenza della quale il rimpatrio era immediato). Chi non superava questo primo scoglio veniva segnato con un gesso: una X sulla spalla che significava ulteriori approfondimenti. Anziani, malati mentali e contagiosi potevano essere rimpatriati immediatamente (statistiche ufficiali parlano del 2% di esclusi); le immagini dei respinti sono strazianti.
Arriviamo nella vastissima sala di registrazione, la “Registry Room”, e proseguiamo attraverso le sale del museo che seguono i migranti nelle loro peripezie esponendo documenti, immagini, oggetti, testimonianze orali: le lunghissime file agli sportelli, i controlli, la registrazione dei dati anagrafici, il cambio della valuta, l’acquisto dei beni di ristoro e quello dei biglietti ferroviari. Un’avventura che per alcuni durava qualche ora, per altri alcuni giorni. Lasciata alle spalle Ellis Island e sbarcati a Manhattan, di avventura ne iniziava un’altra.
La nostra giornata sulle isole è stata una lezione di storia. Non potevamo non concluderla con una puntata all’American Family Immigration History Center. Con 5 dollari avete accesso ai computer medianti i quali potete cercare le tracce dei vostri antenati nella vastissima banca dati dove sono stati registrati i passaggi a Ellis Island. Si calcola che 100 milioni di americani abbiano qui qualcosa da trovare delle loro radici. Una semplice ricerca permette di avere notizie sui passeggeri qui transitati: dati anagrafici, età all’arrivo, data di arrivo, nome della nave, ecc. Si possono anche acquistare copie facsimile dei documenti. Ricerche simili si possono fare sul sito www.ellisisland.org.
Due volti diversi per gli Stati Uniti
New York – Le mille storie diverse che vivono in una sola città
New York – Alla scoperta degli itinerari dei nostri antenati emigranti
New York – New York riassume il mondo moderno
Vi ho parlato del mio amore per l’America aperta e “liberal” dei Roosevelt, dei Kennedy e ora anche di Obama, un Paese che a tratti ha perseguito e persegue gli ideali di libertà e ha cercato e cerca di garantire ai suoi cittadini pari opportunità di partenza. In modo certamente meno ideologico, questo paese ha rappresentato per molti ticinesi, nel periodo a cavallo tra Otto e Novecento, la speranza di una vita migliore. Si veda a questo proposito l’articolo scritto da mia moglie Carla, nel quale narra la storia dei suoi antenati che hanno lasciato la Verzasca in cerca di fortuna oltre Oceano. Dopo due settimane calcati nella stiva di una nave sono giunti, come molti altri, nel Mondo Nuovo accolti dall’imponente mole della Statua della Libertà. Un monumento emblematico dell’America migliore, quella carica di valori su cui si sono costruite le nostre moderne democrazie. Ma purtroppo c’è stata ed è sempre in agguato anche un’altra America, quella che ha tradito questi suoi ideali per seguire una squallida realpolitik, quella che ha sostenuto spietate dittature in tutto il mondo ed ha contribuito a rovesciare governi democraticamente eletti per sostituirli con feroci giunte militari. Sono queste le due Americhe con cui si è confrontata la mia generazione. Per questo in certi momenti della mia vita ho amato questo paese e in altri l’ho detestato. Quando ero ragazzo, avevo undici anni, J. F. Kennedy è stato eletto presidente. Era il mio primo incontro con la politica. Un bell’incontro. Mi ero comprato il libro con i suoi discorsi e avevo fatte mie molte delle sue idee. Poi l’assassinio. Quel giorno lo ricordo come fosse oggi, sebbene siano passati quasi cinquant’anni. Mentre scrivo mi vengono ancora i brividi alla schiena. Ricordo che piansi moltissimo. Per me era un sogno infranto. Ma poi la speranza tornò con suo fratello Bob. Quando anche lui fu assassinato piansi meno ingenuamente e provai una forte rabbia. Avevo 19 anni: aveva vinto l’America negativa, buia, quella dei potenti che non volevano il progresso e che ricorrevano addirittura al crimine di stato per garantire i loro interessi. Qualche tempo dopo, mentre studiavo scienze politiche a Firenze, fu questa America che con i suoi servizi segreti aiutò a rovesciare Salvador Allende e a portare al potere una delle più odiose dittature dei nostri tempi, quella di Pinochet e dei suoi militari. Per me fu il colpo di grazia. Sperai allora che il progresso potesse giungere dalle nuove interpretazioni del socialismo: quelle dei paesi dell’Europa del nord e quella del compromesso storico di Enrico Berlinguer, che voleva unire le forze progressiste italiane di radice antifascista. Con l’America mi riconcilio a tratti, quando sale un presidente del partito democratico. Apprezzo Obama, che penso stia facendo il possibile in un mondo difficile, dove i valori dell’America aperta e “liberal” trovano tanta difficoltà ad affermarsi. Il mio pensiero torna allora ai nostri emigranti che agli albori del Novecento lasciarono un Ticino non in grado di garantire loro un futuro e partirono all’avventura per un mondo nuovo. Penso alla nostra politica nei confronti degli stranieri, a certe sparate della Lega e dell’Udc e mi vergogno, anzi mi indigno. Un Paese come il nostro, che ha lasciato partire tanti giovani, un secolo più tardi dimentica le sue radici storiche e umilia gli stranieri, siano essi esuli politici oppure gente alla ricerca di un futuro vivibile. Li dileggia nonostante ci aiutino a costruire il nostro benessere. Mi vergogno e mi arrabbio con la mia generazione, che sembra non essere riuscita a trasmettere nemmeno questi valori ai giovani che si accalcano alle urne per votare Lega e Udc. È la chiusura verso quegli ideali rappresentati dalla Statua della Libertà che accoglieva i nostri emigranti nel Mondo Nuovo.
Un mondo svelato dalla Via della Seta
Cina – La Cina immaginata e quella della realtà
Tibet – Un viaggio sul tetto del mondo sfiorando le nuvole con le dita
Tibet – Il Tibet è un Paese occupato dai cinesi
I cinesi raccontano che a Shanghai avete la possibilità di assaporare gli ultimi 150 anni della storia del loro paese, a Pechino gli ultimi mille, mentre a Xian incontrerete la Cina più antica. Queste tre città ricche di storia permettono un approccio ai diversi volti della Cina.
