Il Far West – Nelle terre degli indiani d’America

Il Far West – Quando la storia è scolpita nella montagna
Il Far West – A Yellowstone, nel parco delle meraviglie
Il Far West – Nelle terre dell’emarginazione degli indiani del nord America
Il Far West – Nella cittadina di Buffalo Bill si rivive il grande sogno Usa

Sulle tracce dei cow boys, del generale Custer e di Toro Seduto, dei Sioux e degli Cheyenne. A Wounded Knee “dove morì il sogno di un popolo”. Nelle sterminate praterie segnate dai solchi lasciati dalle carrozze delle carovane dei pionieri.

Attraverso il mitico Far West. Quello delle sterminate praterie, punteggiate di mandrie di bovini sorvegliate dai cowboys. Quello delle lunghe carovane che emigravano da est a ovest, spinte dalla speranza verso un futuro migliore. Quello delle tribù indiane dei Sioux e degli Cheyenne, che convissero pacificamente con l’uomo bianco fino a quando i visi pallidi non minarono nel profondo la loro vita e le loro tradizioni distruggendo gli equilibri naturali che garantivano cibo e attività vitali. Quello delle epiche e tristi battaglie tra il Settimo Cavalleggeri del generale Custer e i pellerossa guidati da Cavallo Pazzo e Toro Seduto. Quello dei rodei, che costituiscono ancora oggi una delle principali attrazioni non solo turistiche.
È attraverso questo West, caratterizzato da paesaggi indimenticabili, che si sviluppa il nostro itinerario. Un percorso che intreccia pagine di storia degli Stati Uniti, a noi note perché narrate in capolavori cinematografici dedicati alla drammatica lotta tra poveri per la sopravvivenza: da una parte gli indiani diseredati del loro territorio e dall’altra centinaia di migliaia di coloni alla ricerca della terra promessa.
Il nostro viaggio inizia da Denver, capitale dello stato del Colorado, collegata con voli aerei diretti da Londra e da altre capitali europee. Come molte altre cittadine che visiteremo in seguito è stata fondata nella seconda metà dell’Ottocento sulla spinta della corsa all’oro. Oggi conta circa mezzo milione di abitanti ed è una delle otto città americane con squadre che militano in serie A nei quattro sport nazionali: baseball, basket, hockey e football. Durante l’annuale National Stock Show&Rodeo, uno dei maggiori spettacoli del genere, riesce a unire la tradizione del West ai tempi moderni. Denver è oggi un centro specializzato in servizi e alta tecnologia e, dopo Washington, è la seconda città americana con vocazione amministrativa. Il suo Civic Center ospita un campidoglio molto simile, sebbene in versione ridotta, a quello della capitale. Propone due interessantissimi musei che introducono alle tematiche storiche del nostro viaggio. Il Denver Art Museum ha due splendide sedi: una realizzata dall’italiano Giò Ponti, ispirata a una fortezza, ed un’altra, recentissima, di Daniel Libeskind, che interpreta un fiore in titanio, granito e vetro. Espongono straordinarie collezioni di oggetti dei nativi americani ed una mostra di opere d’arte dedicate al periodo della conquista del West. Il Denver History Museum presenta invece, sotto un profilo meno artistico ma più storico-didattico, la vita dei cowboy, degli indiani e dei colonizzatori.
Lasciamo la città il mattino di buon’ora, perché la tappa che ci attende è lunga e impegnativa, per dirigerci dapprima verso le montagne che hanno reso celebre lo stato del Colorado, noto per le sue rinomate stazioni di sport invernali. Prima di giungere ad Aspen, la località più in voga, svoltiamo a destra verso il Rocky Mountain National Park, attraversato da una strada panoramica (Trail Ridge Road) di circa 80 chilometri, che sale fino a 3700 metri e attraversa un paesaggio montano con 100 vette sopra i 3000 metri. La strada, intervallata da idilliaci laghetti alpini, che si possono godere dai numerosi View Points, scende poi ripida verso le estese pianure del West, dove si trova Fort Laramie: il nostro primo importante incontro con la storia. Sede del mitico Settimo Cavalleggeri del generale Custer, il forte si compone di una dozzina di costruzioni sopravvissute al tempo, dove si possono visitare le residenze dei comandanti, degli ufficiali e dei soldati: qui tutto è rimasto intatto, manca solo il sibilo della trombetta che chiamava i militi all’adunata.
A pochi chilometri dal Forte si visitano due altri luoghi suggestivi, che riconducono il visitatore alla seconda metà dell’Ottocento, quando su quei territori scorrevano lunghissime carovane di coloni dirette verso la terra promessa dell’Oregon: 400 mila persone, tra il 1841 e il 1869, si avventurarono da est a ovest. “Quando Dio creò l’uomo – scrisse un pioniere sul suo diario – sembrò avesse pensato di farlo ad est per lasciarlo andare a ovest”. Dove la roccia diventa collina è possibile vedere ancora le “Oregon Trail Ruts”, cioè i solchi scavati dalle migliaia di carri che transitarono in quel luogo. Poco distante, noto come “Register Cliff”, si possono osservare un centinaio di firme incise nella morbida roccia dai coloni in viaggio. Distante un’ottantina di chilometri verso est, a Scott’s Bluff, si sale su una montagna rocciosa da cui si gode una spettacolare vista sulle sterminate e brulle pianure attraversate dalle carovane. Il silenzio del luogo fa galoppare l’immaginazione.
Il quarto giorno del nostro intenso itinerario è quasi interamente dedicato al dramma della civiltà indiana. Ci dirigiamo verso la Pine Ridge Reservation, una delle più vaste riserve indiane degli Stati Uniti. Ed abbiamo l’impressione di entrare in un altro mondo: case abbandonate, auto scassate. Non ci vuole molto per rendersi conto, come scrivono le guide turistiche, che questa è una delle zone più arretrate degli Stati Uniti. Un chiaro segno che il problema dell’integrazione dei nativi americani, a distanza di un secolo e mezzo dalla conquista del West, non è ancora stato risolto. A pochi chilometri da Pine Ridge si visita il luogo in cui avvenne il massacro di Wounded Knee, che pose la parola fine alla conquista del West. Il 29 dicembre del 1890 il Settimo Cavalleggeri intercettò un gruppo di indiani in fuga dalla riserva e accampati in una valle. Intimò loro di consegnare le armi, ma durante un’ispezione partì accidentalmente un colpo dal fucile di un indiano e si scatenò il finimondo: 250 nativi americani, comprese donne e bambini, vennero massacrati dall’artiglieria appostata sulle colline.
Le parole finali di questa triste vicenda vennero scritte molti anni dopo da Alce Nero, il grande uomo sacro dei Sioux. “Non sapevo in quel momento che era la fine di tante cose. Quando guardo indietro, adesso, da questo alto monte della mia vecchiaia, vedo ancora le donne e i bambini massacrati, ammucchiati e sparsi lungo quel burrone serpeggiante. Nitidamente come li vidi con i miei occhi da giovane. E posso vedere che con loro morì un’altra cosa, laggiù, nella neve insanguinata, rimasta sepolta sotto la tempesta. Laggiù morì il sogno di un popolo. Era un bel sogno”.

Itinerario
1° giorno Locarno – Milano Malpensa – Denver
2° giorno Visita di Denver
3° giorno Denver – Grand Lake (164 km) / Parco – Torrington (279 km) / Torrington – Fort Laramie (32 km) / Fort Laramie – Scotts Bluff (84 km)
4° giorno Scotts Bluff – Pine Ridge – Wounded Knee Massacre

Per saperne di più
Usa ovest La Guida Verde Michelin, Milano 2010
Wyoming Edimar Editrice, Milano 1995

Il Far West – Nelle terre dell’emarginazione degli indiani del nord America

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Il Far West – Nella cittadina di Buffalo Bill si rivive il grande sogno Usa

La conquista del West da parte dei visi pallidi ai danni degli indiani, il lento scorrere delle carovane che si spostavano da est verso ovest attratte dalla speranza di una vita migliore, gli epici scontri tra la tribù dei Sioux e il Settimo cavalleggeri del generale Custer, la corsa all’oro tanto gravida di conseguenze, fanno da sfondo storico all’itinerario nel nord ovest degli Stati Uniti.
Due popoli, due culture, si sono affrontati e scontrati: da una parte guerrieri sobri e ascetici, scolpiti dal vento, figli dei monti e delle praterie, dall’altra l’avanzare del progresso, laico, borghese, mercantile, industriale e democratico, forgiato e scolpito nell’acciaio e animato dal carbone. Persero i pellerossa che concepivano una vita dipendente e sottomessa alla natura, ritmata dalle stagioni e da tradizioni secolari. Vinsero gli uomini bianchi, che volevano dominare e sfruttare il territorio: con ogni mezzo e ad ogni costo. Quando la ferrovia portò il progresso e l’ordine sociale venne imposto dai tribunali che applicavano le leggi dell’uomo bianco, gli ultimi guerrieri indiani furono rinchiusi nelle riserve. Riserve destinate ai nativi americani che esistono ancora oggi.
Quando ci si inoltra in questi territori si entra in un altro mondo: povero, caratterizzato da auto sgangherate, da abitazioni trasandate, da persone emarginate. Segno che a distanza di un secolo e mezzo da quel confronto impari, l’integrazione degli indiani nella civiltà americana non è compiuta.
I rapporti tra l’uomo bianco e i nativi americani per lungo tempo furono pacifici. Questo avvenne fino a quando i visi pallidi erano rappresentati da un numero contenuto di esploratori, “trapper” o “mountain man” (uomini sensibili alla natura come gli indiani), pacifici missionari (“black rober”, vesti nere), artisti in cerca di ispirazione. Ma quando il numero di emigranti iniziò ad aumentare a dismisura e, soprattutto, quando le terre sacre degli indiani furono invase da cacciatori di pellicce e da cercatori d’oro senza scrupoli, le relazioni amichevoli si trasformarono in ostilità; dopo il 1860 le tribù indiane iniziarono ad attaccare le carovane di pionieri che si dirigevano verso ovest. Era lo scontro tra due civiltà: una radicata da secoli nel territorio e profondamente attenta alle leggi della natura, l’altra preoccupata soprattutto di conseguire guadagni senza preoccuparsi della distruzione di quegli equilibri naturali che per secoli avevano garantito cibo e attività vitali agli indiani.
La svolta decisiva fu rappresentata dal “Gold Rush” (la corsa all’oro); il governo degli Stati Uniti, che in un primo tempo cercò di contenere l’aggressività dei cercatori d’oro, nel 1875 decise di voltare le spalle agli indiani rimangiandosi importanti promesse fatte. Questo portò alla vivace reazione dei pellerossa che decimarono il Settimo Cavalleggeri a Little Big Horn (1876) e alla successiva vendetta dell’uomo bianco, che culminò quattordici anni dopo nel massacro di Wounded Knee, dove, come scrisse più tardi il condottiero Alce Nero “morì il sogno di un popolo”.

