Francia – In Provenza sulle tracce di Vincent van Gogh

Francia – In Provenza sulle orme di van Gogh e Cézanne
Francia – In Provenza nei paesaggi cari a Paul Cézanne
Francia – Aix, la città “ingrata” di Paul Cézanne

Il nostro viaggio si sviluppa tra Arles e St. Rémi, attraversando la splendida catena montuosa delle Alpilles tra paesaggi indimenticabili alla ricerca dei luoghi in cui Vincent piantò il suo cavalletto per interpretare a suo modo quella natura esuberante.

Vincent van Gogh è il pittore che suscita in me le emozioni più forti. Davanti ai suoi quadri non devo pensare. Sono diretti. Comunicano con i miei sensi. Mi trasportano nel suo mondo, dove la natura ha un ruolo predominante. I suoi fiori, i cipressi e gli ulivi, i campi di grano, le notti stellate ci parlano. Ma quale rapporto hanno con la realtà queste opere straordinarie? Per cercare di intuirlo ho organizzato un itinerario in Provenza, dove Vincent ha realizzato molti dei suoi dipinti più significativi, attratto da quel sud in cui molti artisti del suo tempo vedevano il luogo ideale per sviluppare il proprio potenziale creativo.

La scoperta della luce nella Francia del sud
Il nostro viaggio nella Provenza di van Gogh si sviluppa tra Arles e St. Rémi attraversando la splendida catena montuosa delle Alpilles, che offre paesaggi indimenticabili proponendo una sorta di Alpi in miniatura, dove le cime non superano mai i 700 metri di altezza. La nostra guida ci conduce tra quei panorami straordinari alla ricerca dei luoghi in cui van Gogh piantò il suo cavalletto per interpretare a modo suo quella natura esuberante. Ma oltre alla guida ci accompagnano gli scritti di Vincent, che ho riletto preparando questo viaggio e scrivendo questo “diario”. Mi hanno appassionato come la lettura di un romanzo e mi hanno rivelato un Vincent letterato che non conoscevo. Qui di seguito, per quanto possibile, descriverò il nostro itinerario dando la parola a van Gogh, pescando liberamente alcuni passaggi significativi tra le innumerevoli lettere al fratello Theo, alla sorella, a Gauguin e ad altri amici, per descrivere la sua Provenza, dove arriva nel febbraio del 1888, quando “ci sono dovunque almeno 60 centimetri di neve. (…) Ma ben presto il tempo è cambiato e si è fatto più mite – ho così avuto modo di conoscere questo mistral”, il vento provenzale che solitamente porta il bel tempo, pulisce l’aria e dona profili nitidi alla natura. “Poiché mai ho avuto una simile fortuna, qui la natura è straordinariamente bella. Tutta la cupola del cielo è ovunque di un azzurro meraviglioso, il sole ha un irraggiamento di zolfo pallido ed è dolce e affascinante come la combinazione dei celesti e dei gialli nei Van der Meer di Delf. (…) Comincio a sentirmi del tutto diverso rispetto al momento in cui sono venuto qui, non ne dubito, non ho più esitazioni nell’iniziare qualcosa, e questa situazione potrebbe evolvere ulteriormente. Ma che natura! (…) Al tramonto, ieri ero in una brughiera pietrosa dove crescono querce piccole (nella regione di Arles ndr.) e contorte, sullo sfondo una rovina in cima a un colle, e nella valle campi di grano. Non poteva essere più romantico. (…) E tutte le linee erano belle, l’insieme di una nobiltà incantevole. (…) Stando qui a lungo credo che diverrei completamente del paese. (…) Sto lavorando accanitamente, perché gli alberi sono in fiore e volevo fare un giardino di Provenza di straordinaria gaiezza”.
Ma la sua malattia mentale purtroppo si scatena in occasione di un lungo soggiorno dell’amico Paul Gauguin ad Arles, quando Vincent manifesta propositi omicidi e per punirsi si taglia il lobo di un orecchio. Lo va in seguito ad offrire alla prostituta di un bordello che frequentava assieme a Gaugin. Dopo quel tragico episodio sarà lui stesso a chiedere di essere internato in un manicomio. Finisce così l’epoca del soggiorno ad Arles (febbraio 1888-maggio 1889) per iniziarne un’altra a pochi chilometri di distanza nella casa di cura di Saint-Paul-de-Mausole, un antico monastero francescano adibito a ospedale psichiatrico nei pressi di Saint-Remy. Vincent vi soggiorna un anno per poi trasferirsi a Auvers-sur-Oise dove il 27 luglio 1890, in preda a una crisi, si toglie la vita sparandosi un colpo di rivoltella al petto.
Ad Arles rimangono poche tracce di van Gogh. La casa gialla che si affacciava su piazza Lamartine abitata dall’artista è andata distrutta durante la seconda guerra mondiale. Rimane invece l’ospedale, immortalato in un celebre dipinto, in cui il pittore fu ricoverato dopo essersi ferito all’orecchio. Altri luoghi in città sono stati ritratti da Vincent, ma ovviamente, sia l’agglomerato urbano sia la campagna, in un secolo sono molto mutati. Non così è stato invece per i luoghi attorno alla casa di cura, nella campagna di Saint-Remy, che sono rimasti assolutamente intatti e dove si possono ancora ammirare gli alberi secolari interpretati da Vincent. Ma diamogli di nuovo la parola attraverso le sue lettere.

La casa di cura di Saint-Rémy
Credo proprio che Peyron (il medico che lo ha in cura ndr.) abbia ragione quando dice che non sono pazzo propriamente parlando, perché il mio pensiero è assolutamente normale e chiaro nel frattempo e perfino più che in precedenza. Ma nelle crisi è tuttavia terribile e allora perdo conoscenza di tutto. Ma ciò mi spinge al lavoro e alla serietà come un carbonaio sempre in pericolo si affretta in ciò che fa. (…) Il lavoro mi distrae infinitamente più di ogni altra cosa e se un giorno potessi metterci dentro tutta la mia energia sarebbe probabilmente la migliore medicina. (…) Con un altro anno di lavoro forse arriverò a una sicurezza di me dal punto di vista artistico. Ed è sempre qualcosa che vale la pena di cercare. Ma bisogna che abbia un po’ di fortuna”.
Dopo le crisi Vincent è costretto in camera – se ne può visitare una simile a quella da lui occupata – e allora dipinge il paesaggio che vede dalla sua finestra attraverso le sbarre di ferro. Ecco la descrizione del quadro: “In primo piano un campo di grano devastato e sbattuto a terra da una tempesta. Un muro di recinzione e al di là il verde-grigio di qualche ulivo, delle casupole e delle colline. Infine, nella parte alta della tela, una grande nuvola bianca e grigia immersa nell’azzurro. È un paesaggio di una semplicità estrema anche di colorazione”.
Nei periodi in cui la salute glielo consente vive all’aperto. “Non avendo tela in questi ultimi giorni ho percorso in lungo e in largo il paese e comincio a sentire di più l’insieme della natura nella quale vivo. In futuro ritornerò forse anche spesso sugli stessi motivi di Provenza”. Racconta allora di lavorare negli uliveti e di ritrarli “con duro e grossolano realismo”. E poi parla dei cipressi “così caratteristici del paesaggio della Provenza” e descrive le sue emozioni. “Fino a ora non ho potuto farlo come lo sento; di fronte alla natura mi prendono emozioni che giungono fino allo svenimento e allora per quindici giorni non sono più capace di lavorare”.
Un altro tema affrontato da Vincent è quello dei campi di grano. Ecco la descrizione di una tela: “Lo studio è interamente giallo, terribilmente impastato, ma il modello era bello e semplice. Vidi allora in quel falciatore – vaga figura che lotta come un ossesso in piena canicola per terminare il suo lavoro – vidi in lui allora l’immagine della morte, nel senso che l’umanità sarebbe il grano che viene falciato. Se vuoi, è dunque l’opposto di quel seminatore che avevo tentato qualche tempo fa. Ma in questa morte, niente di triste, tutto accade in piena luce con un sole che inonda tutto con una luce d’oro fino”.
Vincent non manca di immortalare anche gli splendidi paesaggi delle Alpilles. “Per il momento ho in cantiere un quadro di un sentiero fra le montagne con un piccolo ruscello che scorre tra le pietre. Le pietre sono di un lilla compatto, grigio e rosa, con, qua e là, cespugli di bosso e alcune specie di ginestre che, in autunno, prendono ogni sorta di colore, verde, giallo, rosso, bruno. In primo piano il ruscello è bianco, fa la schiuma come se avesse sapone; più in là riflette l’azzurro del cielo”.
A Saint-Remy van Gogh lavora anche sul soggetto dell’autoritratto. “Si dice – e io lo credo volentieri – che sia difficile conoscere se stessi, ma non è neppure facile dipingere se stessi. Così io attualmente lavoro a due miei ritratti – in mancanza di altri modelli – perché è tempo che faccia qualche figura. Uno l’ho iniziato il primo giorno che mi sono alzato, ero magro, pallido come un diavolo. È azzurro-viola scuro e la testa biancastra con capelli gialli, dunque un effetto di colore. Ma poi ne ho cominciato un altro di tre quarti su fondo chiaro”.

