Germania – Atmosfere nordiche e medievali

Germania – Un “vecchio Est” da riscoprire
Germania – Nella vita di due anziani la storia della Germania
Germania – Il peso di una guerra atroce sulle grandi città tedesche

La ricchezza mercantile di Lubecca, regina della Lega Anseatica, si è espressa al meglio nell’architettura e la cosmopolita e innovativa Amburgo, che ha saputo più volte reinventarsi nel corso della storia.

Se il file rouge della prima parte di questo viaggio era costituito dalla scoperta dell’ex Germania dell’Est (quell’area del paese che dopo il secondo conflitto mondiale finì sotto l’influenza dell’Unione Sovietica), questa seconda parte del nostro itinerario ha invece come riferimento la Lega Anseatica, cioè l’unione commerciale dei mercanti tedeschi all’estero, che dalla seconda metà del XIII secolo fino alla fine XV si assicurò il monopolio quasi esclusivo dei traffici fra le opposte sponde del Mare del Nord e il Baltico. Una potenza paneuropea la cui influenza spaziava dall’Inghilterra alla Russia, dalla Scandinavia alle Alpi tedesche. Gli Anseatici importavano dalla Russia (area Baltico) il legno necessario per l’edilizia e le costruzioni navali, le pellicce molto apprezzate dalle classi più elevate, e la cera, molto richiesta per le candele che illuminavano le chiese e i palazzi signorili. Dal sud della Svezia e da una parte della Danimarca giungevano invece le aringhe, uno dei commerci più redditizi dell’epoca. Dalla Norvegia, e in particolare dalle Isole Lofoten, si importava il merluzzo. Dall’Inghilterra la lana di pecora e lo stagno. Il mercato di Bruges, uno dei più importanti del nord Europa, assicurava invece le spezie e i metalli preziosi. Nel suo periodo di massima floridezza la Lega Anseatica riuscì a stabilire stretti rapporti con oltre 160 città, coinvolte sia nel commercio marittimo che terrestre. In particolare Lubecca, Amburgo, Colonia, Stralsund e Danzica, tra il XIV il XV secolo, per l’attività dei loro commerci, per l’industria delle costruzioni navali e per la pesca godettero di una prosperità eccezionale. La città però più importante della Lega, di cui era anche sede, fu Lubecca grazie alla sua posizione geografica. Si trovava infatti sulla grande arteria commerciale Novgorod-Bruges, dove i mercanti provenienti dal Baltico orientale (Russia) dovevano lasciare la via del mare e raggiungere Amburgo via terra, evitando in tal modo la circumnavigazione dello Jutland, costosa e spesso pericolosa o addirittura impossibile. Partner fondamentale di Lubecca e della Lega era dunque Amburgo, che garantiva il collegamento tra il Baltico e il Mare del Nord.
Ecco dunque tracciato l’interesse storico delle tappe di questa seconda parte del nostro viaggio in Germania, che toccherà dapprima le cittadine di Stralsund e Wismar, in seguito Lubecca e Amburgo per terminare a Colonia.

Stralsund e Wismar, città anseatiche
Nel XIV secolo, durante la sua epoca d’oro, Stralsund era seconda solo a Lubecca, che per anni fu la sua grande rivale. I suoi monumenti principali, il Rathaus e la Nikolaikirche in mattoni gotici anseatici, sono ispirati a quelli della città leader della Lega. Alter Markt, cuore del centro storico, con il suo acciottolato e le case trecentesche ricorda il passato di una delle città più acclamate della Lega medievale. Passeggiare per le vie del centro di Stralsund, Patrimonio dell’Unesco, è un vero piacere. Non si può lasciare la città prima di aver visitato l’Ozeanum, una moderna costruzione che ricorda un’onda e ospita un acquario d’avanguardia, dove si viene trasportati nel mondo sottomarino di creature che vivono nel Mar Baltico, nei Mari del Nord e nell’Oceano Atlantico fino ad arrivare a latitudini polari. In una vasca immensa si possono ammirare migliaia di aringhe, prelibata preda dei pescatori nordici di tutti i tempi.
Meno nota ma ancor più affascinante per le sue atmosfere nordiche è Wismar, pure essa città anseatica Patrimonio dell’Unesco. La città vecchia, raccolta attorno alla vastissima Marktplatz, con le sue dimore recentemente restaurate, permette al visitatore di immaginare l’antico fasto di questa simpatica cittadina, che per 150 anni nel ‘600 e ‘700 visse sotto dominazione svedese. A tesimonianza di quel periodo in varie parti del centro si possono notare le colorate “teste svedesi” con i baffi a manubrio, i foulard sbarazzini e i copricapo a testa di leone posati su fluenti riccioli.

Lubecca, regina della Lega Anseatica
È stata una delle città europee più ricche e potenti tra il XIII e XV secolo. Una ricchezza mercantile che si è espressa al meglio nell’architettura, Patrimonio dell’Unesco. La regina della Hanse (nome comune per la Lega) offre ancora oggi al visitatore oltre mille edifici storici, in buona parte risparmiati dai bombardamenti della seconda guerra mondiale per merito del presidente della Croce Rossa Carl-Jacob Burkhart, che per raggiungere il suo scopo ricorse allo stratagemma di nominarla porto d’ingresso per le merci destinate ai prigionieri delle forze alleate. La tipica architettura in mattoni rossi si sviluppò in questa città e si diffuse in tutto il nord Europa. E in mattoni rossi sono costruiti molti dei più significativi monumenti di Lubecca, ad iniziare dalla Holstentor, la porta fortificata simbolo della città e sede di un interessante museo didattico sulla storia cittadina. Altro orgoglio di Lubecca è il Rathuas, edificato in mattoni smaltati nella prima metà del XIII secolo per celebrare il riconoscimento di città libera del Sacro Romano Impero: condizione essenziale per il successo mercantile nei due secoli successivi. Presenta una tipica struttura in mattoni rossi anche Marienkirche, la chiesa più imponente costruita dai mercanti cittadini proprio dietro al Rathaus e sormontata da altissime torri (125 metri), che non a caso sovrastano quelle del Duomo, sede vescovile. Interessanti le visite dell’Heiligen-Geist-Hospital, il più antico ospedale della Germania risalente al 1260 con le camere per i malati ordinate in fila, di alcuni palazzi delle Gilde (come quello della Corporazione dei marinai in Breite Strasse), oppure ancora di molte residenze signorili come la Buddenbrookhaus in Mengstrasse 4, dove Thomas Mann, nel romanzo d’esordio con il quale vinse il premio Nobel, ambientò la storia della famiglia di mercanti in declino Buddenbrook. Ma a Lubecca sono affascinanti non solo le principali arterie con i grandi edifici, bensì anche le più popolari viuzze laterali con le tradizionali case in mattoni. Non si può lasciare la città prima di aver fatto una breve incursione al Niederegger Café, di fronte al Rathaus, per gustare il marzapane, dolce tipico cittadino.

Amburgo, la città dalle mille vite
Nei secoli XIV e XV, Amburgo costituiva un elemento fondamentale della Lega Anseatica grazie al suo porto sul Mare del Nord, di cui i suoi alleati avevano bisogno per garantire il commercio da oriente a occidente, da Novgorod a Bruges. Quando alla fine del ‘400 iniziò la decadenza della Lega, la città sulle rive dell’Elba, che non si accontentò mai di questo semplice ruolo di porto di transito, invece di farsi travolgere dalla crisi colse l’occasione per emanciparsi e allacciare rapporti autonomi con i paesi dell’Europa del nord, che le permisero non solo di mantenere la sua ricchezza, ma anzi di aumentarla, reinventandosi senza sosta. Ed è proprio questa attitudine di adattamento ai mutamenti sociali che ha fatto la fortuna di Amburgo nel corso dei secoli. Una città che è rinata dopo il disastroso incendio del 1848, che distrusse un terzo dei suoi edifici, così come è risorta dopo i terribili bombardamenti della seconda guerra mondiale. Uno spirito vitale che si respira ancora oggi passeggiando per le vie di questa dinamica e cosmopolita metropoli, seconda per popolazione (circa 2 milioni di abitanti, di cui un quinto costituito da immigranti) solo a Berlino. Amburgo ha una densità territoriale di popolazione molto bassa rispetto alla media europea. Solo un terzo, infatti, della sua superficie urbana è edificata, il resto è costituito da parchi, fiumi, canali e laghi. Per questo è una città molto vivibile, rinomata per l’arte e i teatri, un radicato movimento culturale alternativo che convive con gente alla moda, e una vita notturna molto intensa, tanto da giustificare il soprannome di capitale del peccato.
Il centro cittadino, racchiuso fra il fiume Elba dove si trova il porto, i suoi canali su cui si affacciano gli antichi magazzini portuali e l’affascinante Alster con i suoi due bacini, è facilmente percorribile a piedi. Dall’immancabile gita in battello sul Binnenalster e l’Aussenalster, si ammirano le altissime torri (oltre 100 metri) dei monumenti più significativi: delle principali chiese (St. Jakobikirche, St. Petrikirche, St. Michaelis-Kirche e Sankt Nikolai) e del Rathaus, ricostruito nel 1897, sede di senato e parlamento regionali, cuore pulsante della città, fulcro della sua anima commerciale e quartiere dello shopping. Altro punto nevralgico della città è il porto, uno dei più importanti d’Europa, che confina con il quartiere a luci rosse di St. Pauli, con il suggestivo Speicherstadt, l’antica zona franca ricca di costruzioni in mattoni e tetti in rame e con il modernissimo Hafen City, dove si costruisce la città del futuro.