A Shanghai avete la possibilità di assaporare gli ultimi 150 anni della storia cinese. A Pechino gli ultimi 1000, da quando cioè divenne capitale dell’impero. A Xian, punto di arrivo e di partenza della mitica Via della Seta, incontrerete le vestigia della Cina più antica. Sono queste le mete principali del nostro itinerario, che prevede anche un soggiorno di cinque giorni in Tibet. Un viaggio del genere non permette certamente di conoscere un paese, ma fornisce stimoli di riflessione, provoca sensazioni e pone interrogativi.
Xian, culla della civiltà cinese
Confesso che prima di preparare questo viaggio non avevo mai sentito parlare di Xian, eppure è la culla della civiltà cinese. È qui che Qin Shi Huang nel 221 a.C. riuscì a unificare il paese per diventare il primo imperatore della Cina e gettò le basi di una coscienza nazionale. Abolì il feudalesimo e diede al paese un’organizzazione burocratica, lo protesse verso nord collegando nella Grande Muraglia i tratti di mura preesistenti, unificò i pesi e le misure, le distanze tra le ruote dei carri per pianificare le strade, impose un’unica moneta, un solo sistema di ideogrammi per unificare la scrittura e la lingua parlata, impose un unico sistema legale. Questo imperatore visionario, ma anche crudele e megalomane, si costruì un monumento funerario al quale lavorarono per 38 anni 700 mila operai. Quando nel 210 a.C. morì durante la sua campagna di unificazione, si racconta che la sua salma fu calata nella sala principale del palazzo delle tenebre assieme alle mogli, alle concubine, a guardie e operai sacrificati in suo onore. L’ingresso del mausoleo venne quindi mimetizzato e il terreno circostante coltivato a cereali. Fu per caso che nel 1974 un contadino, che oggi firma il volume pubblicato sul sito, scavando un pozzo fece la più importante scoperta archeologica del XX secolo, che l’ex presidente francese Chirac, in visita nel 1991, decretò giustamente ottava meraviglia del mondo. Il sito è finora stato scavato solo in parte. Finora sono state portate alla luce tre grandi fosse. La prima (230 metri per 62) contiene 6 mila guerrieri di statura reale che rappresentano la guardia imperiale schierata con cavalleria e 35 carri da guerra. La seconda presenta un esercito di 900 soldati diviso in tre battaglioni. Nella terza, 31 soldati delle guardia d’onore attendono l’imperatore. Un museo presenta altre statue e due straordinari carri in bronzo.
La sola visita di questo sito vale il viaggio in Cina. Tutti noi abbiamo sentito parlare dei guerrieri cinesi di terracotta e li abbiamo ammirati in documentari, ma vederli dal vivo provoca un’emozione eccezionale. Ognuno di loro ha un viso e un’espressione che sottintendono una storia di vita. Gli scavi continuano e altre meraviglie verranno portate alla luce. Al di là di queste scoperte archeologiche Xian è oggi un’importante città commerciale con oltre 7 milioni di abitanti. Il suo centro è racchiuso nel perimetro di 12 chilometri delle sue mura, che risalgono all’epoca Ming (1368-1644). È animatissimo e molto curato con negozi e shopping center di chiara impronta occidentale. Suggestive le torri della Campana (epoca Tang 618-917) e del Tamburo (epoca Ming). Il cuore della città ospita anche un coloratissimo bazar nel quartiere abitato da una minoranza musulmana cinese. Al centro si può visitare un’interessante moschea risalente al VIII secolo, che presenta un curioso incrocio di stile arabo e cinese.
Pechino, il cuore del Paese
Non è certamente facile riassumere ciò che offre Pechino in poche righe di giornale, ma ci proverò. La città è priva di piazze e di un centro. Per questo Mao Tse Tung nel 1949, dopo aver vinto la guerra civile contro i nazionalisti di Chiang Kai Shek creò la piazza Tian’anmen. Un luogo tristemente noto per l’intervento dell’esercito cinese, che nel 1989 entrò con i carri armati aprendo il fuoco contro i dimostranti desiderosi di riforme e di libertà e facendo migliaia di morti. Con i suoi 400 mila metri quadrati di superficie è il più grande spazio pubblico al mondo, è il cuore pulsante della Cina ed il testimone per eccellenza degli eventi che hanno plasmato la storia della Repubblica Popolare sin dai suoi esordi. È qui che il primo ottobre del 1949 Mao Tse Tung pronunciò il discorso della liberazione alle folle in giubilo. Sulla piazza, per la verità molto fredda, si affacciano i musei della storia e della rivoluzione, il Grande Palazzo del popolo, sede del parlamento, il mausoleo del presidente Mao che accoglie la sua salma.
La città proibita
Oltrepassando un arco sopra il quale troneggia l’effigie di Mao, si entra in una delle meraviglie di questa città: la città proibita. Fulcro per cinque secoli – vi regnarono 24 imperatori delle dinastie Ming e Qing – dell’impero e per i cinesi dell’universo. Anche qui gli spazi sono vastissimi. Si tratta di una vera e propria città nella città con oltre 800 edifici, che risalgono quasi tutti al Quattrocento, quando l’imperatore Yongue riportò la capitale da Nanchino a Pechino. Tutti i padiglioni sono disposti secondo le teorie geomantiche basate sull’equilibrio fra energia negativa (yin) e positiva (yang). In questa sorta di vastissima gabbia dorata il popolo non poteva entrare e nemmeno avvicinarsi. Vi si accede dalla porta meridionale (Wumen), la più importante, dove i Figli del Cielo si rivolgevano alla corte e dove i generali di ritorno da guerre vittoriose si presentavano con i prigionieri per deciderne la sorte. Proseguendo si accede ad altri ambienti pubblici (padiglioni delle Cerimonie), prima di giungere agli appartamenti imperiali, dove l’imperatore alloggiava con la moglie e le concubine gestite dagli eunuchi, che diventarono sempre più potenti all’interno del palazzo ordendo intrighi di ogni genere. Quest’ultima parte della città presenta, oltre ad un intimo giardino, costruzioni più piccole e affascinanti, ambienti cinesi, dove bisogna prendersi il tempo per passeggiare senza meta.