Il Far West – Quando la storia è scolpita nella montagna

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Il Far West – Nella cittadina di Buffalo Bill si rivive il grande sogno Usa

Le “sacre” Black Hills, luogo simbolo dello scontro tra indiani e visi pallidi. Il Badlands National Park, con i suoi bizzarri pinnacoli, è una meraviglia della natura e forse la tappa più spettacolare del viaggio. I presidenti degli Stati Uniti e Cavallo Pazzo si affrontano, “immortalati” nella roccia.

Prosegue il nostro itinerario attraverso il mitico Far West, quello delle praterie sterminate, delle brulle pianure disseminate di bufali, dei territori abitati dalle tribù indiane minacciate dal progresso dell’uomo bianco, quello dei cercatori d’oro e delle loro squallide città, caratterizzate dai saloon e dai bordelli, quello dei giocatori d’azzardo, dei rodei e dei cow boy alla Buffalo Bill.
Ci inoltriamo nelle Black Hills, cuore autentico del Sud Dakota e luogo simbolo dello scontro tra pellerossa e visi pallidi. Questa terra, considerata luogo sacro e centro del mondo dai nativi americani, fu loro assegnata dal trattato di Laramie del 1868 con la garanzia che nessun uomo bianco l’avrebbe mai profanata. Ma solo 6 anni dopo, nel 1874, il governo di Washington non mantenne quella promessa e organizzò una spedizione condotta dal generale Custer, per esplorare le Black Hills. “Mi aspetto di visitare – scriveva Custer prima della partenza – una regione del paese non ancora vista da occhi umani ad eccezione degli indiani, che la descrivono come straboccante di selvaggina di ogni genere, ricca di interessi scientifici e di una bellezza insuperabile come scenario naturale”. Durante il suo viaggio il generale, oltre a tutto questo, scoprì anche la presenza di oro e la notizia rimbalzò immediatamente sulla stampa. Un giornale di Chicago scrisse: “Tutta la terra delle Black Hills è impregnata d’oro dalle radici d’erba in giù”. Questa informazione scatenò le brame dei cercatori del prezioso metallo, che si precipitarono in quelle terre tanto care agli indiani invadendone le dolci colline. Il governo americano dapprima cercò di scoraggiarli, ma nel 1875 rinunciò a far rispettare quanto promesso ai pellerossa nel trattato di Laramie. La vigorosa reazione indiana culminò nella battaglia di Little Big Horn, dove venne decimato il Settimo Cavalleggeri.
La parte più bella della regione è quella compresa nel “Custer State Park”, attraversato da due spettacolari strade panoramiche: Wild Loop Road (29 km) e Needles High Way Scenic Drive (23 km). Il paesaggio è caratterizzato da un altipiano intervallato da armoniose colline, dove pascolano placidamente numerosi bisonti, e da montagne rocciose composte di spettacolari guglie e pinnacoli. Oltre il Parco, le Black Hills giustificano il loro nome di “Colline nere” con una fitta vegetazione di boschi scuri. Uno dei panorami più idilliaci è certamente quello del Sylvan Lake situato nei pressi dell’ingresso nord del Parco.
Il nostro itinerario prosegue verso Badlands National Park, un’altra meraviglia paesaggistica: forse la più spettacolare di tutto il viaggio. Partendo dalla località Scenic si percorre dapprima la Sage Creek Road e quindi la Badlands Loop Road, dove le praterie lasciano spazio a scenografiche colline rocciose, che a seconda delle ore del giorno assumono i colori pastello di una variopinta tavolozza: varie tonalità di rosa e rosso, azzurrognolo, verderame, sabbie color castano, ossido di ferro arancione e cenere vulcanica bianca. Le forme di queste montagnette sono bizzarre: pinnacoli, guglie che sembrano spuntare come cactus dall’arido terreno, creste seghettate. E lo spettacolo si protrae per una sessantina di chilometri con numerosi View Points, dai quali partono passeggiate di ogni genere.
Il giorno seguente ci rituffiamo nella storia. Iniziamo da “Mount Rushmore National Park”, nelle Black Hills, dove batte il cuore dei patrioti a stelle e strisce. Dal 1927 al 1941 l’artista americano Gutzon Borglum, con l’aiuto di 400 minatori ed esperti di esplosivo, ha scolpito nella montagna i visi di quattro storici presidenti americani: George Washington, il primo inquilino della Casa Bianca, Thomas Jefferson, autore della Dichiarazione di indipendenza, Abraham Lincoln, che pose fine alla schiavitù e Theodore Roosevelt, promulgatore di riforme chiave di politica ambientale ed economica. Il luogo scelto per realizzare questa monumentale opera per celebrare lo stato americano non è davvero dei più appropriati se si pensa alla storia delle Black Hills e ai torti commessi da quello stesso stato nei confronti dei nativi americani. Per sottolinearlo, a mezz’ora di strada, “per far sapere all’uomo bianco che anche i pellerossa hanno i loro eroi”, nel 1948 i Sioux hanno incaricato l’artista di origine polacca Korczak Ziolkowski di scolpire, in un’altra montagna delle Black Hills, Cavallo Pazzo (il condottiero di Little Big Horn) in sella al suo cavallo con il dito puntato verso “la mia terra, dove sono sepolti i miei morti”. Ma se a Mount Rushmore la ‘scultura’ è stata realizzata in 14 anni, il “Crazy Horse Memorial” dei Sioux dopo 65 anni è riuscito a scolpire appena il volto del capo indiano, anche perché orgogliosamente non vengono accettati aiuti statali. Un chiaro segnale che il passato non è ancora stato dimenticato!
Nella vicina città di Rapid City, fondata come luogo base di approvvigionamento per i cercatori d’oro, si può visitare il modernissimo e molto didattico “Journey Museum”, dedicato alla vita delle tribù indiane delle Blck Hills e alla conquista del West, con una sezione sulla spedizione del generale Custer ed una sulla costruzione della ferrovia.
Proseguiamo verso il tipico villaggio di Deadwood, altra creazione del Gold Rush, ed alle sue porte, a Lead, ci fermiamo a un view point per osservare “Homestake Gold Mine”, una miniera d’oro aperta nel 1876 e rimasta in attività fino al 2001: impressionante il varco di 1300 metri di lunghezza, 400 di larghezza e 150 di profondità scavato dall’uomo alla ricerca del metallo prezioso. Sulla Main Street di Deadwood si allineavano ai tempi 53 saloon e 33 bordelli, dove i cercatori d’oro potevano spendere le loro fortune. Al numero 10 l’Old Style Saloon è rimasto intatto, sebbene restaurato. Fu in questo locale che avvenne l’assassinio di Wild Bill Hickok uno dei pistoleri più veloci di tutto il West. Sceriffo, scout dell’esercito e giocatore professionista si trasferì a Deadwood nel 1876. per spennare i cercatori d’oro. Solitamente non si sedeva mai con la schiena rivolta verso l’entrata, ma quella sera lo fece e venne freddato mentre giocava a poker e teneva in mano una doppia coppia nera di assi e di otto. Da allora quella venne definita “la mano del morto” e da alcuni anni nella cittadina ogni sera alle 20 l’assassinio viene rievocato con tanto di attori, che poi si trasferiscono nel luogo in cui fu processato il colpevole.
Circa quattro ore di automobile, su strade diritte come quelle che si vedono nei film “on the road” attraverso un paesaggio piano ma mai monotono, ci separano dal “Theodore Roosevelt National Park”, eremo di uno di quei quattro presidenti di cui abbiamo visto il viso scolpito nella roccia a Mount Rushmore. Il Parco è suddiviso in due parti, sud e nord, distanti un centinaio di chilometri l’una dall’altra ed entrambi attraversate da strade panoramiche. Il tormentato paesaggio è di una desolata bellezza. Altipiani verdi e praterie si alternano a dirupi scoscesi, gole vertiginose, trafori e merletti preziosi modellati nel corso dei secoli dal vento, dall’acqua e dal ghiaccio.
Proseguiamo e in cinque ore di viaggio raggiungiamo “Little Bighorn Battlefield National Monument”, il luogo in cui il generale Custer, alla testa del suo mitico Settimo Cavalleggeri, perse la vita in battaglia contro gli indiani riportando un’umiliante sconfitta: 272 militi rimasero sul campo. Sul luogo diversi pannelli illustrano le strategie militari delle casacche blu e dei pellerosse.
Proseguiamo per Cody, la città fondata nel 1895 da Buffalo Bill (la sua figura è illustrata nell’articolo in penultima pagina), l’uomo che creò ad arte il mito del Far West, con il suo spettacolo, che portò in giro per il mondo. La città, molto turistica, gli dedica uno splendido museo in cui si racconta come questo precursore delle più moderne teorie del marketing costruì il mito del lontano West. In un’altra parte del museo, immersi in un ambiente di luci soffuse con cantilene indiane in sottofondo, si viene invece sapientemente guidati nella realtà culturale dei Sioux e di altre tribù. Ma non solo, un’ampia sezione è dedicata alla presenza indiana nella cultura a stelle e strisce. A Cody si può anche visitare un tipico villaggio del West di fine Ottocento ricostruito con antichi edifici, provenienti da varie parti della regione, sul luogo in cui sorsero le prime abitazioni volute da Buffalo Bill. Last but non least, ogni sera in estate, a partire dalle 20 si può assistere a uno spettacolo di rodeo.