Colonia, Roma del Nord
Il nostro viaggio, dapprima attraverso l’ex DDR (Deutsche Demokratische Republik) e in seguito alla scoperta delle principali città che nel Medioevo diedero origine alla Lega Anseatica, si sta ormai concludendo. Proponiamo un’ultima veloce tappa a Colonia per visitare una delle cattedrali più rinomate al mondo e per interrompere la lunga trasferta da Amburgo al Ticino. D’altra parte il collegamento tra Colonia e la Lega Anseatica fu significativo, perché questa città, grazie alla sua posizione sulle rive del Reno e al centro di importanti vie di comunicazioni commerciali, aderì alla Lega.
Città di origine romana, molto aperta, nota per il suo dialetto e per la sua birra Kölsch, ma anche per l’Acqua di Colonia, presenta un centro storico molto animato con una moltitudine di chiese romaniche e case colorate lungo il fiume. Ma la ragione principale per visitare Köln è la sua splendida cattedrale gotica, uno degli edifici religiosi più celebri al mondo, sede dell’autorità cattolica tedesca. Unico edificio risparmiato dai bombardamenti alleati nella seconda guerra mondiale – il resto della città venne raso al suolo – custodisce inestimabili tesori e opere d’arte: vetrate dei secoli XIII e XVI, il Reliquiario dei Re Magi offerto alla città da Federico Barbarossa nel XII secolo, il Crocifisso di Gero, il più antico del mondo occidentale risalente al 970, diverse pale d’altare di fattura elevatissima e arredi sacri nella Domschatzkammer. La costruzione, ispirata alle gigantesche cattedrali francesi, iniziò nel XII secolo. I lavori si protrassero stancamente fino al 1560 quando vennero interrotti per l’esaurimento dei fondi disponibili. Si dovettero attendere ben tre secoli, e cioè fino al 1880, per completare la costruzione. Una generosa donazione del re di Prussia Federico Guglielmo IV permise di costruire le due guglie che si elevano fino a 157 metri di altezza e costituiscono il simbolo di Colonia.

Itinerario
1°, 2°, 3° giorno (832 km – 8h) Locarno – Dresda
4° giorno (200 km – 2h) Dresda – Potsdam
5° giorno (350 km – 3.30h) Potsdam – Putbus – Binz
6° giorno (300 km – 4h) Binz – Kap Arkona – Sassnitz – Stralsund – Bad Doberan – Wismar – Benz
7° giorno (100 km – 1.30h) Wismar – Schwerin – Lubecca
8°, 9°, 10° giorno (100 km – 1.15h) Lubecca – Travemünde – Amburgo
11° giorno (425 km – 4h) Amburgo – Colonia
12° giorno (750 km – 8h) Colonia – Locarno

Per saperne di più
Germania La Guida Verde, Michelin, Milano 2008
Germania Rough Guides, Feltrinelli, Milano 2012
Germania Lonely Planet, Torino 2013

Germania – Il peso di una guerra atroce sulle grandi città tedesche

Germania – Un “vecchio Est” da riscoprire
Germania – Atmosfere nordiche e medievali
Germania – Nella vita di due anziani la storia della Germania

Una cartolina in vendita nelle edicole di Colonia ritrae la città nel 1945, dopo la fine della seconda guerra mondiale, con il suo splendido duomo quasi intatto che troneggia su un deserto di macerie. Un’immagine simbolo, valida per molte città tedesche, che mostra le terribili conseguenze della guerra e dei bombardamenti alleati. È il caro prezzo che il Paese ha pagato per aver seguito Hitler nella sua follia militare. Ma erano davvero tutte necessarie queste distruzioni? Purtroppo è una domanda che ci si può porre solo dal profilo storico, consci che nell’ottica bellica i parametri di giudizio sono molto diversi da quelli della storia.
Alla gente di Dresda: siamo stati costretti a bombardare la vostra città a causa del pesante traffico militare che i vostri impianti ferroviari hanno portato avanti. La distruzione di obiettivi diversi non è stata intenzionale”. Questo il testo di un volantino lanciato sulla città dopo il bombardamento del febbraio 1945, quando furono sganciate 3900 tonnellate di esplosivo che provocarono la morte di decine di migliaia di persone. Un numero di vittime esagerato dapprima dalla propaganda nazista, che parlò di 200 mila morti, poi dai comunisti che ne stimarono 135 mila. Il raid scatenò comunque il primo dissenso pubblico sulla politica dei bombardamenti. Churchill, che lo aveva approvato, se ne distanziò subito dopo lasciandone la responsabilità al maresciallo Arthur “Bomber” Harris, responsabile delle operazioni aeree. Gli storici ne dibattono ancora oggi. Per molti si trattò di un crimine, perché ritengono che con l’Armata Rossa alle porte di Berlino la guerra era ormai decisa, altri sostengono invece che il bombardamento era giustificato perché la città avrebbe potuto offrire rifugio alle truppe tedesche in fuga da est. Molto diverso, invece, il discorso sull’Operazione Gomorra ad Amburgo, decisa dallo stesso maresciallo nel luglio del 1943. La città con il suo porto, allora il più importante d’Europa, costituiva infatti un punto nevralgico del Terzo Reich. La cosiddetta Feuersturm (tempesta di fuoco) durò una settimana, uccise decine di migliaia di civili e distrusse oltre la metà delle abitazioni, l’80% della zona portuale e il 40% di quella industriale. Nella cripta della chiesa di Sankt Nikolai, gravemente danneggiata dai bombardamenti e mai ricostruita, una mostra molto toccante dedicata agli orrori della guerra mette a confronto tre eventi traumatici del secondo conflitto mondiale: da una parte l’Operazione Gomorra degli Alleati, dall’altra il bombardamento tedesco di Conventry nel 1940 e la distruzione di Varsavia perpetrate dalla Wehrmacht. L’esposizione inserisce i tre avvenimenti nel loro contesto storico rendendo evidenti le responsabilità politiche del Terzo Reich. Anche visitando il museo storico della città (Museum für Hamburgische Geschichte), che propone una mostra sulla storia degli ebrei ad Amburgo, non si ha mai l’impressione che la Germania odierna voglia glissare sul passato nazista non assumendosi le sue responsabilità storiche, anzi…!

Borgogna – L’inebriante “Route” tra vigneti e nomi prestigiosi

Borgogna – Tra castelli e monasteri medioevali
Borgogna – Lungo la strada dei grandi vini fermenta la cultura del territorio
Borgogna – Per i vini della Borgogna serve un fiuto professionale

Nella terra del “bon vivre” e dell’equilibrio. Cittadine a misura d’uomo, ricchezze artistiche, paesaggi bucolici. Gastronomia gustosa e raffinata, vini sopraffini. Lungo la strada dei “GrandsCrus” ognivillaggio, ogni pendio vanta un titolo glorioso.

Città a misura d’uomo, ricchezze artistiche, paesaggi bucolici, gastronomia gustosa e raffinata, vini sopraffini: siete in Borgogna, la terra del “bon vivre” e dell’equilibrio. Da Digione a Santenay, passando per Beaune, lungo 65 chilometri, si estende la “Côte-d’Or”. La si percorre lungo la “Route des Grands Crus”, che attraversa alcuni tra i vigneti più famosi al mondo. A ogni tappa di questo itinerario corrisponde un marchio di eccellenza. Ogni villaggio, ogni pendio porta un titolo glorioso. D’altra parte il ricco patrimonio architettonico di questo territorio della Francia presenta tutte le epoche artistiche, ad iniziare dal romanico, con più di 2 mila siti protetti e oltre 800 chiese, cappelle e strutture conventuali, nonché 400 castelli, palazzi e manieri. La regione conserva l’immensa eredità monastica dei due grandi ordini religiosi del Medioevo (benedettini di Cluny e cistercensi di Cîteaux), ma è pure la patria dei duchi di Borgogna, grandi mecenati, che contribuirono a creare la potenza e la fama di questa terra. Fino al XIV secolo il ducato ebbe sede a Beaune, ma poi con Filippo l’Ardito (1342-1404) scelse di stabilirsi definitivamente a Dijon, dove divenne particolarmente potente nel XIV e XV secolo. Questo fatto provocò una forte rivalità tra le due città, che ancora oggi si contendono l’eredità del prestigioso ducato.
Il nostro itinerario di viaggio percorre le cinque regioni in cui si suddivide la Borgogna (Côte-d’Or, Yonne, Nière, Saône-et-Loire e Morvan) e inizia da Beaune, che si raggiunge dal Ticino in circa 5 ore d’automobile. Presenterò la “Route des Grands Crus”, soffermandomi in particolare sulla piccola e graziosa Beaune e sulla grande Dijon, che sono due città a misura d’uomo.

La Route des Grands Crus
La pittoresca “Route des Grands Crus”, molto piacevole da percorrere in automobile, attraversa i principali vigneti della “Côte-d’or” per una sessantina di chilometri da Dijon a Santenay, toccando una trentina di graziosi villaggi agricoli, oltre a Beaune, la capitale del vino Bourgogne. La “Côte-d’Or” si suddivide in “Côte-de-Nuits” (da Nuits-St-Georges a nord di Beaune fino alle porte di Dijon) e “Côte-de-Beaune” (attorno a Beuane e in direzione sud fino a Santenay). La “Côte-de-Nuits” si estende lungo circa 20 chilometri mentre in larghezza il territorio vignato non supera quasi mai gli 800 metri. I suoi vini più prestigiosi sono rossi prodotti con uve di Pinot Nero. Il vino più famoso della “Côte” è certamente il Romanée-Conti, proveniente da una piccolissima tenuta nel villaggio di Vosne-Romanée. Sulla carta dei vini di un rinomato ristorante di Beaune veniva offerto a 10’500 euro la bottiglia (annata 1999). Gli esperti concordano nell’asserire che a Vosne-Romanée non esistono vini mediocri, ma solamente di qualità superiore. Proseguendo in direzione Dijon si incontra Vougeot, da cui si raggiunge l’omonimo cinquecentesco Château (interessante la visita), circondato da vigneti che furono piantati nel XII dai monaci dell’abbazia cistercense di Citaux, a cui la tenuta appartenne fino alla rivoluzione francese. Qui si produce un altro rosso celebre in tutto il mondo. A pochi chilometri sorge il villaggio di Chambolle-Musigny, che pure dà il nome a un vino molto noto, e in seguito si raggiunge Gevrey-Chambertin, dove si produce un rosso molto delicato. Alexandre Dumas scrisse a proposito di questo vino preferito da Napoleone: “A nessuno il futuro appare tanto rosa come se lo si osserva attraverso un calice di Chambertin”.
A sud della città e attorno a Beuane si estende invece la “Côte-de-Beaune”, più lunga e larga della “Côte-de-Nuits”, dalla quale si distingue anche per la produzione di grandi vini bianchi, oltre che rossi. Alle porte di Beaune in direzione nord, ad Aloxe-Corton, Carlo Magno (742-814) possedeva alcuni vigneti su una collina molto isolata, a cui si ispira ancora oggi il Corton-Charlemagne, un bianco di gran classe. I rossi di questo villaggio sono invece stati definiti da Voltaire “i più sinceri della costa di Beaune”. Dalle vicine colline di Pernand-Vergelesses, si gode una splendida vista su tutta la regione. All’entrata sud di Beaune si trovano invece i vigneti di Pommard e di Volnay, tanto apprezzati dal re di Francia Luigi XI e considerati tra i migliori di tutta la Borgogna. Più a sud si raggiunge Meursault, considerato il centro dei vini bianchi della “Côte-d’or”, che vengono ottenuti dalla vinificazione di uve Chardonnay: i Mersault, i Pulugny-Montrachet e i Chassagne-Montrachet sono ritenuti i migliori al mondo.

