Cipro – Una città divisa tra due culture

Cipro – La storia “occupata” dai turchi
Cipro – Viaggio nel sud di cultura greca
Cipro – Un viaggio nella storia

Dall’alto dell’Osservatorio Ledra a Nicosia, una sorta di museo-belvedere situato all’undicesimo piano di un palazzo del centro storico nella zona sud, si osserva la città dall’alto con i suoi monumenti, le sue antiche mura e il suo recente muro, definito Linea verde, che divide la Lefkosia greca dalla Lefkosa turca. Una città che con i suoi agglomerati supera i 200 mila abitanti. Cosa attendersi dall’ultima capitale europea divisa in due da una barriera politico-culturale? Ricordando Berlino pensavo di trovare un’atmosfera tesa e triste. Ma Nicosia non è così. Oggi si passeggia per la città divisa da sacchi di sabbia, barili pieni di terra e filo spinato collocati lungo la Linea verde, ma si passa facilmente e senza troppa burocrazia da una parte all’altra passeggiando lungo una via pedonale. Neppure l’atmosfera tra i quartieri greci e quelli turchi mi è parsa molto diversa. Moschee a parte, la zona nord non ha un carattere molto orientale e si è aperta al turismo quanto quella sud. Si circola facilmente da una parte all’altra della frontiera, non solo a Nicosia, dal 23 aprile 2003 quando inaspettatamente le autorità turco-cipriote hanno revocato il divieto di valico della Linea Verde che divide trasversalmente tutta l’isola. Secondo Chiristos, la guida turistica che ci ha accompagnati nella visita della capitale, le due comunità cipriote, dopo quasi trent’anni di divisione, sarebbero pronte alla riunificazione del paese. Una volontà espressamente dichiarata negli ultimi tempi da numerosi intellettuali che vivono al di qua e al di là del muro. Le elezioni tenutesi lo scorso mese di aprile a Cipro nord sembrano però avere allontanato questa speranza. Si è infatti imposto il settantaduenne conservatore Dervis Eroglu, favorevole alla divisione dell’isola in due stati sovrani. Nonostante abbia dichiarato che i negoziati con il sud proseguiranno, gli osservatori temono che il nuovo premier negozierà per non concludere. Già nel 2004 si pensava di essere vicini a un accordo quando l’allora segretario delle Nazioni Unite Kofi Annan propose la creazione di uno stato federativo sul modello elvetico. In quell’occasione fu la maggioranza greco-cipriota ad opporsi, mentre quella turco-cipriota si espresse a favore.
La storia di questo paese dal 16 agosto 1960, quando raggiunse finalmente l’indipendenza, è alquanto tormentata. La nuova costituzione prevedeva che il potere politico sarebbe stato spartito su base proporzionale, anche se ai turco-ciprioti, con meno del 20 per cento della popolazione totale, sarebbero spettati il 30 per cento delle cariche statali, il 33 per cento dei seggi in parlamento e il 40 per cento degli effettivi dell’esercito. Inoltre la presidenza della repubblica sarebbe spettata a un greco-cipriota, mentre la vicepresidenza a un turco-cipriota. Questi buoni propositi si dimostrarono però irrealizzabili all’atto pratico. Già nel ’63 scoppiarono disordini a Nicosia tra le due comunità. Fu allora che a Nicosia si tracciò la cosiddetta Linea verde controllata da un contingente di pace dell’Onu e da truppe britanniche.
Il pretesto ai militari turchi per invadere l’isola il 20 luglio 1974 e creare di fatto due stati lo diede la giunta militare di estrema destra, che dal 1967 era al potere in Grecia. I colonnelli di Atene, sembra con la benedizione della Cia, il 15 luglio 1974 rovesciarono a Cipro il governo Makarios – considerato filo sovietico – per mettere al suo posto Nikos Sampson, noto fautore dell’annessione del suo paese alla Grecia. L’esercito turco a quel punto poteva intervenire come “garante della minoranza minacciata”. Nonostante il 23 luglio la giunta militare greca venne rovesciata e contemporaneamente a Cipro Sampson perse il potere, l’avanzata dell’esercito turco non si fermò fino al 16 agosto, quando ormai controllava il 37 per cento dell’isola.

Cipro – Un viaggio nella storia

Cipro – La storia “occupata” dai turchi
Cipro – Viaggio nel sud di cultura greca
Cipro – Una città divisa tra due culture

L’isola di Cipro è nota soprattutto per le sue località balneari alla moda, che offrono un’animata vita notturna. Ma non è solo questo, anzi…! Terra di frontiera, là dove il Mediterraneo ondeggia tra Europa, Asia e Africa, Cipro ha vissuto in stretta contiguità con le principali civiltà dei tempi antichi: da quella sirianofenicia a quella romana, passando per le civiltà egizia, greca ed ellenistica. Poi si sono susseguiti i bizantini, gli arabi, i templari, i Lusignano, Genova, Venezia, i turchi, gli inglesi. Queste civiltà hanno lasciato sull’isola numerose testimonianze. Se poi si aggiunge una natura selvaggia, dove non è arrivata la speculazione edilizia, con un mare azzurrissimo, si può ben capire perché costituisca una destinazione meritevole di un vero e proprio viaggio e non un di un semplice soggiorno balenare. Percorrendo la storia della terra di Afrodite – si racconta che qui apparve dalla spuma delle onde sollevate dal vento – l’articolo Nel sud di cultura greca si sofferma sulle testimonianze lasciate dai numerosi popoli che nel corso dei secoli hanno occupato l’isola. Il viaggio riveste anche un notevole interesse politico per la divisione di Cipro tra il nord di cultura turca e quindi musulmana e il sud legato alla civiltà greca e di religione ortodossa. Una frattura che affonda le sue radici nella storia antica. Il nostro itinerario inizia da Nicosia, dove al museo archeologico si ha un primo approccio con i reperti più antichi risalenti al periodo aureo (750-475 a.C.) delle città-stato, sorte quando i primi coloni greci giunsero sull’isola. Nella seconda metà del IV secolo a.C. i ciprioti non esitarono ad allearsi con Alessandro Magno, fornendogli il supporto di 120 navi, per liberarsi della dominazione persiana. Durante la lunga epoca ellenistica, conclusasi nel 58 a.C. con l’annessione di Cipro ai territori di Roma, l’isola visse in condizioni di relativa pace e benessere. Le Tombe dei Re del III secolo a.C., che si possono visitare a Pafos, sono un’eloquente testimonianza del livello raggiunto dall’isola in questo periodo. Con i romani le cose andarono ancor meglio. Rispettosi delle culture locali, come nel loro stile, i nuovi padroni in cambio dei soliti tributi costruirono strade, ponti, acquedotti, terme, teatri, palestre e splendide ville ornate di mosaici. Di quest’epoca si possono visitare parecchie testimonianze nei siti archeologici di Salamis al nord e di Pafos – straordinari i mosaici – e Kourion al sud. Crollato l’impero di Roma, fu Costantinopoli a ereditare il possesso di Cipro. Sotto il dominio bizantino l’isola vivacchiò per tre secoli fino a quando sulle sue coste si scatenarono le incursioni dei musulmani. Qua e là, nei punti più strategici, sorsero fortezze difensive di cui si visitano le suggestive rovine. Riccardo Cuor di Leone pose fine al predominio bizantino e vendette quindi l’isola ai Cavalieri Templari, sconfitti a Gerusalemme da Saladino, i quali la cedettero a loro volta a Guido di Lusingano, già re di Gerusalemme. Della dinastia dei Lusignano, che prosperò per alcuni secoli, rimangono imponenti castelli costruiti sulle rovine di quelli bizantini, la splendida città di Famagosta con le sue innumerevoli chiese e con la sua preziosa cattedrale gotica trasformata in moschea come quella di Nicosia. Sono di questo periodo anche le chiese bizantine costruite nella discosta regione del Troodos dai sacerdoti ortodossi, che si ritirarono sulle montagne perché mal tollerati dai cattolicissimi Lusignano.
Del periodo veneziano (1489-1571) rimangono soprattutto opere militari, bastioni, mura e fortezze costruite invano per tenere lontani gli ottomani, che conquistarono l’isola a partire dal 1570. Cipro rimase sempre una provincia di secondo piano di quest’impero, di cui non rimangono testimonianze di grande rilievo.