Itinerario
4° giorno (196 km) Pine Ridge – Red Cloud – Hot Springs e Visita Custer State Park
5° giorno Sylvan Lake – Crazy Horse Memorial (20 km) / Crazy Horse Memorial – Mount Rushmore (25 km) / Mount Rushmore – Rapid City (40 km) / Rapid City – Homestake Gold Mine (80 km) / Homestake Gold Mine – Deadwood (5 km)
6° giorno Deadwood – Badlands National Park (90 km)
e Visita Badlands National Park
7° giorno Cedar Pass – Medora (513 km) e Visita del parco
8° giorno Medora – North Unit Visitor Center (110 km) / Visita del parco / Nord Unit Visitor Center – Hardin (500 km)
9° giorno Hardin – Custer Battlefield (35 km) / Custer Battlefield – Cody (285 km)

Per saperne di più
North&South Dakota Edimar Editrice, Milano
Stati Uniti occidentali Lonely Planet, Torino

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A Cody, la città fondata nel 1895 dal colonnello William Frederick Cody, il mitico Buffalo Bill, si respira un’atmosfera particolare e molto caratteristica. Qui si coniugano perfettamente le tradizioni legate alla figura del cowboy con la modernità della gestione turistica, il rispetto del passato e dei suoi riti con il desiderio di proporsi come punto di riferimento culturale grazie al modernissimo museo dedicato a Bill e ai nativi americani. All’origine di tutto questo stanno proprio le idee del colonnello Cody, un visionario, un precursore del moderno marketing, che creò il mito del “selvaggio West” grazie al suo spettacolo. Una sorta di circo, che portò in giro per tutto il mondo, Europa compresa, con le storie incredibilmente affascinanti del Nuovo Mondo, con diligenze e fuorilegge, cowboy e cavalli imbizzarriti. E naturalmente c’era anche lui, Cody Buffalo Bill, accompagnato da Annie Oakley, la pistolera più veloce dell’Ovest, e più tardi anche da “Sitting Bull”, il leggendario Toro Seduto che sconfisse il generale Custer a Little Big Horn.
La maggior parte dei suoi lauti guadagni Cody la destinò generosamente alla costruzione della sua città, dove aprì anche The Irma Hotel – tuttora attivo ma purtroppo un po’ decadente – così chiamato in onore di una figlia. Ma questo eroe del West aveva un punto debole: non sapeva gestire il denaro. Morì così in povertà a Denver.
Nonostante questa fine ingloriosa, egli visse una vita intensa e avventurosa frequentando non solo mitici pionieri come Kit Carson o Jim Bridger, ma anche capi di Stato, tra cui il presidente Theodore Roosevelt e la regina d’Inghilterra, e uomini di cultura come Mark Twain.
La sua figura rappresenta il tipico personaggio della prateria e propone l’incarnazione di quell’intraprendenza che appartiene al cittadino americano: da mendicante a re, attraverso il coraggio e l’iniziativa. È questo il messaggio che Buffalo Bill ha cercato di trasmettere.
La sua biografia è intensissima e ispirò ben 800 libri. A otto anni salvò la vita al padre, pugnalato a un comizio contro la schiavitù, trasportandolo per 56 chilometri in sella a un cavallo. Il suo primo impiego lo ottenne a soli 11 anni come “pony express”, un precursore a cavallo del moderno Dhl. Lavorò quindi con le casacche blu del generale Custer come esploratore. Diventò in seguito cacciatore di bisonti – da qui il suo nome – e in soli otto mesi ne abbatté 4280. All’età di 26 anni iniziò la sua carriera nello spettacolo che lo portò alcuni anni più tardi a fondare il Wild West Show riscuotendo consensi e successi in tutto il mondo.
Il suo atteggiamento verso i pellerossa fu contradditorio. Dopo la morte di Custer a Little Big Horn uccise il capo Yellow Hand (Mano Gialla) e, si racconta, alzò il suo scalpo al grido: “Il primo scalpo per Custer!”. Ma prima di morire, grazie forse all’amicizia con Toro Seduto, dichiarò: “Nove volte su dieci, quando sorgono problemi tra uomini bianchi e indiani, la colpa è dell’uomo bianco…”.

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La più alta concentrazione al mondo di geyser ed altri fenomeni geologici. L’Old Faithful erutta ogni 60-90 minuti con un getto d’acqua alto 40-50 metri. Verso l’affascinante Seattle, attraverso le sterminate pianure del Montana, il big sky country, passando per Glacier National Park.

Yellowstone, il parco delle meraviglie. Con i suoi laghi cristallini, i suoi quieti ruscelli, le bellissime cascate, con la più alta concentrazione al mondo di geyser ed altri fenomeni geologici, con la sua fauna selvaggia composta di bisonti, coyote, alci, renne e soprattutto orsi. Grand Teton National Park, dove la catena montuosa del Teton domina un paesaggio con praterie e laghetti di montagna circondati da fitti boschi di conifere. Glacier National Park con le sue cime ghiacciate, che si innalzano improvvisamente dalla pianura stagliandosi con forza contro il cielo turchese. Tra Yellowstone, il Glacier e Seattle, ultima tappa del nostro lungo viaggio nel nord ovest degli States, le sterminate pianure del Montana, il big sky country, dove si percorrono centinaia di chilometri senza mai annoiarsi grazie alla bellezza e all’armonia di quegli spazi sterminati a cui noi europei non siamo abituati. Molte miglia separano un ranch (dove si alleva il bestiame) dall’altro o da una farm (dedita invece alla coltivazione).

Grand Teton National Park
Ci dirigiamo verso il Grand Teton National Park attraversando dapprima la zona est dello Yellowstone National Park. Costeggiamo per alcuni chilometri il vastissimo Yellowstone Lake, definito dal primo esploratore bianco che visitò questo territorio, un inland sea, cioè un mare racchiuso dalla terra, date le sue notevoli dimensioni (177 km di sviluppo costiero). Ed abbiamo subito un primo spettacolare incontro con i fenomeni geologici di Yellowstone. A una ventina di chilometri da West Thumb incontriamo i primi geyser che si trovano sulla riva del lago. Qui si racconta una divertente storia con protagonista Jim Bridger, un leggendario “mountain man”, il quale si vantava di pescare le sue prede nella profondità del lago per poi metterle subito a bollire nelle pentole a pressione naturali – leggi geyser – che si trovavano alle sue spalle.
Ma proseguiamo verso il Grand Teton, a Yellowstone torneremo in seguito. La meraviglia del Grand Teton è costituita dalla catena montuosa che si estende per oltre 60 chilometri da sud a nord con picchi selvaggi, laghetti alpini, ruscelli, zone paludose ed ampi altipiani. I picchi più spettacolari, definiti “Teewindt” cioè “molti pinnacoli” dagli indiani, che in quel territorio andavano a cacciare in estate, sono poi stati ribattezzati “Les trois téton”, cioè “Le tre tettone” dai cacciatori di pellicce bianchi del primo Ottocento. Sono il risultato di un fenomeno di erosione che ha raschiato la tenera arenaria delle cime riempiendo gradualmente la valle sottostante di sedimenti. Ne è sortita una forma davvero spettacolare, che si può ammirare da diversi view points lungo le rive del lago, percorrendo la Jenny Lake Scenic Drive, oppure salendo al belvedere che si trova alla fine della Signal Mountain Summit Road.

