Birmania – Un paese sospeso tra storia e futuro

Birmania – In fuga lontano dalla globalizzazione
Birmania – Un passo nella storia
Birmania – Un lago, un mondo
Birmania – Birmania, dilemma etico per il turista

È con la cultura che si innesca il progresso, perché senza di essa l’uomo è condannato a vedere nell’altro sempre e solo un nemico”. Questa frase del sociologo algerino K.F. Allam, mi sembra spieghi bene il senso del viaggiare e soprattutto di un viaggio in Birmania, un paese che non è stato ancora colonizzato dalle mode straniere e che ha salvaguardato una propria identità, la ‘birmanità’. Ed è proprio questo il motivo per cui vale la pena di visitare la Birmania.
Sette persone su dieci in Myanmar lavorano la terra. L’11% circa dei 52 milioni di abitanti vive nella capitale, dove non si conosce ancora il fenomeno della migrazione di massa verso la grande città. La vasta pianura centrale con il suolo più fertile del paese solcato dalle acque del fiume Ayeyarwady, lungo oltre duemila chilometri, è sempre stata dominata dal gruppo che nelle varie epoche si è rivelato il più forte: i Bamar o Birmani che con il 68% costituiscono la maggioranza della popolazione. Si ritiene siano migrati anticamente dall’Himalaya e già nell’XI secolo dominavano buona parte del territorio dalla loro capitale Bagan, una delle meraviglie di questo paese. In Myanmar gli etnologi riescono a distinguere ben 135 gruppi etnici differenti, mentre una ricerca fatta negli anni Quaranta aveva recensito 242 lingue e dialetti diversi. Tutti questi popoli si sono stanziati lungo il fiume Ayeyarwadi, sovrapponendosi gli uni agli altri senza però mai meticciarsi completamente e conservando ognuno le proprie identità culturali e linguistiche. L’orgoglio e i pregiudizi tra le varie etnie della Birmania sono spesso causa di tensioni, tanto che una delle maggiori difficoltà incontrate dai governi che si sono succeduti nel paese è sempre consistita nel mantenere la pace e la stabilità dei confini. Anche gli Inglesi, durante la loro dominazione coloniale (1824-1948) riuscirono a stento a mantenere l’ordine, alternando promesse di semi-autonomia all’uso della forza. Come fanno notare gli autori della guida turistica Lonely Planet, “benché sia passato oltre un secolo e il governo sia cambiato, la situazione è rimasta pressoché invariata. Gli scontri tra le truppe a maggioranza Bamar e i gruppi etnici minoritari, protrattisi nei quattro decenni successivi all’indipendenza, sono stati ormai quasi tutti sedati. Le etnie che hanno firmato accordi di cessate il fuoco con le autorità hanno ottenuto in cambio una limitata autonomia economica, mentre quelle che continuano a combattere contro il governo vengono trattate con brutalità”. Diverse regioni considerate ancora ‘calde’ (definite dai locali ‘zone nere’, le più pericolose, e ‘zone marroni’, le meno bellicose) sono tuttora chiuse al turismo. Recentemente però alcune sono state aperte perché il governo ha trovato un compromesso con le tribù locali.
Tutte le persone che ho incontrato si augurano che il governo cambi al più presto, ma quando si parla del futuro molti si dicono preoccupati per l’unità del paese e temono che il Myanmar si possa dividere come è avvenuto tragicamente in Jugoslavia dopo la caduta del regime. Una delle regioni storicamente più autonomiste è quella abitata dall’etnia Shan, a sua volta suddivisa in diverse tribù con lingue e religioni differenti. Si tratta di una terra splendida e con un sottosuolo ricchissimo. È stata la prima destinazione del mio viaggio in Birmania e mi ha permesso, di visitare diversi villaggi di montagna dove si ha davvero l’impressione che il tempo si sia fermato. La stessa atmosfera la si trova anche a Bagan e nelle altre città imperiali e sul lago Inle.

Danimarca – Tra paesaggi marini selvaggi e una campagna armoniosa

Danimarca – Alla scoperta dei vichinghi e del castello di Amleto
Danimarca – Una monarchia antica e democratica

Una natura incontaminata con paesaggi marini selvaggi e una campagna estremamente armoniosa. Ville e castelli immersi nel verde. Un’atmosfera tranquilla che fa sentire a proprio agio. Un paese, che, come la sua capitale, appare al tempo stesso rilassato e operoso. È questa la Danimarca che vi proponiamo in questo itinerario di viaggio che richiede una decina di giorni in automobile, su strade in cui guidare è piacevolissimo, perché appena ci si allontana da Copenhagen sono poco trafficate e scorrono tra campagne incantevoli e lungo coste sabbiose.

L’architettura moderna e il design figurano tra le principali attrattive della Danimarca. Un primo e significativo approccio lo si ha atterrando all’aeroporto di Copenhagen disegnato da Arne Jacobsen. Una struttura armoniosa, dove tutto, dalla facciata in metallo e vetro, dalle poltrone alle lampade, dai tessuti alle posate, era stato da lui progettato in un unico insieme perfettamente integrato.
Noleggiamo un’automobile con la quale ci dirigiamo verso ovest e in un meno di due ore arriviamo a Odense, terzo centro del paese e città natale di Hans Christian Andersen, il più noto scrittore di fiabe al mondo. Tutto a Odense ricorda il letterato: musei, sculture che lo ritraggono assieme ai personaggi dei suoi racconti più noti e curiosità inaspettate come le panchine pubbliche con zampe di mostri al posto delle gambe. Passeggiando per le anguste viuzze dell’antico quartiere che sorge attorno alla casa-museo di Andersen si ha l’impressione di tornare indietro nel tempo. Le case hanno un aspetto pittoresco e affascinante, con quelle minuscole finestre quadrate la cui parte inferiore soltanto è ornata da tendine. Ma, nonostante quelle case siano abitate e formino nel complesso un insieme armonioso, il quartiere è impresso di una tale nostalgia che si ha l’impressione di contemplare la scenografia di uno spettacolo dimenticato, ben lontano dalle luci della ribalta.
Quando morì il 4 agosto 1875 qualcuno scrisse che Andersen “sapeva come far vibrare le corde dell’animo umano”. Nelle sue fiabe si trova una quantità di spunti di riflessione: motivi esistenziali, riflessioni psicologiche, problemi sociali, frequenti rimandi autobiografici. E la realtà Andersen la guardò spesso con amarezza e pessimismo, anche perché la sua vita non fu molto felice. Figlio di un ciabattino, assurse ai massimi onori, ma soffrì molto per le sue sembianze fisiche da brutto anatroccolo. Tanto che arrivò a giudicare la bellezza fisica “un dono più prezioso del genio e della forza morale”.

Skagen,Ascona danese
Lasciamo le magiche luci dell’isola di Fyn, che ispirarono le fiabe di Andersen, per raggiungere verso ovest la penisola dello Jylland che collega la Danimarca alla Germania. Il paesaggio estivo è affascinante: enormi chiazze gialle di colza, mazzi rossi di papaveri, l’oro dei campi di grano, il verde chiaro dell’orzo, quello brillante dei prati abbracciati dai boschi dove la luce penetra a stento, ma dove crescono in abbondanza mirtilli, lamponi, more e, in autunno, ottimi funghi. “Stavo pensando alle gente che ha vissuto prima di noi – esclama il giovane gentiluomo protagonista di ‘Un racconto di campagna’ romanzo di metà Novecento della famosa scrittrice danese Karin Blixen – e che ha disboscato e dissodato e arato questa terra. Quante volte avranno dovuto ricominciare da zero questo lavoro! In quei giorni lontani bisognava combattere gli orsi e i lupi, e poi i pirati e gli invasori, e poi ancora i padroni crudeli e spietati. Ma se un giorno di raccolto come questo, essi dovessero risorgere dalle loro tombe e guardare questi campi e questi prati, forse penserebbero che ne è valsa la pena”.
In meno di due ore di automobile raggiungiamo Ahrus, dove ci limitiamo a visitare, nella periferia occidentale della città, la cosiddetta “Città Vecchia”, uno dei più interessanti musei all’aperto di tutta la Danimarca. Diversi edifici antichi, provenienti da varie città danesi e risalenti ai secoli XVII, XVIII e XIX sono stati trasferiti qui e ricostruiti con estrema cura per riportare alla luce una città del passato. Il museo consente di osservare tutti gli aspetti della vita urbana di un tempo con le diverse attività commerciali, artigianali, industriali e amministrative.
Riprendiamo il nostro itinerario per raggiungere (ci vogliono circa 2 ore e mezzo) Skagen, la punta più a nord della Danimarca. Le strade sono in ottimo stato e permettono medie piuttosto elevate (circa 80 km/h), anche perché la montagna più alta del paese raggiunge un’altezza di 147 metri. Arriviamo in tempo per visitare il museo locale, che raccoglie le opere di un gruppo di artisti che tra il 1830 e il 1930 scoprì questo luogo discosto e rimase sedotto dai suoi paesaggi desertici battuti dai venti e dalla sua luce intensa e perpetuamente cangiante. Il museo espone 1500 tele, disegni, sculture e oggetti, nonché la sala da pranzo dell’hotel Brondum dove gli artisti della “scuola di Skagen” avevano il loro punto di ritrovo. I pittori si appassionarono all’immaginario romantico di questo villaggio di pescatori e alle dure condizioni di vita dei suoi abitanti. Con un vivido stile figurativo diventato famoso a livello internazionale ritrassero scene di vita quotidiana della comunità dei pescatori. I dipinti esposti riescono ad evocare l’atmosfera del luogo. Particolarmente affascinanti sono le opere di P.S. Kroyer soprattutto perché l’artista si sforza di ‘dipingere la luce’, attratto in particolare dalla cosiddetta ‘ora blu’, ovvero il momento di transizione tra il giorno e la notte, quando il cielo e il mare sembrano fondersi nella medesima tonalità di blu.
È interessante notare una certa similitudine di destino tra la storia di questo villaggio di pescatori, dove ancora oggi al mattino si tiene un’asta del pesce, con quello di un altro borgo di pescatori: Ascona. Entrambe hanno attratto uomini d’arte e di cultura, che hanno costituito ‘scuole’ di fama internazionale e hanno avuto un simile atteggiamento nei confronti delle popolazioni locali: interesse in quanto soggetti delle loro opere, ma non in quanto interlocutori.
Lasciamo il museo per visitare il paesino dalle case basse in legno ed i suoi suggestivi paesaggi illuminati da quella luce straordinaria immortalata dagli artisti.
Proseguiamo in automobile verso la punta nord. Giunti a un parcheggio si procede per un paio di chilometri a piedi per raggiungere il punto in cui l’incontro tra le acque del mare del Nord e del Baltico crea una forte corrente e dove la luce è impagabile grazie all’unione di terra acqua e cielo.
Al ristorante dell’hotel Ruths a Grenen, l’antica Skagen, si trova una delle migliori cucine della Danimarca.