Egitto – Al sud, tra Nilo e deserto

Egitto – La città di Luxor, l’antica Tebe
Egitto – Un’autostrada del turismo
Egitto – I diversi volti dell’Islam

I templi dell’epoca tarda (300-30 a.C.) di Aswan, Kom Ombo,Idfu e Esna. La diga degli anni Sessanta che ha cambiato la vita del paese. La spettacolare Abu Simbel, salvata dalle acque del Lago Nasser grazie all’intervento dell’Unesco

Quando si pensa alla civiltà egiziana ci si dimentica spesso che ci si riferisce a un periodo lunghissimo che va dal 3000 a.C., quando nasce la prima dinastia faraonica, fino al 30 a.C., quando l’Egitto diventa una provincia romana. Un periodo quindi di quasi tremila anni, che ha conosciuto alti e bassi. I momenti migliori hanno sempre coinciso con un forte potere centrale, quelli difficili sono invece stati caratterizzati da divisioni politiche e sociali del paese. Un altro elemento fondamentale per comprendere questa straordinaria civiltà è il ruolo del Nilo, che quando nel corso dell’estate straripava ricopriva le rive, su un’estensione di alcuni chilometri, depositando un prezioso limo che rendeva fertilissima la terra. La grande ricchezza di questo paese, stretto tra due deserti, era legata al suo fiume, sulle cui sponde pulsava la vita allora, come avviene ancora oggi.
Il nostro itinerario segue dunque il tragitto del Nilo, ma a ritroso nel tempo. Nel senso che partiamo dall’epoca tarda faraonica cioè dal 300 a.C. al 30 a.C., quando il paese aveva trovato una difficile convivenza tra la civiltà egizia e quella greca, e giungiamo al periodo aureo toccato durante la XVIII dinastia (1540-1292 a.C.) e l’inizio della XIX (1292-1186 a.C.). La visita dello straordinario museo egizio del Cairo e delle piramidi è prevista per un altro viaggio, che contemplerà anche il deserto e la mediterranea Alessandria fondata da Alessandro Magno.
Non si tratta quindi dell’itinerario classico, sia per quanto riguarda il tragitto, sia il mezzo di trasporto: l’automobile invece della crociera in nave sul Nilo. Il nostro percorso scorre da sud a nord, da Aswan – con una puntatina in aereo nell’estremo sud, nel deserto nubiano, per visitare Abu Simbel – a Luxor, per raggiungere più a nord anche gli splendidi templi di Abydos e Dendera.
La prima tappa del viaggio è Aswan, che raggiungiamo in aereo da Milano, facendo scalo al Cairo. Qui visitiamo il Tempio di File e poi verso nord quelli di Kom Ombo, Idfu e Esna. Si tratta di monumenti risalenti all’epoca tolemaica (300 a.C. – 30 a.C.) frutto di un’interazione tra due grandi culture: quella egizia e quella greca. Come scrive Ernst H. Gombrich nella sua storia dell’arte “i maestri greci andarono alla scuola degli egizi, e noi tutti siamo allievi dei greci. Per questo l’arte egizia assume per noi un’importanza incalcolabile”.

I Greci in Egitto
Dopo oltre due millenni di storia sul trono dei faraoni, a partire dal VII secolo a.C., sedettero sovrani stranieri, che in molti casi cercarono di rispettare la cultura egizia. È quanto accadde alla dinastia dei tolomei (300 – 30 a.C.), che salì al potere dopo la conquista dell’Egitto da parte di Alessandro Magno e la sua incoronazione a faraone. Alla morte del grande condottiero, uno dei suoi amici più fedeli, il greco Tolomeo si proclamò re d’Egitto e fondò una dinastia che sarebbe durata tre secoli donando al paese una tarda fioritura anche nel mondo dell’arte e dell’architettura. Il tempio di File ad Aswan e quelli di Kom Ombo, Idfu e Isna, che si incontrano in quest’ordine lungo la strada che sale a nord verso Luxor, appartengono a quest’epoca.
Dedicato alla dea Iside il Tempio di File si trova su una suggestiva isola sul Nilo, che si raggiunge in barca. Per evitare che venisse sommerso dalle acque dopo la costruzione della grande diga costruita da Nasser negli anni Sessanta fu letteralmente smontato in 42 mila blocchi numerizzati e rimontato. Questo intervento, realizzato con l’aiuto dell’Unesco, ha richiesto otto anni di lavoro.
Iniziato nel IV secolo a.C. il luogo di culto fu abbellito dagli ultimi faraoni e ultimato durante l’impero romano. Il suo grado di conservazione è eccezionale e ci propone alto e bassorilievi di grande pregio artistico dedicati alla leggenda di Iside, sorella e consorte di Osiride, che venne ucciso dal fratello ma fu riportato in vita grazie a un battito d’ali della dea trasformatasi in uccello. Dalla loro unione nacque Horus, a cui è dedicato il tempio di Idfu, che è giunto a noi quasi intatto permettendoci quindi di penetrare dentro i misteri di un luogo di culto egizio. Cosa assolutamente proibita alla gente del tempo, costretta a rimanere nel cortile esterno, quindi lontana dal sacrario che si trovava nella parte posteriore e custodiva la statua d’oro del dio a cui era dedicato il tempio.
A Kom Ombo, immerso in uno splendido paesaggio in riva al Nilo attorniato da verdissimi campi coltivati a granturco e canna da zucchero, mi hanno particolarmente colpito alcuni bassorilievi che illustrano l’elevato livello raggiunto dalle arti mediche all’epoca dei faraoni. I sacerdoti presenti nei templi, oltre che a celebrare gli dei, praticavano infatti anche la medicina e l’astrologia. Di enorme interesse anche il cosiddetto nilometro, un marchingegno che permetteva di misurare il livello del Nilo durante le piene e dal quale dipendeva l’ammontare della tasse: minori se l’acqua era poca, maggiori se era molta.

Con le dighe cambia la vita
A partire dall’inizio del Novecento le piene del Nilo sono controllate dalle dighe: la cosiddetta Diga Vecchia fu costruita dagli inglesi nel 1902, la più recente risale invece agli anni Sessanta. Un’opera voluta da Nasser che ha permesso di aumentare del 30 per cento la superficie delle terre coltivabili, di raddoppiare le risorse energetiche e di regolarizzare l’irrigazione, consentendo un notevole sviluppo delle risaie e stabilizzando le acque del fiume favorendo in tal modo la navigazione permanente. Tutti questi vantaggi hanno però comportato un prezzo elevato per le popolazioni che vivevano lungo le rive del Nilo a nord di Aswan nella regione dove oggi si trova il lago Nasser. Le acque hanno infatti sommerso i villaggi dove vivevano 100 mila nubiani costretti a trasferirsi in altre parti del paese e in particolare in nuovi villaggi costruiti appositamente dal governo a nord, nei pressi di Kom Ombo, ma lontani dal Nilo. Un interessante museo di recente inaugurazione ad Aswan, presenta la cultura nubiana e il suo sviluppo nei secoli. A livello paesaggistico il lago, circondato dalle dorate sabbie del deserto, non sembra opera dell’uomo, ma una magia della natura.