I geyser a Yellowstone
Ripercorriamo la stessa strada che abbiamo fatto per arrivare al Grand Teton e torniamo allo Yellowstone, il primo parco nazionale realizzato al mondo nel 1872 e il più grande degli Stati Uniti. Si sviluppa su un’antica zona vulcanica con un’estensione di 75 chilometri di lunghezza e 45 di larghezza. Ci dirigiamo subito verso la sua attrazione principale: “Old Faithful”, ovvero il “vecchio fedele”, perché da 120 anni erutta con regolarità ogni 65-91 minuti con uno spruzzo alto 40-50 metri per un un minimo di 90 secondi fino a 5 minuti. Lo spettacolo è quindi garantito e in più posti è indicato l’orario della successiva sbuffata. Migliaia di turisti si siedono a semicerchio attorno al geyser per assistere alla ‘rappresentazione’. Attorno all’Old Faithful si trovano molti altri geyser collegati tra loro da una comoda passeggiata su passerelle in legno. Molti gorgogliano, altri sbuffano producendo uno spruzzo alto alcuni centimetri e se avete fortuna ne potete osservare di più imponenti in azione, ma nessuno conosce i tempi del loro spettacolo.
Ma come lavorano i geyser? Il loro sistema idraulico è molto vicino alla superficie terrestre, generalmente a 30-40 metri di profondità. È costituito da una specie di canale naturale che va verso la superficie e collega la “camera”, i canali laterali e le rocce porose. In queste cavità è presente una certa quantità di acqua che, per effetto del calore prodotto dalle rocce magmatiche circostanti, si infila nel canale centrale alla ricerca di uno sbocco. L’energia che si crea trasforma buona parte dell’acqua in vapore che fuoriesce con forza.
Per una ventina di chilometri a nord di Old Faithful, seguendo la Grand Loop Road che percorre tutto il parco disegnando un ampio 8, si possono visitare altri geyser. Alcuni sono inattivi ed hanno l’aspetto di un quadro moderno dipinto sul terreno dove si mescolano brillanti colori, creando spettacolari cromatismi. In realtà sono i minerali come il ferro, il solfato di idrogeno e il diossido di carbonio a colorare di rosso, giallo, rosa pallido e verde la superficie dei bacini d’acqua calda.
Uno spettacolo che si rinnova a Mammoth Hot Springs, dove si sono create una serie di spettacolari terrazze su cui scorre acqua, proveniente da fonti sotterranee, che venendo a contatto con l’atmosfera produce un magico gioco di forme e di colori. Un percorso di passerelle in legno permette di osservare da vicino queste straordinarie opere d’arte della natura.

Grand Canyon, bufali e orsi
Al Grand Canyon di Yellowstone ci attende un’altra sorpresa indimenticabile. “…Il posto dove riuscii a conquistare la più bella e terribile vista del canyon fu un punto stretto situato due o tre miglia sotto la Lower Fall. Restando là, prima in piedi, poi sdraiato per ottenere maggiore sicurezza, pensavo come sarebbe stato impossibile descrivere a qualcun altro la sensazione che si può provare in posti come questo. Guardavo intorno a me e capivo la mia piccolezza, la mia povertà umana, o meglio la mia impossibilità a comprendere i grandi disegni della natura…”. Queste parole scritte da Nathalien P. Langford, membro di una delle prime spedizioni nel territorio di Yellowstone, nel 1870, ci descrivono esattamente l’impressione che abbiamo provato ancora oggi osservando quello spettacolo dall’Artist’s Point, un comodo belvedere che si raggiunge in automobile, così come l’Inspiration Point Road da cui si godono splendidi panorami dall’alto sul paesaggio roccioso e sulle imponenti cascate.
Allontanandosi di poco dal canyon in direzione della Hayden Valley il paesaggio cambia completamente: foreste e prati con armoniosi laghetti rendono possibile la vita per molti animali che si incontrano percorrendo la Grand Loop Road: bisonti, coyote, alci, renne e orsi (a cui è caldamente sconsigliato avvicinarsi, ma si possono osservare da lontano).

Glacier National Park
Oltre 500 chilometri separano Yellowstone dal Glacier National Park. La strada attraversa diritta le immense pianure del Montana, il big sky country, intervallate da rare farm e ranch. Man mano che ci si avvicina al Parco si ammirano all’orizzonte le cime ghiacciate delle sue montagne che si innalzano sopra la sterminata pianura coltivata e adatta all’allevamento del bestiame. La Going-To-The-Sun-Road, costruita negli anni Trenta e ora monumento nazionale, attraversa il Parco da est a ovest su una lunghezza di 80 chilometri salendo per mille metri fino allo spartiacque continentale in corrispondenza con il passo Logan, dove in estate gli ampi prati sono ricoperti da graziosi fiori selvatici. La strada attraversa il territorio che la tribù dei Piedi Neri definiva “la terra delle montagne luccicanti”. Si tratta di un luogo di grande suggestione con ghiacciai incastonati sulle vette, cime frastagliate, creste affilate come coltelli, suggestivi laghi glaciali che si trovano alle due estremità della strada panoramica, valli selvagge ricoperte da una vegetazione di verde intenso dove bisonti, orsi, capre di montagna e altre centinaia di specie animali si aggirano indisturbati.
Il nostro lungo itinerario nel nord ovest degli Stati Uniti si conclude nella modernissima Seattle, che raggiungiamo attraversando, dopo il Colorado, gli stati di Idaho e Washington.

Seattle, tra cultura e industria
Una città ricca, moderna, dinamica, che alla fine del XX secolo divenne leader nel settore dell’high-tech, grazie alla presenza del colosso Microsoft. Da più lungo tempo è invece una delle capitali mondiali dell’aviazione perché ospita gli stabilimenti della Boeing. Queste presenze industriali ne determinano certamente la ricchezza, che favorisce anche una vita culturale tra le più vivaci degli Stati Uniti. La vastissima area del Seattle Center, collegata al centro città con una veloce monorotaia, ospitò negli anni Sessanta un’esposizione mondiale dedicata al futuro. Oggi propone una vasta offerta di teatri, musei, un parco divertimenti e un palazzetto dello sport, nonché la celebre Space Needle, la torre alta 190 metri da cui si gode una splendida vista sulla città e sullo splendido paesaggio in cui è inserita, con lo scenografico Monte Rainier ad est e le imponenti montagne dell’Olympic National Park a ovest. Da non perdere, accanto alla torre, il museo dedicato all’artista locale Dale Chiuly, che realizza straordinarie e monumentali opere in vetro soffiato. Il centro storico della città, con palazzi restaurati risalenti a fine Ottocento-inizio Novecento, si raccoglie attorno a Pioneer Square, ma il centro moderno si è invece sviluppato attorno a Pike Place Market, da cui si diramano pittoresche viuzze che ospitano un animato e variopinto mercato con annessi caffè, negozietti d’arte e d’artigianato.

Itinerario
10° giorno Cody – Grand Village (188 km) / Grand Village – Jenny Lake (75 km)
11° e 12° giorno Jenny Lake – Grand Village (44 km) / Visita a Yellowstone Park – Yellowstone – Bozeman (143 km)
13° giorno Bozeman – St. Mary (entrata Glacier National Park) (483 km) / Attraversamento Parco (80 km) / West Glacier – Kalispell (55 km)
14° giorno Kalispell – Seattle (516 km)
15° giorno Seattle
16° giorno Seattle – Milano Malpensa – Locarno

Per saperne di più
Stati Uniti occidentali Vallardi, Milano 2009
Yellowstone Country National Geographic 1997

Francia – A Bordeaux, la capitale mondiale del vino

Francia – Dove nascono i migliori vini rossi al mondo

Questo itinerario non presenta nessuna punta eclatante, ma si compone di una serie di perle che inanellate una dopo l’altra in un filo conduttore permettono di assemblare una collana davvero piacevole costituita da natura, cultura ed enogastronomia.

La Francia, come anche l’Italia e la Spagna, rappresenta una meta vicina, ricca di spunti e di scoperte. Rimango sempre più affascinato dall’atmosfera che si percepisce nelle cittadine francesi e dalla pace che ispirano i vasti panorami di campagna. L’itinerario che sto per descrivere non presenta nessuna punta eclatante o particolarmente spettacolare, ma si compone di una serie di perle che infilate una dopo l’altra in un filo conduttore coerente permettono di assemblare una collana davvero piacevole, costituita da natura, cultura ed enogastronomia. La meta del viaggio è la regione di Bordeaux con la sua straordinaria tradizione enologica. Il nostro intento non era però quello di girare per cantine, bensì alla scoperta di un territorio che dà origine ai migliori vini al mondo. Anche lungo la strada di andata e ritorno dal Ticino, grazie alla guida sicura della Michelin Verde, abbiamo scoperto alcune chicche.

Borghi medievali lungo il tragitto
Ed iniziamo allora da una di queste scoperte: Le Puy-en-Velay, a circa sei ore d’auto dal Ticino. Situata nel fertile bacino bagnato dalla Loira, la città è famosa per i suoi picchi di origine vulcanica (i puys) che sorgono dalla pianura e dai quali si godono splendidi panorami. Il sobrio centro storico, caratterizzato da austeri edifici in granito e lava, è dominato dalla splendida cattedrale romanica (XI e XII secolo) di influenza araba. Costituiva una tappa, come altri edifici religiosi che incontreremo successivamente, sul cammino dei fedeli in pellegrinaggio verso Santiago de Compostela. Sin dal XVII secolo Le Puy-en-Velay è nota anche per i suoi pizzi al tombolo. In campo gastronomico sono rinomate le sue lenticchie, che si possono gustare nel ristorante con alloggio di Francois Gagnaire, cuoco stellato Michelin.
Prima di raggiungere il Bordolese zigzaghiamo tra l’Auvergne e il Périgord alla scoperta di due altri borghi medievali: Conques e Rocamadour. Oltre tre ore di automobile su strade secondarie ci separano dalla prima meta, situata in una valle sperduta. Tanto che ci chiediamo se valesse davvero la pena di allungare il percorso. Un dubbio che scompare immediatamente quando ci troviamo davanti uno splendido borgo con i suoi edifici dorati dai raggi del sole. Qui il tempo sembra essersi fermato e si può immaginare lo stupore dei pellegrini in cammino per Santiago di fronte a questa piccola perla costruita a forma di conchiglia (da qui il nome). Forse per la sua posizione discosta il villaggio è poco compromesso dal turismo, sebbene la sua chiesa dell’XI secolo offra uno splendido portale romanico e un tesoro di oreficeria religiosa tra i più importanti di Francia.
In posizione spettacolare, situato sulle falesie della gola scavata dal piccolo fiume Alzou, sorge il borgo di Rocamadour, dominato dal suo castello, che si erge a 125 metri dal fondovalle e con il quale è collegato da un ascensore. A metà montagna, tra l’abitato e il castello, sorge la città religiosa del XII secolo, importante meta di pellegrinaggio nel passato. Lungo il fiume si allinea invece una pittoresca confusione di vecchie case, vie a gradini, torri, piccole piazze a terrazza, chiese e cappelle. Data la sua posizione vicina all’autostrada che collega Parigi a Toulouse e avendo fatto molte concessioni al turismo Rocamadour non ha la magia di Conques. Non si lasci il villaggio prima di aver assaggiato il torrone locale (nougat): una vera leccornia!