Mare del nord tra sabbia e vento
Sabbia e vento, una terra piatta, che a malapena riesce a contenere il mare del Nord e le sue burrasche, disseminata, subito al di qua della linea delle dune che costeggiano il mare, da bacini interni, laghi salmastri non profondi spazzati da un vento quasi costante. A tratti si attraversano paesaggi lunari, dall’aspetto quasi desertico in cui la strada attraversa le dune ricoperte di erica fiorita che le tinteggia di viola.
E’ questo il paesaggio che si trova percorrendo la costa nord-occidentale, dapprima la nazionale numero 11 e in seguito la 181, tra Skagen e Ribe. Particolarmente suggestivo il tratto che costeggia il Ringkobing Fjord. Un sottile lembo di terra, ampio a malapena un chilometro, separa lungo i suoi 35 chilometri il fiordo dal mare del Nord. Dalle dune di questa punta sabbiosa fanno capolino alcune casette di vacanza. Questo luogo è la meta preferita dagli amanti di windsurf: chi è alle prime armi può fare esperienza nelle calme acque delle baie, i provetti possono invece cimentarsi con le acque del mare del Nord sull’altro lato.
Partendo il mattino da Skagen si arriva a Ribe nel tardo pomeriggio, ancora in tempo per passeggiare prima di cena nelle viuzze della più caratteristica cittadina della Danimarca. Si possono infatti visitare i luoghi storici del centro, dove oltre cento edifici sono classificati quali monumenti nazionali, seguendo con passo tranquillo un itinerario ad anello che non richiede più di un’ora di cammino. Ribe ospita anche l’albergo più antico della Danimarca: l’hotel Dagmar appena ristrutturato. Percorrendo la tortuosa strada acciottolata della città vecchia, su cui si ffacciano antiche case in legno di varie tinte costruite attorno alla cattedrale romanica, si ha l’impressione di vivere l’atmosfera di un’altra epoca. Questo villaggio medievale, grazie alla sua dimensione contenuta, ha potuto conservare la sua unità architettonica senza tuttavia perdere la sua vivacità ed evitando quindi di diventare una città-museo. Un’esperienza interessante è la visita guidata notturna (gratuita) che si tiene ogni sera alle 22 dal primo maggio al 15 settembre, sui passi delle sentinelle medievali. Una “sentinella” in uniforme munita di lanterna e armata di alabarda, accompagna i turisti per le vie del borgo, che di notte diventano ancora più suggestive, intonando antiche melodie danesi. Davanti agli edifici più rappresentativi ne narra la storia in danese e inglese. Si tratta di una simpatica trovata turistica, che riscuote notevole successo.

L’isola aristocratica
In meno di due ore da Ribe si ritorno a Fionia (Fyn), la seconda isola per dimensioni della Danimarca. Con i suoi paesaggi agresti e le case coloniche dal tetto in paglia è soprannominata “il giardino della Danimarca”. L’aristocrazia danese scelse proprio Fionia per costruirvi, nel corso dei secoli, le proprie ricche magioni. Ancora oggi si conservano in ottimo stato palazzi, castelli e ville, tra cui il romantico Egenskov Slot è il più pregevole. E’ uno dei manieri rinascimentali danesi meglio conservati. Si erge su un’isola in mezzo a un lago, circondato da una foresta di querce che gli ha dato il nome. E’ ancora abitato dai discendenti del suo costruttore, ma una parte è aperta al pubblico. Splendido è il parco progettato nel Settecento con spazi coltivati delimitati da siepi e il giardino inglese con grandi prati verdi attorniati da alberi di querce. A una ventina di chilometri da Egeskov si trova Faborg, il più grazioso villaggio dell’isola. Come la maggior parte dei borghi danesi sorge attorno a una strada principale con al centro una vasta piazza che ospita il mercato. A pochi chilometri dal centro, in direzione nord-ovest, a Falsled si trova il Falsled Kro, l’albergo più bello che abbiamo trovato durante il viaggio, che offre anche una delle cucine più raffinate della Danimarca.
Un ponte lungo una ventina di chilometri collega Fionia con l’isola più grande del paese, Sjaelland, sulla quale si trova anche la capitale Copenhagen. Racconta una saga che per avere Sjaelland, Gefion, la dea della fertilità, dovette sedurre il re di Svezia. Dopo una notte d’amore in una radura, il re – che non sapeva con chi avesse a che fare – le fece una generosa promessa: avrebbe lasciato alla dea tutta la terra che poteva arare in un giorno e una notte. E così, dal magico aratro di Gefion, nacque questa regione. Nella sua parte meridionale è collegata attraverso ponti ad altre isolette. La più interessante è quella di Mon. Si narra che Odino, il padre dei Vichinghi, l’aveva scelta come suo rifugio dopo la vittoria dei cristiani che avevano distrutto il paganesimo scandinavo. Mon è famosa per le sue graziose chiesina romaniche e per i suoi bianchi scogli ricchi di fossili.
Le chiese di Fanefjord, Keloby ed Elmelunde sono riccamente affrescate da un anonimo pittore del XV secolo, diventato famoso con l’appellativo di maestro di Elmelunde. I suoi dipinti, dal carattere naif, realizzati su sfondo bianco, rappresentano i personaggi della Bibbia raccontati ai contadini analfabeti con un linguaggio simile ai nostri fumetti: propongono scene giocose ambientate nel giardino dell’Eden, demoni grotteschi, la bocca spalancata dell’inferno.
Alte fino a 130 metri le scogliere di gesso dell’isola di Mon, che si ergono su un mare color verde giada, sono uno dei luoghi simbolo della Danimarca. Lunghe scalinate in legno, che partono dal Geo Center, dove viene spiegato il fenomeno geologico, permettono di scendere al mare. Si può passeggiare lungo la riva alla ricerca di fossili, che però non è facile trovare perché i visitatori sono sempre più numerosi. Se non è tutto esaurito trascorrete la notte al Liselund Ny Slot, un albergo di charme ricavato da una casa padronale ottocentesca situata in un parco che si affaccia sulle bianche scogliere.

Itinerario

1° giorno
Copenhagen-Odense (120 km)

2° giorno
Odense-Åhrus-Skagen (400 km)

3° giorno
Skagen-Frederikshavn-Ribe (432 km)

4° giorno
Ribe-Egeskov-Fåborg (175 km)

5° giorno
Fåborg-Mons Klint-Praestø (265 km)

6° giorno
Praestø-Roskilde-Hillerød (130 km)

7° giorno
Hillerød-Helsingør-Copenhagen (110 km)

8° e 9° giorno
Copenhagen

Bibiografia

Svezia, Norvegia, Danimarca La guida verde Michelin, Milano 2007
Danimarca Lonely Planet, edizione 2008
Danimarca, Islanda Guide d’Europa, Touring Club Italiano, Milano 2001
Danimarca Le Guide Mondadori, Milano 2008
Copenhagen e Danimarca Guide Low Cost, Firenze 2009
Copenhagen-Danimarca Meridiani no. 49, giugno 1996

Danimarca – Alla scoperta dei vichinghi e del castello di Amleto

Danimarca – Tra paesaggi marini selvaggi e una campagna armoniosa
Danimarca – Una monarchia antica e democratica

Nella più antica monarchia del mondo si vive come i gatti nel periodo estivo e come gli orsi in quello invernale. Quando esce un tiepido raggio di sole, la città impazzisce.

Dopo avere unificato la Danimarca e la Norvegia, Harald “Dente blu” nel 980 scelse Roskilde come capitale del suo nuovo regno. La città perse la sua importanza politica nel 1417 quando Erik Pomerania spostò la capitale a Copenhagen. Nella cattedrale romanica, che sorge al centro della città nelle vicinanze della piazza, sono seppelliti i monarchi danesi fino alle recenti generazioni. Roskilde riveste pertanto un ruolo di primo piano nella storia del paese.

Sulle orme dei vichinghi
Il Museo delle navi vichinghe ricorda l’importanza di questa cittadina in epoca vichinga. Espone i ritrovamenti di cinque navi vichinghe, costruite tra il 1030 e il 1042, riassemblati con cura certosina su nuove intelaiature. Permettono di capire quali fossero la struttura e le funzioni di queste imbarcazioni, che offrono un’interessante panoramica di quelle che erano le diverse tipologie in epoca vichinga. Sono infatti esposti un mercantile costruito per affrontare le traversate transoceaniche, una nave da guerra di 30 metri del tipo utilizzato per compiere incursioni all’estero, un mercantile costiero, una nave da guerra di 17 metri probabilmente impiegata in una zona baltica e un peschereccio. Nel fiordo accanto al museo si possono poi vedere le ricostruzioni di queste imbarcazioni con la spiegazione delle tecniche costruttive vichinghe. Un filmato presenta la navigazione da Roskilde a Dublino effettuata nel 2008 con una di queste navi ricostruite, seguendo naturalmente le rotte dei vichinghi. Sembra che l’incredibile agilità di questi vascelli fosse dovuta alla leggerezza dei materiali usati nella costruzione. In mare non c’era flotta o popolo che potesse contrastare la supremazia vichinga. Tra l’VIII e l’XI secolo, grazie soprattutto a questa supremazia i vichinghi riuscirono a invadere l’Inghilterra, a saccheggiare Parigi, a impadronirsi della Normandia, a conquistare Kiev, a combattere persino contro i greci alle porte di Costantinopoli.