Bibliografia
Paul Gauguin, Vincent e Theo van Gogh, Sarà sempre amicizia tra noi, Milano 2002
Vincent van Gogh, 150 lettere a cura di Marco Goldin, Linea d’Ombra 2012
Druick e Zegers, van Gogh e Gaugin Lo studio del Sud, Milano 2002
E. H. Gombrich, La storia dell’arte Milano 1998
Provenza La guida verde Michelin, Milano 2008

Francia – In Provenza sulle orme di van Gogh e Cézanne

Francia – In Provenza sulle tracce di Vincent van Gogh
Francia – In Provenza nei paesaggi cari a Paul Cézanne
Francia – Aix, la città “ingrata” di Paul Cézanne

Coniugare la Provenza, una delle più belle regioni di Francia, con l’arte di due pittori che più di ogni altro hanno celebrato le sue bellezze naturali è stato il tema di una settimana di viaggio. Abbiamo percorso due itinerari: uno sulle orme di Cézanne nella regione di Aix e l’altro sulle tracce di van Gogh tra Arles e Saint-Rémy attraversando le Alpilles e passando per il romantico villaggio di Baux. La preparazione del viaggio mi ha consentito di riscoprire le lettere in cui Vincent van Gogh esprimeva al fratello Theo e ai suoi familiari e amici tutte le sue speranze. “La corrispondenza di questo pittore umile e quasi autodidatta – come scrive Ernst H. Gombrich nella sua “Storia dell’arte” (Milano 1998) – ignaro della celebrità che lo attendeva, è fra le più commoventi e interessanti di ogni letteratura”. Queste sue lettere, che cito ampiamente nell’itinerario, testimoniano della sua inconsapevolezza di ciò che stava diventando per l’umanità intera: uno dei più grandi pittori di tutti i tempi e forse il più amato perché “bramava un’arte scevra di cerebralismi – è ancora Gombrich che parla – che non richiamasse soltanto l’attenzione dei ricchi intenditori, ma desse gioia e consolazione a ogni creatura umana”. “Io come pittore – scriveva sconsolato van Gogh nel maggio del 1889 al fratello Theo – non esprimerò mai niente di importante”. Squattrinato, doveva risparmiare anche sull’uso dei colori. Sempre al fratello confidava: “se avessi più denaro ne spenderei di più per fare colorazioni molto ricche”. E più tardi si interrogava: “mi sembra una follia fare pittura che tanto costa e che non fa guadagnare niente, neppure rimborsa le spese. Mi sembra una cosa del tutto irragionevole”. Sulla strada di ritorno dalla Provenza, con la tristezza nel cuore dopo aver letto queste confessioni, ci siamo fermati a Genova, dove la scorsa primavera si teneva una grande mostra dedicata a van Gogh e a Gauguin. Per riuscire a entrare abbiamo dovuto attendere in coda un’ora e mezza e le sale erano affollatissime. Per la prima volta in vita mia sono rimasto in coda quasi con piacere, perché mi sembrava di rendere omaggio alla sfortunata esistenza di quel genio della pittura che offre tante emozioni a un pubblico così vasto. Come avrei voluto, mentre attendevo di entrare, che Vincent fosse lì a vedere quanto la gente di ogni estrazione sociale lo ama! Seguendo la Provenza di Cézanne e di van Gogh si ha anche occasione di visitare alcuni tra i luoghi turistici più interessanti della regione. Aix, addossata alla montagna di Sainte-Victoire, la cui aspra bellezza ha ispirato alcune delle migliori opere di Cézanne, si presenta con le nobili facciate del cours Mirabeau e con un’atmosfera rilassata e “charmante” tipica delle città della Francia meridionale. La regione compresa tra Arles e la graziosa Saint-Rémy è pure ricca di spunti interessanti, ad iniziare dalle Alpilles, piccole alpi in miniatura le cui cime non superano i 700 metri di altezza. Les Baux-de-Provence, con il castello in rovina e le case disabitate, poggia su uno sperone roccioso che appartiene a questa suggestiva catena montagnosa. Per lunghi secoli questa fortezza fu l’inespugnabile sede di potenti signorie feudali. Oggi è un luogo di visita gettonatissimo. Pure immersa nello spettacolare quadro delle rocciose Alpilles la città romana di Glanum, con le sue rovine considerate tra le meglio conservate della Roma antica. Altri importanti monumenti di quest’epoca sono l’arena, il teatro antico e la necropoli che si trovano nella magica Arles, dove van Gogh ebbe il suo primo impatto con il sud della Francia.

In Provenza nei paesaggi cari a Paul Cézanne

Francia – Aix, la città “ingrata” di Paul Cézanne
Francia – In Provenza sulle orme di van Gogh e Cézanne
Francia – In Provenza sulle tracce di Vincent van Gogh

L’artista era attratto soprattutto dalla natura e dai paesaggi provenzali, molti dei quali sono rimasti quasi intatti rispetto all’epoca del grande maestro, oggi universalmente riconosciuto come il pittore della pittura moderna.

Goethe sosteneva che se si vuole veramente conoscere un artista bisogna visitare i luoghi in cui ha vissuto. Ad indurmi a programmare un viaggio sulle orme di Cézanne nella sua Provenza e nella sua città natale di Aix è però stato il collega Rudy Chiappini (ex responsabile culturale a Locarno e Lugano) autore di una stimolante esposizione, nella prestigiosa sede di Palazzo Reale, dedicata dalla città di Milano al maestro francese. La moderna audioguida di quella mostra, sfruttando la mutimedialità, mostrava infatti accanto alle opere lo splendido paesaggio del sud della Francia.
Come scrive Denis Coutagne, coautore della mostra di Milano assieme a Chiappini, “Cézanne, al pari di Courbet, sa di poter dipingere solo i luoghi che ha percorso con i propri piedi. Ha bisogno di conoscere l’odore della terra, il calore delle rocce, di sentire il vento tra i pini”. Il maestro amava moltissimo la sua Provenza e sentiva di appartenere a quei paesaggi penetranti: “Ci sarebbero dei tesori da svelare in questo paese – scriveva a un amico nel 1886 – che non hanno ancora trovato un interprete all’altezza delle ricchezze che offre”. E pochi mesi prima di morire confessava con amarezza: “Non riesco a raggiungere l’intensità che si dispiega davanti ai miei sensi. Non ho la ricca magnificenza dei colori che anima la natura”.
Cézanne con la sua città natale ha sempre avuto un rapporto molto difficile, perché non è mai stato capito e apprezzato dai suoi concittadini se non in tempi relativamente recenti. Infatti Aix non compare mai sui suoi quadri, così come le sue opere esposte in questa città si contano sulle dita di una mano. D’altra parte l’artista era attratto soprattutto dalla natura e dai paesaggi provenzali, molti dei quali sono rimasti quasi intatti rispetto all’epoca del maestro. L’itinerario che abbiamo percorso parte inevitabilmente dalla città, dove Cézanne è nato e ha vissuto. Ci si sposta quindi nella campagna alla ricerca dei soggetti delle sue opere: la montagna Sainte-Victoire, le cave di Bibémus, la residenza estiva di Jas de Bouffon, il suo ultimo atélier ai bordi della città, la valle dell’Arc.

Casa, scuola e famiglia
Nel 1904, due anni prima della morte di Cézanne, il suo allievo Emile Bernard arriva in treno a Aix per incontrare il maestro senza conoscere il suo indirizzo. Chiede per le strade dove abita il pittore e mostra ai passanti persino una sua fotografia, ma nessuno lo conosce. Eppure a Parigi, Bruxelles e Berlino il suo nome cominciava a essere noto, soprattutto tra le giovani generazioni di pittori che riconoscevano in lui un innovatore. Nel corso degli ultimi decenni Aix ha finalmente scoperto il talento del suo concittadino. Oggi, partendo dall’ufficio turistico, è indicato un percorso a piedi illustrato da un prospetto e segnalato sul suolo cittadino con dadi in metallo, che permette di ripercorrere le tappe principali della sua vita: la casa in cui è nato al numero 23 di rue de l’Opera, la chiesa della Sainte-Madeleine dove è stato battezzato, il negozio del padre sul Cours Mirabeau con sopra l’abitazione della famiglia, il collegio Bourbon dove è nata l’amicizia con Emile Zola, il Musée Granet che ha sempre rifiutato le sue opere. Tutti luoghi che hanno fortemente indirizzato la vita di Cézanne.
Il padre Louis-Auguste era una persona molto ambiziosa che apparteneva a una famiglia di immigrati italiani (originaria di Cesana Torinese) dediti al commercio, giunta ad Aix quattordici anni prima della nascita di Paul. Qui Luois-Auguste apre una piccola fabbrica di cappelli di feltro in cui lavora come operaia Anne-Elisabeth Honorine Aubert, madre del pittore. Quando Paul ha nove anni, il padre, uomo pragmatico e autoritario, rileva una banca in fallimento assieme a un socio. Inizia così per la famiglia un periodo di prosperità finanziaria, che permetterà a Cézanne di dedicarsi per tutta la vita alla pittura senza avere l’assillo di guadagnarsi da vivere. Il denaro di famiglia gli darà questa grande libertà che si rivelerà fondamentale per la sua opera, perché gli permetterà di non piegarsi a compromessi commerciali.
La famiglia Cézanne, considerata di nuovi ricchi dall’aristocratica Aix, non è amata né apprezzata in città. D’altra parte il giovane Paul non si conforma allo status che la sua condizione economica imporrebbe e assume atteggiamenti provocatori, come farà per tutta la vita anche nella sua attività artistica. Henri Pontier, direttore del museo Granet, disprezza la sua arte a tal punto da affermare che finché gli acquisti li farà lui nessun quadro di Cézanne entrerà mai a far parte della collezione. Una posizione condivisa dall’establishment artistico di allora, ostile all’opera innovativa e rivoluzionaria del maestro, considerato il padre della pittura moderna. Cézanne rimarrà fedele alle sue convinzioni per tutta la vita, anche nei momenti più difficili, ma soffrirà sempre per questo atteggiamento di chiusura nei suoi confronti. Si narra addirittura che uno degli ultimi pensieri prima di morire andò proprio a quel Henri Pontier, che tanto aveva osteggiato la sua arte.
Un’altra vittima della chiusura mentale della Aix di inizio Ottocento fu Emile Zola, uno dei più noti e amati scrittori francesi del XIX secolo. Anch’egli di origini italiane giunge in città con il padre ingegnere che aveva progettato una diga. I compagni di classe al collège Bourbon lo escludono salvo il giovane Paul, con il quale nascerà un’amicizia fraterna, che durerà trent’anni fino a quando uscirà il romanzo “L’Oeuvre”. È la storia di un pittore incapace di disciplinare il suo talento, che finisce per suicidarsi davanti a un dipinto che non riesce a portare a termine. Cézanne rimane profondamente ferito dal pensiero che il suo migliore amico lo consideri un genio abortito e rompe la relazione.