Beaune, capitale del vino bourgogne
A Beaune, la simpatica capitale del vino bourgogne, tutto parla di vino: non solo le numerose cantine che offrono i propri prodotti in degustazione, o il museo del vino situato nella dimora dei duchi di Borgogna; ma persino quell’opera straordinaria, assolutamente da non perdere, che è l’Hôtel-Dieu. Si tratta di un ospedale che aprì i battenti nel 1452 e rimase in funzione fino al 1971. Fu fondato al termine della guerra dei Cent’anni da Nicolas Rolin, cancelliere del duca Filippo il Buono. Per garantire le spese di gestione dell’istituto il suo fondatore diede in dotazione all’Hôtel alcune tenute viticole, i cui proventi andavano a coprire i deficit dell’ospedale. A partire dal 1850, quando il commercio del Bourgogne si internazionalizzò, ogni anno la terza domenica di dicembre nella grande sala medievale dell’Hôtel si svolge un evento mondiale: un’asta (curata da Christie’s) dei vini provenienti dai 60 ettari delle tenute, che si estendono tra Gevrey-Chambertin e Puligny-Montrachet. I proventi vengono ancora oggi devoluti all’opera dell’Hôtel-Dieu e i valori acquisiti all’asta costituiscono per i commercianti la base dei prezzi dell’annata.
Al di là di questa curiosità, la visita all’ospedale, che funzionò per oltre cinque secoli, è di grande interesse. La struttura ha più le parvenze di “un alloggio del principe che di un ospedale per i poveri”, con l’imponente e magnifico tetto in tegole verniciate e la corte d’onore, da cui si accede alla “salle des pôvres”, un’immensa camerata dove sono ancora allineati lungo le pareti 28 letti che per secoli hanno accolto i malati della cittadina. Separata da un semplice tramezzo, si trova una cappella, che consentiva ai degenti di assistere alle funzioni senza doversi spostare e ospitava un capolavoro dell’arte fiamminga del Quattrocento: il Giudizio universale di Roger Van der Weyden (ora esposto in un’altra sala), che ricorda con minuzia di particolari ciò che ci attende dopo la morte. La visita prosegue visitando le stanze per i malati più abbienti, per quelli in pericolo di vita, la cucina e la farmacia. Tutto è rimasto intatto, perfettamente conservato, come se il tempo si fosse fermato.

Dijon, la città dei duchi
Il ducato di Borgogna nel XIV secolo e soprattutto nel XV, per la sua ricchezza di idee e di vita artistica, rappresentò l’apice della cultura e della politica europea. Nel corso di un secolo, i duchi furono tra i principi più potenti della cristianità, con una posizione pari a quella del papa o dell’imperatore. Il loro regno si estendeva dal mare del Nord fino al Mediterraneo. Furono anche grandi mecenati e trasformarono Digione, lontana dalle guerre, in una città di cultura e di commercio senza pari: il palazzo ducale faceva da sfondo a sontuosi ricevimenti e gli affari prosperavano, consentendo alla grande borghesia di costruire fastose dimore ancora oggi visibili in “rue des Forges”, “rue Vauban” e “rue Verrerie”. Il fasto dei duchi, dopo un periodo di declino, venne poi ripreso e incrementato dalla nobiltà del XVII e XVIII secolo, che recuperò il Palazzo Ducale in disuso dai tempi di Carlo il Temerario (1433-1477) e trasformò i suoi dintorni in “Place Royale”, l’attuale semicircolare “Place de la Libération”, progettata dall’architetto Jules Hardouin-Mansart, che disegnò Versailles. Recentemente questa splendida e animatissima piazza, dove è piacevole sedersi all’ora dell’aperitivo in uno dei suoi numerosi caffè per gustarsi un kir (specialità a base di liquore di cassis e vino bianco), è stata arredata con ingegnosi getti d’acqua che fanno la gioia dei bimbi.
Ma, oltre a passeggiare per le vie del piacevolissimo centro storico pedonalizzato, non si può mancare una visita al Palazzo dei Duchi, che ospita uno dei più importanti e vasti musei d’arte di Francia. Indimenticabili le tombe di due duchi che fecero la grandezza di questa terra: quelle di Filippo l’Ardito (1342-1404) e di Giovanni Senza Paura (1371-1419) sepolto assieme alla consorte Margherita di Baviera. Le statue funerarie in marmo bianco giacciono su una lastra di marmo nero sorretta da una sorta di chiostro sotto al quale veglia un gruppo di figure piangenti o in lutto. Assolutamente da non perdere anche i due polittici trecenteschi della Crocifissione e quello dei Santi e Martiri.

Itinerario
1° giorno (530 km) Locarno – Beaune
2° giorno (40 km) Beaune – Santenay – Beaune
3° giorno (50 km) Beaune – Dijon
4° giorno Dijon
5° giorno (200 km) Dijon – Fontenay – Ancy-le-Franc – Tanlay – Chablis – Auxerre
6° giorno (350 km) Auxerre – Vézelay – Pouilly-sur-Loire – Cluny
7° giorno (150 km) Cluny – Cormatin – Beaune
8° giorno (530 km) Beaune – Locarno

Per saperne di più
Bourgogne Geoguide, Paris 2014
Borgogna e Champagne-Ardenne La guida verde Michelin, Milano 2008
Bourgogne Petit Futé, Paris 2014

Borgogna – Lungo la strada dei grandi vini fermenta la cultura del territorio

Borgogna – L’inebriante “Route” tra vigneti e nomi prestigiosi
Borgogna – Tra castelli e conventi la storia del Medioevo
Borgogna – Per i vini della Borgogna serve un fiuto professionale

Quando si dice Borgogna si pensa subito ai suoi vini, anche se questa terra è ricca di storia, arte e architettura. E infatti la viticoltura, con una produzione media di 200 milioni di bottiglie all’anno, di cui la metà destinate all’esportazione, e un fatturato di 1,2 miliardi di euro, costituisce un terzo delle entrate del settore agricolo, sebbene occupi meno del 2% del suo territorio. L’attività viticola genera inoltre 20 mila impieghi diretti e più di 100 mila indiretti (vetrerie, produzione di barrique e altro).
I primi documenti che attestano la produzione di vino in Borgogna risalgono all’epoca del dominio romano. Già nel VI secolo sembra che la produzione fosse elevata. Carlo Magno (742-814), proprietario di diversi vigneti nella regione di Aloxe-Corton, nel 794 fissò norme tassative che regolavano la cura delle viti e la produzione del vino. Nei secoli XI e XII furono soprattutto i monaci a praticare la viticoltura. I diversi ordini monastici, oltre a possedere varie tenute, avevano anche i mezzi finanziari, le cognizioni, le forze lavorative e soprattutto la volontà di produrre, in onore di Dio, il miglior vino possibile. Già alla corte dei duchi di Borgogna nel XIV e XV secolo i vini di questa regione godevano di buona fama. Ma fu con Luigi XIV e con il loro ingresso alla corte di Francia nel XVII secolo che i Bourgogne raggiunsero la grande notorietà. Si racconta che il medico personale del Re Sole gli prescrisse di prendere come medicina del vino di Borgogna. Fu così che all’inizio del XVIII secolo vennero fondate le prime case vinicole commerciali a Beaune. La Rivoluzione Francese portò al frazionamento delle proprietà terriere dei nobili e della Chiesa. Nel XIX secolo le innovazioni introdotte nella viticoltura e le migliori possibilità di trasporto via terra e via acqua incrementarono in grande misura il commercio e l’esportazione. Percorrendo gli itinerari che propongo questa settimana e la prossima, si potranno scoprire le zone di produzione del Bourgogne, lungo la “Route des Grands Crus” e altre strade panoramiche attraverso alcuni tra i più rinomati vigneti al mondo, dove si coltivano le uve Pinot Noir per i prestigiosi rossi (Vosne-Romanée, Vougeot, Gevrey-Chambertin, Pommard, Volnay e altri) e quelle Chardonnay per i fantastici bianchi (Montrachet, Mersault, Chablis, Pouilly-Fuissé). Paesaggi bucolici con gli splendidi vigneti nelle zone di collina, più favorevoli climaticamente, che danno origine ai “Grands Crus” e “Premiers Crus”, ma anche altri in pianura, dai quali si ricavano vini meno pregiati. Una giungla di denominazioni in cui non sempre è facile districarsi, anche quando si è sul posto.

Borgogna – Tra castelli e conventi la storia del Medioevo

Borgogna – L’inebriante “Route” tra vigneti e nomi prestigiosi
Borgogna – Lungo la strada dei grandi vini fermenta la cultura del territorio
Borgogna – Per i vini della Borgogna serve un fiuto professionale

Attraversando i vigneti dello Chablis e del Poully-Fumé, l’itinerario propone la visita di alcuni castelli cinquecenteschi e di monasteri che diedero origine ai due massimi ordini monastici del Medioevo: i benedettini di Cluny e i cistercensi di Bernardo di Chiaravalle.

Prosegue il nostro viaggio nella Borgogna, terra del “bon vivre”, con le sue città a misura d’uomo, i paesaggi bucolici, la gastronomia gustosa e raffinata e i vini sopraffini. L’itinerario che vi proponiamo si sofferma su alcune delle testimonianze architettoniche più suggestive di questo territorio, ricco di presenze di ogni epoca artistica dal romanico in poi, con più di 2 mila siti protetti, di cui oltre 800 chiese, cappelle e strutture conventuali, nonché 400 castelli, palazzi e manieri. Visiteremo alcuni “châteaux” e i monasteri che diedero origine ai due massimi ordini monastici del Medioevo: i benedettini di Cluny ed i cistercensi che con San Bernardo di Chiaravalle si opposero al loro fasto. Naturalmente senza dimenticare zone viticole importanti come quella dei vigneti Chardonnay, da cui nascono i prestigiosi Chablis, e dei Cabernet Sauvignon che sulle rive della Loira danno origine a uno dei bianchi più originali della Borgogna: il Pouilly-Fumé.