Aswan, ponte tra le culture
La più meridionale delle città egiziane, famosa per il suo granito rosa, anticamente occupava unicamente l’isola Elefantina situata nel mezzo del Nilo in uno splendido paesaggio caratterizzato dalle sabbie del deserto. Storicamente sede di un importante mercato, ha favorito gli scambi economici e culturali tra il mondo arabo e l’Africa nera. Situata nei pressi della prima cataratta, una sorta di cascata, ha svolto un importante ruolo strategico, perché permetteva agli eserciti dei faraoni di controllare gli afflussi dalla regione della Nubia e quindi dall’Africa. Oggi è una graziosa cittadina, dove si può passeggiare lungo il Nilo, sulla cosiddetta Corniche in ricordo dell’epoca coloniale, ben rappresentata anche dal prestigioso hotel Old Cataract, purtroppo attualmente in restauro. Il vasto suk (mercato) ha in parte perso la sua tipicità. Sebbene di forte impronta turistica non si può rinunciare a una gita in feluca, dove “l’ozio acquisisce tutta la sua nobiltà”, mentre le vele spinte dal vento inoltrano i passeggeri in un paesaggio desertico e silenzioso, che permette di viaggiare con il pensiero ai tempi dei faraoni.

Indimenticabile Abu Simbel
Abu Simbel è una delle mete più interessanti del viaggio. Non ci troviamo più di fronte a monumenti dell’epoca tolemaica, ma risalenti a mille anni prima. Questo luogo di culto è stato costruito da Ramsete II (1279-1213 a.C.), uno dei più grandi faraoni della storia. Situato alle porte dell’Africa nel deserto nubiano è completamente scavato in uno sperone di roccia per un’altezza di 33 metri e una larghezza di 38. Nonostante queste dimensioni gigantesche gli scultori hanno saputo creare un’opera perfetta.
Ramsete II fu un grande costruttore, un grande guerriero, ma anche un uomo di pace, perché concluse con gli Ittiti forse il primo trattato scritto di pace della storia, che prevede numerose clausole, tra cui addirittura alcune dedicate alle estradizioni.
Due sono i monumenti che si visitano ad Abu Simbel: il Grande tempio, dedicato da Ramsete II a sé stesso e il Tempio di Hathor, offerto invece alla sua sposa preferita, la regina Nefertari, che in lingua egiziana antica significa la più bella tra le belle. Secondo alcuni storici il faraone costruì questo edificio maestoso per dimostrare la sua potenza ai possibili invasori provenienti dall’Africa.
L’atmosfera che si respira nei due templi è molto diversa. Quello di dimensioni più ridotte, dedicato alla moglie, è decisamente più leggero. Le figure di donna slanciate ed eleganti dipinte sulle pareti danno effettivamente l’impressione di entrare in un universo femminile. Più imponente e molto più ampio è invece il tempio grande. Sulle pareti sono rappresentate scene della famosa battaglia di Qadesh combattuta da Ramsete II contro gli Ittiti. Curioso il modo utilizzato per rendere l’idea del movimento: lo sdoppiamento dell’immagine. Due giorni all’anno – probabilmente quello del compleanno e quello dell’incoronazione del faraone – i raggi del sole penetrano attraverso un’angusta finestra illuminando sull’altare le figure del re sole e di Ramsete II, che si trovano accanto agli dei Amon-Ra e Ptah.
Impressionante immaginare che questo monumento sia stato smontato in mille blocchi e rimontato 62 metri più in alto per evitare di soccombere sotto le acque del lago Nassar.

Bibliografia
Egitto La Guida Verde Michelin, Milano 2002
Egitto Touring Club Italiano, Milano 2007
Egitto Lonely Planet, Torino 2008
Egitto Polaris, Firenze 2004
Hermann A. Schlegl, L’Antico Egitto Il Mulino, Bologna 2005
Sergio Donadoni, L’uomo egiziano Editori Laterza, Bari 2003

Egitto – La città di Luxor, l’antica Tebe

Egitto – Al sud, tra Nilo e deserto
Egitto – Un’autostrada del turismo
Egitto – I diversi volti dell’Islam

Le tombe dei faraoni nella valle dei Re, gli altri sepolcri nelle valli adiacenti e i templi funerari. La città dei vivi sulla sponda sinistra del Nilo con i templi di Karnak e di Luxor e quella dei morti sulla sponda destra con le tombe e i templi funerari, risalgono all’epoca in cui la civiltà egizia raggiunse il suo apice tra il 1500 e il 1200 Avanti Cristo.

Con la XVIII dinastia 3 mila 500 anni fa Tebe, l’attuale Luxor, sotto il faraone Ahmosi (1540-1515 a.C.) diventa capitale d’Egitto. I più insigni uomini del tempo – astronomi, architetti, medici, letterati – vengono chiamati alla corte da Amenhotep (1515-1494 a.C.) succeduto al padre Ahmosi. È in questo periodo che i sovrani trovano un nuovo luogo di sepoltura nella Valle dei re e che viene fondato Deir el-Medina, l’insediamento degli operai che lavorano alla costruzione delle tombe faraoniche.
Il nostro itinerario, dopo aver visitato i siti archeologici di Abu Simbel, di Aswan, e sul tragitto verso Luxor, di Kom Ombo, Idfu e Isna (vedi prima parte), approda dunque nell’antica Tebe, da cui spostandosi verso nord raggiungeremo anche Dendera e Abydos.
Luxor costituisce certamente la tappa principale del nostro itnerario, come di qualsiasi viaggio in Egitto, perché ospita i monumenti risalenti all’epoca in cui la civiltà egizia assurse al suo apice a partire dal 1500 a.C., quando il paese raggiunse anche la più ampia estensione territoriale della sua storia in seguito a una politica estera espansionistica. Risalgono a questo periodo anche i regni di Hatshepsut (1479-1457 a.C.), la donna faraone che fondò la valle delle regine e costruì poco distante un tempio di straordinaria modernità, e quello di Amenhotep IV(1353-1336 a.C.) che diede origine alla prima religione monoteistica nella storia dell’umanità. Il suo dio Aton, che amava tutte le creature della terra, fu però accantonato dai suoi successori – in primis dal leggendario Tutankhamon (1332-1323 a.C.) – che restaurarono il culto delle antiche divinità. La fase monoteista creò un clima difficile dal quale si uscì definitivamente con il faraone Sethi I (1290-1279 a.C.) della dinastia dei ramessidi e con suo figlio Ramesse II (1279-1213 a.C.), uno dei più importanti faraoni di tutti i tempi, famoso per aver siglato il primo trattato di pace scritto della storia – prevedeva persino clausole per l’estradizione – e per la sua straordinaria attività edificatoria. Viaggiando attraverso l’Egitto si incontrano così spesso monumenti edificati da questo faraone, che anche l’osservatore più distratto è costretto a collegare il suo nome a particolari opere architettoniche. Nei suoi edifici e nelle sue sculture dominano le proporzioni colossali. Basti pensare agli splendidi templi di Abu Simbel. Con il suo regno si conclude un’epoca aurea che non avrà più eguali nei secoli successivi.