Dipingere la natura nella natura
“Mio caro Emile – scrive all’amico Bernard nel 1866 – ogni quadro realizzato all’interno, in studio, non varrà mai quello fatto all’aperto. Dipingendo all’aperto il contrasto tra le figure e gli sfondi è sorprendente, e il paesaggio è magnifico. Ci sono cose veramente superbe, bisogna che mi decida a lavorare esclusivamente all’aperto”.
La campagna provenzale attorno alla città di Aix rimane di grande bellezza. La residenza estiva della famiglia Cézanne – Jas de Buffan – sorge a due chilometri dal centro e oggi fa ormai parte dell’agglomerato urbano. Varcando il cancello della proprietà, che anticamente apparteneva al governatore della Provenza, e imboccando il lungo viale di platani ci si immerge però in un altro mondo, dove il paesaggio cézanniano è stato salvaguardato. Fu questo il primo studio dell’artista, un luogo magico dove ha dipinto per quarant’anni. I personaggi dei famosi quadri dedicati ai giocatori di carte erano i contadini di questa tenuta.
A una decina di chilometri dalla città si trova un luogo dove il tempo sembra essersi fermato. Si tratta delle cave di Bibémus, che hanno ispirato al maestro alcuni dei suoi quadri più suggestivi con le rocce color ocra che contrastano il verde della vegetazione e l’azzurro del cielo. Erano state scoperte dai romani. Dal XVI al XVIII secolo le pietre erano poi servite per costruire i palazzi signorili di Aix. Quando Cézanne veniva qui a dipingere, tra il 1890 e il 1904, il luogo era ormai abbandonato e lasciato in preda alla natura. Sebbene l’intervento umano sia pesante, perché la montagna è tagliata a strati, quei paesaggi assomigliano a un quadro astratto. L’ambiente suscita forti emozioni, che il maestro ha saputo interpretare nelle sue tele in maniera magistrale.
Torniamo ad Aix per raggiungere l’atélier dei “Lauves”, l’ultimo del pittore, costruito dopo aver venduto la tenuta di Jas de Buffan in seguito alla morte della madre. Tutto è intatto: gli oggetti, i cavalletti, le pareti grigie. Sembra che l’artista l’abbia lasciato da poco. È invece passato oltre un secolo. Anche qui la città si è espansa, ma il luogo non è stato compromesso. Vi si può giungere a piedi, come faceva Cézanne, in quindici minuti dal centro città. E da qui, proseguendo lungo la collina oggi densamente edificata, in un altro quarto d’ora si arriva su un promontorio – les Marguérites – dove il maestro si recava con il cavalletto in spalla per dipingere la montagna magica di Sainte-Victorie. La prospettiva è la stessa di allora. Gasquet, autore di una biografia del maestro, presta a Cézanne parole spesso riprese tanto dai critici quanto dal pittore stesso: “Osservate questa Sainte-Victoire. Che impeto, che sete imperiosa di sole, e che malinconia, la sera, quando tutta questa pesantezza si placa… Questi blocchi erano di fuoco. C’è ancora del fuoco in essi”.
Una piacevole gita in automobile, passando per la valle dell’Arc tanto cara a Cézanne, permette di raggiungere la base della montagna per averne una prospettiva diversa, mai dipinta dall’artista. Se si prosegue girandole attorno, sul versante opposto, si trova il luogo dove Pablo Picasso ha chiesto di essere seppellito, dopo avere acquistato una vasta proprietà che si estende lungo le pendici della Sainte-Victoire: un gesto di affetto e di riconoscenza per il suo grande maestro con cui non si è mai confrontato dipingendo la sua montagna magica.

Bibliografia
Paul Cézanne Les Ateliers du Midi, Milano 2012
Flaminio Gualdoni, Cézanne Milano 2011
Émile Bernard, Mi ricordo Cézanne Milano 2011
Les sites de CézanneAix en Provence 2011
Ernst Gombrich, La storia dell’arte Milano 1998
Provenza La guida verde Michelin, Milano 2008

Francia – Aix, la città “ingrata” di Paul Cézanne

Francia – In Provenza nei paesaggi cari a Paul Cézanne
Francia – In Provenza sulle orme di van Gogh e Cézanne
Francia – In Provenza sulle tracce di Vincent van Gogh

Più che un pittore Cézanne era la pittura stessa divenuta vita. Non c’era un istante in cui egli vivesse al di fuori di essa: era come se, tra le dita, egli tenesse sempre il suo pennello. A tavola, si fermava ogni momento per studiare le nostre figure in rapporto agli effetti di luce e ombra; ogni piatto, ogni frutto, ogni bicchiere, qualsiasi oggetto eccitavano i suoi commenti, la sua riflessione. L’indice puntato tra gli occhi, mormorava: Ecco così ho una netta visione dei piani”. Questa istantanea è contenuta nell’affettuoso libretto “Mi ricordo Cézanne” (Skira 2011) scritto dal suo allievo Emile Bernard, dopo aver trascorso alcuni mesi assieme a lui a Aix-en-Provence. “Ho giurato di morire dipingendo – scriveva Cézanne all’amico Bernard il 21 settembre 1906 – piuttosto d’abbandonarmi all’impotenza avvilente che minaccia i vecchi. Vittime delle passioni umilianti dei sensi”. Meno di un mese più tardi, sorpreso da un temporale mentre dipingeva all’aperto veniva colto da una congestione. La sua salute già malferma non resistette. Il 20 ottobre, in una lettera al figlio del maestro, la sorella di Cézanne riassumeva drammaticamente la situazione: “Tuo padre si è ammalato lunedì… È rimasto fuori sotto la pioggia per parecchie ore; l’hanno condotto a casa sul carro di un lavandaio e due uomini hanno dovuto metterlo a letto. L’indomani mattina prestissimo è andato in giardino a lavorare a un ritratto di Vallier, sotto un tiglio: ne è venuto via moribondo”. Il giorno seguente moriva.

La figura e l’arte di Cézanne erano state proposte in modo stimolante in una recente mostra, di cui avevo riferito in questa rubrica, realizzata a Palazzo Reale a Milano e curata dal ticinese Rudy Chiappini. Nell’esposizione il visitatore era accompagnato da un’audioguida multimediale che presentava i luoghi dipinti dall’artista. Un’iniziativa che invitava a visitare quei siti della Provenza. Quell’invito mia moglie ed io lo abbiamo raccolto. Approfondendo la figura di questo grande precursore dell’arte moderna, fa riflettere e amareggia l’incomprensione della cultura dell’Ottocento nei confronti della sua opera: le sue tele furono infatti sempre rifiutate ai concorsi ufficiali. Atteggiamento che andava a rafforzare un già esagerato spirito autocritico del maestro. Un mese prima di morire scriveva, sempre a Bernard: “Vivo in uno stato di malessere diffuso. Tale stato durerà fino a quando le mie ricerche non saranno arrivate in porto… La mia costante preoccupazione è per la meta da raggiungere. Lavoro sempre davanti alla natura e mi sembra di fare lenti progressi”. Un anno prima al critico d’arte Roger Marx aveva scritto: “La mia età e le mie condizioni non mi permetteranno di realizzare il sogno d’arte che ho inseguito per tutta la vita. Ma sarò eternamente riconoscente al pubblico d’intelligenti amatori che ha avuto – al di là delle mie esitazioni – l’intuizione di ciò che ho voluto tentare per rinnovare la mia arte”.

Paul Cézanne è oggi universalmente considerato il padre della pittura moderna, colui che ha saputo sintetizzare la tradizione in forme geometriche e allusive, aprendo la strada al cubismo e alle altre avanguardie. Nonostante le frequentazioni con gli intellettuali e gli artisti parigini, ha condotto una ricerca personale e in qualche modo isolata approdando tuttavia a soluzioni che saranno imprescindibili per l’intero Novecento pittorico. Come scrive Ernst H. Gombrich nella sua “Storia dell’arte” (Milano 1998) “non stupisce che Cézanne giungesse spesso sull’orlo della disperazione e che lavorasse incessantemente senza mai interrompere gli esperimenti. Il vero miracolo è che abbia potuto ottenere nei suoi quadri un risultato apparentemente impossibile”. Nell’arte è così, osserva ancora Gombrich, “a un tratto l’equilibrio si produce e nessuno sa come e perché”. E conclude: “Cézanne aveva deciso di non accettare per dato nessun metodo pittorico tradizionale, ha voluto ricominciare daccapo, come se non fosse esistita pittura prima di lui”.