Da Sauternes verso Bordeaux
In serata – siamo al secondo giorno di viaggio – giungiamo a Sauternes. Poche case, strette attorno a una chiesetta, sorgono all’interno di un’enorme estensione di vigneti. Il villaggio che dà il suo nome al vino bianco più famoso al mondo: Château d’Yquem Sauternes. Solo le cantine di una zona molto ristretta hanno però diritto a stampare sull’etichetta la prestigiosa denominazione.
In autunno in questa vallata, attraversata dal fiume Ciron (affluente della Garonne), quando la temperatura cala si formano le prime nebbie e l’umidità si posa sui grappoli. Nel corso della giornata, quando l’aria si riscalda, dalle bucce umide dell’uva spunta un fungo chiamato Botrytis cinerea, che ha la proprietà di togliere l’acqua dagli acini e di incrementarne così il contenuto di fruttosio e di glicerina, facendo raggrinzire e marcire i grappoli. È a questo punto che si vinifica. Secondo una leggenda il marchese Romain-Bertrand de Lur-Saluces scoprì questo fenomeno quando, a causa di un contrattempo, fu costretto a prolungare un viaggio in Russia. Tornato al Château d’Yquem provò ugualmente a vinificare e … nacque il Sauternes.
Non più di 50 chilometri di territorio completamente vignato lungo il fiume Garonne ci separano da Bordeuax. Ma in queste zone (Première Côte de Bordeaux e Entre Deux Mer) non si producono i grandi vini della regione. Le percorriamo zigzagando per la campagna alla scoperta di testimonianze del passato: pittoreschi villaggi, sontuosi castelli, chiesette romaniche e monasteri immersi nei vigneti. La prima tappa è il borgo medievale di Saint-Macaire, un villaggio da cartolina ma molto vissuto e non ancora trasformato in museo all’aperto. A Verdeleais, lungo la Garonne, visitiamo la tomba del celebre pittore Toulouse-Lautrec e saliamo su una collina con una vista sterminata sui vigneti. Non molto distante sorge l’idilliaco Château de la Brède, residenza del barone di Montesquieu (1689-1755), uno dei padri della democrazia moderna. Fa parte di un’immensa tenuta, gestita dal filosofo francese, che oltre ad essere stato presidente del parlamento di Bordeaux produceva vino e lo vendeva agli Inglesi. Nella regione dell’Entre-deux-Mers visitiamo tre graziose chiesette romaniche tra i vigneti (Ste-Croix-du-Mont, Huax e St-Genès-de-Lombaud), con le campane incorporate nella facciata, e le affascinanti rovine dell’abbazia benedettina Sauve-Majeure, che fu fondata nel 1079 da San Gerardo e vanta un passato di grande prestigio. In serata raggiungiamo Bordeaux.

Bordeaux, tra passato e futuro
È amore a prima vista. Bordeaux appare austera, ma anche vivace e dinamica. Il suo centro storico, che si può piacevolmente visitare a piedi, è caratterizzato soprattutto da un’architettura settecentesca, di cui conserva oltre 5mila palazzi in pietra di un caldo color ocra. L’unità stilistica la si nota soprattutto lungo la piacevole passeggiata che costeggia la “rive gauche” della Garonne, il fiume che pochi chilometri più avanti si getta in un’insenatura del mare. Ed è proprio il collegamento con l’Oceano Atlantico uno dei fattori del successo economico di Bordeaux, oltre naturalmente il privilegio di essere la capitale della regione vinicola più prestigiosa al mondo. Ma la città vecchia, animata da numerose piazzette su cui si affacciano i tipici “café” alla francese, è ricca anche di testimonianze architettoniche medievali. Tra gli edifici religiosi il più imponente è certamente la cattedrale, caratteristica per il suo campanile (flèche) separato dal corpo principale, ciò che la accomuna alla vicina basilica St-Michel. Tra i palazzi pubblici spiccano il Grand Théâtre, orgoglio cittadino, che domina Place de la Comédie, e la Borsa, che caratterizza l’omonima piazza in riva al fiume e si specchia sdoppiandosi in un’originale fontana concepita da Michel Courajoud. Quest’opera sembra voler evidenziare quanto questa città intenda valorizzare il proprio passato, ma anche volgere lo sguardo verso il futuro. Lo dimostra pure la presenza di altri interessanti interventi architettonici moderni come il Tribunal de grande instance costruito nel 1998 dall’architetto Richard Rogers, autore del Centre Pompidou a Parigi, e il Quartier Mériadeck che ospita gli edifici dell’amministrazione regionale progettati negli anni Settanta con interessanti proposte architettoniche. Molti di questi palazzi avrebbero ormai bisogno di qualche intervento di manutenzione.
Per chi ama lo shopping consigliamo di percorrere le piacevoli vie pedonali Rue Ste-Catherine e il Cours de l’Intendance che sfociano entrambe in Place de la Comédie. Chi invece è appassionato di vino si stupirà di trovare a Bordeaux meno Winebar con i grandi vini francesi di quanti non ne troverebbe in qualsiasi altra capitale europea.

Itinerario

1° giorno
Locarno-Le Puy-en-Velay (612 km)

2° giorno
Le Puy-en-Velay-Conques-Rocamadour-Sauternes (586 km)

3° giorno
Sauternes-La Brède-Bordeaux (107 km)

4° giorno
Bordeaux

5° giorno
Bordeaux-Arcachon-Pyla sur Mer (80 km)

6° giorno
Bordeaux-Haut Médoc-Libourne (140 km)

7° giorno
Libourne-Pétrus-St. Émilion (70 km)

8° giorno
St. Émilion-Périgord Noir-Sarlat (150 km)

9° giorno
Sarlat-Locarno (924 km)

Bibliografia
Francia Guida Michelin, Milano 1997
Francia Touring Club Italiano, Milano 1994
Francia Sud-Ovest La Guida Verde Michelin, Milano 2008

Francia – Dove nascono i migliori vini rossi al mondo

Francia – A Bordeaux, la capitale mondiale del vino

Un itinerario tra mare e colline, nelle regioni dell’Haut-Médoc, del Pomerol e del Saint Èmilion, alla scoperta di un territorio che dà origine ai migliori vini al mondo e ad altre prelibatezze per il palato come gli allevamenti di ostriche nel Bassin d’Arcachon con la duna più grande d’Europa.

Prosegue il nostro itinerario nella regione di Bordeaux con la sua straordinaria tradizione enologica. Il nostro intento non era però quello di girare per cantine, bensì alla scoperta di un territorio che dà origine ai migliori vini del mondo e ad altre prelibatezze per il palato. Anche lungo la strada del ritorno in Ticino, grazie alla guida sicura della Michelin Verde, abbiamo scoperto luoghi romantici e meravigliosi nel Périgord lungo le rive della Dordogna.

Nella patria delle ostriche
Il mattino del quinto giorno di viaggio lasciamo a malincuore – perché l’abbiamo molto amata – Bordeaux per dirigerci verso il Bassin d’Arcachon e verso l’Oceano Atlantico. Il bacino è un’insenatura lungo l’oceanica Costa d’Argento che si estende verso la Spagna, una laguna pescosa con l’acqua dolce del fiume Eyre e il sale delle maree. Simbolo di questo bacino è la cosiddetta Pinasse, un’imbarcazione dai colori vivaci a chiglia piatta costruita in legno di pino (da qui il nome). Pittoresche anche le variopinte capanne dei pescatori che si affacciano sullo specchio d’acqua. Ma il Bassin, sin dal tempo dei romani, è famoso per le sue ostriche. Fino a metà Ottocento erano selvatiche, in seguito iniziarono a scarseggiare e si dovettero allora escogitare metodi di allevamento. Si depositano così nell’acqua mattoni rivestiti di calce, sui quali si insediano le larve delle ostriche. Attraverso numerosi interventi manuali i molluschi vengono trattati per tre anni prima di finire sui tavoli dei più rinomati ristoranti di Francia. Il procedimento è bene illustrato alla “Maison de l’huître” nel villaggio di Guyan-Mestras, la capitale delle ostriche.