Il Tempio del Cielo
Un altro luogo di grande significato storico è il Tempio del Cielo, che sorge in un’altra parte della città e che per cinque secoli ha rappresentato il cuore dei cerimoniali e del simbolismo imperiale. Edificato anch’esso all’inizio del XV secolo era considerato il luogo di contatto fra la terra (considerata quadrata) e il cielo (rotondo), la cui simbologia rappresenta parte integrante anche del progetto architettonico. Intermediario tra terra e cielo era naturalmente l’imperatore che in occasione del solstizio d’inverno si recava qui e pregava per il raccolto. Decisamente meno suggestiva risulta invece la visita alla residenza imperiale estiva, distrutta dagli inglesi durante la seconda guerra dell’Oppio e in parte ricostruita.
Le tombe dei Ming
Ma l’emozione torna a livelli elevati durante la visita alla tomba degli imperatori Ming, la dinastia che regnò dal 1368 al 1644. Tredici dei sedici figli del cielo sono sepolti in una dolce valle che sorge a una quarantina di chilometri da Pechino. Oltrepassato un magnifico arco in marmo bianco, si giunge a una grande Porta Rossa, dove inizia il suggestivo Viale degli Spiriti lungo 7 chilometri e fiancheggiato da alberi e da statue di animali mitologici, di mandarini e di militari. Al termine dei vialetti portano alle tombe monumentali. Ognuna è divisa in tre parte principali: la stele, la sala delle offerte e il tumulo dove si trova la salma.
La grande muraglia
È una delle sette meraviglie del mondo. È un’impresa ingegneristica sbalorditiva. È lunga 6350 chilometri, una distanza equivalente dal Ticino a New York. È nata con l’avvento della dinastia dei Quin nel 221 a.C. per difendersi contro le orde di nomadi attratte dalle fertili terre della pianura del bacino del Fiume Giallo, su idea del primo imperatore cinese, lo stesso che si è fatto seppellire con l’esercito di terracotta. Il lavoro principale fu quello di collegare tra loro le muraglie già esistenti e di consolidare il tutto in un’unica difesa murata. La sommità della muraglia è costituita da una via lastricata larga 5 metri che rappresenta anche un’importante via di comunicazione essendo percorribile totalmente sotto protezione e quindi un mezzo di comunicazione tra genti diverse. Oggi sono milioni i turisti che nel corso di un anno visitano quest’opera e ne percorrono dei tratti a piedi.
Lo stadio olimpico
Oltre alla sua storia, ai suoi monumenti e ai suoi simboli storici Pechino è un’interessante e moderna città densa di grattacieli di stile americano, poco inquinata contrariamente a quando pensavo, dove si può passeggiare tranquillamente. La sua via principale – un centro vero e proprio non esiste – si dice sia percorsa giornalmente da un milione e mezzo di persone. Me la immaginavo simile alle città russe dell’ultimo periodo sovietico, ma ho trovato un ambiente dove i turisti occidentali sono ben accolti. Deludente, perché troppo turistico, il quartiere antico Hutong. Splendido, in compenso il centro olimpico con lo stadio degli architetti Jacques Herzog e Pierre Demoron che visto dal vero è un’opera architettonica emozionante. E anche qui spazi enormi, come è nelle tradizioni cinesi, ai quali noi europei non siamo abituati.
Shanghai, tra Cina Europa e Usa
È il fulcro dello straordinario boom economico cinese. Il suo obiettivo, praticamente già raggiunto, è diventare il più grande centro finanziario dell’Asia. La sua densità abitativa è il quadruplo di quella di New York, che supera anche quanto a numero di grattacieli. Nel corso degli ultimi quindici anni la sua popolazione è più che raddoppiata e raggiunge oggi quasi 25 milioni. Il reddito pro capite è aumentato dai 1’000 dollari del ’97 ai 6’000 del 2007. Il suo porto, dove transita oltre il 50% del commercio cinese, è uno dei più attivi al mondo. Le gru – non gli animali ma quelle da costruzione – sono considerate ironicamente la mascotte di questa metropoli straordinaria, dove si respira aria di euforia, di voglia di cambiamento. Si calcola che qui gli stipendi siano mediamente il doppio rispetto al resto della Cina e spropositati se paragonati alla realtà rurale del paese. Ed è per questo che proprio a Shanghai si manifestano più evidenti i contrasti del colosso asiatico.
Data questa premessa ci si potrebbe aspettare che si tratti di una città finanziaria senz’anima. E invece non è così. È una splendida metropoli, che affascina perché armonizza tre mondi diversi, tre culture: quella cinese soprattutto moderna ma anche antica, quella europea e quella delle metropoli americane. Passeggiando per l’affollatissima via Nanchino che dal lungofiume porta in Piazza del Popolo, cuore della città, si respira l’aria di una metropoli occidentale. La città vecchia propone viuzze alla cinese con caratteri un po’ troppo calcati, tanto da renderla una piccola, ma simpatica Disneyland. Al suo interno si possono visitare gli splendidi giardini Yu creati nel XVI secolo. Un po’ più lontano dal centro, nel tempio buddista di Yufo, si può ammirare lo splendido Buddha dall’espressione estremamente dolce, scolpito in Birmania da un unico blocco di giada bianca. Il vecchio quartiere francese – che all’inizio del Novecento in epoca coloniale veniva definito la “Parigi d’Oriente” – dove si può camminare senza meta è certamente una delle zone più affascinanti. Ma qualsiasi turista, dopo aver visitato questa metropoli, non potrà mai dimenticare la splendida passeggiata lungo il fiume Huangpu. Da una parte il cosiddetto Bund, la sponda con grandi edifici e palazzi in stile anglo-orientale restaurati con cura e risalenti all’epoca delle concessioni straniere. Dall’altra, il Pudong – affascinante soprattutto di notte – con la sua selva di modernissimi grattacieli che si perdono a vista d’occhio, tra i quali ne spiccano alcuni di altissimo pregio architettonico. Fino a pochi decenni fa questa zona era ancora occupata da risaie. Ma d’altra parte tutta la città si è sviluppata dal XIX secolo con l’arrivo degli stranieri. Con il trattato di Nanchino (1842) gli inglesi furono i primi ad arrivare, seguiti cinque anni dopo dai francesi, nel 1863 dagli americani e nel 1895 dai giapponesi. Ogni quartiere, in base al principio dell’extraterritorialità, costituiva un piccolo stato governato dalle leggi del paese coloniale di riferimento. Questa situazione fece sì che gli stranieri a Shanghai erano più numerosi dei cinesi, peraltro sfruttati nelle fabbriche. Non è un caso se il partito comunista del futuro del presidente Mao è nato proprio in questa città, nei pressi del quartiere francese.