Laos – La sua linfa vitale è il fiume Mekong

Laos – Il Laos “no stress” tra passato e presente
Cambogia – L’estasi davanti ai templi di Angkor
Cambogia – Un angelo svizzero medico in Cambogia

Un itinerario sorprendente che permette la scoperta del Paese asiatico navigando il suo fiume storico da Huay Xai, al confine con la Thailandia, fino a Luang Prabang, la graziosa antica capitale protetta dall’Unesco e prediletta dai turisti.

Il fiume Mekong ha costituito per millenni la linfa vitale del Laos, uno dei paesi più poveri al mondo, dove l’80 per cento degli abitanti vive di agricoltura. Ancora oggi circa 60 milioni di persone dipendono dalle risorse delle sue acque e da quelle dei suoi affluenti. Questo fiume, che nasce in Tibet e attraversa Cina, Birmania, Thailandia, Cambogia e Vietnam, ha profondamente inciso sulla storia del Laos, al punto che quasi tutto il paese si è sviluppato lungo le sue rive. Per questo, il nostro itinerario realizzato da Kel 12, prevede la scoperta del Laos navigando il suo fiume storico, laddove è possibile: da Huay Xai, al confine con la Thailandia, fino a Luang Prabang, la graziosa cittadina protetta dall’Unesco e prediletta dai turisti. Oltre non si può navigare a causa di ripide e cascate. Proseguiremo pertanto verso la capitale Vientiane in aereo. Il nostro viaggio continuerà quindi in Cambogia alla scoperta degli affascinanti templi di Angkor, immersi nella foresta e abbracciati dalle magiche radici dei suoi alberi.

La grande madre
Il nostro viaggio inizia da Milano-Malpensa, dove un volo diretto Thai airways ci porta a Bangkok, da cui si riparte per Chiang Rai nel nord della Thailandia. Da qui in un’ora di pulmino si raggiunge Chieng Khong, un porto fluviale considerato “la porta dell’Indocina”. Il Mekong, la “Madre di tutti i fiumi”, che segna il confine tra l’antico impero siamese e il Laos, è davanti a noi. Il nostro viaggio entra nel vivo. Un’imbarcazione ci attende per attraversare il fiume. Prima di raggiungerla passiamo sotto un arco di dubbio gusto, considerato appunto “la porta dell’Indocina”. Giunti sull’altra sponda, a Huey Xai, espletiamo sul posto le pratiche per il visto e ci incamminiamo verso il modesto albergo dove passeremo la notte, ospitato in un’antica casa coloniale francese.
Prima di cena visitiamo un tranquillo villaggio di etnia Lenten, che si affaccia sul Mekong a una trentina di chilometri da dove alloggiamo. Le abitazioni sono plurifamiliari con tetti in foglie di palma e bambù, come tutti gli altri villaggi in cui sosteremo nei giorni seguenti lungo il Mekong. Siamo nel cosiddetto Triangolo d’oro, noto per la coltivazione del papavero da oppio. Nel villaggio in cui ci troviamo sembra che lo coltivino non per commerciarlo, ma solo per consumarlo. Le donne indossano vestiti blu e neri, non hanno sopracciglia (vengono depilate all’età di 15 anni) e nei capelli lisci portano una moneta d’argento. L’atmosfera è tranquilla. Gli uomini giocano alle pétanque: il gioco delle bocce che i Francesi hanno introdotto durante la loro dominazione (1893-1953).
Rientriamo a Huey Xai. La via principale è un susseguirsi di guesthouse, negozi e agenzie di viaggio. Anche qui l’atmosfera è rilassata e la passeggiata piacevole.
Il mattino seguente una lunghissima barca in legno ci aspetta per una crociera che durerà due giorni. La nostra meta è Luang Prabang, l’antica capitale del Laos, che dista circa 300 chilometri. Per la notte faremo tappa a Pakbeng in un grazioso resort che si affaccia sulle rive del Mekong.
La navigazione lungo il fiume è piacevole. Il nostro barcone scivola sull’acqua a una velocità media di 20 km/h aiutato dalla corrente del fiume che a tratti è intensa. Siamo nel mese di febbraio e l’acqua è bassa. Sulle rive si sono pertanto create improvvisate spiaggette di sabbia bianchissima, simile a quella del mare. La foresta incombe a pochi metri. Ma per lunghi tratti le sponde sono rocciose, con forme appuntite. Il fiume è molto selvaggio. I rari villaggi si affacciano sulle acque, a volte nascosti dalla folta vegetazione. Si intuisce la loro esistenza dalle barche ormeggiate lungo le rive, coltivate a patate, e dall’animazione: bimbi che giocano, donne che lavano i panni, altre che setacciano la sabbia cercando povere pagliuzze d’oro, uomini che pescano pesci o alghe, animali che si abbeverano, buoi di fiume che si immergono. Il Mekong per tutta questa gente è una fonte di vita: fornisce cibo e acqua per irrigare i terreni e rappresenta la via di comunicazione principale. In alcuni villaggi, dove si fermano i barconi dei turisti, le donne tessono la seta per arrotondare le scarse entrate.
A un paio d’ore da Luang Prabang un’imponente parete rocciosa si erge sulla riva destra del fiume. Qui, nelle grotte di Pak Ou, che si aprono in alto, si trova un commovente e suggestivo luogo di culto, caratterizzato dalla semplicità della fede popolare. Sotto la volta, nelle sacre caverne, è ospitata un’innumerevole quantità di statuette, alcune povere e grezze, offerte dalle popolazioni che risiedono lungo il fiume e nelle aspre montagne che lo costeggiano.

Un magico equilibrio
Il colpo d’occhio che ci offriva – scriveva all’inizio del secolo scorso l’esploratore Francis Garnier – era fra i più pittoreschi e animati … I tetti, l’uno accanto all’altro, si allineavano in file parallele lungo il fiume e serravano da ogni lato una montagna che si elevava come una cupola coperta di verde. Alla sommità della montagna un that o dagoba (monumenti religiosi ndr) slanciava la sua acuta cuspide sulla vegetazione, formando il tratto dominante del paesaggio”.
La città laotiana prediletta dai Francesi durante il protettorato e oggi la più amata dai turisti, dopo oltre un secolo da quando furono scritte queste parole, appare ancora così.
Una vera gioia per gli occhi, scriveva più o meno nello stesso periodo il diplomatico parigino Auguste Pavie. Con i suoi fiumi, la città e le montagne intorno, questo è indiscutibilmente il più bel posto del Laos”.
Le ville del periodo coloniale francese oggi sono state trasformate in alberghi o in eleganti negozi, ma lo spirito di questa cittadina, inserita nel 1995 dall’Unesco sulla lista del Patrimonio mondiale dell’Umanità, non è stato alterato. Sorge a 700 metri di quota, racchiusa da una cerchia di montagne, e propone un magico equilibrio tra il suo stupendo quadro ambientale e le opere d’arte che l’uomo ha creato per celebrare la profonda fede buddista, di cui si ha una testimonianza ogni mattina all’alba se ci si apposta su una delle vie principali. I monaci passano con la loro ciotola protesa a ricevere il cibo per la giornata e lunghe file di persone li attendono inginocchiate sui bordi della strada per protendere i loro doni. Al tramonto rimbombano invece i suoni dei tamburi che rammentano l’insegnamento del Budda e richiamano alla meditazione.
Luang Prabang ospita più di trenta monasteri. Ognuno con la sua particolarità. Sarebbe ingiusto e difficile stilarne una graduatoria, ma il più solenne è certamente Vat Xieng Thong, perché qui un tempo risiedeva il grande Venerabile, la guida spirituale di tutti i monaci. È anche uno dei più antichi della città – risale al XVI secolo – ed è stato risparmiato dal saccheggio avvenuto nel 1887 ad opera delle Bandiere Nere thailandesi, che distrussero tutti gli altri luoghi di culto.
Nel Palazzo reale adibito a museo si può ammirare il Pha Bang, una statua che rappresenta il simbolo di legittimazione buddista della monarchia laotiana e che ha dato il nome alla città. Curiosa celebrazione in uno stato in cui sopravvive una delle ultime dittature comuniste e dove la monarchia ha abdicato da ormai oltre 35 anni.
Prima di lasciare Luang Prabang vale la pena di visitare il variopinto mercato artigianale serale, che si svolge ogni giorno in centro città.

Vientiane, la capitale
Secondo gli autori della guida Lonely Planet dedicata al Laos, Vientiane “può fregiarsi del titolo di capitale più tranquilla di tutto il pianeta”. Percorrendola si incontrano numerosi stili architettonici che rammentano la sua animata storia: dal laotiano al thailandese, dal cinese all’americano, dal sovietico al francese. Ma lungo i larghi viali alberati spiccano soprattutto gli eleganti edifici coloniali francesi. Per non parlare di una goffa imitazione dell’Arco del trionfo parigino, che in città viene ironicamente chiamato “la pista verticale”, perché fu costruito con i soldi concessi dagli Americani per costruire un nuovo aeroporto. Nessun grattacielo sovrasta le pagode, più numerose degli edifici pubblici. Ci si può rendere conto dell’elevata devozione popolare entrando a caso in uno dei tanti monasteri per assistere a semplici e sincere cerimonie religiose, celebrate ad hoc per piccoli gruppi di fedeli, da giovani monaci.
La sera la gioventù si riversa sull’ombreggiata passeggiata lungo il Mekong e nelle piazzette esegue esercizi di ginnastica al ritmo di musica moderna. I turisti possono passeggiare senza timori per le vie della città e sul lungofiume, dove viene proposto un simpatico mercatino dell’artigianato.
Anche Vientiane, come Luang Prabang, è stata rasa al suolo dalla furia dei Siamesi (attuali Thailandesi) nel 1828. Tra i monasteri solo il Wat Si Saket è stato risparmiato dagli invasori, sembra per l’affinità architettonica con gli edifici del loro paese. La particolarità di questo monumento consiste nelle mura interne punteggiate da piccole nicchie che contengono migliaia di statuette del Budda.
Ma il monumento più importante della città e dell’intero Laos, simbolo della religione buddista e della sovranità del paese, è il Pha That Luang, le cui guglie dorate sono visibili da lontano e rappresentano l’orgoglio della nazione. Raffigura la metafora dell’elevazione umana, che passa dall’ignoranza all’illuminazione del buddismo, realizzata proponendo piattaforme quadrate sovrapposte e degradanti: la prima simboleggia la terra, le successive i petali di loto per giungere all’apice con il bocciolo del fiore sacro in forma allungata.