Tre castelli che fecero la storia del paese
Dall’epoca vichinga facciamo un salto di alcuni secoli per visitare tre castelli importanti per la storia della Danimarca: Fredensborg, attuale residenza estiva dei sovrani; Frederiksborg, che per un secolo servì da residenza reale e Kronborg, che l’Amleto di Shakespeare ha reso noto nel mondo intero.
Fredensborg lo si può visitare solo in luglio quando la famiglia reale danese è assente. È però aperto al pubblico fino a tarda sera lo splendido parco che circonda la residenza e dove è molto piacevole passeggiare. Nei pressi c’è un albergo, stellato ma purtroppo decadente, ricavato da una classica locanda per gli ospiti fatta costruire da Federico IV nel 1723.
A pochi chilometri di distanza si trova il castello di Frederiksborg, che si estende su tre piccole isole in mezzo al lago Slotsso. Fino all’abolizione della monarchia assoluta i monarchi danesi furono consacrati nella splendida cappella del castello. Nella seconda metà dell’800 un incendio lo distrusse quasi completamente, ma venne rapidamente restaurato grazie all’aiuto di tutta la nazione e in particolare di J.C. Jacobsen, proprietario del birrificio Carlsberg. Dal 1882 è stato trasformato in Museo nazionale di storia danese, con mobilio, oggetti di interesse storico, ritratti e quadri. La parte più interessante della visita è comunque rappresentata dagli imponenti saloni.
Per recarsi a Helsingor, dove si trova Kronborg il castello di Amleto, vale la pena di fare una piccola deviazione verso la punta settentrionale dello Sjaelland, dove gli amanti del mare possono ammirare le splendide distese di sabbia di Hornbaek e Tivildeleje.
Il castello di Kronborg ospita da secoli un fantasma eccellente: quello del principe folle, reso reale dal genio di Shakespeare. Si narra che sulla terrazza di questo castello Amleto abbia visto il fantasma di suo padre avviluppato da una spessa coltre di nebbia. In verità sembra che Shakespeare non abbia mai visitato Kronborg con la sua imponente mole, sottolineata dalle alte torri e da un tetto di rame verde sormontato da eleganti guglie che tagliano il cielo. Si possono visitare la cappella, le stanze reali, la sala da ballo e ammirare un’importante collezione di arazzi. Il castello conserva un’atmosfera lugubre e misteriosa che ricorda ad ogni angolo il capolavoro di Shakespeare.

Copenhagen rilassata e febbrile
La prima sensazione che si prova passeggiando per le vie della capitale danese è del tutto particolare: rilassata ma al tempo stesso febbrile. La guida Michelin la definisce “un affascinante centro urbano di provincia con l’atmosfera di una capitale”. I suoi abitanti ne sono orgogliosi, si vantano di vivere nella sede della monarchia più antica del mondo e si cullano nel mito della democrazia ideale e della prospera tranquillità. Si narra che per vivere felici a Copenhagen basti apprendere un segreto: ci si deve trasformare in gatti da maggio a settembre e in orsi da ottobre ad aprile. L’orso campa beato nel calduccio della sua tana; il gatto, al contrario, ama vivere all’aperto, e quando trova un pertugio se la fila di casa per passeggiare magari su un tetto. In effetti il sole sembra rappresentare la vera ossessione di questo popolo: quando esce un tiepido raggio la città impazzisce e la sua via più affascinante, il Nihavn, un canale scavato alla fine del XVII secolo e oggi arteriavivacissima con le facciate delle case a pignoni tinteggiate a colori vivaci, si affolla. Tutto in questa città sembra volerci ricordare che quasi cinque secoli fa fu la capitale di un impero scandinavo che comprendeva Danimarca, Svezia e Norvegia, e che durante il regno di Cristiano IV, alla fine del Cinquecento, fu sede di una delle corti più splendide d’Europa. Copenhagen colpisce infatti i visitatori per la sua inattesa grandiosità monumentale: le ampie strade, i superbi castelli regali di Amalienborg (attuale sede della regina) e di Rosenborg, il solenne Christiansborg, sede del parlamento danese, le decine di torri, le chiese imponenti, i vastissimi parchi, i musei spettacolari, il dispiegamento di architetture neoclassiche, barocche, rinascimentali e della nostra epoca. Ma il simbolo di questa città rimane la celeberrima sirenetta seduta su una roccia che guarda il mare con infinita malinconia. È opera dell’artista danese Edvard Eriksen. La scolpì nel 1913 ispirato da una favola di Andersen, che narra la storia di una figlia del re del mare, la quale ha la disgrazia di innamorarsi di un principe “terrestre”.

Itinerario

1° giorno
Copenhagen-Odense (120 km)

2° giorno
Odense-Åhrus-Skagen (400 km)

3° giorno
Skagen-Frederikshavn-Ribe (432 km)

4° giorno
Ribe-Egeskov-Fåborg (175 km)

5° giorno
Fåborg-Mons Klint-Praestø (265 km)

6° giorno
Praestø-Roskilde-Hillerød (130 km)

7° giorno
Hillerød-Helsingør-Copenhagen (110 km)

8° e 9° giorno
Copenhagen

Bibiografia

Svezia, Norvegia, Danimarca La guida verde Michelin, Milano 2007
Danimarca Lonely Planet, edizione 2008
Danimarca, Islanda Guide d’Europa, Touring Club Italiano, Milano 2001
Danimarca Le Guide Mondadori, Milano 2008
Copenhagen e Danimarca Guide Low Cost, Firenze 2009
Copenhagen-Danimarca Meridiani no. 49, giugno 1996

Dalle Centovalli all’Onsernone

L’itinerario che vi propongo oggi spazia tra due valli, Centovalli e Onsernone, e percorre una delle più belle mulattiere del Cantone: quella che collega Loco in valle Onsernone a Intragna. Di origini antichissime, sicuramente antecedente al Cinquecento, era molto importante perché consentiva agli onsernonesi i rapporti con i mercati di Locarno e di Ascona, ma veniva utilizzata anche per il transito del bestiame del Locarnese che in estate veniva trasferito sugli alpeggi dell’Onsernone.
Si tratta di un itinerario facile, molto piacevole e interessante, che si può percorrere in mezza giornata: sono circa 3 ore di cammino (poco più di 7 chilometri), se non siete velocissimi, oltre naturalmente alle fermate, che possono essere numerose. Meglio partire il mattino presto, ma anche se volete dormire un po’ più a lungo non preoccupatevi perché il tragitto è quasi tutto ombreggiato.
Il punto di partenza più indicato è la fermata dell’autopostale “Intragna ponte”, che potete raggiungere con la vostra automobile (c’è un costoso posteggio). Da lì in circa un quarto d’ora salite al villaggio. Al termine dell’itinerario, quando arriverete a Loco, in una ventina di minuti l’autopostale di linea per Locarno vi riporterà dove avete parcheggiato.
Intragna merita certamente una prima sosta per visitare la barocca chiesa parrocchiale di San Gottardo (con le decorazioni pittoriche ottocentesche degli artisti locali Giacomo Antonio Pedrazzi, Giovanni Antonio Vanoni e Agostino Balestra) con la torre campanaria più alta del Ticino (65 metri) e la cinquecentesca Casa Maggetti, sede di un curato e interessante museo etnografico.
Dalla chiesa parrocchiale si segue uno stretto vicolo che porta all’ottocentesco oratorio del Sacro Cuore, da cui parte la mulattiera su cui si sviluppa il nostro itinerario.
Rimaste sostanzialmente ai margini dei grandi assi di traffico – spiega Massimo Colombo, responsabile di Via Storia per il Ticino – le valli del Locarnese sono state risparmiate dal notevole sviluppo subito dalla rete viaria che in alcune zone del cantone ha decisamente marcato il territorio. Ciò ha consentito la conservazione di gran parte delle secolari mulattiere contadine, ancor oggi ricche di grande fascino, che costituiscono una delle principali attrattive turistiche della regione: tra queste, la mulattiera che collega Intragna a Loco può essere considerata, a giusto titolo, una delle più belle del Ticino”.
Le frazioni che si trovavano sopra l’attuale villaggio di Intragna erano molto abitate, tanto che disponevano di una scuola propria davanti alla quale passa il nostro itinerario. In una trentina di minuti di salita si arriva a Pila, con un bel gruppo di rustici, dove si trova appunto la scuola. La vista è splendida e spazia sul villaggio sottostante, sull’imbocco delle Centovalli e dell’Onsernone, sulle Terre di Pedemonte fino ad abbracciare il lago Maggiore sullo sfondo. La mulattiera prosegue quindi verso Vosa, ancora frazione di Intragna. In lontananza si sente scorrere il fiume Isorno. Da qui il nome di Intragna, intra amnes, cioè tra due fiumi: Melezza e Isorno. Giunti all’oratorio Sacro Cuore di Gesù, eretto alla fine dell’Ottocento, si entra nel comune di Loco. Si giunge dapprima a Vosa di Dentro, per poi scendere verso le suggestive gole dell’Isorno. Oltrepassato il ponte in ferro, che ha sostituito quello cinquecentesco in pietra spazzato via dall’alluvione del 1978, la mulattiera risale in direzione di Loco. Sul tragitto si incontrano alcune cappelle porticate che offrivano rifugio ai viandanti. Incantevole la posizione di Niva, dove da quasi vent’anni si è ritirato a vita eremitica fra Bartolomeo Schmitz. Purtroppo il villaggio è in via di abbandono, ma grazie agli aiuti finanziari di diverse associazione si sta procedendo ad interessanti restauri. Si passa quindi dalla frazione di Rossa, prima di giungere a Loco, un tempo rinomato centro di lavorazione della paglia. Nel villaggio si consiglia di visitare il museo etnografico e la parrocchiale di San Remigio con le opere di un interessante pittore locale, Giovanni Samuele Meletta, e un’Ultima cena realizzata nel 1683 da Gottfried Maes di Anversa, offerta alla comunità da un emigrato arricchitosi.