Itinerario
1° giorno
Milano-Pechino
2° giorno
Pechino e Tempio del cielo, che per cinque secoli ha rappresentato il cuore dei cerimoniali e del simbolismo imperiale
3° giorno
Tomba dei Ming – Grande Muraglia, un’impresa ingegneristica sbalorditiva, lunga 6.350 chilometri
4° giorno
La città proibita, una vera e propria città nella città con oltre 800 edifici – Crociera sul lago Kumming
5° giorno
Xining – Monastero di Kumbum – Lhasa
6°giorno
Ferrovia tibetana – Lhasa, nota anche come “Tibet Express”, oltre 1.100 km per collegare Cina e Tibet
7° giorno
Lhasa – Palazzo Potala – Tempio Jokhang
8° giorno
Monastero di Drepung
9° giorno
Lago Yamdrok – Gyantse
10° giorno
Xigatse, sorge alla confluenza del Yarlung e del Nyangchu
11° giorno
Lhasa, capitale della Regione Autonoma del Tibet. In passato anche residenza tradizionale del Dalai Lama
12° giorno
Da Chengdu, punto di snodo per i trasporti e le comunicazioni della Repubblica popolare cinese, a Shanghai, una delle città più popolose al mondo
13° giorno
Shanghai, con oltre 18.5 milioni di abitanti
14° giorno
Shanghai-Milano
Tibet – Un viaggio sul tetto del mondo sfiorando le nuvole con le dita
Tibet – Il Tibet è un Paese occupato dai cinesi
Cina – Un mondo svelato dalla Via della Seta
Cina – La Cina immaginata e quella della realtà
Con la Transtibetana, chiamato il “treno dei cieli”, alla scoperta di una cultura portata storicamente a prediligere l’essere all’avere. Nonostante si tratti di un Paese militarmente occupato dai cinesi, l’animo mistico di questo popolo lo si respira visitando gli affascinanti monasteri.
A Lahsa con la ferrovia più alta del mondo
Proseguo con la parentesi Tibetana il mio diario di un viaggio di approccio alla Cina e al Tibet. Un viaggio a volte faticoso a causa dell’altezza elevata: Lahsa è situata a 3600 metri e durante gli spostamenti si toccano i 5 mila. Dopo un periodo di acclimatazione di un paio di giorni ci si muove comunque di nuovo senza fatica.
Il treno che ci porterà nella capitale lo prendiamo a Xining, a 90 minuti di volo da Pechino. A 37 chilometri da Xining sorge Ta Er Si, Kumbum nella lingua del Paese delle Nevi, città natale di Tsong Kha pa (1357-1419) il fondatore del buddismo tibetano, a cui è dedicato un vasto monastero fondato nel 1560. Non lontano da quel luogo il 6 luglio 1935 è nato anche l’attuale capo religioso del Tibet, il XV Dalai Lama, in esilio in India e molto noto in occidente per aver vinto il premio Nobel per la pace.
Il treno dei cieli
Inizia con la visita di questo luogo sacro, con pellegrini che giungono da tutto il paese, il nostro itinerario tibetano, che ci porterà a Lahsa con la Transtibetana, la linea ferroviaria che collega Pechino alla capitale del Tibet. Soprannominato il “Treno dei cieli” questo capolavoro ingegneristico è frutto di un’idea del presidente Mao, ma è stato costruito recentemente ed inaugurato nel 2006, dopo cinque anni di lavori. È una ferrovia sul tetto del mondo: il suo percorso si snoda sempre sopra i 4 mila metri e a tratti supera i 5 mila. Una buona metà del tracciato poggia sul ghiaccio. Per evitare la deformazione dei binari, a causa del disgelo estivo, è stato necessario realizzare in molte tratte un sistema di raffreddamento con tubature sotterranee che mantengono il terreno ghiacciato durante tutto l’anno. Secondo il presidente cinese Hu Jintao quest’opera serve a “consolidare l’unità nazionale”, mentre a parere del Dalai Lama è solo un tassello della politica di cinesizzazione del Tibet. Al di là di queste tristi considerazioni politiche il viaggio sulle carrozze pressurizzate della Transtibetana è estremamente suggestivo. Soprattutto quando per una decina di ore si attraversa un vastissimo altipiano ricco di piccoli villaggi rurali, dove l’attività principale è costituita della pastorizia. Dai finestrini si vedono migliaia di yak, una mucca locale, pascolare in paesaggi mai monotoni ed in continuo divenire. Ai confini della smisurata pianura, attraversata da fiumi e laghi d’inverno gelati, si intravedono le cime innevate delle montagne, che toccano i 7 mila metri. Durante il percorso in treno sono rimasto come un bimbo per ore e ore con il naso incollato al finestrino, incantato da quel paesaggio tanto differente dal nostro, anche se di alta montagna. Prima di giungere in Tibet si passa un territorio desertico, non abitato, e quindi meno interessante, anche se ci ha permesso di osservare alcuni animali selvatici. Dopo 24 ore di treno da Xining e una notte trascorsa nelle cuccette si arriva a Lahsa.
La mistica Lahsa
Tra anonimi viali a più corsie e squallidi quartieri dormitorio sopravvivono interessanti monumenti del passato. Il luogo più piacevole della città è senza dubbio il cosiddetto Barkhor, il quadrilatero di animatissime stradine su cui si affaccia un coloratissimo mercato che circonda il Jokhang, l’edificio sacro più venerato del paese. Come fa giustamente notare l’autore della guida Lonely Planet, “si tratta di una zona che non ha eguali in tutto il Tibet per il modo straordinario in cui le più sincere espressioni di fede si armonizzano con le manifestazioni di un’improvvisata economia di mercato”, simpaticamente espressa da bancarelle e negozietti che hanno resistito a qualsiasi infiltrazione del mondo moderno. Così come sembra appartenere ad altre epoche la religiosità dei numerosi pellegrini che pregano con tutto il corpo e si prostrano gettandosi a terra davanti al tempio, tanto da aver lucidato nel corso dei secoli le grosse pietre del selciato. In questo quartiere si respira ancora la magica atmosfera di un tempo, malgrado la minacciosa presenza di giovani militari cinesi catapultati dal potere politico in un mondo a loro estraneo. La sera, di ritorno dalle gite fuori città, si torna sempre volentieri in questo centro storico, dove è bello lasciarsi trascinare lungo il cammino percorso in senso orario dalla massa di pellegrini che si recano al Jokhang, il tempio che ospita la statua del Buddha più venerata del Tibet. La visita di questo luogo sacro è una delle esperienze più autentiche che si possono vivere in questo paese.