L’abbazia di Cluny, ‘luce del mondo’
Una delle mete certamente più significative del nostro viaggio in Borgogna è il monastero cistercense di Cluny. Costruito nel XII secolo era il tempio di Dio più grande di tutta la cristianità (187 metri di lunghezza con 5 campanili e oltre 300 finestre). E lo rimase fino alla costruzione di San Pietro a Roma nel XVI secolo. Purtroppo la chiesa non è riuscita a salvarsi dalle distruzioni operate dalla Rivoluzione francese e le sue gloriose pietre sono state utilizzate per costruire scuderie e strade. Le vestigia dell’abbazia rimangono tuttavia impressionanti per le loro dimensioni, che permettono di intuire quali fossero i caratteri generali della sua opulenta architettura diffusasi in tutta la Borgogna e anche oltre. Coadiuvati da un’ottima audioguida e da vari supporti multimediali i visitatori, con un po’ di fantasia, riescono a immaginare come dovesse essere questo monastero che fece esclamare al papa Urbano II: “Siete la luce del mondo!”.
Cluny, all’inizio del X secolo, fu il centro della cosiddetta riforma cluniacense, che voleva recuperare i principi originali dell’ordine dei Benedettini fondato a Monte Cassino da Benedetto da Norcia (480-547). La regola della preghiera e del lavoro, al servizio di Dio e dell’uomo, costituiva il fondamento della dottrina di San Benedetto. “Ora et labora” era il suo motto. Con la preghiera e l’espiazione il monaco si assumeva l’alto compito di rappresentare l’umanità al cospetto di Dio. Allo stesso tempo, dissodava i boschi, arava i campi e nei suoi scritti raccoglieva i tesori culturali dell’umanità per tramandarli ai posteri. Con il passare degli anni, però, i monasteri benedettini divennero sempre più legati a interessi terreni ed i loro monaci si davano placidamente ai piaceri della vita. Ecco perché a Cluny si sentiva il bisogno di recuperare i principi originali dell’ordine. Ma questo avvenne con un’accentuazione esagerata della liturgia, a scapito dell’attività lavorativa. D’altra parte, grazie all’indipendenza dal potere politico e alla concessione di sottomettere altri conventi, l’abbazia di Cluny divenne ricchissima e molto potente: si dice che l’abate detenesse il potere di un papa. Da questa ricchezza traeva origine il fasto della sua architettura.

Da Cluny a Fontenay, si torna alla semplicità
Al fasto cluniacense si oppose nel XII secolo Bernardo da Clairvaux (1090-1153). Dall’abbazia di Chiaravalle in Borgogna criticava i cluniacensi, che “non possono allontanarsi quattro leghe da casa senza portare al loro seguito sessanta cavalli” e per i quali “la luce brilla solo in un candelabro d’oro o d’argento”. Nacque così la riforma cistercense, centrata sull’abbazia di Citeaux, che propugnava il ritorno alla povertà, all’ascesi più assoluta, alla semplicità e all’attività nei campi o nelle officine del convento. Grazie alla forte personalità di San Bernardo la riforma si espanse in tutta Europa. L’architettura cistercense, a differenza di quella cluniacense, era essenziale e ogni decorazione o sfarzo non solo erano considerati sconvenienti, ma proibiti. Tutti i conventi erano caratterizzati dagli stessi tratti fondamentali ispirati a una grande purezza architettonica. Tra gli esempi più belli di questa rigorosa interpretazione dello stile romanico figura il convento di Fontenay, a poco più di un’ora in automobile da Digione. Situato in un luogo incantevole, tra il bosco e i prati, perfettamente conservato nel corso dei secoli, il complesso architettonico, patrimonio mondiale dell’umanità, ispira al visitatore una grande serenità ritmata dal canto degli uccelli.

L’abbazia di Vezalay e le cripte di Auxerre
Fu dalla basilica di Vezalay che nel 1146 Bernardo di Chiaravalle alla presenza del re di Francia Luigi VII esortò i cavalieri ad intraprendere la seconda crociata. Vezalay era un’importante stazione dove sostavano i pellegrini che si recavano a Santiago di Compostela per pregare San Giacomo. Da una piccola altura, che sovrasta la valle, l’alto campanile della basilica salutava il corteo dei fedeli. La particolarità architettonica di questo luogo di culto è costituita da una specie di chiesa esterna rispetto a quella principale, che permetteva di seguire le celebrazioni liturgiche ai numerosi pellegrini rimasti senza posto all’interno. Gran parte di questo monumento è andato distrutto nel corso dei secoli ed è stato ampiamente restaurato per non dire ricostruito. Ma il timpano del portale centrale della chiesa, opera magistrale del romanico borgognone, si è ben conservato. Raffigura il Cristo che invia gli apostoli nel mondo a compiere miracoli.
Auxerre, capitale del vino bianco Chablis, è una graziosa cittadina affacciata sul fiume Yonne. Le sue colorate case a graticcio sono allineate in stradine che salgono alla cattedrale di Saint-Etienne e all’abbazia di St-Germain. Di particolare interesse, in questi due edifici religiosi, sono le due cripte. Quella della cattedrale romanica (1025-1035) ospita affreschi eccezionali dell’XI e XII secolo. È il solo esempio noto in Francia di un Cristo circondato da angeli che cavalca un cavallo bianco. Nel corridoio della cripta dell’antica abbazia, che ospita le spoglie di San Germano, si possono invece osservare alcuni tra gli affreschi più antichi di Francia, con la raffigurazione del Giudizio, della Lapidazione di S.Stefano e di due vescovi.

Castelli borgognoni del XVI e XVII secolo
Degli oltre 400 castelli, palazzi e manieri presenti in Borgogna il nostro itinerario prevede di visitarne tre, che per diversi motivi sono particolarmente significativi.
Iniziamo dal più antico: il castello di Ancy-le-Franc, costruito nel 1546 dall’architetto bolognese e allievo del Palladio, Sebastiano Serlio (1475-1554). Questo architetto, giunto alla corte del re francese Francesco I (1494-1547) portò i princìpi del Rinascimento italiano in Francia, e il castello di Ancy-le-Franc ne è il primo modello. Le reminiscenze artistiche italiane si notano dall’eleganza sobria di questa costruzione, il cui mobilio è purtroppo stato recentemente venduto all’asta. Particolarmente suggestiva è la scena di battaglia monocroma color ocra di Niccolò dell’Abate, che si trova in una galleria del castello.
Risale a pochi anni dopo, al 1550, il Château de Tanlay situato in riva al canale di Borgogna, su cui si affaccia anche il suo parco con alberi centenari. Forse perché il suo architetto Pietro il Muto era un ex ingegnere militare, forse a causa dei curiosi obelischi a forma piramidale che si elevano all’ingresso del ponte levatoio, forse ancora per i suoi vasti fossati colmi d’acqua, questo edificio interpreta bene l’immaginario collettivo del castello classico.
Il castello di Cormatin, costruito tra il 1605 e il 1616, mezzo secolo dopo i due precedenti, risulta invece di particolare interesse per i suoi arredamenti interni, che sono stati conservati in modo eccezionale e permettono di immergersi nell’universo raffinato della nobiltà francese del XVII secolo. Mentre a Parigi e in molte altre importanti località di Francia gli arredi di quest’epoca sono scomparsi, a Cormatin, forse per la sua posizione discosta, soprattutto nell’appartamento della marchesa tutto è rimasto come se fosse stato abitato fino al giorno prima. Non mancate dunque la visita guidata che si protrae per oltre un’ora.

Un bicchiere di Chablis o di Pouilly-Fumé
Dulcis in fundo, anche in questa pagina dedicata alla Borgogna non poteva mancare un accenno ai suoi straordinari vini. Questa seconda parte del nostro itinerario in Borgogna attraversa altri due vigneti di prestigio: quelli da cui si ottengono i bianchi Chablis e Poully-Fumé.
Lo Chablis viene prodotto quasi esclusivamente con uva Chardonnay. I vigneti si estendono attorno al grazioso villaggio di Chablis, dove il terreno in prevalenza calcare favorisce la produzione di un vino perfettamente secco, dal colore paglierino, dal profumo delicatissimo, dal sapore gentile e adatto all’invecchiamento, come la maggior parte dei bianchi della Borgogna.
L’ultima tappa enologica del nostro itinerario si svolge lungo la Loira. La nostra meta è Poully-sur-Loire, una regione dove i due terzi dei vigneti sono costituiti dal vitigno Chasselas, da cui si ricava un vino semplice e genuino da consumarsi giovane. Nel rimanente terzo cresce invece la stupenda uva bianca Sauvignon, che in questi paraggi viene pure chiamata “Blanc-Fumé”, dalla quale si ricavano i favolosi bianchi Poully-Fumé, chiari, arzilli, saporiti e normalmente secchi, che vengono imbottigliati dopo un anno e che non vanno confusi con i Poully-Fuissé, prodotti nel Mâconnais con uva Chardonnay.