L’antica Tebe vista dal cielo
Come in molti siti turistici di interesse eccezionale a Luxor sono organizzati voli in mongolfiera che permettono di osservare quei luoghi straordinari illuminati dai primi raggi del sole mentre si è sospesi nel vuoto. Si tratta certamente di un “business”, ma permette di avere una visione generale su tutta la zona archeologica come se ci si trovasse su una terrazza volante. Da lassù si osserva in lontananza la città dei vivi, che si affaccia sul Nilo con i suoi templi di Karnak e di Luxor, e quella dei morti in una zona estremamente suggestiva di montagne desertiche situate ai limiti dei verdissimi campi coltivati grazie alle acque del mitico fiume. I faraoni scelsero quel luogo per farsi seppellire e per iniziare un nuovo viaggio nell’aldilà accompagnati dai loro oggetti più cari. Quelle montagne irreali, del colore della sabbia, che annunciano il deserto, su cui nessun arbusto sopravvive, sono solcate da vallate che nascondono innumerevoli sepolcri. Da nord a sud si trovano in sequenza dapprima la celeberrima Valle dei re, quindi quella che ospita il tempio della faraona Hatshepsut e infine la Valle delle regine, separate da una collina dove sono sepolti gli alti dignitari dei vari regni che hanno ottenuto dai faraoni l’onore di condividere quel luogo sacro. A poca distanza si notano le rovine di una sorta di “città operaia”, abitata dalle maestranze addette alla costruzione dei sepolcri. Anche alcuni di loro hanno ottenuto il privilegio di percorrere il viaggio verso l’eternità su quelle alture.
Quelle montagne lunari sono precedute da una stretta pianura desertica, dove si trovano i templi funerari dei faraoni. Alcuni sono scomparsi, di altri resta solo qualche traccia poco identificabile e di altri ancora si possono vedere le rovine. Squadre di archeologi cercano di ricostruire colonnati, facciate e altri edifici per ricreare poco a poco quei templi che gli Egizi avevano soprannominato i “castelli di milioni di anni”.

Il viaggio nell’aldilà
Quelle tombe nascoste e segrete (per sfuggire all’avidità dei tombaroli, che esistevano già ai tempi dei faraoni), faticosamente scavate nelle profondità della montagna, nascondevano nelle viscere della terra straordinari tesori che accompagnavano i corpi dei defunti nella vita immortale. I corredi comprendono praticamente tutto quanto si può trovare in una casa terrena. Quei sepolcri non corrispondevano infatti all’immagine della morte definitiva. Più della fine di una vita, è l’immagine della rinascita ad essere presente in tutti gli edifici funerari.
Le tombe e i templi delle necropoli tebane, riportano sulle pareti i riti e le formule che i defunti dovevano pronunciare al cospetto dei guardiani delle porte delle dodici ore della notte. Come il sole, che attraversa la notte per rinascere ogni nuovo giorno, così anche i morti dovevano compiere un cammino attraverso il regno delle tenebre per raggiungere la luce della nuova vita. Le tombe dei faraoni, alle pareti come nei soffitti a volta, presentano immagini religiose, sorta di ‘preghiere’ e formule tratte dai libri sacri. Nei sepolcri degli alti dignitari sono invece frequenti scene che ricordano la vita: dal lavoro agricolo alla caccia, dai banchetti all’intimità familiare, dalle attività lavorative alla danza.
Purtroppo nell’affollatissima Valle dei re – raramente ho visitato un luogo con un simile assembramento di turisti – su una sessantina di tombe ne sono aperte alla visita solo una decina a turno. Siccome non sono certo state costruite per ospitare le folle, la presenza umana danneggia quelle straordinarie opere d’arte giunte a noi in perfetto stato di conservazione, nonostante risalgano a 3500 anni fa. Fate attenzione, perché se non lo chiedete espressamente acquistando un biglietto supplementare non vi fanno nemmeno visitare le dieci aperte. Nella Valle delle regine ne sono invece aperte solo tre. Quella celeberrima di Nefertiti è purtroppo chiusa al pubblico. Non lasciatevi scappare la visita delle tombe degli Alti dignitari e quelle del villaggio ‘operaio’, dove ne troverete di splendide e sarete in compagnia di pochissimi turisti, perché escluse dal tour convenzionale.
I ricchi arredi delle tombe sono finiti tutti al Museo egizio del Cairo, uno dei più importanti al mondo. Anche Luxor dispone di un piccolo, moderno museo, dove sono esposte opere minori, ma che meritano di essere viste. Di eccezionale interesse una decina di splendide statue recentemente rinvenute in un nascondiglio sotto il Tempio di Luxor.

Templi eterni
Sono molti i templi visitati durante questo viaggio in Egitto (vedi prima parte. La loro struttura è sostanzialmente sempre simile: cortili e sale davano accesso al sacrario, dove era custodita la statua solitamente in oro del dio a cui il luogo di culto era dedicato. I fedeli avevano accesso solo agli spazi aperti, mentre i luoghi chiusi erano riservati unicamente ai sacerdoti. Il complesso era circondato da una cinta muraria, all’interno della quale si trovavano anche le abitazioni dei sacerdoti e in qualche caso di altri cittadini. Ognuno di questi edifici giunti fino ai nostri giorni ci rivela alcune peculiarità, che nel loro insieme ci permettono di comprendere come si svolgeva anticamente la vita al loro interno.
Nella spianata desertica che precede le vallate dove sono custodite le tombe dei faraoni si possono visitare diversi templi funebri. Tra i più significativi figurano: il Ramesseum, di grande unità stilistica anche se molto rovinato, costruito dal solito Ramesse II; l’amplissimo Tempio di Ramesse III (1184-1153 a.C.), famoso per le sue superfici decorate; le due statue colossali che presidiavano l’immenso tempio di Amenofi III (1391-1353 a.C.), che secondo la leggenda cantano al sorgere del sole. Ma il tempio più famoso e più visitato tra tutti quelli della riva ovest del Nilo a Luxor è certamente quello della faraona Hatshepsut (1479-1457 a.C.), che non fu l’unica donna a salire sul trono. Costruì questo luogo di culto in un suggestivo fondovalle, che incornicia il monumento scavato nella montagna color rosa, in contrasto con il colore del cielo sempre azzurro. Si tratta di uno straordinario connubio di arte e natura, da qualsiasi parti lo si ammiri.
Il tempio più maestoso di tutto l’Egitto è però certamente quello di Karnak, dedicato al dio Amon e considerato il più vasto luogo sacro al mondo. È stato pensato come una sorta di fastosa residenza nella quale il dio soggiornava come un sovrano attorniato dalle cure dei sacerdoti. Costruito durante il periodo aureo, principalmente sotto la XVIII e la XIX dinastia, accoglie interventi di moltissimi faraoni anche di epoche successive. Colpisce per le sue dimensioni davvero faraoniche. Lo si può visitare anche di notte durante lo spettacolo “Son et lumière”, quando assume un fascino del tutto particolare. Anticamente era collegato da un lunghissimo viale con un altro grande luogo di culto dell’antica Tebe, il Tempio di Luxor. Anch’esso di pianta classica, fu opera di più faraoni appartenenti a diverse dinastie: ultimo dei quali fu Alessandro Magno, che conquistò l’Egitto nel 332 a.C. e a Menfi fu incoronato faraone. Il viale processuale che collegava i due siti sacri era arredato con 700 statue di sfingi a testa umana con corpo leonino.