Potala tesoro tibetano
Ma il simbolo del “Tetto del Mondo” è il Potala, considerato uno dei tesori più preziosi dell’intera architettura asiatica. Era il cuore pulsante e il punto di riferimento religioso, sociale e culturale di tutto lo sterminato “Paese delle Nevi”. Prima di entrarvi i pellegrini lo circoambulano con deferenza. Si tratta di un’imponente struttura seicentesca, simile per molti aspetti a un’inviolabile fortezza, che non mancherà di stregarvi. È stata per molti secoli sede del governo tibetano e dimora di tutti i Dalai Lama che si sono susseguiti. Dopo aver salito a fatica gli scalini che vi portano ai tredici piani di questo monumento è deludente notare come sia ormai privo di pathos: è infatti stato trasformato in museo dai cinesi, persino nella sua parte religiosa (Il Palazzo Rosso), dove al posto dei monaci vi accolgono guardie armate.
Decisamente più vissuto è invece il Drepung, situato a 8 chilometri dalla capitale. Un tempo, con i suoi 8 mila monaci, era considerato il più grande monastero al mondo. Fu costruito nel XV secolo ed i Dalai Lama esercitarono da queste mura il loro potere religioso prima di trasferirsi nel Potala. Visto da lontano assomiglia a un piccolo villaggio con i suoi edifici bianchi ammassati sul fianco della collina. Quando lo abbiamo visitato, la settimana precedente il capodanno tibetano, era frequentatissimo da pellegrini, che giungevano dalla campagna. Questo monastero, come quello di “Sera”, che dista pochi chilometri, era famoso per i suoi colleghi dove si insegnava il buddismo.
Verso il Nepal
Lasciamo Lahsa il mattino di buonora per una gita di due giorni in torpedone lungo l’antica strada che porta verso Kathmandu nel Nepal. Attraversiamo paesaggi lunari, brulli, color della pietra, dove tutto ad un tratto sbuca un ghiacciaio. Le case dei contadini sono in sasso. Il piano terreno è solitamente adibito a stalla, sopra abita la famiglia. Data l’assenza assoluta di legna, per riscaldare gli ambienti durante l’inverno, si utilizza lo sterco d’animale seccato a forma di mattonelle durante la bella stagione e ordinatamente sistemato in bella vista davanti alle abitazioni. Dopo alcune ore di viaggio raggiungiamo un piccolo pianoro a quota 4794 metri da cui si gode una splendida vista sul lago Yamdrock dall’insolita forma tortuosa e con la superficie ghiacciata. A sud svettano le alte montagne innevate dell’Himalaya. Si notano piccoli terrazzamenti che nella bella stagione sono coltivati ad orzo, cereale che cresce anche sopra i 4000. Il lago è considerato sacro dai tibetani. Credono sia la dimora delle divinità irate, ma ospita anche la maggiore centrale idroelettrica del paese. Proseguiamo e di tanto in tanto sulle vette scorgiamo i cosiddetti cavalli del vento, corde a cui sono appese bandierine colorate che recano preghiere stampate, trasportate simbolicamente di montagna in montagna e di valle in valle dal vento che qui non manca mai. Dopo aver superato il passo più alto del viaggio a quota 5200 metri raggiungiamo Gyantse, un’affascinante cittadina cinta dalle mura e dominata da un imponente castello, considerata anticamente la porta del Nepal. Circondato da un uno splendido anfiteatro di monti aridi che lo proteggono naturalmente, sorge il grande complesso architettonico del monastero del Pelkor Chode, che accoglieva quindici monasteri in cui coesistevano tre diversi ordini del buddismo tibetano. È certamente uno dei siti più suggestivi visitati durante il soggiorno in Tibet, per la sua autenticità e l’elevato numero di pellegrini che si recano in quel luogo per pregare. Il sito ospita un tempio quattrocentesco, unico al mondo, costruito con la forma di un mandala a 108 facce e composto da 112 cappelle riccamente affrescate, che i fedeli percorrono in senso orario pregando.
In serata raggiungiamo Xigatse, dove trascorriamo la notte e il mattino seguente visitiamo un altro suggestivo monastero, Tashilhunpo, molto frequentato dai credenti. È la discussa sede ufficiale dei Panchen Lama: l’undicesimo scelto dai cinesi risiede qui a Pechino. È considerato oggi la più grande sede monastica del Tibet. Fondato alla metà del Quattrocento è perfettamente conservato e appare ai visitatori come un’imponente città fortificata. Custodisce, oltre alle tombe dei Panchen Lama, la più grande statua dorata al mondo. Raffigura il Buddha del futuro e per realizzarla sono stati impiegati 300 chilogrammi d’oro.
La nostra parentesi tibetana è terminata. Rientriamo a Lahsa per una strada in gran parte non asfaltata, che percorre due valli disabitate e offre paesaggi lunari. Giungiamo nella capitale troppo tardi per visitare la residenza estiva del Dalai Lama – Norbulingka – da cui nel 1959 fuggì travestito da soldato tibetano l’attuale leader religioso in esilio.
Itinerario
1° giorno
Milano-Pechino
2° giorno
Pechino e Tempio del cielo, che per cinque secoli ha rappresentato il cuore dei cerimoniali e del simbolismo imperiale
3° giorno
Tomba dei Ming – Grande Muraglia, un’impresa ingegneristica sbalorditiva, lunga 6.350 chilometri
4° giorno
La città proibita, una vera e propria città nella città con oltre 800 edifici – Crociera sul lago Kumming
5° giorno
Xining – Monastero di Kumbum – Lhasa
6°giorno
Ferrovia tibetana – Lhasa, nota anche come “Tibet Express”, oltre 1.100 km per collegare Cina e Tibet
7° giorno
Lhasa – Palazzo Potala – Tempio Jokhang
8° giorno
Monastero di Drepung
9° giorno
Lago Yamdrok – Gyantse
10° giorno
Xigatse, sorge alla confluenza del Yarlung e del Nyangchu
11° giorno
Lhasa, capitale della Regione Autonoma del Tibet. In passato anche residenza tradizionale del Dalai Lama
12° giorno
Da Chengdu, punto di snodo per i trasporti e le comunicazioni della Repubblica popolare cinese, a Shanghai, una delle città più popolose al mondo
13° giorno
Shanghai, con oltre 18.5 milioni di abitanti
14° giorno
Shanghai-Milano
Cina – La Cina immaginata e quella della realtà
Cina – Un mondo svelato dalla Via della Seta
Tibet – Un viaggio sul tetto del mondo sfiorando le nuvole con le dita
Tibet – Il Tibet è un Paese occupato dai cinesi
Immaginavo la Cina diversa da come l’ho trovata. Certo, un breve viaggio non permette sicuramente di conoscere un paese, fornisce però stimoli di riflessione, provoca sensazioni e pone interrogativi.