Itinerario
1° giorno (530 km) Locarno – Beaune
2° giorno (40 km) Beaune – Santenay – Beaune
3° giorno (50 km) Beaune – Dijon
4° giorno Dijon
5° giorno (200 km) Dijon – Fontenay – Ancy-le-Franc – Tanlay – Chablis – Auxerre
6° giorno (350 km) Auxerre – Vézelay – Pouilly-sur-Loire – Cluny
7° giorno (150 km) Cluny – Cormatin – Beaune
8° giorno (530 km) Beaune – Locarno

Per saperne di più
Bourgogne Geoguide, Paris 2014
Borgogna e Champagne-Ardenne La guida verde Michelin, Milano 2008
Bourgogne Petit Futé, Paris 2014

Borgogna – Per i vini della Borgogna serve un fiuto professionale

Borgogna – L’inebriante “Route” tra vigneti e nomi prestigiosi
Borgogna – Tra castelli e monasteri medioevali
Borgogna – Lungo la strada dei grandi vini fermenta la cultura del territorio

Visitare la Borgogna mi ha permesso di vivere due grandi passioni contemporaneamente: quella per i viaggi e quella per il vino. Ma se preparare un itinerario mi riesce sempre piuttosto facile, consultando guide cartacee, internet e racconti di viaggio, così non è per l’enologia. L’anno scorso nella regione di Bordeaux e quest’anno in Bourgogne, le patrie, forse, dei più grandi vini al mondo, mi sono sentito frustrato.
Certe cantine sono inaccessibili e nei ristoranti, anche quelli stellati, è raro trovare ottimi vini al bicchiere. Quando ti portano la carta, se non sei più che esperto, finisci per ordinare quelle stesse bottiglie blasonate che potresti bere in qualsiasi grande ristorante del mondo. E, anzi, certi produttori prediligono l’esportazione ai clienti locali. In terra francese – e sembra un paradosso – le scoperte enologiche non sono facili. Una sera mi è sembrato di aver degustato un grande Chablis e il sommelier mi ha dato il nome dell’enoteca dove era disponibile. Il mattino dopo mi precipito per acquistarne alcune bottiglie, ma di quel vino non ne rimaneva neppure una. Chiedo allora di consigliarmi altri Grand Cru, che dovrebbero essere i vini migliori, non solo i più cari. L’enologo mi risponde che non vale la pena di scegliere Grand Cru e mi consiglia altre bottiglie (che, tra l’altro, si sono rivelate ottime).
Tornato in Ticino telefono a Paolo Basso, campione del mondo dei sommeliers, e gli racconto di queste mie “frustrazioni”. “In effetti – mi spiega – in Borgogna non è facile fare grandi scoperte. I vini di elevata qualità sono rari. Ma questo è anche il grande fascino di questa terra, che dispone di due soli vitigni: lo Chardonnay per i bianchi ed il Pinot Nero per i rossi. Qui l’ingrediente è uno solo e non è quindi possibile, come invece avviene nella regione di Bordeaux, migliorare la qualità giocando la carta dell’assemblaggio di uve diverse”.
La legislazione in Borgogna suddivide i vini in 5 diverse categorie a seconda della posizione dei vigneti. Si tratta di una gerarchia molto chiara con i ‘Grand Cru’ al primo posto e i ‘Premier Cru’ al secondo. I prezzi seguono il prestigio della denominazione e del produttore, che rappresenta il vero parametro di qualità. Ma la posizione del vigneto costituisce un solo elemento nella qualità di un vino, che dipende anche da come si lavora tra le vigne e in seguito in cantina. Quanto influiscono questi altri due elementi?, chiediamo a Paolo Basso. “In modo determinante. Succede infatti spesso che alcuni ‘Premier Cru’ siano superiori ai ‘Grand Cru’ grazie alla maestria del viticoltore e del vinificatore”. Ma come districarsi allora in questa giungla? “Affidandosi all’esperienza degli esperti. Il nostro mestiere è proprio quello di scoprire i buoni vini, che hanno un ottimo rapporto prezzo/qualità. Quando decido di presentare un produttore sull’offerta della “Paolo Basso Wine”, lo faccio solo dopo avere assaggiato tutta la sua gamma di prodotti, anche di diverse annate, e dopo avere discusso con lui e visitato i suoi vigneti”. Basso rappresenta 11 cantine della Borgogna. Quali sono i suoi vini favoriti di questa regione? “In Borgogna si producono senza dubbio i migliori vini bianchi al mondo: i due ineguagliabili sono i “Montrachet” ed i “Corton Charlemagne”.

Namibia – Un vero paradiso naturalistico

Namibia – Sulle dune più alte al mondo
Namibia – Passato coloniale e apartheid, pesante eredità della Namibia

È la quintessenza dell’Africa, con le dune di sabbia più alte al mondo, deserti rossi, distese di lava, canyon maestosi, coste misteriose e tanti, tanti animali. Per scoprire le gemme nascoste di questa terra si percorrono spazi immensi, attraverso paesaggi incontaminati e in gran parte disabitati

Le dune di sabbia più alte al mondo, deserti rossi, distese di lava, canyon maestosi, coste misteriose e tanti, tanti animali. La Namibia è tutto questo: una quintessenza dell’Africa. Per scoprire le gemme nascoste di questa terra si percorrono spazi immensi attraverso paesaggi incontaminati e in gran parte disabitati. La maggior parte di questo territorio, grande tre volte l’Italia, ma con soli tre milioni di abitanti, è desertica. La popolazione vive nelle regioni del nord (ai confini con l’Angola), ricche d’acqua, e sull’altipiano centrale (circondato dal deserto), sul quale si trova la capitale Windhoek. In questo paradiso naturistico le albe e i tramonti sono spettacolari e infuocano i colori della sabbia rossa del deserto. Durante le notti stellate sembra di toccare il cielo con un dito.
Nonostante si tratti di un paese molto sicuro, il turismo è limitato a causa del costo della vita relativamente elevato per chi visita la Namibia.
Lo stato è indipendente dal 1990, ma la vita socio-economica di questa giovane nazione dell’Africa nera è ancora molto influenzata dall’Apartheid imposta dal governo sudafricano durante la sua dominazione. Il potere economico del paese è ancora oggi detenuto in gran parte dai bianchi: il 5 per cento della popolazione controlla buona parte della ricchezza nazionale.
La Namibia dispone di un’infrastruttura turistica di alto livello con lodge di charme dispersi nella natura. La si può visitare con viaggi organizzati, ma anche individualmente, e senza correre pericoli, noleggiando un’automobile, preferibilmente 4×4. Trattandosi di un paese molto esteso i possibili itinerari di viaggio sono numerosi e dipendono dal tempo che si ha a disposizione. Questa domenica e la prossima pubblicherò il mio diario di viaggio lungo un percorso preparato da Kel 12, un’agenzia italiana che da molti anni offre a piccoli gruppi percorsi originali e ben congeniati.
Il nostro itinerario inizia dalla capitale Windhoek e prosegue alla scoperta dei deserti del Kalahari e del Namib con le dune più alte al mondo, della costa oceanica ricca di delfini, otarie, pellicani e fenicotteri, della splendida regione del Damaraland con fantasiose incisioni rupestri scolpite nelle rocce di arenaria, per terminare all’Etosha Park, dove si può ammirare ogni sorta di animali selvaggi: leoni, elefanti, rinoceronti, giraffe, zebre, aquile eccetera.

Windhoek, la capitale
Il nostro viaggio inizia da Windhoek, la capitale della Namibia. Per raggiungerla sono necessarie circa 20 ore di viaggio, partendo da Lugano e programmando due o tre scali.
Windhoek è una città di stampo europeo, con diversi palazzi che ricordano l’epoca coloniale tedesca, terminata alla fine della prima guerra mondiale. La città è molto pulita e sicura. Marco, la nostra guida, ci ripete più volte che la Namibia è la Svizzera dell’Africa. Ed in effetti, visitando il palazzo del governo namibiano, per gentile concessione di un poliziotto molto orgoglioso del suo paese, mi sembra di entrare nella residenza governativa di Bellinzona.
Passeggiando per il centro città si incontra un movimentato e colorato mix di popoli, che rappresenta la grande varietà dei gruppi etnici del paese. Circa 300 mila abitanti della capitale vivono ancora a Katatura, la città dei neri creata durante l’occupazione sudafricana per allontanare la popolazione di colore dal centro di Windhoek, riservato ai bianchi in base alle regole dell’apartheid. Katatura nella lingua locale significa “il posto in cui non vogliamo stabilirci”. Dopo l’indipendenza, avvenuta nel 1990, la capitale nera è diventata un vivace sobborgo della città, dove il governo ha portato i servizi principali e dove durante il giorno i turisti possono passeggiare in piena sicurezza, a differenza di quanto avviene in quartieri del genere nell’Africa del sud. Oggi questo sobborgo ha cambiato nome: da Katatura, cioè luogo in cui non desideriamo vivere, in Matatura, che nella lingua locale significa un posto dove invece amiamo vivere, anche se ai margini del quartiere stanno nascendo gli “squatter camps”, le bidonville di Windoek.
A Katatura si può visitare la comunità di Penduka, che gestisce un interessante progetto di recupero dell’artigianato locale: ricami, tessuti, batik, eccetera. Gli stessi prodotti si possono acquistare anche al Crafts Centre, il miglior negozio di artigianato namibiano, che si trova nel centro della capitale.

Verso il deserto del Kalahari
La prima tappa del nostro viaggio prevede il trasferimento verso il deserto del Kalahari. Lungo la strada incontriamo numerosi babbuini ed osserviamo enormi nidi sugli alberi, cosiddetti a condominio, perché ospitano colonie di uccellini con il petto giallo. Molto distanziate una dall’altra notiamo anche la presenza di grosse proprietà agricole (farms), che solitamente appartengono a bianchi.
Il Kalahari, con una superficie di circa 1,2 milioni di chilometri quadrati, è uno dei deserti più vasti al mondo. Si addentra per circa 400 chilometri in territorio namibiano, ma si estende anche in Botswana, Angola, Zimbabwe e Zambia. Propone un paesaggio prevalentemente pianeggiante, composto di deserto, steppa e savana ed è caratteristico per le sue dune di sabbia rossa. Un safari nella regione offre un primo approccio alla fauna africana (gazzelle, giraffe, gnu, struzzi, zebre e leoni) e al suo spettacolare territorio.

I San, un’etnia destinata a scomparire
Soprattutto nella regione del Kalahari e in Botswana vivono ancora gli ultimi eredi (circa 55 mila persone) dei San, uno dei popoli più antichi al mondo, autore di straordinari dipinti e incisioni rupestri. La storia di questo popolo nomade di cacciatori ricorda per certi aspetti quella degli indiani d’America. La popolazione vive in piccoli nuclei familiari, senza capi, né gerarchie. Spinta nel corso dei secoli verso zone sempre più inospitali da tribù di agricoltori dedite all’allevamento del bestiame e, in seguito, dai coloni, ha sviluppato una straordinaria conoscenza del territorio e individuato tecniche che permettono la sopravvivenza in condizioni estreme.
I San vivono nel paese da epoche remote e gli studiosi ritengono che certe tribù ancora presenti in zone discoste nel deserto del Kalahari non abbiano cambiato il loro stile di vita da 20 mila anni a questa parte. Ma oggi il futuro delle loro tradizioni e della cultura San è minacciato dall’impatto con la società moderna. I giovani trovano lavoro come personale ausiliario nelle fattorie e si sposano con rappresentanti di altre etnie. La Namibia è infatti un territorio multietnico ed i territori anticamente occupati dai San ospitano oggi popolazioni giunte da varie parti del continente nero.