In Vallemaggia sulle orme di Zoppi

Rima, dolce piano, luogo di sosta, paradiso del ciliegio!” Sono parole di Giuseppe Zoppi, tratte da “Il libro dell’alpe”, l’opera più nota di questo autore ticinese d’inizio Novecento, che forse qualche lettore ricorderà di avere studiato a scuola. Vi propongo oggi un itinerario circolare che da Broglio sale ai monti di Rima, che hanno ispirato questi versi a Zoppi, scende verso Prato-Sornico, per poi tornare a Broglio. Per percorrerlo calcolate al massimo quattro ore di cammino, più il tempo necessario per diverse soste. Per meglio apprezzare questo comodo e ombreggiato itinerario, vi consiglio di procurarvi (alla sede dell’ente turistico a Maggia o al negozio di artigianato Artis in piazza a Cevio) il pieghevole “Sentieri di pietra” dedicato a Broglio e a Prato-Sornico. Fa parte di una serie di una ventina di bellissimi prospetti che vi permetteranno di scoprire la Vallemaggia, soffermandovi davanti a luoghi e monumenti che senza le necessarie indicazioni difficilmente scoprireste e soprattutto apprezzereste.
Il nostro itinerario parte da Broglio, che raggiungete in circa tre quarti d’ora da Locarno. Raccolto attorno alla sua chiesa, che sulla facciata presenta un notevole San Cristoforo del Quattrocento, questo villaggio è circondato da una vasta campagna che era nota per i suoi gelsi. Furono piantati nel XIX secolo dalla famiglia Pometta. Le foglie servivano per nutrire i bachi allevati appositamente per ottenere la seta.
Imboccando il sentiero per i monti passate davanti alla casa dove nacque Giuseppe Zoppi (1896-1952), che ambientò in quei luoghi i suoi innumerevoli scritti. In un’ora circa raggiungete i monti di Rima. Sul percorso incontrate cinque cappelle di cui quattro affrescate nella seconda metà dell’Ottocento dal pittore valmaggese Giovanni Antonio Vanoni di Aurigeno. A questo proposito vi consigliamo di consultare il pieghevole della stessa collana “Aurigeno… e il Vanoni”. La prima cappella, che rappresenta una Deposizione, fu offerta come ex voto da un emigrante appena tornato dall’America, in segno di ringraziamento per essere scampato ad una burrasca in mare. Accanto alle cappelle si trovano alcune semplici croci in ferro per ricordare i contadini caduti sul versante opposto della valle mentre facevano il fieno di bosco o cercavano le capre. Una “caraa”, cioè un sentiero delimitato da muretti per impedire al bestiame in transito di uscire nei prati, vi introduce al monte, con le sue splendide torbe che si affacciano sul “dolce piano, luogo di sosta, paradiso del ciliegio” cantato da Zoppi. Un tempo soggiornavano qui per buona parte dell’anno gli abitanti di Broglio da una parte e quelli di Prato dall’altra. Le torbe in legno edificate su uno zoccolo in muratura, usate ai tempi come abitazione o come stalla, sono molto ben conservate. Anche quelle ristrutturate hanno in generale rispettato il valore architettonico originale.
Dai monti di Rima un comodo sentiero nel bosco di larici e faggi scende verso Prato-Sornico. Un villaggio che nel corso dei secoli ebbe un’importanza civile e religiosa particolare. A testimonianza di questo passato nel nucleo si conservano edifici di elevato valore storico: la chiesa parrocchiale, il campanile, il palazzo della giudicatura, la torba, la casa parrocchiale, i palazzi signorili e una casa in legno.
Seguite ora i cartelli indicatori per Broglio. Giunti in località Lovalt, immersa in una splendida campagna, su un’abitazione ammirate due interessanti affreschi a soggetto religioso del Seicento e del Settecento. Proseguite sul sentiero, attraversate il ponte sospeso sulla profonda gola scavata dal “Ri della Valle di Prato”, per giungere all’oratorio di Vedlà in un luogo idilliaco immerso nel verde. In una ventina di minuti arrivate di nuovo a Broglio.

Assisi – Ripercorrendo strade e valli di un soldato diventato santo

Assisi – A lezione di umiltà e gioia lungo la strada del silenzio

In compagnia di Padre Callisto sulle tracce di San Francesco, lungo conventi, simboli sacri e preziose chiese che si sono miracolosamente salvati dal terribile terremoto di qualche anno fa.

Chiunque salga sul colle della città serafica non può sfuggire a una suggestione indescrivibile, misteriosa, impalpabile, del tutto diversa dalla bellezza della valle umbra”. Così Lina Duff-Gordon, compagna di viaggio del critico d’arte Bernard Berenson, descriveva nel 1900 la sua emozione davanti ad Assisi. Un’emozione che prova anche il viaggiatore contemporaneo di fronte a questa città così unitaria e ricca di significati legati alla straordinaria figura di San Francesco il cui messaggio rimane sempre di grande attualità. La visitiamo con padre Callisto Caldelari, frate ticinese molto amato dalla gente, perché cerca ogni giorno, e con successo, di interpretare in chiave moderna il messaggio di Francesco. La nostra visita sarà cronologica e seguirà le tappe principali della vita del santo.
Giunti ai piedi della collina su cui sorge questa incantevole cittadina umbra, ci fermiamo per ammirarne l’unità architettonica. “Il villaggio – ci spiega la nostra guida d’eccezione – è costruito in pietra rosa proveniente dai monti del Subasio, le montagne retrostanti dove Francesco si ritirava a meditare. Le case moderne in cemento sono colorate di rosa per non compromettere il colpo d’occhio da lontano”.

La casa natale di San Francesco
Il nostro itinerario inizia davanti alla Chiesa Nuova eretta nel 1615, a spese di re Filippo III di Spagna, sui resti della supposta casa paterna di San Francesco. Davanti alla chiesa un monumento è dedicato ai genitori del santo. Il padre, Pietro Bernardone, era un commerciante di stoffe che acquistava il materiale in Provenza e aveva laboratorio ad Assisi. Durante un viaggio d’affari conobbe donna Pica, che diventò sua moglie. Per questa ragione Francesco parlava bene la lingua provenzale. Dalla madre ereditò anche il suo spirito allegro.
Nella seconda metà del XIII secolo, al tempo di Francesco, si stava profilando una nuova classe sociale, quella dei ricchi commercianti, a cui apparteneva anche la sua famiglia. Pietro Bernardone aveva però l’ambizione di far acquistare al suo casato il titolo nobiliare. Per ottenerlo esisteva una sola strada: distinguersi in guerra. Francesco venne destinato a questo compito. Giovane brillante e vivace, combatté dapprima una battaglia contro i Perugini e quindi decise di partire per le crociate. Ma giunto a Spoleto, distante pochi chilometri da Assisi, secondo la tradizione un sogno gli rivelò che stava compiendo una scelta sbagliata. Tornò allora nella sua città natale e decise di cambiar vita, deludendo le aspettative del padre. Fece voto di povertà, curò i lebbrosi, vendette le stoffe dell’azienda di famiglia per distribuire il ricavato ai poveri. Per queste sue scelte venne rifiutato dal suo ceto sociale e Pietro Bernardone lo denunciò e lo imprigionò per furto (secondo il diritto romano il padre aveva diritto di vita e di morte sui figli e sulla moglie). Sotto le fondamenta della Chiesa Nuova sono ancora conservate la prigione che ospitò il santo, la sua abitazione e il negozio di Pietro Bernardone. È giunta fino ai nostri giorni anche la cosiddetta “porta dei morti”. Nel Medioevo i defunti lasciavano la casa da una porta speciale che veniva aperta solo per il passaggio delle bare. Utilizzarla da vivi portava male, ma Francesco abbandonò la sua casa natale passando simbolicamente proprio da questa porta per abbracciare una nuova vita.
La sua prima dimora fu la graziosa chiesetta di San Damiano, che si trovava fuori dalle mura della città.

Chiara segue Francesco
Prima di lasciare il centro storico per scendere a San Damiano, padre Callisto ci conduce alla basilica di Santa Chiara e racconta la storia di Chiara, una giovinetta che si era probabilmente innamorata di Francesco e che all’età di diciotto anni lasciò pure lei la propria casa (fu poi seguita da due sorelle e dalla madre), fece voto di povertà e come Francesco dedicò la sua vita ai poveri nel convento di San Damiano, la prima dimora di Francesco che poi l’abbandonò per cederla a Chiara e alle sue compagne. Quando Chiara morì a San Damiano nel 1252, il papa invitò le suore a lasciare quella chiesetta fuori dalle mura, perché ritenuta poco sicura, per trasferirsi nella chiesa di San Giorgio in attesa che venisse costruito il convento di Santa Chiara, che avrebbe ospitato l’ordine della clarisse. Si narra che il papa riconobbe l’ordine proprio il giorno prima della morte di Chiara. Le suore lasciarono San Damiano per trasferirsi in città, ma portarono con loro il crocefisso che secondo la tradizione aveva parlato a Francesco, confermandolo nella sua vocazione (“Francesco, va e ripara la mia casa che, come vedi, va tutta in rovina”). Si tratta di un crocefisso bizantineggiante con il Cristo vivo attorniato dai santi. Lo si può ammirare nella chiesa di Santa Chiara, che ospita anche la suggestiva tomba della santa.