La prima sensazione è la vastità del territorio con campagne sconfinate e città popolatissime: quelle di 2 milioni sono considerate piccole, sopra i 5 medie, oltre i 10 grandi. La seconda impressione riguarda l’enorme disparità di tenore di vita tra le città e le zone rurali. Il segno distintivo di qualsiasi metropoli cinese sono i grattacieli, solitamente anonimi ma talvolta di grande pregio architettonico, come quelli di Pechino e soprattutto di Shanghai. Si vedono gru ovunque. L’esodo dalle campagne verso le città è elevatissimo. Nelle zone rurali la popolazione vive in casupole in sasso o in mattoni di terracotta e le condizioni di vita sono spesso da terzo mondo, mentre nei centri delle metropoli si respira un’atmosfera occidentale, con la presenza di negozi di gran lusso – Armani, Rolex, Gucci, ecc. – e di grandi magazzini simili a quelli europei o americani. Le modernissime vie dei centri cittadini sono percorse da vetture di lusso, BMW, Audi, Mercedes e molte, molte VW. È ovvio che i contadini siano attratti da questo benessere. Come è accaduto in Occidente nel dopoguerra, i giovani abbandonano la campagna e si trasferiscono nelle città, dove trovano lavoro nelle fabbriche solitamente di proprietà dello stato. Le paghe sono basse e la vita costosa. Grazie alla politica dei bassi salari la Cina è diventata la seconda potenza economica dopo gli Stati Uniti.
Se dalle sensazioni passiamo alle riflessioni e agli interrogativi, visitando questo paese ci si chiede fino a quando gli operai accetteranno una situazione che favorisce i funzionari e una classe media emergente. Riuscirà la Cina a gestire in modo indolore il passaggio di centinaia di milioni di cittadini da una civiltà rurale antiquata a una società moderna? Il capitalismo di stato sarà in grado di vincere questa sfida, che comporterà inevitabilmente anche aperture politiche e sociali oggi difficilmente immaginabili? Sono domande a cui non so dare una risposta, ma che scaturiscono spontanee da un viaggio in questo paese.
L’itinerario, organizzato da Mondial Tours, offre un rapido approccio alla Cina e al Tibet, che suo malgrado fa parte della Cina. Dico suo malgrado perché visitandolo si ha l’impressione di entrare in un paese occupato. Fu Mao Tse Tung nel 1950 a occuparlo e ad imporre il modello comunista cinese nel paese del Dalai Lama, dove il credo buddista ha radici profonde diffuse in tutta la società. Percorrendo le strade che dalla capitale Lhasa portano ai principali monasteri si attraversano zone rurali che stridono fortemente con la civiltà degli splendidi grattacieli di Pechino o di Shanghai disegnati dai grandi architetti americani. Mentre i contadini tibetani si recano nei templi buddisti con abiti identici a quelli dei loro avi, le classi agiate a Pechino e Shanghai o a Xian fanno shopping da Armani o da Gucci e i giovani vestono Zara.
L’itinerario del nostro viaggio passa bruscamente dal Tibet, dalla cultura portata a prediligere l’essere all’avere, alla realtà metropolitana cinese, che non presenta solo gli aspetti più spinti del consumismo occidentale, ma anche i patrimoni storici di una civiltà antichissima, che ha sempre affascinato l’Occidente.
Tibet – Il Tibet è un Paese occupato dai cinesi
Tibet – Un viaggio sul tetto del mondo sfiorando le nuvole con le dita
Cina – Un mondo svelato dalla Via della Seta
Cina – La Cina immaginata e quella della realtà
“Le mie camminate, i miei viaggi sono stati e sono ancora oggi, in fondo, una fuga: non la fuga da sé stessi, l’eterna fuga dell’interiorità verso l’esterno, ma proprio il contrario: un tentativo di fuga da questo tempo della tecnica e del denaro, della guerra e dell’avidità, da un tempo che pretende avere splendore e grandezza, ma che la parte migliore di me non può né accettare né amare, al massimo sopportare”. Questa riflessione dello scrittore tedesco Hermann Hesse può essere una buona introduzione per un viaggio alla scoperta della cultura tibetana, storicamente portata a prediligere l’essere all’avere, ma duramente minacciata dall’ “occupazione” cinese, che allo spiritualismo del Dalai Lama contrappone il suo materialismo.
Prosegue, dunque, con la parentesi tibetana, il mio diario di un viaggio di approccio alla Cina e al Tibet. Senza nessuna presunzione di dire cose nuove, propongo unicamente alcune sensazioni e riflessioni politiche ispirate dal viaggio.
Giungendo in Tibet avete la netta impressione di trovarvi in un paese occupato. I militari cinesi, che invasero il paese nel 1950 all’indomani dell’ascesa al potere di Mao in Cina, si trovano ovunque. Alla fine di febbraio, pochi giorni prima del capodanno tibetano, quando si è svolta la nostra visita, i turisti erano pochissimi e a partire dal primo marzo l’ingresso al paese era vietato agli stranieri, perché si temevano manifestazioni di protesta contro gli occupanti. Il clima era gelido in tutti i sensi, ma i monasteri agibili erano frequentati da moltissimi contadini impossibilitati a coltivare le terre proprio a causa del gelo. La potente Cina, immersa nel pragmatismo dopo aver perso la sua fede nel comunismo, si trova in difficoltà a gestire la profonda religiosità di questo popolo, che non potrà certo sconfiggere con la forza. Sta tentando di risolvere il problema “cinesizzando” il Tibet, con una politica che premia la migrazione verso il cosiddetto tetto del mondo nell’intento – sostengono – di “modernizzarlo”. Ed i tibetani sono già diventati una minoranza in casa propria. Anche la costruzione della modernissima ferrovia che collega il Paese delle Nevi alla Cina è considerata dal Dalai Lama in esilio come un importante strumento di questa politica di cinesizzazione, mentre il presidente Hu Jintao l’ha trionfalmente presentata come un importante tassello per consolidare l’unità nazionale. D’altra parte la Cina sta cercando di museizzare i principali monasteri, considerati turisticamente interessanti ma pericolosi se favoriscono la religiosità locale non controllata. Sembra provocatorio che i pellegrini debbano addirittura pagare il biglietto d’entrata per recarsi a pregare. Dopo la morte di Mao, comunque, l’esercizio del culto non è più proibito. La politica cinese nei confronti del Tibet, non a caso è stata denominata “genocidio culturale” da diversi studiosi occidentali.