Abydos, città sacra
Un’escursione di una giornata da Luxor permette di visitare la città sacra di Abydos, una sorta di Mecca egizia: ognuno doveva rendere visita al Tempio di Osiride, il sovrano del regno dei morti. Secondo la tradizione, infatti, Osiride, ucciso dal fratello Seth che rappresenta il male, perse la vita nei paraggi di questo sito sacro situato ai margini del deserto, che divenne ambita necropoli e meta di pellegrinaggi. Anche questo monumento, come quelli di Luxor, comprende edifici di ogni epoca, ma è famoso soprattutto per la fresca coloritura dei suoi raffinati rilievi parietali, che permette di capire come si presentavano al loro interno i templi nell’antico Egitto.
A Dendera, che si trova tra Luxor e Abydos, il tempio è dedicato alla dea e madre universale Hathor, a cui venivano associati l’amore, la musica e il divertimento. In questo luogo di culto, tra i meglio conservati dell’interno Egitto, un altro particolare permette di immaginare gli interni dei templi egizi: le colonne sono colorate su sfondo bianco. I suoi rilievi, realizzati circa mille anni dopo quelli di Abydos, risultano però di fattura nettamente inferiore. Particolarmente interessanti, comunque quelli in cui la dea Hathor si fa fecondare da Osiride sorvolando sul suo corpo disteso.

Bibliografia
Egitto La Guida Verde Michelin, Milano 2002
Egitto Touring Club Italiano, Milano 2007
Egitto Lonely Planet, Torino 2008
Egitto Polaris, Firenze 2004
Hermann A. Schlegl, L’Antico Egitto Il Mulino, Bologna 2005
Sergio Donadoni, L’uomo egiziano Editori Laterza, Bari 2003

Egitto – Un’autostrada del turismo

Egitto – Al sud, tra Nilo e deserto
Egitto – La città di Luxor, l’antica Tebe
Egitto – I diversi volti dell’Islam

L’Egitto è una sorta di Mecca del turismo: almeno una volta nella vita bisogna andarci. Ma come visitarlo? Il paese è ormai diventato una sorta di autostrada del turismo. Nel senso che tu scegli uno degli itinerari classici prestabiliti e lo segui senza
ripensamenti.
Prima di partire per un viaggio e prima di scegliere l’itinerario leggo guide e libri sulla destinazione. È un mio modo per percorrere il viaggio più volte e per evadere dai problemi della vita quotidiana. Una volta deciso il tragitto e le tappe mi affido a un’agenzia. Così ho fatto anche per l’Egitto. Ho trovato ottimi alberghi e un buon servizio, ma nonostante disponessimo di una guida e di un autista tutti per noi ho dovuto impormi per vedere quanto avevo deciso di visitare. La nostra guida, culturalmente preparata, ci voleva imporre le tappe classiche, scoraggiando i nostri tentativi di personalizzare l’itinerario sostenendo che quanto chiedevamo era molto faticoso, oppure che si trattava di monumenti non aperti al pubblico. A una mia puntuale verifica è risultato però non essere così. Intendiamoci, questo non mi è successo solo in Egitto. Anzi, è piuttosto nella norma. Se percorrete quella che chiamo autostrada del turismo, trovate una marea di gente. È davvero incredibile, per esempio, quanti turisti a Luxor – l’antica Tebe – visitano la Valle dei Re. Appena però vi scostate dal percorso tradizionale,
vedete opere d’arte eccezionali quasi deserte. Un’esperienza che fa davvero riflettere sul modo di praticare il turismo. Nella splendida Valle dei Re su una sessantina di tombe ne vengono aperte alle visite – a rotazione – meno di dieci. Questo per
preservare queste straordinarie testimonianze della civiltà egizia, che vengono danneggiate dalla presenza della folla. Il biglietto d’ingresso prevede l’entrata a tre tombe, ma nessuno vi dice che pagando un supplemento voi potete visitare anche
le altre sette. E dire che avete percorso migliaia di chilometri in aereo per arrivare fino a lì! In una valle adiacente a quella dei re si trovano splendidi sepolcri degli alti dignitari dei faraoni. Un luogo che secondo la nostra guida era in restauro e che invece era visitabile, ma dove arrivano pochissimi turisti. Eppure si tratta di opere famosissime, riprodotte su tutti i libri. Potrei portare numerosi altri esempi!
Per avere più tempo a disposizione avevamo scelto di spostarci in automobile, invece che in nave, e quindi di pernottare in albergo. Gli spostamenti su strada sono molto interessanti, perché permettono di vedere uno spaccato di vita nella fertilissima campagna che si estende lungo tutto il tragitto del Nilo. Nel sud dell’Egitto non esistono industrie, per cui la gente da millenni vive di agricoltura. Si passano villaggi dove la vita non è probabilmente molto diversa rispetto a tre o quattromila
anni fa, all’epoca dei faraoni. Molte case, come allora, sono costruite con mattoni di argilla e hanno ancora il tetto in paglia. Non si vede miseria, ma povertà, anche se le condizioni di vita sono certamente migliorate da quando negli anni Sessanta Nasser ha costruito l’enorme diga, che permette di irrigare i campi tutto l’anno e quindi non solo durante le piene del Nilo, come avveniva prima. Questo permette naturalmente di avere più raccolti.

Egitto – i diversi volti dell’Islam

Egitto – Al sud, tra Nilo e deserto
Egitto – La città di Luxor, l’antica Tebe
Egitto – Un’autostrada del turismo