Tra mare, pinete e dune di sabbia
La regione del Bassin d’Arcachon offre innumerevoli possibilità di svago a contatto con la natura: passeggiate, gite in canoa, un centro ornitologico. Ma per chi non ha troppo tempo a disposizione l’attrazione più spettacolare è certamente rappresentata dalla Dune du Pilat. Lunga 2,7 chilometri, larga 500 metri e alta 105 è la più elevata d’Europa. È situata tra l’oceano (a ovest) e una fitta pineta (a est). Una passeggiata lungo la cresta della duna, accompagnati dal rumore del vento e delle onde che si infrangono sulla spiaggia, offre un’indimenticabile vista sull’Atlantico, sul mare di sabbia e sulla foresta, in un tripudio di colori.
Prima di lasciare questa splendida regione vale la pena di visitare Arcachon, una località balneare di fine Ottocento. Voluta da due astuti banchieri (i fratelli Pereire) fu concepita ex novo, grazie al prolungamento della ferrovia da La Teste, ex luogo di villeggiatura dei bordolesi, fino alla nuova Arcachon, dove vennero create moderne infrastrutture e costruite villette ai bordi del bosco e non lontano dal mare. Qui si veniva non tanto per la tintarella e i bagni di mare quanto per l’aria salubre. Da quando Napoleone III vi fece visita diventò una località alla moda frequentata da nobili, uomini d’affari, letterati, artisti e musicisti di grido come Toulouse-Lautrec, Sartre, Debussy, Alexandre Dumas, Cocteau e molti altri. Sulla collina, una sorta di Beverly Hills alla francese, rimangono molte di quelle costruzioni di fine Ottocento-inizio Novecento. Parecchie sono state restaurate, altre sono chiuse, ma passeggiando per le “Allée” (così si chiamano le strade) sembra di tornare indietro negli anni e di rivivere il tempo della Belle époque.

I sontuosi châteaux dell’Haut-Médoc
Il nostro viaggio volge al termine, ma i prossimi due giorni, il sesto e il settimo, sono dedicati alla scoperta delle regioni da cui provengono i vini rossi più prestigiosi del mondo: Haut-Médoc, Pomerol e Saint-Èmillion.
Iniziamo dall’Haut-Médoc, una regione che si estende sulla sponda destra della Gironde, un’insenatura del mare, dove i fiumi Dordonne e Garonne si incontrano prima di sfociare nell’oceano. Poco oltre la confluenza dei due fiumi, in direzione del mare, alla fine del Seicento fu costruito Fort Médoc (si può visitare), che faceva parte di un sistema di difesa per impedire alla flotta inglese di raggiungere Bordeaux.
La tradizione viticola della regione risale ai tempi del re Sole. È questa la patria per eccellenza dei Grands Crus Classés, voluti da Napoleone III nel 1855 in occasione dell’esposizione universale di Parigi per mettere il più possibile in luce i prodotti francesi di qualità. Si distinsero così diversi livelli: dal premier fino al cinquième grand cru. Questa classificazione, che fu decisa dai commercianti e non da un giudice super partes, detta legge ancora oggi. Percorrendo la strada statale D2 si attraversano immense e armoniose distese di vigneti suddivisi in sei giurisdizioni comunali: Margaux, Moulis, Listrac, Saint-Julien, Pauillac e Saint-Estephe. I vigneti più pregiati sorgono lungo pendii rivolti verso la Gironde e hanno la caratteristica di immagazzinare il calore durante il giorno per poi restituirlo durante le ore notturne. Nella regione, che fornisce solo l’8 per cento dei vini del bordolese, si coltivano i vitigni Merlot, Cabernet-Sauvignon, Cabernet Franc, Petit Verdot e Malbec. Da un’assemblaggio di queste uve nascono bottiglie prestigiose vendute a prezzi vertiginosi. Per visitare gli châteaux più rinomati, quasi tutti ottocenteschi e frutto della cosiddetta “aristocratie du bouchon”, è necessario prenotare con molto anticipo. Ma ci si può fare un’idea del loro valore economico e del business che si nasconde dietro edifici tanto sontuosi anche vedendoli dall’esterno. Vale pertanto la pena di soffermarsi, viaggiando da sud a nord, davanti a Château Siran appartenuto agli avi del pittore Toulouse-Lautrec, all’armonioso Château Margaux, a Château Beychevelle, al maestoso Château Lafite-Rothschild e al curioso Château Cos-d’Estournel dalla silhouette orientale.
Lasciamo l’Haut-Médoc attraversando la Gironde in traghetto da Lamarque verso Blaye per dirigerci, sempre tra paesaggi vignati, ma di prestigio minore, verso altre mecche del vino: Pomerol e St-Èmilion.

Nella patria di Petrus
Qui il clima meno marittimo e più continentale rispetto al Médoc, quindi più fresco andando verso l’autunno, fa sì che il Cabernet Sauvignon incontri sovente difficoltà a maturare completamente: ecco quindi che il taglio viene maggiormente caratterizzato dal Merlot, integrato dal Cabernet Franc: è questo che fa la differenza rispetto al Médoc. A nord-est della graziosa cittadina di Libourne, con la sua bella piazza centrale, si trova la piccolissima regione del Pomerol, dove viene prodotto forse il più grande vino rosso al mondo, il Petrus (100% Merlot). La sua cantina è anonima e non segnalata, ma costituisce una mecca per gli amanti del vino. A sud-est di Libourne si estende invece la regione del Sain Èmilion, dove è piacevole perdersi per le stradine tra i vigneti alla ricerca di graziose chiesette romaniche (Montagne, St-Georges, St-Christophe-des-Bardes, St-Hippolyte) e di castelli più antichi di quelli dell’Haut-Médoc, come per esempio Château de Pressac dove venne firmato il trattato che mise fine alla guerra dei Cent’anni. Tra queste vigne gloriose scorgiamo anche un segno del Ticino, tracciato dalla penna dell’architetto Mario Botta: lo splendido Château Faugères che dialoga magistralmente con il paesaggio circostante.
Questa regione non soddisfa però solo le papille gustative ma anche il “plaisir des yeux” , come dicono i francesi. Saint-Èmilion è infatti uno splendido borgo medievale costruito con una pietra dorata, ricco di graziose piazzette e sinuose viuzze e iscritto nella lista dei Patrimoni mondiali dell’Unesco. Di particolare interesse l’Èglise monolithe, una chiesa benedettina a tre navate che a partire dal IX secolo fu scavata nella roccia: quindi più opera scultorea che creazione architettonica. Unica in Europa per le sue dimensioni: 38 metri di lunghezza, 20 di larghezza e 11 di altezza.

Nel Périgord Noir lungo la Dordogne
Eccoci giunti all’ultimo giorno di visite, prima del viaggio di rientro. Ci spostiamo verso est per circa 100 chilometri per visitare un’incantevole e romantica regione – il sud del Périgord Noir – risalendo il fiume Dordogne lungo un’opulenta valle dominata da una schiera di roccaforti. Il percorso del fiume si snoda tra campi fioriti delimitati da pioppi. Il paesaggio è incantevole, fiabesco. La prima tappa è il Castello di Milandes, dove visse a lungo la nota e provocante artista Joséphine Baker (1906-1975). Un percorso museografico racconta la sua vita avventurosa. Più avanti i castelli di Beynac e di Castelnaud (archetipo del castello medievale dei libri di storia), situati uno in faccia all’altro, ci ricordano le interminabili battaglie tra Francesi e Inglesi nel XIII e nel IVX secolo. Da Domne, un incantevole villaggio che domina una collina, la vista abbraccia tutta la valle della Dordogna segnata dal fiume che si snoda tra i campi disseminati di villaggi e fattorie. Forse il più incantevole di questi borghi è La Roque-Gageac, aggrappato a una falesia con le case dai colori caldi della pietra allineate lungo la Dordogne. Sulla cresta della falesia si può passeggiare lungo i viali dei Giardini di Marqueyssac per raggiungere un belvedere che domina la valle a picco sopra il villaggio La Roque-Gageac. Beynac-et-Cazenac è un altro borgo abbarbicato su un’altra impressionante falesia. Ultima meta, dulcis in fundo, è Sarlat-la-Caneda, una romantica cittadina medievale costruita con una pietra color ocra biondo, in cui è piacevole perdersi per le strette viuzze che sfociano in graziose piazzette. Il borgo, spesso utilizzato come set cinematografico, è stato scelto nel 1962 dal Governo francese come intervento pilota di salvaguardia dei nuclei storici di valore.