Itinerario
1° giorno
Milano-Bangkok
2° giorno
Bangkok-Chiang Rai-Chieng Khong-Huey Xai
3° giorno
Navigazione da Huey Xai a Pakbeng
4° giorno
Navigazione da Pakbeng a Luang Prabang
5° giorno
Luang Prabang
6° giorno
Luang Prabang-Vientiane
7° giorno
Vientiane-Phnom Penh
8° giorno
Phnom Penh-Sambor Prei Kuk-Siem Reap (Angkor)
9° giorno
Siem Reap (Angkor)
10° giorno
Siem Reap (Angkor)-Bangkok-Milano

Bibliografia
Laos Lonely Planet, Torino 2007
Laos Polaris, Firenze 2009

Cambogia – L’estasi davanti ai templi di Angkor

Cambogia – Un angelo svizzero medico in Cambogia
Laos – La sua linfa vitale è il fiume Mekong
Laos – Il Laos “no stress” tra passato e presente

Nei secolari e imponenti siti archeologici cambogiani è facile rimanere senza parole per la simbologia che esprimono, per l’eccezionale contesto naturale in cui si trovano e per l’armonia con la foresta che li ospita.

Potete aver visitato qualsiasi angolo del mondo, ma davanti ai templi di Angkor in Cambogia rimarrete estasiati. Per la loro imponenza, per la simbologia che esprimono, per l’eccezionale contesto naturale in cui si trovano, per l’armonia con la foresta che li ospita trasformatasi a sua volta in grande artista e architetto quando le radici dei suoi alberi abbracciano questi monumenti secolari, per i canti degli uccelli, per gli indimenticabili tramonti. Per poter vivere tutte queste emozioni vale la pena di recarsi all’alba sui siti archeologici, quando ancora non sono invasi dai turisti, taluni ahimé rumorosi. E non sottovalutate l’ampiezza del sito. Checché ne dicano le agenzie di viaggio dedicare un solo giorno ad Angkor è davvero troppo poco!
Visitando oggi la Cambogia (13,5 milioni di abitanti) non può non sorprendere il forte contrasto tra gli splendori del passato e la dura realtà del presente. L’orgoglio per i grandi fasti imperiali, dopo gli anni bui dei Khmer Rossi, è fortissimo e Angkor è diventata il simbolo dell’identità nazionale, per cui la si vede rappresentata ovunque: sulla bandiera, sulle lattine della birra nazionale, sulle sigarette, così come sulle insegne di molti alberghi.

Le testimonianze
C’era una torre d’oro, in cima alla quale dorme il re. Secondo gli abitanti di questo Paese, dentro questa torre vi è un Genio, dalla forma di serpente a nove teste, che è il vero signore di tutto il regno…”. Così descriveva Angkor nel 1296 il diplomatico cinese Chou Ta-Kuan. E pensare che a quei tempi l’impero khmer era già in fase di decadenza. Nei due secoli precedenti era arrivato a dominare quasi l’intera area dell’Indocina e nel 1285 era stato visitato da Marco Polo. “Sappiate – scriveva il mercante veneziano ne “Il Milione” – che ‘quel regno non si può maritare neuna bella donzella che non convegna che ‘l re la provi, e se li piace, sì la tiene, se no, sì la marita a qualche barone. E sì vi dico che negli anni Domini 1285, secondo ch’io Marco Polo vidi, quel re avea 326 figliuoli, tra maschi e fimine, chè ben n’a 150 da arme. In quel regno à molti elefanti, e legno aloe assai, e ànno molto del legno onde si fanno li calamari”, cioè l’ebano.

La storia
L’impero khmer non nacque certo di colpo o per miracolo, ma fu il punto di arrivo di una lunga serie di eventi. Ben prima del IX secolo, infatti, in questa zona esistevano già diversi regni alquanto potenti. A Sambor Prei Kuk, tra Phnon Penh e Angkor, si possono visitare le imponenti testimonianze monumentali immerse nella foresta dell’antica capitale di uno di questi regni, quello dei Chenla.
Ma è solo a partire dal IX secolo che accadde qualcosa di completamente nuovo, quando un sovrano di nome Jayavarman II (“varmann” significa protettore) fondò una nuova capitale nei pressi dell’attuale Angkor, si proclamò dio-re e creò un nuovo culto imperniato sull’adorazione del sovrano divinizzato. Nasceva così la dinastia che avrebbe portato alla costituzione del più grande impero che il Sud-est asiatico continentale abbia mai conosciuto, lasciando ai posteri quella straordinaria eredità costituita dai templi di Angkor. Un impero che affondava storicamente le sue radici nella cultura indiana, sia per quanto attiene alle pratiche religiose, sia all’organizzazione del regno. I cambogiani accolsero dapprima la religione induista per poi passare al buddismo. Nei monumenti di Angkor queste due religioni convivono una accanto all’altra.
La chiave di successo di questo impero fu legata alla capacità di sfruttare l’acqua edificando un sofisticato sistema idrico che permise agli antichi khmer di governare gli elementi naturali. Lo sviluppo del regno alternava momenti di grande prosperità e di unione ad altri di caos e di lotte interne. Gli antichi sovrani-divinità s’impegnarono uno dopo l’altro a costruire templi che superassero quelli dei loro predecessori per dimensioni, ornamenti e armonia simmetrica. Tutte queste opere sono giunte a noi, ad iniziare dall’Angkor Watt, considerato il più imponente edificio sacro al mondo. L’uomo che portò l’impero all’apice della sua gloria e introdusse la religione buddista nell’impero fu Jayavarman VII (regno 1181-1219), il più grande sovrano di Angkor, considerato una sorta di eroe nazionale, la cui immagine è oggi onnipresente in Cambogia. Fu lui l’artefice dell’edificazione della città sacra di Angkor Thom, una delle mete principali dei tre milioni di turisti che ogni anno visitano questi siti archelogici. La civiltà di Angkor gli sopravvisse per più di due secoli, ma dopo Jayavarman VII iniziò il declino: non venne più edificato alcun monumento in pietra ed è come se con lui si fosse esaurita la vena creatrice del popolo khmer. Sovrani sempre più inetti salirono al potere e trascurarono la manutenzione del sistema idrico che rendeva la terra fertile e l’agricoltura rigogliosa.

La visita
L’impero khmer durò oltre 600 anni, dall’801 al 1432 (invasione thai), ma ebbe soltanto quattro secoli di splendore. I templi tramandati fino ai nostri giorni risalgono infatti a un periodo che va dal IX al XII secolo. Abbandonati alla giungla per secoli furono riscoperti dai francesi nella metà dell’Ottocento e saccheggiati da eserciti e tombaroli. Considerati tra i più importanti siti archeologici al mondo, affascinano il visitatore per le imponenti dimensioni, per la qualità architettonica e per le splendide decorazioni (bassorilievi).
Le centinaia di templi tuttora esistenti non costituiscono però che lo scheletro sacro del vasto centro politico, religioso e sociale, perché si riteneva che soltanto gli dèi potessero dimorare in strutture di mattoni o in pietra. Attorno ad essi sorgevano abitazioni, edifici pubblici e palazzi costruiti in legno e ormai scomparsi. Si pensa che la capitale del regno avesse oltre un milione di abitanti, quando Londra non contava che 50 mila anime. Come dicevamo, le dimensioni sono imponenti. Angkor Wat era circondato da un fossato colmo d’acqua largo 190 metri che racchiudeva un gigantesco rettangolo di 1,5 per 1,3 chilometri di lato. Angkor Thom aveva dimensioni ancora più rilevanti: raggiungeva i 10 chilometri quadrati di superficie. Il fossato era largo 100 metri e circondava un muro di cinta alto 8 metri e lungo 12 chilometri. Gli edifici erano costruiti in arenaria proveniente da una cava lontana 50 chilometri. Le pietre venivano trasportate su enormi zattere via acqua. I monumenti svolgevano al tempo stesso funzione di tempio funerario, che ospitava le ceneri del re defunto, e di tempio di culto consacrato a Vishnu, la divinità hindu con la quale il sovrano si identificava. Le cittadelle rappresentavano una riproduzione in miniatura dell’universo e una sorta di luogo di transito attraverso il quale l’essere umano raggiungeva la dimora degli dèi.
Oltre ai monumenti citati, che sono i più importanti, se ne possono visitare molti altri nelle vicinanze. Particolarmente suggestiva la “cittadella delle donne”, costruita in arenaria rosa e nota per i suoi delicatissimi bassorilievi.