Un viaggio in Egitto propone stimolanti riflessioni sul mondo arabo e islamico. Il mio approccio è di estremo interesse e di grande simpatia, sin da quando da bambino – ben cinquanta anni fa – avevo visitato il Marocco, un paese che adoro. In Egitto, come nelle altre nazioni medio-orientali, gli atteggiamenti della gente nei confronti di noi occidentali, secondo la mia esperienza, sono riconducibili a tre tipi: c’è chi è servile e disposto a qualsiasi compromesso pur di ottenere i nostri soldi, chi è disinteressatamente portato ad interagire con noi per presentarci il proprio paese, e infine chi ha un atteggiamento apertamente ostile nei
nostri confronti.
I primi dimostrano poca dignità e mettono spesso in imbarazzo con atteggiamenti insistenti, rischiando di compromettere il nostro rapporto con tutta la gente del luogo. Gli ultimi sono scostanti, perché di fatto rifiutano il dialogo. Per capire un paese abbiamo bisogno del contatto con i secondi, che in questi ultimi tempi per un turista diventa sempre più difficile incontrare. Questi diversi comportamenti sono strettamente collegati all’approccio religioso dei nostri interlocutori. L’Egitto è un paese per tradizione molto aperto verso il mondo occidentale. Gli intellettuali musulmani di formazione europea stanno portando avanti da anni un interessante discorso di modernizzazione dell’Islam. Ad essi si contrappongono gli integralisti, fautori invece di un’islamizzazione della modernità. Appartengono alle classi sociali maggiormente sfavorite da un governo corrotto. Il loro intento è di minare il consenso e di destabilizzare il potere costituito sia sul piano politico – tramite attentati ai quadri dello stato e dell’esercito – sia su quello economico – scoraggiando gli investimenti stranieri. Sono da vedere in quest’ottica gli atti di terrorismo degli ultimi anni ai danni dei turisti. Viaggiando in Egitto si percepisce questo clima conflittuale. Lungo il nostro itinerario in automobile tra Aswan e Luxor e quindi verso nord da Luxor ad Abydos abbiamo incontrato innumerevoli posti di blocco a una distanza di una decina di chilometri l’uno dall’altro e in prossimità di tutti i villaggi. Il governo sembra terrorizzato da eventuali episodi spiacevoli in cui potrebbero essere coinvolti turisti. E questo spiega forse una certa rigidità sugli itinerari proposti nel paese di cui parlavo qui. Ad Abydos dopo aver visitato uno splendido tempio un po’ discosto dai percorsi classici, ci siamo addentrati nel villaggio. Con estrema cortesia un poliziotto in civile si è avvicinato a noi per invitarci a non lasciare la via principale che attraversa il borgo. Chiedendo poi spiegazioni ci è stato detto che si vogliono evitare incidenti. D’altra parte in un altro villaggio ci siamo sottratti all’attenzione della nostra guida per visitare un mercato non turistico, ma quando abbiamo estratto la macchina fotografica siamo stati apostrofati.
A Luxor alloggiavamo nell’albergo dove il primo ministro egiziano si trovava per qualche giorno in vacanza con la famiglia. L’hotel era praticamente assediato dalla polizia e dalle guardie del corpo, mentre il poveraccio si faceva un bagno in piscina con moglie e figli. Episodi che fanno riflettere e che inquietano sul futuro di un paese che sta faticosamente cercando la sua strada per conciliare le sue tradizioni con un mondo sempre più globalizzato. La grande sfida sarà quella di far conciliare il profondo senso di religiosità della popolazione con la gestione di uno stato moderno e laico in cui la religione è considerata una questione personale, come avviene nelle democrazie occidentali.

Birmania – In fuga lontano dalla globalizzazione

Birmania – Un passo nella storia
Birmania – Un lago, un mondo
Birmania – Birmania, dilemma etico per il turista
Birmania – Un paese sospeso tra storia e futuro

Un paese che non è stato ancora del tutto colonizzato dalle mode straniere, che ha salvaguardato una propria identità, la Birmania. Ed è proprio la Birmania il motivo per cui si visita questo paese. Un viaggio con Kel12, tra le popolazioni di montagna del Triangolo d’Oro, dove si coltiva l’oppio.

A causa del suo isolamento più o meno autoimposto – si legge sulla guida Lonely Placet – il Myanmar non è stato ancora del tutto colonizzato dalle mode straniere”. “Confrontato con Vietnam, Cambogia, Tailandia, Cina e col resto del Sud-Est Asiatico – si legge nel documento di Kel12, l’agenzia che ha organizzato in modo ineccepibile il nostro viaggio – è il paese meno stravolto nello stile di vita dai modelli occidentali. Se da una parte il suo rinchiudersi in sé stesso non ha consentito lo svilupparsi di forme di reale partecipazione popolare nella gestione della cosa pubblica, dall’altra ne ha salvaguardato l’identità, la ‘birmanità’. E la ‘birmanità’ è il motivo per cui si visita questo paese”.
E la ‘birmanità’, cioè una forte identità, la si percepisce in tutto il paese, dalla metropoli di Yangon ai villaggi sperduti del nord-ovest, dove vive la ribelle etnia Shan. A differenza di molti paesi in via di sviluppo, il Myanmar non ha ancora conosciuto il fenomeno della migrazione di massa verso le grandi città. Yangon non offre molte possibilità di lavoro. Uomini e donne vestono ancora il tradizionale ‘longyi’, una sorta di gonna lunga molto confortevole nei climi tropicali. In tutto il paese le donne si tingono ancora le guance con una crema naturale chiamata ‘Thanaka’. Se entrate in un grande magazzino della metropoli, trovate un clima assolutamente occidentale, anche se le marche dei prodotti sono diverse, che stride con quanto vedete a due passi dal centro, per esempio nel vastissimo quartiere cinese.
Dopo l’arrivo a Yangon, il nostro itinerario si sviluppa all’interno del paese, alla scoperta delle popolazioni di montagna, di quelle che vivono attorno al lago Inle e delle città imperiali, testimonianza di un passato di cui rimangono suggestivi monumenti soprattutto di architettura religiosa.
Un valore fondamentale della ‘birmanità’, che percepite appena posate piede su questo territorio, è la gentilezza e l’ospitalità innate. In città, come in campagna o nei villaggi di montagna, la gente vi invita a partecipare alla sua quotidianità, senza farvi sentire estranei. A Yangon, durante la visita a una pagoda a cui è annessa la facoltà di teologia, nella mensa dell’università una famiglia facoltosa di commercianti offriva il pranzo ai monaci (è una consuetudine in questo paese). Non appena ci hanno visti, ci hanno invitati a sederci per condividere il pasto con loro. Poco distante, mentre visitavamo un monastero per i novizi (ogni giovane buddista trascorre alcune settimane o mesi in un monastero) dove si teneva un’importante cerimonia, siamo stati invitati a partecipare. Il ricco commerciante che offriva doni a un folto gruppo di novizi orfani ci ha chiesto di distribuire i regali assieme a lui. Così come sulle montagne, quando vi accostate a una casa dove stanno festeggiando una ricorrenza vi invitano ad entrare e vi offrono il loro distillato di riso, molto simile alla nostra grappa. Noi, poco abituati a questo tipo di ospitalità, rimaniamo commossi da tanta generosità, comune a tutte le etnie che popolano questo paese vasto due volte l’Italia, ma con più o meno lo stesso numero di abitanti: circa 60 milioni.