La prima dimora di Francesco
Ma torniamo a Francesco, che dopo aver rotto con il padre (“Non dirò più padre mio Pietro di Bernardone, ma unicamente Padre nostro che sei nei cieli”) ed aver lasciato la sua casa si ritirò a San Damiano. La chiesetta si trova ancora oggi immersa nella splendida campagna umbra. Il sentiero che in un quarto d’ora circa porta dal convento di Santa Chiara a San Damiano scorre tra ulivi e cipressi in un paesaggio di pace. Quando Francesco giunse in questo luogo la chiesetta esisteva già, era amministrata da un sacerdote e molto mal ridotta. Assieme a un gruppo di compagni, che lo seguirono nonostante fosse stato ripudiato dalla sua famiglia e dal suo ceto sociale, Francesco sistemò per bene San Damiano prima di cederlo a Chiara, dove la santa trascorse la sua vita con le compagne. Mentre era ancora a San Damiano Francesco chiese al suo vescovo l’autorizzazione di predicare. Questi non si assunse la responsabilità di quella decisione e lo mandò dal papa, che gli concesse il permesso.
Questa idilliaca chiesetta immersa nel verde si presenta in ottime condizioni. Si possono visitare i luoghi in cui visse Chiara con le sue monache: il refettorio, il dormitorio, l’infermeria in cui la santa, morta a 59 anni, venne curata e la cappella da cui ascoltava la messa.

Verso la chiesetta della Porziuncola
Lasciato San Damiano a Chiara, Francesco si trasferì nel piccolo “tugurio” detto Rivotorto, che dista non molti chilometri. Francesco non vi rimase a lungo perché un contadino rivendicò quel luogo per ospitare i suoi asinelli. Da lì Francesco, che era spesso assente da Assisi perché viaggiava moltissimo (in Italia, Francia, Spagna e persino in Egitto e in Palestina), si trasferì verso la sua ultima dimora: la chiesetta della Porziuncola. Prima di raggiungerla si passa davanti al luogo in cui vivevano i lebbrosi, emarginati dai sani e segnalati con un campanello al collo.
Da lontano si scorge l’imponente chiesa di Santa Maria degli Angeli, dentro la quale è conservata la chiesetta della Porziuncola, dove il santo morì. “Frate Francesco – scrisse Giosuè Carducci – quanto d’aere abbraccia/ questa cupola bella del Vignola, / dove incrociando a l’agonia le braccia / nudo giacesti sulla terra sola!” (Rime Nuove, XV, 1861-67). Il maestoso edificio, costruito attorno alla chiesetta, nascose agli occhi del poeta la sede autentica di Francesco, la cappella annerita e minuscola miracolosamente salva dal terremoto del 1832: è questa la miglior metafora di un personaggio tradito dalla ricezione della storia.
Francesco e i suoi seguaci vivevano in capanne sparse attorno alla graziosa chiesetta, molto ben conservata. Quando Francesco sentì che la morte si avvicinava si fece trasferire in una capanna vicino alla Porziuncola e posare nudo sulla terra. Spirò cantando “Laudato sii mi Signore per sora nostra morte corporale…”.

Mondo etrusco – La civiltà più colta prima dei Romani

Mondo etrusco – Quattro tappe tra turismo e cultura

L’itinerario si sviluppa tra colline, laghetti e pianure, attraversa romantici villaggi appesi alla cima dei colli a cavallo di tre regioni – Toscana, Umbria e Lazio – che diedero origine ad un grande e misterioso popolo.

Un itinerario a tema alla scoperta del mondo etrusco: la civiltà di più elevato livello che abitò la penisola italica prima dei Romani. Un popolo particolarmente aperto agli influssi delle culture con cui venne in contatto grazie alla sua abilità nella navigazione, alla ricchezza di ferro delle sue montagne, alla fertilità del suo terreno. Commerciò con la Sardegna, con il Medio Oriente, con la Grecia e con l’Europa del nord. Tanto aperto che sulle sue origini nacquero diverse leggende. Si parlò di popolazioni giunte dal Medio Oriente o addirittura dal nord. Gli Etruschi semplicemente seppero cogliere gli influssi di altre civiltà per poi adattarli alle loro necessità.
L’itinerario si sviluppa tra colline, laghetti e pianure, attraversa romantici villaggi appesi alla cima dei colli nei territori della Toscana, dell’Umbria e del Lazio che diedero origine al popolo etrusco. La cosiddetta “Etruria propria”, cioè quella originaria, si estendeva infatti dall’Arno al Tevere ed era delimitata ad ovest dal Tirreno e ad est giungeva fino alle attuali Perugia, Orvieto e Viterbo. Nei periodi di maggior espansione e prima di essere romanizzato il popolo etrusco giunse fino alla costa adriatica, alla Padania e alla Campania.
Il nostro percorso, di circa 800 chilometri, parte da Firenze, dove si visita uno dei principali musei di arte etrusca, per concludersi a Cerveteri. In queste due città si possono infatti visitare i due principali musei di arte etrusca. I luoghi ricchi di testimonianze di questo popolo nella fascia fra Firenze e Roma sono moltissimi. Ne abbiamo scelti quattro particolarmente “spettacolari” dal profilo turistico e rappresentativi della cultura etrusca: Populonia, importante per le sue attività siderurgiche e unica città in riva al mare, che si affaccia sullo splendido golfo di Baratti; il triangolo dei romantici villaggi di Sovana, Sorano e Pitigliano scavati nelle impressionanti colline di tufo, una pietra particolarmente modellabile; Tarquinia per le sue incredibili pitture giunte a noi in ottimo stato di conservazione; e Cerveteri, forse il luogo più suggestivo del viaggio, dove percorrendo la città dei morti si ha la sensazione che il tempo si sia fermato.
Si consiglia di visitare questi straordinari siti archeologici accompagnati da una guida per meglio coglierne il significato profondo, sebbene tutte queste testimonianze siano giunte fino a noi in buono stato, così da poterne facilmente capire la funzionalità. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare non si tratta quindi di un viaggio per specialisti archeologi. Nei musei, soprattutto di Firenze e Roma ma anche di Tarquinia e Cerveteri, si possono ammirare soprattutto i corredi funerari scoperti nei sepolcri non derubati dai tombaroli di tutte le epoche, a partire da quella romana. Sì, corredi funerari, perché della civiltà etrusca ci rimangono soprattutto le testimonianze del culto dei morti. E’ infatti attraverso le tombe e gli oggetti ritrovati al loro interno che si è riusciti a studiare questo popolo. I defunti nella loro vita ultraterrena andavano infatti ad “abitare” case scavate nella roccia che riproducevano le abitazioni, molto più fragili perché costruite in legno e argilla, utilizzate nella vita terrena. Anche il corredo funebre era rappresentato da oggetti di uso giornaliero. I soggetti che appaiono nelle tombe affrescate (soprattutto a Tarquinia) e quelli incisi sulle ceramiche, nonché la funzionalità degli oggetti ritrovati (arredi, statue, ex voto) hanno permesso agli studiosi di capire come gli Etruschi abitavano, si vestivano, quali sport praticavano, quale musica ascoltavano, quali erano le loro credenze religiose. Ne esce l’immagine di un popolo molto evoluto, dove per esempio la donna, a differenza di quanto avveniva in Grecia e più tardi a Roma, occupava un posto importante nella famiglia e nella società.
L’arte per l’arte – spiegano Antonio Giuliano e Giancarlo Buzzi – agli Etruschi non interessava: le opere obbedivano a scopi funzionali”, a differenza di quanto avveniva nella cultura greca. Il periodo di maggior maturità artistica, spiegano i due studiosi, viene raggiunto nel VI secolo a.C. (a questo periodo risalgono gli affreschi di Tarquinia) quando gli Etruschi “fanno proprio il gusto dei Greci… ma lo correggono con spunti veristici, con una maggiore concretezza e immediatezza delle figurazioni”.