Questa politica di cinesizzazione ha invaso anche la sfera religiosa tentando di controllarla. Dopo la morte, nel 1989, del decimo Panchen Lama, che deteneva una carica considerata al secondo posto nella gerarchia delle autorità spirituali tibetane, toccava al Dalai Lama in esilio identificare la reincarnazione del prossimo Panchen Lama. Così vuole la tradizione. Nel 1995 lo ha individuato in un bambino di sei anni: Gedhun Choeky Nyima. Nel giro di un mese le autorità cinesi lo hanno fatto sparire “per proteggerlo” e di lui – considerato il più giovane prigioniero politico al mondo – si sa solo che è ancora vivo, ma non dove si trovi. Il governo di Pechino ha chiesto in seguito ai Lama anziani del monastero di Tashilhhunpo di effettuare una nuova nomina gradita al governo. È stato scelto un figlio di genitori iscritti al Partito comunista. Una mossa importante per i cinesi, perché alla morte dell’attuale Dalai Lama spetterà al Panchen Lama in carica l’identificazione del successore.
Armenia – La tragedia del genocidio all’inizio del Novecento
Armenia – Monasteri e fortezze immersi in una natura selvaggia
Armenia – La rinascita iniziò dalla laguna veneta
Armenia – L’amara verità storica del genocidio armeno
Armenia – La letteratura del viaggiatore
Il territorio, nei secoli, è stato invaso e suddiviso tra diversi imperi, da quello romano a quello persiano, da quello russo a quello ottomano. Una cultura millenaria che conserva tracce e presenze di tutte le civiltà continentali. Secondo la leggenda gli abitanti sono discendenti di Hayk, bisbisnipote di Noé.
Non si può non provare una simpatia istintiva per il popolo armeno, sopravvissuto nel corso di millenni a innumerevoli tentativi di conquista, assimilazione, conversione e annientamento. Eppure ha superato tutte queste prove atroci restando ancorato a due capisaldi: la fede cristiana, abbracciata nel 301, e la millenaria cultura fondata su una lingua, che si sviluppò in seguito all’invenzione di un proprio alfabeto nel 404. Il giovane stato armeno, nato nel 1991 dopo lo sfaldamento dell’Unione sovietica, occupa solo una piccola parte, circa un decimo dell’antica Armenia geografica, che i Romani chiamavano il Regno dei Tre Mari, siccome si estendeva dal Mar Nero, al Mar Caspio sino al Mediterraneo. L’Armenia odierna conta poco più di 3 milioni di abitanti, a fronte degli oltre 8 milioni di armeni sparsi in tutto il mondo. Il suo governo democratico è ancora giovane e presenta ampi margini di miglioramento – la corruzione sembra diffusa – ma per la popolazione il collante rimane la religione. Alla mia precisa domanda su quali sono i rapporti tra stato e chiesa, Vahé, la nostra colta guida locale non ha avuto esitazioni a rispondere che il punto di riferimento principale rimane la religione, talmente radicata nell’anima del popolo per cui essere armeni è sinonimo di essere cristiani.
Un viaggio in Armenia è interessante perché permette di ripercorrere, grazie a numerose testimonianze, le tappe della sua tormentata storia a contatto con culture e civiltà diverse che hanno influenzato arte, lingua, cucina, usi e tradizioni popolari.
Il Grande Male, iniziò nel 1915
All’alba del 24 aprile 1915 la polizia turca irrompe nelle case degli intellettuali armeni di Costantinopoli per arrestarli. È l’inizio del genocidio che nel giro di sette anni porterà all’eliminazione di oltre un milione e mezzo di persone: uomini, donne, anziani, bambini.
A Yerevan, la capitale armena, sulla Collina delle Rondini un suggestivo e imponente monumento ricorda questo crimine contro l’umanità. Un muro in basalto lungo 100 metri, che reca i nomi di città e province dove si sono svolti i massacri, conduce al memoriale composto da una stele alta 44 metri e divisa in due per rappresentare le regioni occidentale e orientale del paese, ma al contempo è una sola per enfatizzare l’unità del popolo. Vicino alla stele 12 lastre ripiegate verso il centro, dove arde una fiamma perenne, ricordano le regioni perse dell’Armenia occidentale. Il 24 aprile di ogni anno giungono fin lassù armeni provenienti da ogni parte del mondo con un fiore in mano. Nella memoria di ognuno di loro esiste un tragico ricordo. Questo monumento è stato costruito nel 1967 in epoca sovietica. Accanto, quattro anni dopo l’indipendenza raggiunta nel 1991, è stato edificato un museo circolare. Documenta le atrocità commesse dai turchi seguendo un preciso piano di sterminio del popolo armeno. Durante la visita sentite un pugno nello stomaco. Le foto e i filmati presentati ricordano un’altra vergogna della storia: l’olocausto degli ebrei. E gli storici rammentano come Hitler, nel 1939, in procinto di invadere la Polonia, rispose alle obiezioni di suoi collaboratori scettici sull’intervento: “Qualcuno parla forse ancora dello sterminio degli armeni”? Purtroppo aveva ragione, l’annientamento di un intero popolo sembrava destinato all’oblio a causa del cinismo della realpolitik di molti stati. Eppure non era mancato chi, al momento dei massacri, aveva rischiato la propria vita per denunciare in modo documentato quanto stava accadendo. A costoro e ad altri che hanno aiutato le vittime sono dedicate lapidi e iscrizioni all’interno del museo. Faccio un solo nome, quello del medico tedesco Armin Wegner, collaboratore dell’esercito turco, che lasciò il fronte portando con sé una documentazione fotografica sconvolgente. Ricordo una sua foto esposta al museo del genocidio in cui si vede un soldato turco mostrare sprezzante un tozzo di pane a un gruppo affamato di bimbi cadaverici, che non hanno più nemmeno la forza di alzarsi per afferrarlo.