Le popolazioni delle montagne
Da Yangon volo a Kyaing Tong, nello stato Shan al nord-est del paese vicino al confine con la Thailandia. I voli interni non sono diretti, ma fanno scalo nelle varie località. Chi è arrivato a destinazione scende, chi prosegue rimane a bordo: come sul bus. Osservando il paesaggio dall’alto noto che le strade sono pochissime e i villaggi pure. Il fattore di principale richiamo della valle dove siamo diretti e che si trova a 1200 metri di altitudine, è rappresentato dal suo estremo isolamento (si registrano 30 abitanti per chilometro quadrato). È meta ideale per brevi trekking nei villaggi molto distanti tra loro e popolati da tribù Shan. Un’etnia dal punto di vista etnico, culturale e linguistico molto affine alla popolazione thailandese che vive oltre confine. Questa terra è ricchissima: abbondano oro, argento, zinco, pietre preziose, piombo, ferro. Si tratta di una zona aperta al turismo solo a partire dal 2004. Lo forti spinte autonomiste sono state represse, dapprima con le armi e poi concedendo a questa regione uno statuto speciale. Si tratta di una zona calda perché situata nel cosiddetto ‘triangolo d’oro’, tristemente noto per le piantagioni di papavero da cui si ricava l’oppio. Oggi la produzione di questa sostanza nel Myanmar è notevolmente diminuita, perché ufficialmente proibita. Si sa però che in queste zone il papavero viene ancora coltivato.
La popolazione Shan vive di agricoltura ed è storicamente suddivisa in tribù, con costumi e idiomi molto diversi tra loro. Luogo ideale per rendersi conto di questa varietà è il mercato di Kyaing Tong, che attira dalle colline circostanti un coloratissimo afflusso di etnie, merci e artigianato della regione. La guida locale che ci accompagna sulle montagne, acquista cibo, medicine naturali e shampoo da portare in omaggio agli abitanti dei villaggi. Si è dimostrata una buona idea perché nessuno ci ha chiesto soldi e tutti erano molto soddisfatti. Più le nostre mete sono lontane da Kyaing Tong e dalle rare strade, più sono interessanti, perché poco frequentate dai pur pochi turisti che visitano questa zona. Visitando questi villaggi, salendo un dislivello di alcune centinaia di metri, si ha l’impressione che il tempo si sia fermato. Le capanne in cui vive la popolazione hanno la struttura in legno di bambù e le pareti di paglia e fogliame. Sono solitamente costruite su palafitte e non lontano, ben sollevato da terra c’è il deposito per il riso. All’interno, il locale di lavoro e di soggiorno è separato da quello dove si dorme. Nella tribù Akha, di religione animista, uomini e donne dormono in spazi separati e non hanno diritto di avere rapporti sessuali in casa. I numerosi animali da cortile – cani, maiali, galline, oche, eccetera – vivono al suolo e ‘passeggiano’ indisturbati per le vie del borgo. Un’abitazione importante, nei villaggi animisti, è quella dello stregone, dal quale ci si reca per tenere a bada gli spiriti. In qualche paesino meno discosto si notano anche rarissime case in muratura. Sono considerate le residenze dei ricchi: solitamente commercianti di prodotti agricoli o di oppio.
Il discorso sulla religione è alquanto complesso. In un villaggio sperduto su una montagna abbiamo trovato tre ‘quartieri’: uno buddista, uno cristiano e uno animista. La convivenza evidentemente è possibile, ma sembra non risulti sempre facile, perché queste tre religioni hanno credi profondamente diversi. In Myanmar anche i buddisti più praticanti amano Buddha, ma temono i cosiddetti Nat. Storicamente ogni Nat incarnava lo spirito di qualche celebre e leggendario personaggio storico, morto generalmente in modo drammatico. Moltissime pagode propongono le statue dei Nat, ai quali i fedeli chiedono conferme e favori.
Normalmente nei paraggi di ogni villaggio si trova una scuola, ma i genitori di religione animista spesso non permettono ai loro figli di frequentarla perché considerano lo studio una perdita di tempo. I giovani maestri, prima di poter insegnare in città, devono fare un’esperienza di alcuni anni in villaggi discosti. Abbiamo visitato più di una scuola e siamo sempre stati accolti con interesse.
Gli abiti variano di villaggio in villaggio. Gli uomini non vestono il ‘longji’, ma pantaloni molto larghi e una casacca scura. Assai più spettacolare e colorato è l’abbigliamento delle donne, che portano copricapi molto originali tramandati spesso di generazione in generazione. Ogni villaggio che si rispetti ha poi un luogo dove si distilla il riso. Queste tribù sono spesso in festa, soprattutto in coincidenza con le notti di plenilunio. A Kiaing Tong abbiamo assistito a un’affollatissima festa con canti, balli e lotterie. A un certo momento il cielo si è illuminato con una miriade di lanterne che volteggiavano nell’aria in direzione della luna piena. Uno spettacolo suggestivo e indimenticabile!

Quella pagoda che vale il viaggio
Ritengo non vi sia nulla di così stupefacente al mondo” commentava Ralph Fitch, il primo inglese a raggiungere il Myanmar nel 1558. “È un mistero dorato sull’orizzonte, una meraviglia che splende nel sole”, aggiungeva Kypling nelle sue ‘Lettere dall’Est’ pubblicate nel 1889. Sir Somerset Maugham descrisse invece la pagoda “come un’improvvisa speranza nelle tenebre dell’anima”. Non c’è davvero nessuna esagerazione in questi autorevoli pareri. Non saprei descrivere la Pagoda Shwedagon in altro modo che come un sogno ad occhi aperti. Avevo letto di questo monumento prima di partire, ma la mia immaginazione non era andata tanto lontano. Quando arrivate lassù su quella vastissima piattaforma (280 per 220 metri) è come guardare in un magico caleidoscopio: davanti a voi un immenso stupa a forma di cono e ovunque volgete lo sguardo trovate una miriade tabernacoli, tempietti, statue di Buddha e altre divinità, immagini di animali, edicole e decine di altri stupa di tutte le dimensioni. Visibile da qualsiasi punto della città, questo monumento ne è diventato il simbolo e da solo vale il viaggio in Myanmar. È uno dei luoghi buddisti con maggior significato religioso e ogni birmano spera di visitarlo almeno una volta nella sua vita. I pellegrini si radunano qui per pregare, per incontrarsi e per assaporare la pace incredibile che si sprigiona in questo luogo.
Secondo la leggenda, questo tempio avrebbe 2500 anni, ma secondo gli archeologi risale invece a un’epoca tra il VI e il X secolo. Ha subito l’impeto di ben otto terremoti. Il più violento, nel 1768, comportò un importante restauro che ce lo ha consegnato così come lo vediamo oggi.
Ho voluto visitarlo più volte per ammirarlo con le varie luci del giorno e della notte e non avrei mai voluto andarmene. Sarei rimasto lì per ore ad osservare la gente raccolta in piccoli gruppi a pregare o in meditazione, la magia di quei templi e dei loro tetti che si stagliano nel cielo. Ho avuto la fortuna di essere presente la notte in cui si celebra la festa delle luci. Gli ori dei templi, illuminati da una miriade di candele in contrasto con il blu scuro della notte sono diventati ancora più scintillanti. E’ stato uno spettacolo commovente. Molte famiglie sistemavano una stuoia sul pavimento e si preparavano per trascorrere la notte sotto la luna piena. Arrivava sempre più gente. Nessuno beveva, nessuno spingeva. Quando ci guardavano sorridevano e noi non ci sentivamo intrusi, ma partecipi di quella festa indimenticabile!

Birmania – Un passo nella storia

Birmania – In fuga lontano dalla globalizzazione
Birmania – Un lago, un mondo
Birmania – Birmania, dilemma etico per il turista
Birmania – Un paese sospeso tra storia e futuro

Oltre 3 mila monumenti religiosi, patrimonio mondiale dell’Unesco, sorgono su una pianura di 40 chilometri quadrati e sembrano appartenere più alla natura che all’umanità. Un viaggio con Kel12 nella storia delle principali dinastie che nel corso dei secoli dominarono il paese.