Itinerario
1° giorno Ticino – Windhoek (via Johannesburg con pernottamento a bordo)
2° giorno Arrivo a Windhoek nel pomeriggio e tempo libero per scoprire il centro cittadino o per il relax
3° giorno Il deserto del Kalahari
4° e 5° giorno (320 km) I San, il Namib e le dune di Sossusvlei
6° giorno (380 km) Il deserto del Namib e Swakopmund
7° giorno Escursione a Walvis Bay e Sandwich Harbour e rientro a Swakopmund
8° giorno (350 km) Cape Cross e la Costa degli Scheletri
9° giorno (320 km) Damaraland, Twyfelfontein e Etosha
10° giorno (300 km) Etosha e il safari
11° giorno (410 km) Etosha, Okahandja (mercato del legno) e Windhoek
12° giorno Partenza per il Ticino (via Johannesburg)

Per saperne di più
Namibia Polaris, Firenze 2011
Namibia Dumont, Milano 2013
Namibia Lonely Planet, Torino 2010

Informazioni e consigli
– Per raggiungere la Namibia sono necessarie circa 13-14 ore di volo effettivo dall’Europa, ma bisogna calcolarne una ventina, perché non ci sono voli diretti e si devono effettuare uno o due scali.
– Il modo più semplice e comodo per organizzare il viaggio è aggregarsi a un piccolo gruppo o creare un proprio gruppo per visitare il paese accompagnati da una guida. Kel 12, l’agenzia italiana con cui viaggia sovente l’autore di questo diario, è specializzata per itinerari in Africa.
– È anche possibile visitare il paese da soli noleggiando un’automobile, meglio se 4×4. Kel 12 organizza anche viaggi di questo genere prenotando gli alberghi per la sera. Alcune vetture sono dotate di tenda per dormire sopra il tetto in campeggi solitamente bene attrezzati e situati in luoghi splendidi.
– I nomi delle località in Namibia sono scritti in inglese e le case di autonoleggio mettono a disposizione navigatori stradali.
– Le strade sono in ottimo stato. Su quelle asfaltate si tiene facilmente una media di percorrenza di 100 km/h, mentre sulle piste in terra battuta si circola a una media di 70 km/h.
– L’itinerario descritto comporta una tragitto di circa 4’000 km.
– L’infrastruttura alberghiera in Namibia è di ottimo livello.
– Per quanto concerne la sicurezza non ci sono problemi. È comunque sempre preferibile viaggiare di giorno.
– Sulla costa oceanica il mattino c’è quasi sempre la nebbia e la temperatura scende notevolmente.
– Le escursioni termiche, costa a parte, tra il giorno e la notte sono notevoli. Bisogna prevedere che può fare anche molto freddo.
– Attenzione al sole, che scotta anche quando c’è la nebbia.
– La cucina è buona e l’igiene, nelle infrastrutture turistiche, è garantita. La birra è ottima. Il vino importato dal Sud Africa è solitamente di qualità.
– Il periodo migliore per visitare la Namibia è settembre-ottobre, cioè durante la loro primavera.

Namibia – Sulle dune più alte al mondo

Namibia – Un vero paradiso naturalistico
Namibia – Passato coloniale e apartheid, pesante eredità della Namibia

Al tramonto lo straordinario color albicocca della sabbia si colora di rosso. In crociera sulla costa oceanica in compagnia di foche che saltano a bordo e delfini che sfrecciano tra le chiglie dei catamarani. E, per finire, il fotosafari all’Etosha National Park, uno dei più grandi e suggestivi dell’Africa

Tra dune spettacolari, paesaggi lunari e incontaminati, deserti rossi, distese di lava e canyon maestosi prosegue il nostro itinerario in Namibia. Dal deserto del Kalahari, che delimita il paese ad est, ci spostiamo verso ovest per visitare il deserto del Namib, che dà il nome al paese e si estende per oltre 2 mila chilometri lungo la costa oceanica. La strada che collega i due deserti attraversa un paesaggio lunare: le montagne hanno riflessi rossi e verdi e la terra del fondo della pista è violacea.

Le dune sabbiose più alte al mondo
Le dune di Sussusvlei, le più alte al mondo, nel Namib Naukluft Park sono uno spettacolo indimenticabile. Si ergono attorno ai letti bianchissimi di antichi laghi prosciugati, che mettono in risalto lo straordinario color albicocca della sabbia del deserto. Le tonalità di colore mutano a seconda della posizione del sole, ma al tramonto la tavolozza dei rossi è indescrivibile. Anche le forme delle dune, forgiate dal vento, sono in perenne mutamento. Il luogo più magico del Parco è certamente Dead Vlei, un lago prosciugato circondato da una corona di dune. Sulla distesa bianca dell’antico bacino si profilano spettrali gli scheletri di alcune piante morte 500 anni fa. Sculture e colori di cui è artefice la natura, il più grande artista al mondo!
Gli studiosi ritengono che il deserto del Namib risalga a 80 milioni di anni fa e sia uno dei più antichi al mondo. Pare sia stato forgiato dalle sabbie del Kalahari, dello stesso colore, trasportate dal fiume Orange fino al mare, da lì spinte a nord dalle fredde correnti artiche del Benguela e infine trasportate lungo la costa dalle onde del mare.
Le dune di Sussusvlei – la più alta raggiunge i 350 metri – si possono scalare con grande fatica, perché i piedi sprofondano nella sabbia e si avanza molto lentamente, come camminando nella neve fresca.
Un altro luogo magico della regione è il Sesriem Canyon, profondo 30 metri e lungo 1 chilometro, scavato dal fiume Tsauchab. Lo si può percorrere a piedi lungo il letto del fiume ormai prosciugato, perché qui non piove da ben tre anni.

Verso la nebbiosa costa oceanica
Il deserto del Namib si addentra per 70-150 chilometri nell’entroterra ed è delimitato a ovest dall’Oceano e ad est da una catena montuosa, che dà accesso all’altipiano centrale: una sorta di spina dorsale molto abitata, che ospita anche la capitale della Nambia. Una strada sterrata corre ai limiti del deserto e lungo le montagne. Si attraversa dapprima un paesaggio spettrale di dune pietrificate, quindi un profondo canyon. A Solitaire, uno dei rari villaggi che si incontrano lungo il tragitto, uno svizzero gestisce una pasticceria nota per produrre il miglior strudel di mele della Namibia. La tratta più spettacolare la si percorre però, prima di raggiungere la costa, fiancheggiando la Valle della Luna: come lo indica bene il nome, il paesaggio è davvero lunare e ricorda quello della celebre Dead Valley nel sud ovest degli Stati Uniti. Avvicinandosi al mare il clima cambia, diventa inaspettatamente fresco, a causa delle fredde correnti antartiche, e spesso anche nebbioso, soprattutto in mattinata. È un fenomeno che si verifica lungo tutta la costa oceanica della Namibia e non senza conseguenze per il deserto del Namib, definito dagli studiosi “un deserto che vive”.

Un deserto che vive
La costante presenza di nebbia, che si inoltra per una trentina di chilometri nell’entroterra desertico lungo la fascia costiera, favorisce la presenza di specie animali e vegetali che hanno saputo adattarsi alle esigenze dell’ambiente, ricavando da questo particolarissimo ecosistema l’acqua necessaria per sopravvivere. L’esempio più eclatante è quello della Weltschia, una delle piante più antiche al mondo. Nei pressi della Valle della Luna se ne possono ammirare vari esemplari, ma in particolare una pianta, che secondo gli studiosi ha addirittura 1600 anni di vita. Questo vegetale, con oltre 2 metri di diametro, non spicca per bellezza ed è curiosamente imparentato con le conifere. Trae i liquidi, di cui necessita per sopravvivere, soprattutto dalla condensazione della nebbia e solo in quantità limitata dal sottosuolo.

Tra otarie e delfini
La località più nota della costa è Swakopmund, una cittadina che ospita ancora diverse famiglie di origine tedesca, i cui antenati si erano stabiliti in Namibia quando il paese era una colonia dell’Impero germanico. La presenza di numerosi edifici di fine Ottocento e d’inizio Novecento, risalenti all’epoca coloniale, da l’impressione al turista di trovarsi in una cittadina tedesca sulle rive del Mare del Nord o del Mar Baltico.
La costa ed il suo mare ospitano numerosi animali: soprattutto fenicotteri rosa, che si radunano in grandi stormi attorno alle pozze, otarie (una specie di foca), presenti con una colonia di 100 mila esemplari, pellicani e delfini. In partenza da Swakopmund o dalla vicina e più moderna Walvis Bay, che come molte altre cittadine attraversate durante il nostro viaggio ricorda l’edilizia dei villaggi americani, vengono organizzate crociere per fare l’incontro con questi simpatici animali. Le goffe foche, che raggiungono un peso medio di 200 chilogrammi, salgono a bordo dei catamarani come animali addomesticati e si lasciano carezzare mentre il capitano offre loro freschi pesciolini di cui sono golosissime: ne mangiano in medie 15 chilogrammi al giorno. I pellicani atterrano con eleganza sugli scafi ed introducono il loro lungo becco arancione all’interno dei finestrini per ricevere pure loro i pesciolini. I delfini giocano con l’imbarcazione a due chiglie collocandosi nel bel mezzo del catamarano ed esibendosi in tuffi vertiginosi.
Un’altra esperienza indimenticabile è la gita di 60 chilometri in fuoristrada 4×4 lungo un paesaggio incontaminato e incantevole, che si snoda sulla sabbia in riva al mare da Walvis Bay a Sandwich Harbour per poi inoltrarsi nelle dune. I piloti delle vetture 4×4 si sbizzarriscono in acrobazie che lasciano i turisti senza fiato. Ma poi, per farsi perdonare, apparecchiano una tavola imbandita in riva al mare con ostriche e champagne.