Il genocidio del 1915-22 non è purtroppo un episodio isolato. Già nel 1894-96 si stima che vennero sterminati due-trecentomila armeni residenti nell’Anatolia orientale, ai quali vanno sommate le centinaia di migliaia di persone che dovettero fuggire o furono costrette a convertirsi all’Islam per avere salva la vita (secondo alcune stime armene questi loro antenati islamizzati che attualmente vivono in Anatolia orientale, in gran parte mischiati coi curdi, superano addirittura i 2 milioni). Nel 1909 seguirono altri massacri di 30 mila persone in Adana e in Cilicia. Non solo i turchi si accanirono contro questo popolo. Anche le purghe di Stalin fecero migliaia di vittime, dopo che nel 1920 la giovane Repubblica armena nata nel 1918 fu assoggettata all’Unione sovietica.
Una storia tormentata
Le leggende narrano che gli armeni sono i discendenti di Hayk, bisbisnipote di Noè, la cui Arca si arenò sul Monte Ararat dopo il diluvio universale. In onore a questa tradizione gli armeni chiamano infatti la loro nazione Hayastan. Gli storici fanno invece risalire le origini di questo popolo alla seconda metà del II millennio a.C. quando in Anatolia orientale sorse uno stato unitario chiamato Urartu, che raggruppava varie tribù dislocate su un vasto territorio e che raggiunse il suo periodo di massimo splendore tra il IX e il VII secolo a.C. Ma per incontrare la prima dinastia armena, quella degli Orontidi, dobbiamo attendere fino al VI secolo a.C. L’Armenia raggiunse comunque la sua massima espansione (estese i suoi confini fino alla Cappadocia e a Gerusalemme) nel primo secolo a.C. sotto il regno di Tigrane II della dinastia degli Artassidi, che ottennero l’indipendenza grazie all’appoggio dei Romani. Il Paese fungeva infatti da stato cuscinetto tra romani e parti. Sotto la dinastia degli Arsacidi, sentendo la pressante minaccia di assimilazione culturale da parte dei persiani, ebbero luogo due avvenimenti che segneranno irrimediabilmente la storia di queste terre: la conversione al Cristianesimo nel 301 e la creazione dell’alfabeto armeno un secolo più tardi, nel 404. Saranno questi i due punti di riferimento costanti che salveranno nel corso dei secoli l’identità e la cultura di questo popolo nonostante le vicissitudini storiche avverse. L’Armenia fu dunque la prima nazione al mondo ad adottare il Cristianesimo come religione di stato. Gli arabi invasero l’Armenia per la prima volta attorno al 645. A partire da questa data iniziarono le pressioni per convincere il popolo a convertirsi all’Islam, ma venne poi raggiunto un accordo che permetteva agli armeni di continuare a professare il Cristianesimo. Nel corso del XIII secolo i Mongoli di Tamerlano distrussero gran parte del territorio. Alcuni monasteri isolati e fortificati, giunti fino ai nostri giorni e principale meta dei viaggi turistici, furono risparmiati e svolsero, come già in passato, una fondamentale funzione di formazione culturale e sociale. Dall’inizio del XVI secolo il territorio fu conteso per lungo tempo da due stati musulmani nemici: l’Impero ottomano sunnita, e la Persia sciita. Tre secoli più tardi l’esercito russo conquistò la maggior parte dell’Armenia persiana. Da allora una parte della popolazione rimase assoggettata all’Impero ottomano (Armenia occidentale) e una parte alla Russia zarista (Armenia orientale), con una piccola propaggine in Iran. Durante la prima guerra mondiale il popolo armeno era quindi diviso sui due fronti in guerra. Circostanza che diede il pretesto ai turchi per tentare di eliminare gli armeni, la cui presenza intralciava il grande progetto del panturchismo, con il quale si volevano unire tutti i popoli di origine turca del continente asiatico.
Una sintesi di civiltà diverse
Come si può notare da questo breve e sommario excursus storico il territorio armeno nel corso dei secoli è stato ripetutamente invaso e suddiviso tra diversi imperi che si sono succeduti: da quello romano a quello persiano, da quello russo a quello ottomano, solo per citare i più importanti. “Nella cultura armena – come fa notare Nadia Pasqual, di lontane origini armene, sulla migliore guida in italiano di questo paese – sono presenti i lasciti di tutte queste civiltà, che si ritrovano nell’arte, nella lingua, nella cucina, negli usi e nelle tradizioni popolari. Il contatto e la convivenza con popolazioni di lingua e religioni diverse hanno arricchito il patrimonio culturale armeno, ma non l’hanno modificato nei suoi fondamenti più profondi, che rimangono legati ai valori cristiani e al forte senso di appartenenza alla loro terra. Gli armeni – conclude Nadia Pasqual – si sono sempre riconosciuti come popolo e anche durante i lunghi periodi di assoggettamento straniero hanno coltivato il proprio patrimonio nazionale sviluppando una produzione culturale e artistica originale, della quale sono giustamente fieri e che oggi offrono con gioia ai visitatori”. Per questi motivi, ben sintetizzati in questa citazione, l’Armenia merita di essere visitata.
Itinerario
1° giorno
Lugano-Zurigo-Yerevan
2° giorno
Yerevan-Garni-Geghard
3° giorno
Agarak-Aruch-Dashtadem-Harich-Gyumri
4° giorno
Odzun-Haghpat-Sanahin-Tumanyan
5° giorno
Dilijan-Lago Sevan
6° giorno
Noraduz-Selim-Noravank-Yerevan
7° giorno
Echimiadzin-Metsamor
8° giorno
Erebuni-Artashat-Dvin
9° giorno
Hovanavank-Saghmosavan-Amberd
10° giorno
Yerevan-Zurigo-Lugano
Bibliografia
Armenia Polaris, Firenze 2010
Georgia, Armenia, Azerbaigian Lonely Planet, Milano 2008
Armenia Braot, Bucks (England), 2003
Claude Murafian et Ericc van Lauwe, Atlas Historic de l’Arménie, Paris 2001