Phnon Penh
Conosciuta un tempo come la “perla dell’Asia” la sua fama è stata offuscata negli anni Settanta dalla triste ombra di una guerra civile particolarmente cruenta che ha causato oltre 2 milioni di morti. Tanti quanti sono oggi gli abitanti di questa città, completamente distrutta nel 1772 dai thailandesi e in seguito ricostruita. Oggi Phnon Penh, capitale della Cambogia sin dall’inizio del XV secolo, dopo la caduta dell’impero khmer, si presenta come una metropoli in transizione tra una certa nostalgia per il passato e il caos di una città moderna. L’impronta del periodo coloniale francese (1863-1954) è ancora molto presente, soprattutto nel centro città. A quell’epoca risalgono i due edifici di maggiore interesse turistico: il palazzo reale, costruito su ispirazione di quello di Bangkok, e il museo nazionale.
Il palazzo reale reinterpreta un’architettura tipica cambogiana. È balzato spesso alla ribalta della cronaca alla fine del XX secolo, in quanto sede di quel re Sihanouk, ultimo dio-re del paese, famoso in gioventù per le sue prodezze amatorie e personaggio dal passato politico camaleontico, che è riuscito a salvare la monarchia (oggi sul trono siede suo figlio Sihamoni) nonostante tutte le tempeste attraversate dal suo paese. Statista di livello internazionale, generale, presidente, regista cinematografico (ha realizzato una trentina di film) è amato e considerato il padre della nazione da molti cambogiani, “ma per altri è l’uomo che ha tradito alleandosi con i Khmer Rossi. Per molti versi – commentano gli autori della guida Lonely Planet – le sue contraddizioni corrispondono a quelle della Cambogia contemporanea”.
Il Museo Nazionale racchiude alcuni fra i più significativi e rimarchevoli tesori dell’arte khmer. La visita è un passo preliminare indispensabile per meglio comprendere e apprezzare sia l’arte figurativa di Angkor, caratterizzata da uno stupefacente realismo, sia quella del periodo precedente.

Itinerario
1° giorno
Milano-Bangkok
2° giorno
Bangkok-Chiang Rai-Chieng Khong-Huey Xai
3° giorno
Navigazione da Huey Xai a Pakbeng
4° giorno
Navigazione da Pakbeng a Luang Prabang
5° giorno
Luang Prabang
6° giorno
Luang Prabang-Vientiane
7° giorno
Vientiane-Phnom Penh
8° giorno
Phnom Penh-Sambor Prei Kuk-Siem Reap (Angkor)
9° giorno
Siem Reap (Angkor)
10° giorno
Siem Reap (Angkor)-Bangkok-Milano

Bibliografia
Cambogia Lonely Planet, Torino 2011
Cambogia Polaris, Firenze 2008
Vietnam-Cambogia Meridiani n. 145, Milano 2006
Cambogia Guide Ulysse Moizzi, Milano 2011
Angkor National Geographic, Torino 2006

Laos – Il Laos “no stress” tra passato e presente

Laos – La sua linfa vitale è il fiume Mekong
Cambogia – L’estasi davanti ai templi di Angkor
Cambogia – Un angelo svizzero medico in Cambogia

Il motto nazionale del Laos potrebbe essere “nessun problema”. Ad affermarlo sono Andrew Burke e Justine Vaisutis, autori della guida Lonely Planet dopo avere vissuto per mesi in questo Paese, sempre più amato dai giovani occidentali alternativi che partono in viaggio per lunghi periodi, con un pesante sacco in spalla e alla ricerca di nuove sensazioni. Ma anche il viaggiatore purtroppo frettoloso come l’autore di questa rubrica, arrivando in Laos percepisce questa atmosfera “no stress”. Un ambiente interpretato dai francesi, colonizzatori in Indocina, con questa espressione, forse razzista: “I vietnamiti piantano il riso, i cambogiani lo guardano germogliare e i laotiani lo ascoltano crescere”. Se i nostri giovani alternativi sono attratti da questo clima rilassato, d’altra parte, girando per le strade della tranquilla capitale Vientiane, si incontrano studenti che si comportano, vestono e si divertono come i loro coetanei alla moda nelle nostre metropoli. E il turismo non farà che accelerare questi mutamenti. Il Laos è considerato uno dei Paesi più poveri al mondo. Senza sbocchi sul mare, l’80 per cento dei suoi circa 7 milioni di abitanti vive ancora di agricoltura di sussistenza. Eppure il Paese è ricco di materie prime: di potassio, fondamentale per produrre fertilizzanti, di bauxite, usata per fabbricare l’alluminio, di minerali, di gomma, di pasta per la carta, di combustibili, di amido, di alberi industriali. Recentemente si stanno investendo ingenti capitali destinati alla costruzione di dighe per lo sfruttamento dell’energia idroelettrica. Le acque del Mekong, che per millenni hanno garantito un’economia di sussistenza a oltre 60 milioni di persone che vivono lungo il fiume in ben sei nazioni (Laos, Tailandia, Vietnam, Cambogia, Cina e Bimania), verranno quindi sempre più impiegate per produrre l’energia elettrica necessaria ad alimentare nuove attività industriali, con gravi conseguenze per l’ambiente e per le abitudini di vita. D’altraparte l’Indocina esce da un periodo storico difficilissimo, che, dopo quello della colonizzazione francese, ha visto gli Stati Uniti confrontarsi con i regimi comunisti locali appoggiati da Cina e Unione Sovietica. In Laos, dal 1975, è al potere un “regime democratico popolare”. Quando in quell’anno, prima Phnon Penh in Cambogia e in seguito Saigon in Vietnam, caddero nelle mani dei comunisti, nel Laos il re acconsentì ad abdicare dopo 650 anni di monarchia e venne creata una Repubblica Democratica Popolare, sul modello sovietico e vietnamita. Il 10 per cento della popolazione lasciò il Paese e si trasferì all’estero. Si trattava dell’esodo di gran parte della classe dirigente. Lo sviluppo del Laos subì così come conseguenza, almeno per una generazione, un forte rallentamento. Solo quattro anni dopo la statalizzazione di tutti i beni privati, il governo laotiano fece marcia indietro permettendo ai contadini di abbandonare le cooperative agricole e di tornare a coltivare la terra in proprio. Il Paese si apriva così all’economia di mercato e anche all’avvento di capitali stranieri. Nel frattempo, ai confini del Laos, in Cambogia dal ’75 al ’79 si era consumata una tragedia politica: il sanguinario governo dei Khmer Rossi, che voleva trasformare il Paese con la forza in una cooperativa agraria guidata dai contadini, fece 2 milioni di vittime secondo gli esperti della Yale University. Il governo comunista laotiano, oltre alla liberalizzazione dell’economia, tornò sui suoi passi iniziali anche per quanto concerneva la religione. In un primo tempo l’insegnamento buddista venne infatti bandito dalle scuole e si impedì ai fedeli di offrire cibo ai monaci. Ma dopo un solo anno il premier fece marcia indietro, giungendo persino nel 1992 a sostituire l’emblema della falce e del martello, che sormontava lo stemma nazionale, con l’effige del Pha That Luang, il monumento che sorge a Vientiane ed è simbolo allo stesso tempo della religione buddista e della sovranità laotiana.

Cambogia – Un angelo svizzero medico in Cambogia

Cambogia – Cambogia – L’estasi davanti ai templi di Angkor
Laos – Laos – La sua linfa vitale è il fiume Mekong
Laos – Il Laos “no stress” tra passato e presente

Quando la nostra guida cambogiana a Seam Reap, la città che custodisce le meraviglie di Angkor, ci ha mostrato l’ospedale pediatrico gestito dal medico elvetico Beat Richner mi sono sentito orgoglioso della mia nazionalità. Si dice che in questo istituto e in altri quattro che fanno parte della stessa organizzazione ogni settimana vengano strappati alla morte oltre 3 mila bimbi. Gli ospedali sono sovvenzionati dallo Stato, ma per la maggior parte sono sostenuti da donazioni estere, molte delle quali provenienti dal nostro Paese. Per finanziare la sua attività questo estroverso medico svizzero tiene ogni sabato sera un concerto. La sua grande passione è infatti il violoncello. Hobby che gli è valso il soprannome di Beatocello, unendo il suo nome di battesimo con quello del suo amato strumento musicale. Beat Richner era arrivato in Cambogia una prima volta nel 1974 come volontario, ma poi aveva dovuto lasciare il Paese per la presa del potere dei Khmer rossi, che con la loro dittatura sterminarono il 91 per cento dei medici cambogiani. Dopo la caduta di questo governo del terrore, nel 1991 il re Sihanouk aveva proposto a Beatocello di tornare in Cambogia per ricostruire l’ospedale in cui aveva lavorato e che nel frattempo era andato distrutto. Il medico aveva accettato la nuova sfida. Nel giro di vent’anni gli istituti sanitari sono diventati cinque, dove viene curata la maggior parte dei bimbi del Paese. Tutti i servizi sono gratuiti e lo staff medico è quasi totalmente cambogiano. Una delle caratteristiche fondamentali dell’esperienza di Richner in Cambogia è il livello di alta qualità della medicina, considerato però eccessivo e “non sostenibile” da varie organizzazioni internazionali, secondo cui lo standard sanitario dovrebbe corrispondere alla realtà economica del Paese in cui si opera. “La nostra è una medicina corretta, non di lusso, obietta il pediatra elvetico. Cinque studi internazionali, effettuati in 100 diversi Paesi – prosegue – attestano che a livello mondiale i nostri ospedali hanno la migliore relazione tra costi e guarigione”. Nelle case di cura di Beatocello un’ospedalizzazione media dura 5 giorni e costa 240 dollari. Un’altra grande sfida per Richner è tenere lontana dai suoi centri la corruzione, una delle maggiori piaghe della Cambogia. Mi spiegava un cambogiano incontrato durante il viaggio che l’ “iniziazione” a questo cancro della società comincia sin dai primi anni di scuola. Siccome gli insegnanti sono pagati molto poco (meno di 100 dollari al mese) pretendono dagli allievi una piccola somma che permette loro di arrotondare lo stipendio. Lo stesso avviene per le cure mediche pubbliche, per essere curati bisogna foraggiare infermieri e dottori. Niente di tutto ciò nei cinque ospedali del pediatra elvetico, che si ispira agli stessi principi su cui si fondava quasi mille anni fa la politica sanitaria estremamente innovativa del più grande sovrano che abbia mai avuto la Cambogia: Jayavarman VII che governò il Paese dal 1181 al 1219, nel periodo di maggiore grandezza dell’impero Khmer (IX-XIII). “Tutte le creature – si legge nel suo ‘Editto degli ospedali’ – che sono immerse nell’oceano delle sofferenze, possa io trarle fuori attraverso la virtù di questa buona opera (gli ospedali gratuiti). Possano tutti i re della Cambogia, attaccati al bene, che proteggeranno la mia fondazione, raggiungere con la loro discendenza, le loro mogli, i loro mandarini, i loro amici, il soggiorno della liberazione in cui non vi è più malattia. Il sovrano è colui che soffre delle malattie dei suoi sudditi più che per le sue: infatti è il dolore pubblico che fa il dolore dei re e non il loro stesso dolore”. Una concezione della socialità che purtroppo non trova riscontro nella Cambogia dei nostri tempi.