Incisioni rupestri ed elefanti del deserto
Il nostro itinerario prosegue verso il Damaraland, la terra del popolo damara, una regione arida e ricca di arenaria che colora le montagne di rosso. Ma prima di abbandonare la costa incontriamo uno dei tanti relitti di navi vittime dei fondali marini in perenne mutamento di questa insidiosa costa oceanica. A questo proposito si racconta la storia di una nave inglese, che nel 1942 trasportava militari e passeggeri. Dopo essersi arenata chiamò in soccorso un’altra imbarcazione della flotta britannica, ma pure essa si insabbiò. Venne allora inviato un aeroplano, che sprofondò nella sabbia e non riuscì più a decollare. Infine, per mettere in salvo i naufraghi fu necessario inviare un convoglio di camion via terra.
La spettacolare terra del Damaraland è famosa per le incisioni rupestri e per i safari alla ricerca degli elefanti del deserto (una specie di dimensioni ridotte), che è possibile incontrare con un po’ di fortuna effettuando un’escursione in fuoristrada 4×4 attraverso un paesaggio sensazionale.
A Twyfelfontein, invece, si possono ammirare incisioni rupestri realizzate alcuni millenni fa. Si tratta di 2500 immagini rilevate su circa 200 lastre di arenaria rossa, che rappresentano leoni, elefanti, rinoceronti, zebre, antilopi, giraffe e struzzi presentati in forma stilizzata, ma con precisione di dettagli. La datazione di queste opere d’arte, cha appartengono al Patrimonio mondiale dell’Unesco, è alquanto incerta, ma gli studiosi ritengono si possa collocare tra 3 e 5 mila anni fa.

Uno dei parchi africani più famosi
Il nostro viaggio si conclude, prima di tornare nella capitale per il rientro in aereo, con la visita dell’Etosha National Park, uno dei parchi più grandi e più famosi di tutta l’Africa. Aree di savana, immense distese di cespugli spinosi, zone di fitta foresta, pianure sconfinate, un grande lago salato (per il momento prosciugato perché non piove da tre anni), e numerose pozze, costituiscono l’ambiente ideale per una moltitudine di animali selvatici. Il metodo più sicuro per avvistarli e fotografarli consiste nell’appostarsi nelle vicinanze di una pozza ed osservare il loro avvicendarsi nel rispetto della gerarchia che regola il mondo animale. In ordine di importanza ogni specie aspetta pazientemente il suo turno: dapprima gli elefanti, poi i predatori, quindi gli erbivori e infine i volatili. In una sola giornata abbiamo avuto l’opportunità di vedere diversi gruppi di elefanti giocare con il fango nell’acqua, un leone che dormiva satollo davanti alla carcassa di una giraffa che aveva appena assalito e in parte divorato, una famiglia di leoni che si avventava sua una sventurata preda. Più da lontano abbiamo avvistato anche due ippopotami. Ma abbiamo avuto l’opportunità di ammirare anche molti altri animali: giraffe, zebre, gazzelle di ogni specie, gnu, sciacalli, una iena e due aquile. Una giornata davvero proficua se confrontata con quanto avviene in altri parchi, dove è difficile avvistare gli animali.

Itinerario
1° giorno Ticino – Windhoek (via Johannesburg con pernottamento a bordo)
2° giorno Arrivo a Windhoek nel pomeriggio e tempo libero per scoprire il centro cittadino o per il relax
3° giorno Il deserto del Kalahari
4° e 5° giorno (320 km) I San, il Namib e le dune di Sossusvlei
6° giorno (380 km) Il deserto del Namib e Swakopmund
7° giorno Escursione a Walvis Bay e Sandwich Harbour e rientro a Swakopmund
8° giorno (350 km) Cape Cross e la Costa degli Scheletri
9° giorno (320 km) Damaraland, Twyfelfontein e Etosha
10° giorno (300 km) Etosha e il safari
11° giorno (410 km) Etosha, Okahandja (mercato del legno) e Windhoek
12° giorno Partenza per il Ticino (via Johannesburg)

Per saperne di più
Namibia Polaris, Firenze 2011
Namibia Dumont, Milano 2013
Namibia Lonely Planet, Torino 2010

Informazioni e consigli
– Per raggiungere la Namibia sono necessarie circa 13-14 ore di volo effettivo dall’Europa, ma bisogna calcolarne una ventina, perché non ci sono voli diretti e si devono effettuare uno o due scali.
– Il modo più semplice e comodo per organizzare il viaggio è aggregarsi a un piccolo gruppo o creare un proprio gruppo per visitare il paese accompagnati da una guida. Kel 12, l’agenzia italiana con cui viaggia sovente l’autore di questo diario, è specializzata per itinerari in Africa.
– È anche possibile visitare il paese da soli noleggiando un’automobile, meglio se 4×4. Kel 12 organizza anche viaggi di questo genere prenotando gli alberghi per la sera. Alcune vetture sono dotate di tenda per dormire sopra il tetto in campeggi solitamente bene attrezzati e situati in luoghi splendidi.
– I nomi delle località in Namibia sono scritti in inglese e le case di autonoleggio mettono a disposizione navigatori stradali.
– Le strade sono in ottimo stato. Su quelle asfaltate si tiene facilmente una media di percorrenza di 100 km/h, mentre sulle piste in terra battuta si circola a una media di 70 km/h.
– L’itinerario descritto comporta una tragitto di circa 4’000 km.
– L’infrastruttura alberghiera in Namibia è di ottimo livello.
– Per quanto concerne la sicurezza non ci sono problemi. È comunque sempre preferibile viaggiare di giorno.
– Sulla costa oceanica il mattino c’è quasi sempre la nebbia e la temperatura scende notevolmente.
– Le escursioni termiche, costa a parte, tra il giorno e la notte sono notevoli. Bisogna prevedere che può fare anche molto freddo.
– Attenzione al sole, che scotta anche quando c’è la nebbia.
– La cucina è buona e l’igiene, nelle infrastrutture turistiche, è garantita. La birra è ottima. Il vino importato dal Sud Africa è solitamente di qualità.
– Il periodo migliore per visitare la Namibia è settembre-ottobre, cioè durante la loro primavera.

Namibia – Passato coloniale e apartheid, pesante eredità della Namibia

Namibia – Un vero paradiso naturalistico
Namibia – Sulle dune più alte al mondo

Un recente viaggio in Namibia mi ha fatto riflettere sulle difficoltà che le giovani democrazie africane incontrano per costruire un futuro e superare le sgradevoli eredità dell’epoca coloniale. E questo anche in un Paese come la Namibia, che ha enormi potenzialità economiche e non è dilaniato da lotte religiose (l’80 per cento della popolazione è cristiana).
Iniziamo dalle potenzialità di questa giovane democrazia, nata nel 1990. Una prima opportunità è rappresentata da un territorio splendido e vastissimo (grande tre volte l’Italia), abitato da poco più di 2 milioni di abitanti, con una concentrazione media di 2 persone per chilometro quadrato. Grazie alla bellezza dei suoi paesaggi estremamente variegati la Namibia ha sviluppato un turismo di elevato livello e in continuo sviluppo: oggi rasenta il milione di visitatori all’anno.
Un’altra ricchezza del Paese è rappresentata dalla presenza di minerali di ogni genere: oro, argento, stagno, rame, piombo, zinco, pirite, fluorite, eccetera, ma soprattutto diamanti e uranio. Dalle miniere di diamanti namibiane provengono le gemme più pure al mondo. E per quanto attiene all’uranio la Namibia ospita la miniera più ampia della terra. Grazie alle correnti fredde antartiche la costa oceanica della Namibia figura tra le dieci regioni più pescose al mondo. Molto importante è anche l’agricoltura, che direttamente o indirettamente offre tuttora da vivere al 70 per cento della popolazione ed è particolarmente orientata verso l’allevamento del bestiame (80 per cento del reddito del settore). Il sottosuolo namibiano sembra essere ricco anche di gas e di giacimenti di petrolio: si sta procedendo a trivellazioni.
Nonostante queste enormi potenzialità e sebbene il reddito medio pro capite sia il più alto del continente dopo il Sud Africa, il 50 per cento degli abitanti vive tuttora al di sotto del livello di povertà. Questo è dovuto al fatto che il 5 per cento della popolazione, in prevalenza bianca, controlla i tre quarti dell’economia. E sono proprio questi i difficili retaggi del periodo coloniale con cui deve confrontarsi la Namibia indipendente. Ripercorrendo le tappe principali della sua storia si può ben capire come il processo di mutamento per giungere a una più equa distribuzione del reddito sarà lungo e difficile. Ventiquattro anni di indipendenza sono ben poca cosa di fronte a secoli di dominazioni estere: i boeri, i tedeschi, gli inglesi, i sudafricani. Non si dimentichi inoltre che il Paese deve ancora fare i conti con la scomoda eredità dell’apartheid, che di fatto ha diviso la Namibia tra bianchi e neri. Un’altra insidia è rappresentata dal fatto che la Namibia è uno stato multietnico, creato senza tener conto dei territori occupati in passato da queste differenti popolazioni. Lo strumento principale per affrontare tutte queste sfide è stato individuato nell’istruzione. Oggi l’84 per cento della popolazione è alfabetizzato. Sulla formazione si stanno investendo molti soldi e grandi energie, ma mancano gli insegnanti.

Marche – Una vacanza tra spiaggia e città d’arte

Il mare incontaminato della “Riserva naturale regionale del Conero”. Colline armoniose, ricoperte di vigneti, ulivi e gialli girasoli. Artistici centri urbani come Ascoli, Piceno, con una delle piazze più belle d’Italia, e la rinascimentale Urbino

Colline armoniose ricoperte di vigneti, ulivi e gialli girasoli che si estendono fino al mare. Spiagge sterminate che si impreziosiscono avvicinandosi alla “Riserva naturale regionale del Conero”. Due splendide città medioevali come Urbino e Ascoli Piceno. Piccoli borghi cinti da possenti mura come i famosi Offida e Gradara. Monasteri romanici immersi in una natura incontaminata. Una ricca proposta enogastronomica condita dai tartufi, con punte di diamante nei ristoranti due stelle Michelin a Senigallia. La patria degli outlet nel paradiso delle scarpe e dell’abbigliamento, ma anche dei teatri: all’inizio del Novecento si contavano oltre 100 palcoscenici, dei quali se ne sono conservati una settantina.
Le Marche sono tutto questo. Ma non pensate di trovare una fotocopia della Toscana, perché rischiereste di rimanere delusi, come è accaduto al sottoscritto. In un itinerario ipotetico segnalerò i luoghi più suggestivi visitati durante una vacanza tra mare e visite. Sì, perché le Marche, a differenza di altre regioni d’Italia, permettono di conciliare la vita di spiaggia con la scoperta di paesaggi, borghi e città.