La cronologia
Prima di Gesù Cristo dieci secoli densi di storia e grandi scoperte
La cronologia dello sviluppo della civiltà etrusca va dal IX al I secolo prima della nascita di Cristo.
Perché nella regione che si estende tra Firenze e Roma e si affaccia sul Tirreno si è sviluppato il popolo etrusco? Le montagne dell’Etruria erano ricche soprattutto di ferro, ma anche di rame, stagno, piombo, zinco, argento e persino di sale. Come spiega Giovannangelo Camporeale, professore di etruscologia all’Università di Firenze e autore di numerosi saggi, si può equiparare, per la ricchezza della regione, l’importanza per quell’epoca della presenza di giacimenti di ferro a quella attuale di petrolio. Le manifatture etrusche raggiunsero un elevato livello. Gli oggetti in metallo venivano esportati in tutto il Mediterraneo e nel nord Europa, assieme a quelli in bucchero: una terra cotta che riscaldata in assenza di ossigeno e debitamente laccata assomigliava enormemente al bronzo, ma costava molto meno.
Il suolo, molto fertile, era adatto alla coltivazione di cereali (si parlerà più tardi dell’Etruria come del granaio di Roma), di vite (il vino etrusco veniva esportato) e di olivi. Le zone interne erano inoltre ricche di boschi, il cui legname serviva a rifornire i forni metallurgici e i cantieri navali. Gli Etruschi erano infatti abili navigatori e trasportavano nei paesi che si affacciavano sul Mediterraneo i loro prodotti e le loro ricchezze. Erano però anche molto aperti, come abbiamo visto, agli scambi culturali.
Sia attorno alle origini del popolo etrusco che della sua lingua, la tradizione ha costruito un alone di mistero. In effetti sono scarsissimi i documenti storici scritti giunti fino a noi, salvo qualche iscrizione su tombe o su oggetti che ha permesso di stabilire come l’alfabeto fosse molto simile a quello greco. “Strutturalmente però la lingua non è inseribile in uno dei gruppi linguistici che conosciamo” (Antonio Giuliano e Giancarlo Buzzi). Data la scarsità di documenti scritti, molto di quanto sappiano su questo popolo lo desumiamo dai ritrovamenti archeologici (tombe e corredi funebri) e da testimonianze latine e greche dei periodi in cui la civiltà tirrenica era però già in fase di decadenza.
Anche per quanto concerne le origini degli Etruschi si è voluto creare un alone di mistero immaginando migrazioni di interi popoli dal Medio oriente o dal nord Europa. “Non è il caso di pensare – osservano Antonio Giuliano e Giancarlo Buzzi – a una civiltà venuta dal di fuori che si impose, soppiantandole, a civiltà locali, ma a una tradizione culturale locale ben evidente e solida che si aprì a influssi esterni, a diverse e molteplici sollecitazioni”.
Il territorio era organizzato in città-stato simili a quelle greche, i cui vertici si incontravano una volta all’anno in un luogo non ancora identificato.
Dopo un periodo iniziale in cui “è ragionevole supporre fosse emerso un ceto aristocratico, durante il VII secolo a.C. si affermò un nuovo ceto di imprenditori e di trafficanti, che accumulava ricchezze e finiva per costituire un più vasto gruppo gentilizio, nelle cui mani si concentrava il potere”. Tra la fine del VII secolo e il principio del VI si afferma la città (alcune raggiunsero, secondo gli studiosi, alcune decina di migliaia di abitanti). “Artigiani, mercanti, agricoltori formavano un nuovo ceto, estremamente dinamico, la cui ricchezza non era più basata sulla proprietà immobiliare, ma sulla produzione e sullo scambio”. Pertanto la città è una conquista innanzitutto sociale.
Un’altra tappa fondamentale nel percorso storico del popolo etrusco è rappresentata dalla battaglia di Cuma del 474 a.C., quando i Siracusani vincono gli Etruschi e diventano padroni del Tirreno. Le metropoli costiere, a causa del declino della potenza marinara, si rivolgono allora verso l’interno, da una parte rivitalizzando le città-stato agricole, ma dall’altra creando fonti di conflitto.
Ci stiamo avviando verso il declino della civiltà etrusca. Un secolo più tardi inizia il lento processo di romanizzazione. La prima città-stato romanizzata è Veio nel 396 a.C. Seguiranno lentamente le altre. In alcuni casi il processo avverrà in maniera pacifica, in altri meno.

L’itinerario

1° giorno
Locarno – Firenze (425 km)

2° giorno
Museo Archeologico di Firenze

3° giorno
Firenze – Populonia (169 km)
Populonia – Valpiana (40 km)

4° giorno
Valpiana – Sovana (115 km)

5° giorno
Sovana – Tarquinia (73 km)
Tarquinia – Bracciano (68 km)

6° giorno
Bracciano – Cerveteri (18 km)
Cerveteri – Firenze (314 km)

7° giorno
Firenze – Locarno (425 km)

Mondo etrusco – Quattro tappe tra turismo e cultura

Mondo etrusco – La civiltà più colta prima dei romani

Il nostro percorso, di circa 800 chilometri, parte da Firenze per concludersi a Cerveteri. I luoghi ricchi di testimonianze di questo popolo nella fascia fra Roma e Toscana sono moltissimi.

Il nostro itinerario inizia dal Museo archeologico nazionale di Firenze, dove sono raccolti alcuni capolavori di arte etrusca e di arte greca rinvenuti in tombe etrusche. Di particolare pregio sono le statue in bronzo: accanto a una serie di bronzetti votivi troneggiano la “Chimera” (fine V-inizio IV secolo a.C.) proveniente da Arezzo e “L’Arringatore” (II secolo a.C.) ritrovato nella zona di Perugia. La “Chimera”, scoperta nel 1553, per Cosimo I de’ Medici divenne il simbolo del potere mediceo rappresentando le fiere selvagge che il duca aveva domato per costituire il suo regno. “L’Arringatore”, un personaggio maschile nel pieno della maturità caratterizzato da un volto severo e nello stesso tempo grave e ispirato, arredò per lungo tempo la camera da letto di Cosimo I.

La città del ferro
Solitamente le altre città costiere etrusche sorgevano a una decina di chilometri dal mare. Populonia, che gestiva gli enormi giacimenti di ferro dell’isola d’Elba, costituisce un’eccezione e la sua acropoli, di cui rimangono solo le fondamenta di alcuni edifici sacri, era situata su uno sperone dal quale si domina il mare: da una parte il meraviglioso golfo di Baratti e la costa, dall’altra l’Elba. Accanto all’acropoli oggi sorge un grazioso borgo medievale.
Il suggestivo golfo di Baratti costituisce un porto naturale dove attraccavano le navi provenienti dall’isola e cariche di pietre contenenti ferro. Poco distante sorgeva il centro siderurgico, di cui si possono osservare ancora oggi le fondamenta seguendo la “Via del ferro”. La necropoli sorgeva a pochi metri dal mare nel golfo di Baratti, accanto agli impianti siderurgici e di fronte all’acropoli (la città dei morti, nella civiltà etrusca, era sempre separata da quella dei vivi). Nel corso dei secoli fu sepolta dalle scorie di ferro prodotte in grande quantità dapprima dagli Etruschi e in seguito dai Romani. Gli archeologi dovettero scavare sotto questa immensa montagna nera per trovare sepolcri etruschi in ottimo stato di conservazione e molto interessanti, perché in uno spazio molto delimitato si presentano nelle varie tipologie: a tumulo, a edicola, a sarcofago, a camera.
Il luogo più suggestivo di Populonia è certamente l’itinerario che conduce alla visita delle cave di pietra etrusche e della necropoli delle Grotte, “quasi senza confronto nel mondo etrusco” (guida archeologica del Touring), che unisce all’eccezionalità dei monumenti etruschi il fascino del paesaggio immerso nel verde della macchia mediterranea con sullo sfondo il mare. Il sentiero che sale, illuminato dal sole, è scintillante per la presenza di residui metalliferi nella sabbia. Giunti in cima alla collina si incontrano dapprima le cave di arenaria, una pietra costituita da sabbia cementificata, molto diffusa nella zona e ampiamente utilizzata per costruire monumenti funebri. Facilmente modellabile, veniva utilizzata per costruire muri a secco giunti fino a noi in perfetto stato nonostante siano stati costruiti oltre 2500 anni fa. Di fronte alla cava la necropoli delle Grotte, interamente scavata nella parete di arenaria, propone una serie di tombe a camera che datano del IV e III secolo a.C. Lasciato quel luogo suggestivo, il sentiero che scende verso il mare è cosparso da altri sepolcri scavati nella roccia.

L’Etruria del tufo
Questo triangolo di Maremma tufacea è di una bellezza speciale. I villaggi di Pitigliano e di Sorana osservati da lontano sembrano scaturire dalla roccia vulcanica, assumono le forme e i colori del tufo in perfetta armonia con la splendida natura circostante. Affascinanti anche le viuzze dei loro borghi medievali, ma la perla del magico triangolo è forse costituita da Sovana per la suggestione arcaica del minuscolo borgo distribuito tra la Rocca degli Aldobrandeschi (centro di potere della potente famiglia feudale) e il bellissimo duomo romanico, per l’importanza e per la monumentalità delle straordinarie necropoli etrusche. Dal IV secolo a.C. l’aristocrazia agraria dominante a Sovana esibisce la propria ricchezza realizzando costosissimi e monumentali sepolcri, suggestivamente scavati nei pendii tufacei delle tre valli che circondano l’abitato con una notevole varietà di tipi architettonici. Il monumento più imponente è certamente la tomba Ildebranda realizzata nel III secolo a.C. Completamente scavata nella roccia di tufo, ricorda in maniera impressionante gli splendidi monumenti di Petra in Giordania.
I tre villaggi del magico triangolo sono collegati tra loro da strade etrusche, le cosiddette vie cave. Scavate nella roccia, sono profondamente incassate tra alte pareti tufacee e costituiscono il segno di percorsi antichi che si diramavano in tutte le direzioni dagli antichi centri abitati. Percorrendole avete l’impressione di immergervi nella notte dei tempi. L’emozione è grandissima anche per la lontana luce che le illumina, che conferisce a questi percorsi un significato sacro.

Gli affreschi di Tarquinia
La pietra su cui sorge Tarquinia è molto friabile. Non permette quindi grandi interventi scultorei. Fu probabilmente questa la ragione principale alla base dello sviluppo della pittura funeraria, che non rappresenta solo l’episodio pittorico più importante prima dell’epoca imperiale romana, ma anche una fonte preziosa di informazione sui “valori” all’insegna dei quali viveva la società etrusca, sul costume e sulle credenze soprattutto della classe aristocratica. Gli affreschi rappresentano infatti scene di vita: banchetti funerari e non, allietati da danzatori e suonatori di cetra e di flauto, giochi funebri (alcuni molto truci), riti religiosi, scene di caccia e di gioco, scene erotiche e molto altro ancora.
Delle circa 200 tombe affrescate se ne possono visitare una ventina, quasi tutte in ottimo stato di conservazione. I sepolcri tarquinesi presentano di solito un vano rettangolare a cui si accede con un corridoio a gradini scavato nella parete del colle. Il visitatore si ferma davanti a una porta in vetro che blocca l’ingresso al locale, ma che permette un’ottima visuale sulle pitture realizzate con la tecnica dell’affresco: su una parete intonacata l’artista segnava con una punta i contorni delle figure, poi applicava i colori minerali e vegetali sciolti in acqua. Le immagini sono di due tipi: decorazioni semplici simboliche e allegoriche sui soffitti e sugli spazi frontali delle pareti; decorazioni complesse, rappresentanti varie scene di vita, in genere a metà dell’altezza delle pareti.
I corredi funebri trovati nelle tombe di Tarquinia sono presentati in modo didattico nel rinnovato museo nazionale ospitato dal quattrocentesco Palazzo Vitelleschi. I dipinti di alcune tombe che erano minacciati dalle intemperie sono stati strappati e riproposti al museo, dove si possono ammirare non solo opere etrusche, ma anche preziosi oggetti, soprattutto vasi, provenienti dalla Grecia ma di proprietà dei defunti.