Itinerario

1° giorno
Locarno-Le Puy-en-Velay (612 km)

2° giorno
Le Puy-en-Velay-Conques-Rocamadour-Sauternes (586 km)

3° giorno
Sauternes-La Brède-Bordeaux (107 km)

4° giorno
Bordeaux

5° giorno
Bordeaux-Arcachon-Pyla sur Mer (80 km)

6° giorno
Bordeaux-Haut Médoc-Libourne (140 km)

7° giorno
Libourne-Pétrus-St. Émilion (70 km)

8° giorno
St. Émilion-Périgord Noir-Sarlat (150 km)

9° giorno
Sarlat-Locarno (924 km)

Bibliografia
Francia Guida Michelin, Milano 1997
Francia Touring Club Italiano, Milano 1994
Francia Sud-Ovest La Guida Verde Michelin, Milano 2008

Camerun – Tutta l’Africa in un solo paese

Camerun – Dove il tempo sembra essersi fermato
Camerun – Stregato dalla gente e dai colori nel mio primo viaggio in Africa
Camerun Un medico ticinese nel Camerun, il ricordo di Giuseppe Maggi

Dalle foreste alle montagne, dai fiumi ai laghi, dalle dorate spiagge oceaniche ai verdi altopiani, dalla brulla savana al pre-deserto. Perché andare proprio qui? Perché è un continente in miniatura. Salvo le dune di sabbia, propone tutte le caratteristiche tipiche di questa terra

Perché piuttosto che andare in Kenya, Senegal, Etiopia, Tanzania o Mali dovrei recarmi proprio in Camerun? “Perché – risponde Stefano Nori, autore della guida “Polaris” (Firenze 2008) su questo paese – la sua ricchezza e la sua varietà umana e naturalistica sono immense e preziose, uniche e senza uguali in tutto il continente; perché qui un viaggio riserva tante soprese e situazioni inaspettate; perché mille documentari e reportage televisivi non potranno mai rendere giustizia a quanto visto direttamente sul campo. Infine, perché se l’esperienza ha ancora un valore, pur avendo visitato ben 26 stati africani, non mi sono più allontanato da questo bellissimo paese, sin dalla prima volta in cui ci andai, nel novembre 1987”. E anche perché – aggiungiamo noi – in un continente dilaniato da guerre e da pericoli per il viaggiatore, è un’isola di pace e di sicurezza.
Il nostro itinerario, organizzato da Kel 12, prevede una breve tappa a Douala, la capitale economica, per ripartire il mattino seguente verso l’estremo nord, che costituisce un triangolo incuneato tra Nigeria a ovest e Ciad ad est.
Douala, uno dei luoghi con maggiori precipitazioni di tutto il continente, è importante per il suo porto commerciale che serve tutta l’Africa occidentale. È una città particolarmente brutta con i suoi trasandati locali e negozi in stile europeo, che ricordano i tristi periodi dell’epoca coloniale: dall’Occidente sembra infatti aver preso solo il peggio. La sera a cena incontriamo due coppie di italiani che lavorano per aziende europee. Ci raccontano dell’estrema corruzione che regna in Camerun – è considerata la nazione più corrotta al mondo – e di quanto sia sgradevole vivere in questa città, dove gli europei conducono ancora vita separata, come durante il colonialismo. Questa immagine del paese stride profondamente con quella che ci faremo nei giorni successivi, che coincide invece con la descrizione citata sopra di Stefano Nori.
Il nostro volo interno del mattino seguente parte puntuale. Breve sosta tecnica a Yaounde, la capitale, per poi proseguire a nord verso Maroua, che raggiungiamo in un paio d’ore. Maroua, la cittadina più grande del settentrione, si presenta squadrata, con grandi viali urbanisticamente bene ordinati, con basse costruzioni e con un forte carattere di villaggio africano. La sua maggiore attrazione è costituita dal mercato centrale coperto suddiviso in due parti. Una artigianale per turisti, dove si viene aggrediti dai venditori, ed una, per la gente del luogo, suddivisa a seconda delle varie attività, dove spiccano le botteghe dei sarti. In altre zone della cittadina si visitano il quartiere dei fabbri, che producono oggetti riciclando ferro usato, e quello puzzolente delle concerie.

Piccoli regni all’interno dello stato
Una giornata del nostro viaggio è dedicata alla visita della “Chefferie” di Oudjilla, abbarbicata su una collina delle Mandara Mountains. Dista una cinquantina di chilometri da Maroua, ma ci scontriamo subito con uno dei mali del Camerun: le strade. Una gran parte del tragitto odierno si svolge su un’arteria asfaltata, ma cosparsa non di buchi bensì di crateri, tanto da costringere i veicoli quasi a fermarsi per superarli. Abbiamo visto camion fermi ai lati della careggiata in panne a causa delle condizioni stradali, tali da costringerci a tenere una media di 20-25 chilometri orari. Quando poi si giunge alla pista che monta sulla collina, le nostre 4×4 stentano a salire, tanto è cosparsa di sassi. Forse a piedi saremmo stati più veloci, ma i raggi del sole sono troppo cocenti. Sulla strada incontriamo diversi villaggi costituiti da assembramenti di “saré”, cioè di capanne rotonde collegate tra loro per ospitare un nucleo familiare. Con i loro tetti in paglia ed i muri in mattoni di banco (costituiti di terra, paglia e sterco di animale) sembrano appartenere al paesaggio. La “Chefferie” conta 25 villaggi e circa 30 mila abitanti. Ma prima di continuare la mia descrizione è necessario spiegare che cosa è una “chefferie”. È una sorta di regno all’interno dello stato e riconosciuto dal governo centrale. Questi regni, con compiti simili a quelli dei nostri comuni, giocano un ruolo fondamentale nella vita culturale e politica del Camerun. Lo stato, oltre a riconoscerli, basa gran parte della sua struttura sociale sull’autorità morale degli “Chef”, che sono accettati dai cittadini e che tramandano il loro potere ai discendenti di sangue. Esercitano funzioni giuridiche, politiche e spirituali, come vedremo nella Chefferie di Oudjilla, con un’autorità che si estende su tutti i campi della vita quotidiana. Il centro simbolico di questo potere è il palazzo. Ed allora entriamo nel “palazzo” di Oudjilla.

Visita al palazzo reale di Oudjilla
Ad accoglierci c’è il vecchio regnante, stravaccato su un lettino in legno con uno scopino in mano per difendersi dalle mosche, davanti a un vecchio televisore spento. Sostiene di avere già compiuto i cento anni, ma francamente sembra più giovane. Fa fatica ad alzarsi e ci saluta sdraiato. Ha 50 mogli e 113 figli. Parla a stento il francese, ma uno dei figli funge da traduttore. Alle nostre domande risponde evasivamente. Non così il principe ereditario – il secondo genito, poiché secondo la tradizione il primogenito è considerato meno intelligente – che nel frattempo ci ha raggiunti. Veste una tuta blu da meccanico, nonostante stesse lavorando nei campi, e parla perfettamente il francese. Ci accoglie con calore, anche perché da oltre un mese non riceve visite da turisti, e ci introduce nel palazzo. È costituito da un enorme assembramento di capanne simili a quelle prima descritte. Basti pensare che ognuna delle 50 mogli ha diritto a quattro unità, ma molto anguste: una per dormire, una per cucinare e due come deposito per il miglio.
La prima sala del palazzo è dedicata alle udienze. Lo chef svolge infatti un ruolo simile al nostro giudice di pace. Dirime dissidi legati soprattutto a divorzi e a questioni ereditarie, mentre i reati più gravi vengono demandati ai tribunali dello stato. Proseguiamo la nostra visita ed entriamo in una stalla molto buia, dove viene custodito il bue sacro. Per tre anni vive lontano dalla luce in uno spazio angusto affinché ingrassi, sino al sacrificio rituale che avviene nel periodo della raccolta del miglio tra novembre e dicembre. Nella capanna successiva sono conservate le urne funerarie degli antenati. Si accede quindi al quartiere delle mogli, che sono governate dalla prima consorte. Lo “chef” non dorme mai nelle loro stanze, ma sono le donne che a turno si recano nella sua abitazione posta all’esterno del “saré”, così come quelle dei figli adulti. Il “palazzo” è provvisto di corrente elettrica, ma non di acqua. Ed i pozzi sono lontani.
Ci incamminiamo con il principe ereditario verso una collina da cui si gode una splendida vista sulla campagna e sulle montagne circostanti. Tra i tanti tetti in paglia ne spiccano alcuni in lamiera. Gli chiediamo come vede il futuro della sua comunità. Non sarà infatti facile conciliare la conservazione di quel patrimonio etnico-culturale con i veloci e continui mutamenti della società, che stanno cominciando a giungere anche lassù. Con espressione preoccupata risponde di voler rimanere fedele alle tradizioni, ma di rendersi conto che dovrà fare i conti con il modernismo. Sarà quindi necessario, aggiunge, accettare molti compromessi. Ma la sua speranza è che Oudjilla venga in futuro considerata patrimonio mondiale dell’Unesco, perché è convinto che questo riconoscimento gli procurerebbe i mezzi necessari per conservare le tradizioni, con il rischio però, aggiungiamo noi, di diventare una sorta di riserva o di museo all’aperto.

Le attività ai bordi della strada
Se le strade sono sconnesse, i panorami che presentano valgono bene la scomodità del tragitto. E, soprattutto, sono luogo di vita. Così attraversando un ponte ci imbattiamo in un gruppetto di ragazzini che fanno il bagno nudi in un pozzo d’acqua e si divertono quando mostriamo le foto dei loro tuffi. Poco più avanti ci fermiamo per osservare un gruppetto di giovani donne che travasano da un recipiente all’altro i grani di miglio facendoli cadere dall’alto per ripulirli. Ripetono quel movimento più volte facendo sembianza di non vederci, ma quando ci avviciniamo ci sorridono e accennano qualche parola in francese. La gente in questo paese è molto dolce e disponibile: credo siano questi incontri l’esperienza più ricca del nostro viaggio. Attraversando i villaggi si notano bancarelle in cui si vende di tutto, anche se solitamente il mercato si svolge in un giorno ben preciso della settimana. Si commercia anche carne appena macellata. Sui bordi della strada assistiamo alla cruenta macellazione di uno zebù, una sorta di bue africano. Vediamo le interiora dell’animale sgozzato giacere sulla pelle distesa per terra come una tovaglia. Due giovani si accaniscono con una mazza sulla povera bestia, che viene ridotta in pezzi da vendere al vicino mercato.