Una delle piazze più belle d’Italia
Per l’omogeneità dei suoi edifici in travertino Ascoli Piceno, che si raggiunge in circa 6 ore d’automobile dal Ticino, è chiamata la piccola Siena. Il cuore della città è costituito dalla Piazza del Popolo, considerata una delle più belle d’Italia con i suoi edifici gotici e rinascimentali e gli eleganti portici. Il suo lastricato in travertino è reso lucido dalle passeggiate degli ascolani nel corso dei secoli. Ancora oggi uno dei riti della città consiste nel darsi appuntamento nel salotto cittadino per un aperitivo, possibilmente al Caffè Meletti per assaggiare la celebre anisetta, che il locale produce da oltre un secolo. Altro punto cardine cittadino è Piazza Arringo, su cui si affacciano la cattedrale ed i palazzi comunale e vescovile con l’interessante pinacoteca. Passeggiare per le vie del centro storico, ricco di monumenti in travertino che assumono sfumature di colore diverse a seconda del volgere delle ore, è molto rilassante. Un’atmosfera poco stressata ci ricorda di essere ormai alle porte del Mezzogiorno. Per gli appassionati d’arte moderna vale la pena di visitare la sezione della Galleria d’arte contemporanea dedicata al pittore Osvaldo Licini (1894-1958), che nacque vicino ad Ascoli, studiò a Bologna assieme a Modigliani e poi, sempre assieme lui, fece carriera a Parigi. Il museo si affaccia su Corso Mazzini, la via nobile della città fiancheggiata da palazzi di varie epoche. Ascoli è denominata anche la città delle 100 torri, di cui ne rimangono però ben poche, dopo che nel XIII secolo Federico II ne distrusse ben 91. Non lasciate Ascoli prima di avere assaggiato al ristorante “Gallo d’oro” le famose olive fritte all’ascolana, che sotto la doratura nascondono un ripieno sopraffino.

Tra vigneti e uliveti
Uscendo da Ascoli in direzione nord verso Offida si entra in un’armoniosa campagna collinare cosparsa di vigneti e di uliveti. Offida propone un piccolo centro con edifici medioevali conservati molto bene. Passeggiando per le strette viuzze che confluiscono nella bella Piazza del Popolo non si può non rimanere incantati da un’immagine che sa di antico: le donne che lavorano il tombolo davanti all’uscio di casa, seguendo una tradizione che si tramandano da generazioni. In un così piccolo villaggio sorprende poi di scoprire l’imponente teatro Serpente Aureo, recentemente restaurato e con un ricco cartellone. Ma nelle Marche ogni paesino che si rispetti ha il suo teatro, di cui è orgoglioso. Ai margini del borgo sull’apice di una collina, da cui si gode uno splendido panorama sulla campagna circostante, sorge l’austera Santa Maria della Rocca con splendidi affreschi del XIV secolo.
Il nostro itinerario prosegue verso nord in direzione di Fermo, passando per Monterubbiano, in un mosaico di campi, vigne, uliveti, che è una gioia per gli occhi.
Fermo, secolare città antagonista di Ascoli Piceno, circondata da possenti mura, è nota soprattutto per la sua piazza principale – non poteva non chiamarsi Piazza del Popolo – che affascina per la sua armonia e per le sue ampie proporzioni. Sul balcone del Palazzo dei Priori, che si affaccia sulla piazza, siede papa Sisto V, forse per simbolizzare la secolare fedeltà professata da questa città al papato. Dal piazzale Girfalco, che domina il borgo ed ospita il duomo con un bellissimo portale del XIII secolo, il panorama sul paesaggio circostante è splendido.

Tra sacro e profano
Si prosegue in direzione nord verso Sant’Elpidio a Mare, il regno della calzatura, che contrariamente all’apparenza si trova nell’entroterra. Qui viene fabbricata la maggior parte delle scarpe italiane esportate in tutto il mondo. L’outlet più noto è quello delle Tod’s Hogan, ma si trovano anche quelli di altre firme prestigiose come Fratelli Rossetti, Prada, eccetera.
Proseguendo sempre in direzione nord si giunge nella Valle del Chienti, dove a pochi chilometri di distanza uno dall’altro si trovano interessanti luoghi spirituali: il convento benedettino di Santa Maria a Piè di Chienti (1125), la chiesa di San Claudio (XI secolo) con l’originale portale fiancheggiato da due torri e l’interessante Abbazia di Fiastra, che merita una visita approfondita. Seguendo l’ottima audioguida si ripercorre la vita nel monastero nel corso dei secoli ammirando l’originaria architettura cistercense, che esprime in modo suggestivo la semplicità e l’umiltà su cui si fonda la riforma monastica operata da San Bernardo di Chiaravalle. Una delle regole, di origine benedettina, recita “ora et labora” (prega e lavora). Il lavoro, accanto alla preghiera, è sempre stato tenuto in grande considerazione dall’ordine, come si può notare visitando il “Cellarium” (deposito delle merci), la “Sala delle Oliere”, dove veniva prodotto l’olio, nonché le “Grotte” e le “Cantine”, dove veniva conservato e prodotto il vino.
Le Marche ospitano anche uno dei santuari più celebri della penisola e uno dei maggiori della Cristianità, visitato nel corso dei secoli da una miriade di pellegrini e ancora oggi da 4 milioni all’anno. Si tratta del santuario della Santa Casa di Loreto, attorno al quale è sorto un villaggio, circondato da possenti mura, dove la maggior parte dei cittadini vivono di turismo religioso. Oltrepassate le mura attraverso la porta Romana, lungo Corso Boccalini si raggiunge la tardorinascimentale piazza della Madonna, su cui si affaccia il santuario. Secondo la leggenda quattro angeli avrebbero trasportato da Nazareth dapprima all’Istria e quindi a Loreto la casa della Madre di Cristo per proteggerla dai musulmani. Sembra che le pietre dell’abitazione provengano effettivamente dalla grotta annessa alla casa dei genitori di Maria, ma furono trasportate in nave dai crociati. All’inizio del XVI secolo, attorno alla casa, venne costruito un rivestimento marmoreo di grande pregio, considerato “l’espressione più complessa della scultura cinquecentesca”.

Tra mare e colline
Il Parco naturale del monte Conero costituisce uno dei rarissimi tratti rocciosi della costa marchigiana e propone certamente le spiagge più suggestive di tutta la regione. Talune sono di difficile accesso, ma la zona è un paradiso per chi ama trascorrere le vacanze in gommone. La terrazza più suggestiva da cui si può ammirare la bellezza di questa parte della costa si trova in piazza Vittorio Veneto a Sirolo, un pittoresco villaggio che si erge su una falesia.
Un chilometro e mezzo di cinta muraria abbraccia invece la parte più antica della graziosa città di Jesi. Il tessuto urbano è scandito da un susseguirsi di piazze in un complesso architettonico compatto che integra armoniosamente tra loro edifici storici di epoche diverse. Anello di congiunzione tra la parte più antica della città e quella cinquecentesca è Piazza della Repubblica, su cui si affaccia il settecentesco teatro Pergolesi, uno dei maggiori templi della lirica italiana.
Proseguendo in direzione nord verso Senigallia e quindi Gradara, vale la pena di fare due brevi soste a Morro d’Alba, dove si può camminare sulle mura, e a Ostra, un grazioso villaggio dove in Piazza dei Martiri troneggia una suggestiva torre medioevale e si affaccia un graziosissimo teatro, che non pensereste mai di trovare quassù.
Si può dire quello che si vuole, ma Gradara, nonostante sia un villaggio estremamente turistico, mantiene il suo fascino. Con la sua doppia cinta muraria e le 17 torri appare scenografica sin da lontano. La rocca è celebre perché vi si sarebbe svolta la tragica storia d’amore di Paolo e Francesca narrata da Dante nella “Divina commedia” e ripresa da Boccaccio, da D’Annunzio e da numerosi pittori famosi. Paolo aveva chiesto la mano di Francesca per il fratello Giovanni, deturpato da un piede caprino. Ma i due cognati s’innamorarono uno dell’altro e continuarono a frequentarsi anche dopo il matrimonio. Quando Giovanni sorprese la coppia in atteggiamenti dolci li uccise entrambi.

La bella Urbino, città di Raffaello
Non per caso chiudiamo il nostro itinerario con Urbino: la tappa più bella di un viaggio bisognerebbe infatti lasciarla possibilmente sempre per ultima. Eletta patrimonio culturale dell’umanità dall’Unesco questa città permette di passeggiare sulle tracce del Rinascimento italiano, non solo visitando l’imponente Palazzo Ducale, ma passeggiando per tutto il centro urbano. Il suo periodo di massimo splendore lo conobbe sotto la signoria del duca Federico da Montefeltro (1442-1482), saggio condottiero, fine letterato e collezionista, protettore degli artisti. Fu durante il suo regno che venne progettato e costruito da Luciano Laurana il Palazzo Ducale, capolavoro di gusto ed equilibrio. Al suo interno ospita la Galleria Nazionale delle Marche con capolavori come la “Profanazione dell’ostia” di Paolo Uccello, la “Madonna di Senigallia” e la “Flagellazione” di Piero della Francesca, “La Muta” di Raffaello. Proprio quel Raffaello Santi, detto Sanzio, che venne al mondo nel 1483 in questa città e di cui si può visitare la casa natale, dove sono esposte opere del padre Giovanni Santi. Prima di andare a zonzo per vicoli, palazzi e chiese, vale la pena di visitare ancora l’Oratorio di San Giovanni, completamente decorato con splendidi affreschi del XIV secolo di Jacopo e Lorenzo Salimbeni. Cuore della città è l’animatissima Piazza della Repubblica. Sedendovi al tavolo di uno dei suoi caffè per l’aperitivo vi renderete conto di quale sia il ruolo dell’università in questa città: si dice che il numero degli studenti superi quello degli abitanti.

Bibliografia
Italia La Guida Verde Michelin, Milano 2002
Marche Dumont, Milano 2011
Marche Touring Club Italiano, Milano 2008