Tenerife – Sulla cima di Spagna, ma alle Canarie

La Gomera

Un viaggio alla scoperta di una Tenerife discosta dai centri più rinomati. Nei suoi splendidi parchi nazionali, a cominciare dai paesaggi lunari del vulcano del Teide, la montagna più alta di Spagna, per poi scendere verso le scogliere selvagge ad est e ad ovest dell’isola.

Non dimenticate di mettere gli occhiali da sole se arrivate per la prima volta sulla punta sud occidentale di Tenerife. Ne avrete bisogno per proteggervi non solo dal sole accecante, ma anche per non restare abbagliati dalle insegne al neon, dalla sabbia bianca (importata dal Sahara) e dai turisti nordeuropei rossi come gamberi. Grandi resort pieni di piscine e con buffet all-you-can-eat hanno trasformato questa sonnolenta costa di pescatori in uno dei più importanti motori economici di Tenerife”. La guida Lonely Planet presenta così le spiagge più famose – Los Cristianos, Playa de las Americas e Adeje – della costa sud che hanno reso celebre l’isola nel mondo ed ogni anno ospitano 10 milioni di turisti. Senza nulla voler togliere a chi opta per una settimana di sole e mare per allontanarsi dal freddo dei nostri inverni, esiste anche un’altra Tenerife, molto meno nota, ma straordinaria, con paesaggi particolarmente suggestivi. È alla scoperta di questa Tenerife, discosta dai centri più rinomati e per fortuna non ancora invasa dal cemento armato degli enormi alberghi e apparthotel, che ho organizzato un viaggio l’autunno scorso. L’itinerario prevedeva anche la visita della vicina isola di La Gomera. Ne è nata una vacanza meravigliosa, al di là delle mie aspettative, che consiglio a chi ama immergersi in una natura incontaminata tra mare e montagne.

Il vulcano del Teide, un paesaggio lunare
Eravamo molto delusi quando dalla costa nord dell’isola guardavamo in alto la strada che attraversando la valle di Orotava sale verso il Teide, la montagna più alta di Spagna (3718 metri). Ma dato che avevamo prenotato per la notte al Parador de la Canada del Teide, a quota 2’200 metri, siamo saliti in ogni caso. Dopo aver attraversato una densissima nebbia, che non avremmo mai associato con il clima delle Canarie, tutt’a un tratto siamo sbucati in un paesaggio lunare con un cielo blu molto terso. Iniziava lo spettacolo. Davanti a noi sua maestà il vulcano, all’interno del quale gli indigeni dell’isola anticamente credevano vivesse il diavolo Guyota, che un bel giorno decise di uscire dalla sua tana sotterranea e vide il sole. Ingelosito dalla sua luce, lo rubò per nasconderlo nel suo covo, portando morte, distruzione e oscurità su tutta l’isola. I Guanci pregarono allora Chaman, il dio del sole, che sconfisse Guyota e riportò la luce. Questa leggenda è legata a un’eruzione che avvenne nel XIII secolo, quando una nube di cenere oscurò il sole e l’unica luce che gli abitanti potettero vedere per giorni è quella che veniva dalla bocca del vulcano. Ciò li indusse a credere che il sole fosse intrappolato al suo interno. Terminata l’eruzione, la cenere si depositò sul terreno e il sole tornò a splendere.
Il Parco Nazionale del Teide è di una bellezza mozzafiato. Le guide spiegano che qui si trova più dell’ottanta per cento delle formazioni vulcaniche del mondo, con terreni, rocce e pinnacoli di lava di ogni colore e forma. Il nostro primo impatto è stato ancora più incantevole perché era l’ora del tramonto, con il cielo che si illumina di tutte le tonalità dal giallo, all’arancione, al rosso fuoco riflettendo i suoi colori sulle rocce cangianti. Quando piomba la notte invece si gode lo spettacolo delle stelle.
Il mattino seguente ci siamo alzati di buonora per camminare lungo i sentieri che i Guanci prima e i pastori spagnoli poi percorrevano per portare al pascolo le capre. Si tratta delle “cañadas”, ossia i sette “sentieri dei greggi al pascolo”, detti anche “strettoie” o gole. Una gita pianeggiante di circa 17 chilometri ai piedi del vulcano, della durata di 5 ore, che collega i due punti di informazione del Parco (bisogna partire entro le 9 per poter rientrare con il bus delle ore 15). Lungo il tragitto il paesaggio muta in continuazione. Sulla destra si ergono montagne rocciose levigate e lavorate dal vento. Sulla sinistra domina imponente la vista del Teide, una montagna multicolore, dove si vedono ancora le colate rosso scuro dell’ultima eruzione avvenuta nel Settecento. La montagna è brulla, ma ospita un po’ di sterpaglia che arricchisce di qualche tonalità di verde una gamma che in autunno varia dal color sabbia, passando per tutte le gradazioni del marrone e terminare al rosso scuro delle colate di lava. Tra il sentiero che corre lungo le rocce e il Teide si estendono vasti campi lavici molto scuri, alcuni nero cupo con componenti luccicanti che brillano ai raggi del sole. Pochi gli arbusti. Alcuni verdi, la maggior parte bruni. Qua e la spiccano originali pennacchi simili a code di volpe, tipici della zona, e rocce dalle forme singolari. A tratti sembra di intravedere forme modellate da un artista, ma è tutta opera della natura. Quando giungiamo al termine del percorso siamo stanchi, ma anche delusi che lo spettacolo a cui abbiamo assistito sia terminato.
Questi sentieri sono deserti: in una giornata abbiamo incontrato solo due altri turisti. Non è così per salire in teleferica (made in Switzerland) sul Teide. Ogni anno trasporta 4 milioni di persone. Già per la prima corsa alle 9 di mattina si fa la coda. Arrivati in cima, la vetta è riservata a sole 150 persone al giorno: bisogna essere in possesso di un permesso speciale (che si può scaricare da internet). La salita richiede mezz’ora. Più ci si avvicina alla bocca del vulcano addormentato, più si sente un forte odore di zolfo. Dall’alto si può godere lo spettacolo della vallata vulcanica estendersi maestosamente sotto di noi e le isole di La Gomera, La Palma ed El Hierro emergere dall’Atlantico.

Da una punta dell’isola all’altra
Oltre al Parco Nazionale del Teide, Tenerife offre al viaggiatore altre due meraviglie: le punte ovest ed est dell’isola decretate “parchi rurali”, quindi zone protette.
Le spiagge di sabbia, che hanno reso celebre Tenerife a livello internazionale, terminano a Los Gigantes, una località turistica sulla costa ovest, a partire dalla quale inizia una zona scogliosa che si protrae fino alla splendida punta del Teno. Da Los Gigantes la strada sale verso Santiago del Teide, da cui prendendo a sinistra si entra in un paesaggio montagnoso a picco sul mare con splendidi panorami fino al villaggio di Masca, diventato molto turistico perché facilmente raggiungibile dalle spiagge più affollate. Da qui un percorso panoramico molto spettacolare porta a Buenavista, da cui si può raggiungere la Punta del Teno, oltrepassando cartelli indicatori che intimano di fermarsi, ma che nessuno osserva. Montagne solitarie si ergono come giganti verso l’interno, mentre le onde poderose dell’oceano si infrangono contro gli scuri scogli lavici e sulla nera spiaggia vulcanica. Solo un faro ricorda la presenza dell’uomo.
In un paio d’ore di automobile si può raggiungere la punta opposta di Tenerife, quella a est. Una comoda autostrada conduce fino all’antica capitale, San Cristobal de la Laguna. Viaggiando in direzione del Parque Rural di Anaga la strada inizia a salire e si attraversa una zona di boschi di lauro con splendidi “mirador” (punti panoramici) sulle vallate e sul mare. Vale la pena di ridiscendere fino a Benijo, dove il paesaggio marino ricco di scogli è di una bellezza indimenticabile. La costa in questa zona colpisce per la sua struttura frastagliata e per le bizzarre formazioni laviche che spuntano dal mare e vengono investite con violenza dalle impetuose onde dell’Oceano. La regione è ricca di sentieri, ma non sempre ben segnalati.