Itinerario

1° giorno
Italia-Douala

2° giorno
Douala-Maroua

3° giorno
Maroua (il mercato settimanale) – Maga

4° giorno
Maga-Pouss (il mercato settimanale) – Waza

5° giorno
Waza-Oujilla-Col di Koza-Mokolo

6° e 7° giorno
Mokolo-Tourou (il mercato settimanale) – Roumsiki

8° giorno
Roumsiki-Mayo Plata (il mercato settimanale) – Maroua

9° giorno
Maroua-Douala-Parigi

Bibliografia
Camerun, il paese dei mille villaggi Polaris, Firenze 2008
Costa d’Avorio, Ghana, Togo, Benin, Nigeria, Cameroun Lonely Planet, Torino 2010

Camerun – Dove il tempo sembra essersi fermato

Camerun – Tutta l’Africa in un solo paese
Camerun – Stregato dalla gente e dai colori nel mio primo viaggio in Africa
Camerun Un medico ticinese nel Camerun, il ricordo di Giuseppe Maggi

Tra gli alberi ed enormi massi erranti, in un paesaggio che sembra un presepe vivente, sbucano i tetti in paglia di agglomerati di capanne cinte da un muro per garantire l’intimità famigliare. Sulle piste si incontrano donne incamminate verso i mercati. Nei villaggi lo stregone svolge ancora un ruolo sociale.

Proseguiamo il nostro itinerario nell’estremo nord del Camerun ai confini tra Nigeria e Tchad, organizzato da Kel 12, dirigendoci verso le Mandara Mountains, in una zona sperduta tra le colline percorrendo piste sconquassate, ma attraverso paesaggi dove il tempo sembra essersi fermato. Tra gli alberi ed enormi massi erranti sbucano i tetti in paglia di rotonde capanne collegate tra loro e circondate da muri in sasso per proteggere l’intimità familiare. Sembrano appartenere a un presepe vivente. La mia curiosità per conoscere la vita che si svolge all’interno di quelle mura (“saré”) è enorme. Ci fermiamo con le nostre jeep davanti a diversi gruppi di capanne. La gente è gentile ma non ci invita ad entrare, come vorremmo. Più avanti abbiamo però la possibilità di visitare un nucleo ormai disabitato.
Entrati nel muro di cinta si nota una sorta di gazebo in legno, sopra il quale viene essicato il miglio, e sotto, all’ombra, mangia il capofamiglia. Le donne ed i bambini consumano invece i pasti al coperto di un’altra tettoia in paglia situata davanti alla prima capanna, che appartiene al capofamiglia ed è dominata da una statua del suo dio personale, una sorta di angelo custode. Fino all’età di 7 anni i bimbi dormono assieme alla madre, in seguito tutti assieme. Dopo i 15 anni i maschi si trasferiscono fuori dal “saré”, mentre le ragazze, in attesa di prendere marito, occupano un’altra capanna interna. Negli spazi intimi che si creano tra le capanne, i membri della famiglia si lavano. Chi se lo può permettere dedica uno spazio coperto anche al bue sacro, che viene ingrassato per tre anni senza che possa mai uscire o vedere la luce del giorno. Siccome nel corso del tempo raggiunge proporzioni ragguardevoli per trasferirlo al luogo del sacrificio diventa necessario demolire una parete. La sua carne viene quindi cucinata, mentre le donne preparano la birra di miglio. La festa dura tre giorni e viene condivisa con gli abitanti del villaggio. Proseguiamo la nostra visita all’interno del “saré”. Un’ulteriore capanna, dove al centro si trova un ampio granaio per la conservazione del miglio, è destinata alla prima moglie, che dispone pure di uno spazio attiguo dove vengono custoditi gli animali di piccola taglia: soprattutto capre e pecore. Una successiva capanna è destinata alla seconda consorte e una ulteriore, con due granai per le scorte, alla mogle più giovane, che prima di iniziare la vita familiare viene qui segregata per tre giorni. Un ultimo spazio è consacrato alla cucina, dove le varie mogli si alternano ai fornelli.
Gli animali più grandi dormono all’aperto, ma all’interno delle mura, dove dispongono di una abbeveratoio. Accanto si trova una pietra sulla quale viene esposta la statua di un dio, al quale ci si rivolge quando sorgono problemi tra i membri della famiglia, naturalmente dopo avere consultato lo sciamano (stregone) del villaggio. A seconda del suo responso viene sacrificato un pollo sbattendogli la testa sul sasso e facendogli colare il sangue sulla pietra. La cerimonia termina con preghiere dopo avere mangiato tutti assieme l’animale sacrificato e bevendo l’immancabile birra di miglio.

Lo stregone del granchio
A proposito di sciamani, abbiamo avuto occasione di incontrarne uno a Roumsiki. È ormai diventato un’attrazione turistica, ma la gente del posto continua a recarsi da lui per ricevere consigli. Lo chiamano stregone del granchio, perché interloquisce con questo animale. Dopo avere ascoltato la domanda del suo interlocutore sistema dei legnetti posati su una coltre di terra all’interno di un’anfora. Quindi, dopo aver debitamente parlato con il granchio, lo introduce nell’anfora e lo lascia agire per una trentina di secondi. Interpretando il modo in cui sono stati scompigliati i legnetti formula la risposta. Io gli ho chiesto come prevedeva l’evoluzione della situazione economica europea. Senza scomporsi ha interloquito con il granchio per rispondermi che andrà sempre un po’ meglio, ma il progresso sarà lento.
Roumsiki è un villaggio fuori dal mondo, ma in grande trasformazione, dove si trovano alcuni simpatici oggetti artigianali e dove sopravvivono alcune antiche tradizioni. Come quella di trovarsi sotto i cosiddetti fichi della parola – uno destinato ai saggi, uno ai giovani ed uno alle donne – per discutere di questioni pubbliche.
Il paesaggio attorno è molto spettacolare: propone picchi di roccia vulcanica alti decine di metri che spuntano dal terreno distanti uno da uno dall’altro, ricordando lontanamente la californiana Monument Valley.

Itinerario

1° giorno
Italia-Douala

2° giorno
Douala-Maroua

3° giorno
Maroua (il mercato settimanale) – Maga

4° giorno
Maga-Pouss (il mercato settimanale) – Waza

5° giorno
Waza-Oujilla-Col di Koza-Mokolo

6° e 7° giorno
Mokolo-Tourou (il mercato settimanale) – Roumsiki

8° giorno
Roumsiki-Mayo Plata (il mercato settimanale) – Maroua

9° giorno
Maroua-Douala-Parigi

Bibliografia
Camerun, il paese dei mille villaggi Polaris, Firenze 2008
Costa d’Avorio, Ghana, Togo, Benin, Nigeria, Cameroun Lonely Planet, Torino 2010

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Nel diario di viaggio ho scritto di quanto sia rimasto colpito dalla dolcezza e dalla gentilezza di quella gente e di come non si possa giudicare un viaggio del genere con gli stessi parametri di altre esperienze. Esiste però, purtroppo, anche un rovescio della medaglia, che sarebbe ingenuo e scorretto tacere, anche perché in parte chiama in causa la nostra civiltà occidentale. Raccontavo di come Douala, la capitale economica del Camerun, sia una brutta città costruita in epoca coloniale, che della nostra cultura ha recepito solo gli elementi peggiori. In Camerun ho incontrato un anziano italiano che con orgoglio mi raccontava come noi europei abbiamo portato la civilizzazione in Africa. E no, le cose non stanno proprio così. Il colonialismo certamente, ma per diversi aspetti anche certe forme di turismo, della nostra civiltà hanno “esportato” soprattutto il peggio. Basti pensare alla politica. Quali esempi abbiamo fornito e cosa abbiamo fatto per preparare quei Paesi a gestire l’indipendenza, dopo che ci siamo impossessati delle loro maggiori risorse? Il Camerun ha conquistato l’indipendenza nel 1960, dopo aver subito la dominazione dei tedeschi dapprima e dei francesi e degli inglesi in seguito, ed è subito finito sotto un padre padrone: il presidente Hamadou Ahijio, che ha governato per 22 anni. Il potere è poi passato a Paul Biya, che ha apparentemente “democratizzato” il Paese, portandolo al poco invidiabile primato di Stato più corrotto del mondo. In Camerun bisogna pagare per avere buoni voti a scuola, per entrare all’università, per disporre di un letto in ospedale, persino per ottenere un funerale decente. La corruzione segue abitudini e rituali, frutto di regole e norme di comportamento che condizionano la quotidianità. Ed è un vero peccato perché il Camerun ha di un interessante potenziale economico, potendo contare sull’esportazione di caffè, cacao, cotone, banane, olio di palma, legname e petrolio. Questo Paese, il cui reddito pro capite è uno dei più elevati del continente, può vantare la quasi totale autosufficienza alimentare. Se all’estero questo piccolo Stato, oggi purtroppo considerato a rischio per il turismo, è noto per aver dato le origini al giocatore di calcio Eto’o e al tennista Noah, in Ticino è invece conosciuto per essere stato la seconda patria del dottor Giuseppe Maggi, il medico di Caneggio che ha dedicato quarant’anni della sua vita alla battaglia contro la malaria e molti altri mali che affliggono le popolazioni più povere del Camerun del nord. Nella sua lunga attività, che gli valse anche una candidatura al premio Nobel per la pace, il medico ticinese ha costruito in Camerun cinque ospedali, quattro dei quali nel corso degli anni si sono resi autonomi. L’ultima sua creazione, invece, continua ad essere gestita da “L’Opera Umanitaria Dr. Maggi”, che porta avanti il sogno del fondatore – di cui quest’anno ricorre il venticinquesimo della morte – con un’équipe di cinquanta sanitari, tutti africani.