Una vera città dei morti
Quella di Cerveteri è la visita più suggestiva di tutto il viaggio. Per due ore, tanto dura la visita al sito archeologico, camminate nel silenzio in una vera città dei morti. Il tempo sembra essersi fermato. Con un po’ di capacità di astrazione potete immaginarvi, come fa lo scrittore Giorgio Bassani nel romanzo “Il giardino dei Finzi-Contini”, di tornare ai tempi in cui gli etruschi visitavano questo luogo così come nei nostri paesi “il cancello del camposanto era il termine obbligato di ogni passeggiata serale”. “Varcata la soglia del cimitero – scrive Bassani – dove ognuno di loro possedeva una seconda casa, e dentro questa il giaciglio già pronto su cui, tra poco, sarebbe stato coricato accanto ai padri, l’eternità non doveva più sembrare un’illusione, una favola, una promessa da sacerdoti. Il futuro avrebbe stravolto il mondo a suo piacere. Lì, tuttavia, nel breve recinto sacro ai morti famigliari; nel cuore di quelle tombe dove, insieme coi morti, si provvedeva a far scendere tutto ciò che rendeva bella e desiderabile la vita; in quell’angolo di mondo difeso, riparato: almeno lì (e il loro pensiero, la loro pazzia, aleggiava ancora, dopo venticinque secoli, attorno ai tumuli conici, ricoperti d’erbe selvagge), almeno lì nulla sarebbe mai cambiato”.
Camminando lungo il percorso trovate sepolcri di ogni epoca etrusca e di ogni genere. A seconda dello sviluppo e delle fortune della città le tombe diventano più imponenti. Con l’affacciarsi delle nuove classi sociali compaiono le cosiddette tombe a dado, soprannominate dalle guide locali le casette a schiera. In questa città dei morti, dove ognuno si costruiva la sua casa per l’aldilà a seconda delle sue possibilità e il più simile possibile a quella abitata durante la vita terrena, potete leggere e capire la vita di questo popolo straordinario. Al museo di Cerveteri, che merita una visita, sono conservati gli arredi funebri di molte tombe.
Seguiamo ancora Giorgio Bassani: “Penetrammo nell’interno della tomba più importante, quella che era stata della nobile famiglia Matuta: una bassa sala sotterranea che accoglie una ventina di letti funebri disposti dentro altrettante nicchie delle pareti di tufo, e adorna fittamente di stucchi policromi raffiguranti i cari, fidati oggetti della vita di tutti i giorni: zappe, funi, accette, forbici, vanghe, coltelli, archi, frecce, perfino cani da caccia e volatili di palude”.

L’itinerario

1° giorno
Locarno – Firenze (425 km)

2° giorno
Museo Archeologico di Firenze

3° giorno
Firenze – Populonia (169 km)
Populonia – Valpiana (40 km)

4° giorno
Valpiana – Sovana (115 km)

5° giorno
Sovana – Tarquinia (73 km)
Tarquinia – Bracciano (68 km)

6° giorno
Bracciano – Cerveteri (18 km)
Cerveteri – Firenze (314 km)

7° giorno
Firenze – Locarno (425 km)

Oman – Nel sultanato dove la natura regna sempre sovrana

Oman – Quattro giorni tra mare, deserto e montagne

Splendide spiagge di finissima sabbia bianca, un mare superbo, forti e castelli, i baluardi delle oasi, e nel deserto dune indimenticabili.

Quando dici a qualcuno che vai in Oman, o non conosce il paese, oppure nel migliore dei casi pensa che sia il luogo ideale per trascorrere una settimana al caldo durante l’inverno. E’ vero che questo paese ha splendide spiagge di sabbia bianca finissima e un mare superbo con fondali che sono il sogno di ogni sub, ma offre molto altro ancora. Potete scoprire forti e castelli situati in splendide oasi, moschee antiche e moderne, grotte, valli, montagne inserite in paesaggi lunari e le indimenticabili dune di uno dei deserti più impervi al mondo. Le infrastrutture alberghiere sono di ottimo livello, la gente è mite, cordiale e tollerante nei confronti dei costumi e delle tradizioni straniere, pur senza essere giustamente disposta a sacrificare la propria identità nazionale. “Sono giunto alla conclusione di respingere l’idea che il patrimonio culturale debba avere una posizione subordinata nel mondo moderno. Il nostro patrimonio nazionale è ricco e necessita unicamente di essere leggermente ritoccato per adattarlo alla realtà del giorno d’oggi in modo bilanciato, così che un elemento non prevalga sull’altro”. Sono parole del sultano Qabus, un principe illuminato che in 38 anni di governo ha cambiato i destini del suo paese, fino al 1970 ancora immerso nel Medioevo. Il monarca è stimato a livello internazionale e dal suo popolo. Il suo paese è tanto pulito, ordinato e sicuro che viene considerato la Svizzera della Penisola Arabica. L’Oman sta vivendo un rapido sviluppo economico, ma tutte le iniziative devono rispettare principi ecologici. Questi principi vengono applicati con tale scrupolo che l’Oman è stato il primo stato arabo ad essere premiato dall’Unesco “per gli sforzi internazionali compiuti in nome dell’ambiente”. “Il cambiamento è necessario – ha spiegato il sultano in un’intervista a “Repubblica” (27 maggio 1994). La vita dei miei sudditi aveva bisogno di essere semplificata e resa più confortevole, ma era importante non perdere il contatto con il passato, la cultura e la civiltà propria di queste terre e di questa gente. Così, per esempio, ci siamo preoccupati che le nuove costruzioni seguissero un criterio unico per dimensioni e colori delle facciate, in armonia con il clima e la tradizione”. Percorrendo l’Oman non troverete infatti quella pacchiana rincorsa al modo di vivere occidentale che incontrate invece in altri paesi del Golfo.
Circa l’80 per cento degli omaniti si riconosce nel gruppo musulmano degli ibaditi, che professa un islamismo rigoroso e severo. La legge stabilisce comunque la libertà di pensiero e di credo religioso. Il popolo, d’altra parte, è tendenzialmente pragmatico nell’interpretazione della religione, tollerante nei confronti di altri movimenti islamici e permette agli stranieri di seguire il proprio culto.

Muscat
Una città fedele a sé stessa, moderna ma ancora ‘antica’
La guida che mi aspetta all’aeroporto di Muscat, la capitale dell’Oman, indossa la tradizionale veste bianca degli uomini omaniti, la cosiddetta dishdasha. Mentre il taxi con aria condizionata sfreccia sull’autostrada a sei corsie verso il centro della capitale passiamo davanti ai lucenti palazzi della politica e della finanza del quartiere residenziale di Riwi. E’ la capitale del nuovo corso, moderna, efficiente, pulita come una città svizzera. Ma è a Mutrah, il quartiere del porto, che si incontra lo spirito antico della civiltà araba. Sulla splendida insenatura naturale, ricavata in un anfiteatro di rocce scure, si affacciano i due forti di Jalali e Mirani, che ricordano il periodo dell’occupazione portoghese durata 150 anni (dall’inizio del 1500 alla metà del 1600). E’ qui che potete immergervi nella piacevole atmosfera caotica del tradizionale mercato arabo (suk). Tra le solite botteghe di souvenir per turisti, tessuti, ferramenta, oro e argento trovate anche alcuni negozi di antiquariato. La contrattazione è d’obbligo, ma gli sconti concessi sono minimi.
Il mattino, non molto distante dal suk, non mancate di visitare l’animatissimo mercato del pesce, dove potrete ammirare anche alcuni splendidi esemplari di squali. Vi accorgerete allora che questa parte della città, nonostante sia la principale zona portuale della capitale, abbia più l’aspetto di un villaggio di pescatori. Ed è proprio questo il fascino di Muscat, di essere rimasta fedele a se stessa senza occidentalizzarsi.
Ma il cuore della città è costituito dal minuscolo quartiere cinto da mura e munito di porte che dà il nome alla capitale. Oggi ospita il palazzo del sultano, altri edifici governativi e alcuni musei, tra cui il modernissimo e didattico Bait al Baranda, che illustra la storia della città. Molto interessante l’ampia parte dedicata alla cosiddetta “rinascita”, cioè il periodo degli ultimi 38 anni del paese sotto la guida illuminata dal sultano Qabus.
Non si può lasciare Muscat senza aver visitato (aperta per i turisti dalle 9 alle 11) la nuovissima e imponente Grand Mosque, donata alla nazione dal sultano per il trentesimo anniversario del suo regno. E’ uno splendido esempio di architettura islamica moderna. I suoi interni sbalordiscono per la ricchezza delle decorazioni ispirate dalle varie regioni di diffusione della religione musulmana. Il tappeto persiano della sala principale è il più grande del mondo (70 metri per 60) ed è stato realizzato in quattro anni in Iran da 600 tessitrici.

Uzbekistan – La via della seta

Uzbekistan – Lungo la mitica via della seta

Sulle orme delle antiche carovane, tra oasi e steppe desertiche, un suggestivo itinerario in Uzbekistan, sospesi a metà strada tra la Cina e l’Occidente.