L’architettura canaria a Laguna e Orotava
Dal 1999 La Laguna è stata inserita dall’Unesco nell’elenco dei luoghi Patrimonio dell’Umanità. E in effetti il suo centro storico è un gioiello ricco di edifici pittoreschi, di sontuose ville, di strette viuzze. La sua struttura risale agli inizi del Cinquecento, quando gli spagnoli, dopo avere conquistato l’isola alla fine del secolo precedente, vi costituirono la capitale che in seguito fu adottata come modello urbanistico per molte altre città coloniali nelle Americhe.
Un’altra cittadina coloniale degna di nota è certamente Orotava, uno dei siti più apprezzabili in stile “canario” di tutto l’arcipelago, con i suoi palazzi dotati dei tipici balconi in legno. La cittadina è molto bella anche dall’alto. In particolare dal mirador dedicato al viaggiatore tedesco del Settecento Alexander von Humboldt, che si dice cadde in ginocchio sopraffatto dalla bellezza di questo paesaggio – oggi purtroppo molto costruito – affermando: “Devo confessare di non aver mai visto altrove un’immagine così armoniosa, varia e affascinante, caratterizzata da un alternarsi di verde e roccia”.

Bibliografia
Spagna del Sud La Guida Verde, Milano 2006
Isole Canarie Lonely Planet, Torino 2008
Spagna del Sud Touring Club It., Milano 2004
Canarie Le Guide Mondadori, Milano 2011
Canarie Traveller, Milano febbraio 2003
Attilio Gaudio, Canarie Milano 1991
Tenerife Low Cost, Milano 2008
Tenerife Ada Pocket, Modena 1993

La Gomera – L’isola di Cristoforo Colombo

Tenerife

Boschi incantati che ti danno l’impressione di entrare in una fiaba, valli lussureggianti, scogliere impenetrabili interrotte da piccole spiagge incontaminate, formazioni rocciose che sembrano enormi sculture.

Boschi incantati che ti danno l’impressione di entrare in una fiaba, valli lussureggianti, scogliere impenetrabili interrotte da piccole spiagge incontaminate, formazioni rocciose che sembrano enormi sculture prodotte dall’antica attività vulcanica, bianchi paesini molto pittoreschi, una storia legata alle grandi imprese di Cristoforo Colombo: la poco conosciuta isoletta La Gomera, appartenente all’arcipelago delle Canarie, è tutto questo! Qui il turismo dei grandi numeri non arriva, salvo in una spiaggia a sud, nella Valle del Gran Rey. Fino agli anni Cinquanta, quando venne inaugurato un piccolo molo che apriva la strada al trasporto in traghetto e al commercio, quest’isola era stata isolata dal mondo ed era praticamente autosufficiente. Oggi è stata riconosciuta patrimonio dell’umanità dall’Unesco per i suoi boschi magici, che fanno parte del Parco Nazionale de Garajonay, e per un particolare linguaggio fischiato, il “silbo”, grazie al quale gli abitanti comunicavano tra loro da una vallata all’altra. Si può partire da questi due riconoscimenti per descrivere le particolarità di questo piccolo paradiso immerso nelle acque dell’oceano Atlantico.
Iniziamo dal “silbo”, questo antico linguaggio più simile al modo di comunicare degli uccelli che a quello degli umani. In condizioni ideali i messaggi fischiati potevano essere uditi fino a 4 chilometri di distanza risparmiando agli isolani la fatica di andare su e giù per i ripidi pendii soltanto per portare un messaggio a un vicino. Nato probabilmente per segnalare pericoli, con il tempo il “silbo” si è sviluppato fino a diventare un vero e proprio linguaggio. È certamente stata la conformazione del paesaggio gomero ad aguzzare l’ingegno dei suoi abitanti per elaborare questo singolare modo di comunicare a distanza. Se si guarda infatti l’isola dall’alto appare come una fortezza impenetrabile con montagne al centro che degradano verso il mare proponendo ripide scogliere. Strade strettissime e serpeggianti corrono tra pareti rocciose e gole disseminate di bianchi villaggi aggrappati a dirupi apparentemente inaccessibili.
Anche le peculiarità del Parco Nazionale servono a spiegare l’esistenza di questa isola, dove Cristoforo Colombo fece scalo durante le sue quattro spedizioni prima di affrontare l’Oceano verso le Americhe. Cercava viveri, ma soprattutto acqua. Sì perché La Gomera è ricca d’acqua. Come mai? Gli alisei, quegli stessi venti che fecero veleggiare le caravelle di Colombo alla scoperta del Nuovo Continente, avvicinandosi all’isola incontrano l’ostacolo della montagna e salendo trovano aria più fredda che si condensa sotto forma di nebbia. Queste nuvole accarezzano le foreste di lauri di cui sono ricchi i boschi e provocano le condizioni ideali affinché sugli alberi si formino delle muffe, che ricoprono completamente i tronchi e i rami creando un’atmosfera magica. Grazie a queste muffe l’umidità viene catturata e trasformata in goccioline che penetrano delicatamente nel terreno e si trasformano in graziosi ruscelli.

Strade panoramiche a strapiombo sul mare
Il modo migliore per visitare La Gomera è certamente quello di percorrerla in auto e di fare tappa agli innumerevoli “miradores” per godersi panorami eccezionali. Per apprezzare l’isola ci vogliono almeno due giorni: uno dedicato al giro del suo territorio, un altro al Parco Nazionale. La Gomera è raggiungibile in aereo dai copoluoghi dell’arcipelago oppure con la nave in un’ora di navigazione dalla spiaggia di Los Cristianos a Tenerife. Offre uno splendido Parador con ottima cucina a prezzi contenuti (fa parte della catena di alberghi gestita dallo Stato spagnolo) e una magnifica vista sul mare.
L’escursione del giro dell’isola richiede un’intera giornata su strade molto agevoli, che portano dal mare alla montagna e viceversa nel giro di pochi minuti. Salendo si gioca a nascondino con le nuvole, poi, quando ci si avvicina al mare il sole torna a splendere come per incanto. I panorami sono da mozzafiato: sul mare, sulle ridenti vallate che scendono verso l’Oceano, sulle montagne brulle e su altre di un verde rigoglioso. A ogni curva lo scenario si modifica e diventa sempre più avvincente. È una gita che non si vorrebbe finisse mai, tanto sono spettacolari i paesaggi attraversati.
Ho girato tante isole, ma raramente ho trovato strade panoramiche tanto affascinanti. La Gomera è bella nel suo insieme, non offre villaggi o spiagge particolari, ma merita davvero di essere visitata. Anche per scoprire il suo Parco Nazionale. Camminare nel Parco è un’emozione. Attraversando i boschi di lauro sembra di inoltrarsi in un racconto di fantascienza. Le piante paiono non avere tronco, perché sono completamente ricoperte di muschio: in alcuni luoghi piatto, in altri rigonfio per cui ne raddoppia il diametro. Anche i rami vengono completamente ricoperti di verde, che in certi casi si trasforma in una sorta di barba ballonzolante. È difficile esprimere a parole le emozioni che si provano, così come nessuna foto riesce a descrivere il mistero di questi boschi. Per apprezzarne la magia bisogna viverli, percorrerli per ore lasciandosi condurre da Riccardo, che ne conosce gli angoli più suggestivi.
Se avrete fortuna potete incontrare Luis, un personaggio molto alternativo e uno dei pochi sull’isola in grado di interpretare il “silbo”, il linguaggio segreto di questi luoghi. Abbiamo incontrato Luis in un ristorante sulla graziosa piazzetta di Vallehermoso. Ci ha spiegato e dimostrato, sotto gli occhi dei turisti attoniti, la filosofia di quel modo di comunicare che lui ha appreso da suo nonno e che teme stia scomparendo nonostante sia protetto dall’Unesco. Mentre ci dirigevano verso l’auto parcheggiata ad alcune centinaia di metri ci accompagnava il suo saluto, interpretato fischiando in tutte le lingue.

Tutto ricorda Colombo
Nel capoluogo dell’isola, San Sebastian de La Gomera, tutto ricorda Cristoforo Colombo. Un piccolo museo nella Casa de la Aguada ripercorre le tappe della scoperta del Nuovo Mondo. Sopra il pozzo che si trova nel patio, dove secondo la tradizione Colombo si rifornì di acqua prima di affrontare l’Oceano, si legge la scritta: “Con quest’acqua fu battezzata l’America”. Nella graziosa chiesetta della Virgen de la Asuncion viene ricordato che Colombo e i suoi uomini si recarono a pregare prima di mettersi in viaggio. Poco distante sorge la Casa de Colon, costruita nel luogo in cui si suppone abbia alloggiato il celebre navigatore durante la sua permanenza sull’isola, che sembra non fosse dettata solo dalla necessità di imbarcare acqua e provviste, ma anche da una piccante storia sentimentale con Beatrice di Bobadilla. La bella moglie del crudele governatore spagnolo Hernan Peraza non fece girare la testa solo a Colombo, ma persino al re di Spagna Ferdinando il Cattolico, suscitando l’odio della regina Isabella.

Bibliografia
Spagna del Sud La Guida Verde, Milano 2006
Isole Canarie Lonely Planet, Torino 2008
Spagna del Sud Touring Club It., Milano 2004
Canarie Le Guide Mondadori, Milano 2011
Canarie Traveller, Milano febbraio 2003
Attilio Gaudio, Canarie Milano 1991