Il nostro itinerario nell’Asia centrale, in Uzbekistan, organizzato dall’agenzia turistica Kel12 di Milano, si snoda lungo la mitica “Via della seta” e ha come mete principali le città di Bukhara e di Samarcanda, che rappresentavano nell’antichità strategici punti di sosta a metà del percorso tra la Cina e l’Occidente. Lungo il tragitto sorsero così numerosi caravanserragli che offrivano alloggio, stalle e magazzini alle carovane e che diedero vita a un’attività commerciale senza precedenti. La “Via della seta” non si sviluppò mai lungo un unico percorso, ma era costituita da una fragile rete di itinerari carovanieri intercontinentali. Le città che si trovavano lungo questi tragitti conobbero un grande sviluppo. Le devastazioni e i disordini provocati da Gengis Khan e da Tamerlano, che incontreremo più volte lungo il nostro itinerario, resero sempre più insicure queste vie e portarono come conseguenza alla crisi economica della regione. L’ultimo e definitivo colpo inferto all’ormai agonizzante “Via della seta” fu poi rappresentato dall’apertura delle rotte commerciali marittime tra Europa e Asia, che rendevano superflue le fatiche delle carovane. Si concludeva così un capitolo fondamentale nella storia dell’umanità: per la prima volta infatti, attraverso questi itinerari, si era sviluppato un interscambio di idee, tecnologie e convinzioni religiose, grazie ai contatti tra realtà culturali estremamente diverse.
Il diario di viaggio che segue si sofferma sulle tappe principali di un itinerario, effettuato in torpedone, che percorre tutto l’Uzbekistan, passando da un’oasi all’altra e attraversando l’inospitale steppa che separa alcune perle dell’Islam come Khiva, Bukhara e Samarcanda.

Khiva, città-museo 
La nostra visita all’Uzbekistan inizia da Khiva, venerdì 24 ottobre. Il 23 siamo volati da Roma a Tashkent, la capitale del paese, che dista sei ore di aereo. Giungiamo in serata a causa del fuso orario (5 ore). Il tempo per un breve sonno e il mattino di buonora ripartiamo in volo in direzione ovest per Urgench, da dove in mezz’ora di torpedone raggiungiamo la città-museo di Khiva, diventata tale nel corso di un programma di conservazione sovietico.
La prima immagine è quella delle sue pittoresche mura di fango lunghe due chilometri e mezzo, che circondano tutto il centro storico. Il nostro albergo (hotel Asia Khiva), situato davanti alla porta principale, è una struttura nuova con camere più che dignitose. Preso possesso della camera partiamo a piedi per la visita della città. Tutti i monumenti sono a portata di mano. Si respira un’atmosfera orientale: minareti, moschee dalle cupole verdi, palazzi dei visir, madrasse e naturalmente il mercato.
La nostra visita inizia proprio dal souk, che caratterizzò questa città nel corso della storia per un fiorente mercato degli schiavi durato più di tre secoli, fino al 1873. Era il più grande dell’Asia centrale. Nelle pareti sono ancora visibili le nicchie dove venivano esposti gli sventurati in vendita. Il souk attuale è animato soprattutto da gente del posto. Di turisti se ne vedono pochi. La merce esposta, destinata soprattutto agli indigeni, è molto variopinta, di cattivo gusto e dominata dai materiali sintetici. Non c’è traccia del ricco artigianato di un tempo. Non si vende seta, nonostante questa città si trovasse anticamente proprio sulla “Via della seta”, e nemmeno cotone, sebbene qui attorno tutti vivano della coltura del cotone. Regnano i tessuti sintetici: persino i fiori sono di plastica. Come spesso accade, la parte più bella del souk è quella dedicata alla frutta, alla verdura e alle spezie. Per la prima volta vedo alcune bancarelle vendere solo pasta: di ogni tipo e di ogni forma.
Khiva fu distrutta nel 1740 dai Persiani e in seguito ricostruita. La maggior parte dei suoi monumenti risale pertanto al XVIII secolo. La città, storicamente, era tristemente nota per la ferocia dei suoi regnanti, di cui si visitano due fastosi palazzi decorati con magnifiche ceramiche. Come spiega la nota viaggiatrice ginevrina Ella Maillart (“Vagabonda in Turkmenistan”, Torino 2002) “per il mongolo nomade il lusso consisteva nell’applicare parati e tessuti ricamati alle pareti della sua tenda. Quando fissò la sua dimora volle che i suoi palazzi e le sue moschee gli restituissero con le loro decorazioni di ceramica la stessa sensazione”. Ma a questa raffinatezza si accompagnava nei visir di Khiva una ferocia incredibile. Arminius Vambéry, un viaggiatore ungherese dell’Ottocento, racconta di aver assistito nel 1863 all’esecuzione di trecento prigionieri impiccati o decapitati. “I loro capi con i capelli grigi erano invece distesi a terra in attesa di essere ammanettati, quando il boia si inginocchiò sui loro petti e cavò loro gli occhi, pulendo il coltello insanguinato sulle loro barbe. Tentarono di rialzarsi, ma sbatterono alla cieca gli uni contro gli altri e crollarono al suolo agonizzanti”.
Questi truci racconti non si conciliano con il mio stato d’animo mentre visito questa città dall’atmosfera quasi ibernata, che ti fa sentire ai margini del mondo. La sua architettura è armoniosa. Il colore delle costruzioni, così come quello delle mura costruite in mattoni di argilla e paglia, è quello della terra e si mimetizza perfettamente con il paesaggio mettendo in risalto i verdi e i blu delle smaglianti maioliche. Queste immagini mi rimarranno impresse nella memoria per la loro diversità, per l’armonia e per le tinte dolci soprattutto al momento del tramonto.

Bukhara città sacra 
Lunga trasferta in torpedone da Khiva a Bukhara, la città sacra. La strada percorre una zona desertica e disabitata lungo il confine con il Turkmenistan. La steppa è monotona e il viaggio dura quasi una giornata. Ben si può capire quanto fosse irraggiungibile questa città per gli eserciti che la volevano conquistare. Molti perdettero la maggior parte dei loro soldati e dei cammelli in queste steppe inospitali. Sabato in serata giungiamo a Bukhara, che “per più di mille anni – come osserva Tiziano Terzani (“Buona notte signor Lenin, Milano 1992) – nel mondo mussulmano fu considerata equivalente alla Mecca come importante centro di studi, per lo splendore delle sue moschee e il livello intellettuale delle sue madrasse, le scuole coraniche”. Tanto che gli storici arabi la definirono “il paradiso del mondo”. Ci si può bene immaginare come dovessero rimanere incantati i carovanieri che percorrevano la “Via della seta”, quando dopo giorni di lunga e monotona marcia percorsi nella steppa giungevano all’ombra dei sontuosi monumenti di questa città sacra.
Anche qui come a Khiva gli emiri erano sanguinari. Esisteva una prigione, il cosiddetto “pozzo degli scarafaggi”, dove venivano allevati insetti che scarnificavano i prigionieri. Un colonnello britannico vi passò alcuni mesi prima di essere giustiziato per essere entrato a cavallo nell’Ark, la città regale, dove solo l’emiro poteva cavalcare. L’Ark era una città nella città, abitata dal quinto secolo fino a quando Bukhara cadde in mano all’Armata Rossa. La sua visita è di grande interesse, così come il famosissimo minareto Kalon, uno dei simboli della città. Si narra che Gengis Khan, quando nel 1220 espugnò e distrusse Bukhara al grido “Io sono il castigo di Dio per i vostri peccati”, rimase talmente esterrefatto alla vista di questo monumento che ordinò di risparmiarlo. È giunto fino a noi ben conservato con le sue quattordici fasce decorative, diverse l’una dall’altra, a testimonianza del primo utilizzo delle lucenti piastrelle blu che si diffusero in tutta l’Asia centrale sotto Tamerlano. Ai tempi dell’emiro i condannati a morte venivano messi in un sacco e lanciati dal minareto alto 47 metri, soprannominato dai bolscevichi “Torre della morte”. Tiziano Terzani fa notare come gli abitanti di Bukhara, nonostante il dispotismo degli emiri, parlino oggi di quell’epoca come di tempi d’oro. “La Bukhara mussulmana – osserva Colin Thurbon (“Il cuore perduto dell’Asia”, Milano 1994) – era cinta da 12 chilometri di mura e di porte fortificate e le sue moschee e medresse erano innumerevoli. I bukharioti erano considerati gli abitanti più distinti e civilizzati dell’Asia centrale. I loro modi e il loro abbigliamento divennero un parametro dell’eleganza orientale…Tutto questo splendore – prosegue lo studioso inglese – nascondeva però a malapena l’intimo squallore… Chi faceva il bagno o beveva nelle piscine pubbliche contraeva la ributtante filaria della Medina, che soltanto un barbiere esperto era in grado di estrarre dalla carne incidendo la pelle con una lama e attorcigliando il verme – a volte lungo più di un metro – su un ramoscello”.
Un altro edificio di rara bellezza giunto dal X secolo fino a noi è il mausoleo di Ismail Samani: “uno degli edifici più eleganti dell’Asia centrale – secondo la guida turistica Lonely Planet – che cambia gradualmente ‘carattere’ nel corso della giornata man mano che mutano le ombre”. L’abile intreccio dei mattoni in terracotta presenta una sorta di affascinante ricamo, che alleggerisce questo sobrio monumento, giunto fino a noi grazie a un espediente dei bukharioti. “Quando gli abitanti videro gli invasori mongoli bruciare e distruggere tutta la città – spiega ancora Tiziano Terzani – corsero al mausoleo di Samani e seppellirono l’intera costruzione sotto una collina di terra perché gli uomini di Gengis Khan non la vedessero”.
Nella piazza Lyabi-Hauz, costruita nel 1620 attorno a una vasca, all’ombra di gelsi antichissimi, abbiamo gustato ottimi spiedini al grill, una specialità del luogo. Ma Bukhara è famosa in tutto il mondo anche per i suoi tappeti, che costituiscono per noi il modello classico della nostra idea di “tappeto orientale”. Eseguito su fondo rosso di tutte le tonalità, propone una composizione costituita da un susseguirsi di forme essenziali, rigorosamente geometriche: ottagoni tagliati diagonalmente da un disegno bianco e nero sempre uguale.