L’appuntamento è per le 5.30 alla réception. Il bussino attende puntuale. Ci trasporta in una zona di campagna. Quando arriviamo alla nostra meta, i tre teloni che una volta gonfiati si trasformeranno in altrettante mongolfiere sono ancora distesi inermi sul terreno. I cestelli in vimini che ci ospiteranno sono pronti. I comandanti inglesi pure. Uno stuolo di inservienti si apposta attorno ai teloni, che vengono velocemente gonfiati con aria calda e poi, quando sono quasi su, con idrogeno a suon di boati di gas. Ci fanno salire. Siamo pronti per partire. Il sole si affaccia timidamente all’orizzonte. Non avevo ancora visto Bagan, perché ero arrivato in aereo di notte. La mongolfiera sale dolcemente e lo spettacolo che appare ai miei occhi è indescrivibile. Avevo letto moltissimo su quel luogo, patrimonio mondiale dell’Unesco, ma è ancora più straordinario di quanto mi aspettassi. Una miriade di monumenti religiosi attorno a noi – sembra siano più di 3 mila in un territorio di 40 chilometri quadrati – appare lentamente illuminata dai primi tenui e caldi raggi dell’alba. Sembrano appartenere alla natura più che all’umanità. Costruiti in mattoni con lo stesso colore della terra hanno un aspetto profondamente mistico, ma non sembrano edifici. Lassù capisco cosa intendeva Eugenio Montale quando affermava che “bisogna andare in Oriente, vera sede delle religioni, per capire cos’è la religione”.
Durante la giornata visitiamo i monumenti principali, quelli che sono stati di modello per l’architettura buddista in Birmania. Verso sera, all’ora del tramonto, saliamo su un calesse e ci inoltriamo in quelle stradine sterrate di campagna che il mattino avevamo visto dall’alto. Visitiamo i monumenti meno nobili, quelli che non hanno influenzato la storia dell’arte, ma che ci commuovono per la loro spontaneità. I raggi del tramonto, tinteggiandoli di rosso-viola li rendono ancora più suggestivi. La storia, la brama, il potere. Non resta più nulla, solo questi gusci vuoti di infinita bellezza e romanticismo, che si sono conservati per secoli grazie al clima secco. Quelle immagini mi rimarranno dentro per sempre! È questo certamente uno dei posti più belli che ho visitato nella mia vita!

Il periodo d’oro durò 243 anni
Il periodo d’oro di Bagan ebbe inizio con l’ascesa al trono del re Anawratha nel 1044 e si concluse nel 1287 con l’invasione dei Mongoli condotti da Kublai Khan. Appena salito al trono Anawratha intraprese immediatamente un grandioso programma edilizio: alcuni tra i più significativi edifici di Bagan risalgono al periodo del suo regno. In particolare la stupenda Shwezigon Paya, considerata il prototipo di tutti i successivi stupa (tipici monumenti buddisti in forma conica) birmani, oppure l’Amanda Pahto, un’altra meraviglia con i suoi corridoi ricchi di nicchie contenenti innumerevoli immagini del Buddha. Anche dopo la morte del primo sovrano i suoi successori proseguirono a sviluppare pressoché ininterrottamente il paese durante tutto il periodo d’oro di Bagan. “Alla fine di 15 giorni di viaggio – scrive Marco Polo nel suo ‘Il Milione’ – arrivai in una città chiamata Mein (antico nome di Bagan) grandiosa e splendente, la capitale del regno”. È difficile immaginare come fosse in passato perché, come altre città reali birmane, soltanto gli edifici religiosi più importanti furono costruiti con materiali destinati a durare nel tempo. I palazzi dei re furono invece edificati in legno, così come quasi tutti i monasteri. Quello che oggi rimane non è dunque che una pallida ombra del passato splendore.
La città di Bagan custodisce inoltre la raccolta più imponente di pitture murali del sud-est asiatico, con affreschi datati fra l’XI e il XIV secolo. Secondo gli studiosi, in quel periodo, tutti i templi della città erano riccamente decorati al loro interno e sulle volte, con soggetti didattici che cercavano di spiegare ai fedeli l’essenza della dottrina buddista.

Mandalay e le città del secondo impero
Per i duecento anni che seguirono la caduta di Bagan, la Birmania rimase frammentata nel caos di guerre etniche o tribali. Il secondo impero nacque nel XVI secolo, ma ebbe breve vita. Ad esso seguì un altro periodo confuso. Il terzo impero risale invece alla metà del XVIII secolo e durò fino all’inizio della dominazione coloniale inglese (1824), che occupò a tappe le varie regioni del paese nel giro di una sessantina di anni. Durante il periodo del terzo impero diverse capitali si sono succedute alla guida del paese: Mandalay, Amarapura, Ava, Mingun e Sagaing. Si affacciano tutte sul fiume Ayeyarwadi (lungo più di 2 mila chilometri), distano pochi chilometri una dall’altra e sono oggi praticamente tutte conglobate nella città di Mandalay, secondo centro del paese, con oltre 1 milione di abitanti.
Ogni volta che il re, dopo aver sentito il parere degli astrologi, spostava la sua residenza, il palazzo reale costruito in legno veniva smantellato e riassemblato nella nuova località. Lo stile dell’architettura reale in Myanmar rimase lo stesso per secoli.
Mandalay, con il suo traffico caotico dove le biciclette e le motorette hanno il sopravvento sulle automobili, è turisticamente interessante, ma i suoi dintorni lo sono anche più.
Il luogo più suggestivo è forse costituito da Ava, probabilmente perché distaccata dall’agglomerato urbano: si trova infatti su una sorta di isolotto attorniato dalle acque del fiume principale del paese. La si visita a bordo di sgangheratissmi calessi trainati da bronzini, che si spostano a fatica sulle strade sconnesse e sterrate. Offre due perle. All’interno di Bagaya Kyaung, un monastero ottocentesco fresco e buio, costruito in legno di tek, si respira un’atmosfera assai suggestiva che richiama alla mente tempi lontani. Perfettamente conservato è un altro monastero (Menu) in mattoni, abbandonato nella natura. Sembra che i monaci non vogliano abitarlo per la sua storia tragica e tribolata. Vicinissima ad Ava è la città imperiale di Amarapura, celebre soprattutto per il suo trafficatissimo ponte di 1200 metri considerato il più lungo al mondo realizzato in legno di tek. Un’altra attrattiva di questa antica città reale è il famoso monastero Mahagandayon, che ospita oltre mille monaci. È permesso assistere ai preparativi e al pranzo dei monaci. I turisti accalcati all’entrata impugnano gli apparecchi fotografici per attendere i monaci che entrano ordinatamente nella mensa in fila indiana. Anch’io scatto qualche immagine, ma mi sento fuori posto e mi vergogno di essere turista. Non siamo mica alla fossa degli orsi a Berna o allo zoo per assistere al pasto degli animali…
Una splendida passeggiata di un’ora in barca porta invece a Mingun. Lungo le rive del fiume la vita scorre lentamente. Alcune donne coltivano campi di riso, altre caricano imbarcazioni di sabbia utilizzata per le costruzioni in città, i pescatori vivono in capanne improvvisate. Tutte queste attività vengono cancellate durante la stagione delle piogge quando il livello del fiume sale di due o tre metri. Incrociamo immense zattere di bambù trainate da mezzi a motore. Ci spiegano che il trasporto di questo importante materiale con cui è costruita la maggior parte delle case rurali avviene via fiume.
Giunti a Mingun, come avviene in tutte queste città imperiali, uno stuolo di bellissimi bimbi attende i turisti e insistentemente offre loro oggetti di pessimo gusto.
Il tempio più famoso del luogo, Mingun Paya, è incompleto. Sarebbe stato il più grande del mondo se il re Bodawpaya non fosse morto prima di portarlo a termine. Avrebbe dovuto raggiungere un’altezza di 150 metri, mentre si è fermato a quota 50, ma da lassù la vista sul fiume e su innumerevoli stupa immersi in una vegetazione foltissima è splendida. Lo stesso re megalomane è comunque riuscito a far costruire una campana in bronzo di 90 tonnellate, considerata la più grande ancora in esercizio al mondo.
Dall’altra parte del fiume rispetto a Mandalay è la deliziosa Sagaing, che ospita 700 monasteri. Luogo di residenza di 6 mila fra monaci e monache, sembra sia la città dove si recano i buddisti birmani quando sono stressati. Oggi questa mistica collina, dove da lontano si vede spuntare una miriade di stupa dorati, è nota soprattutto come centro religioso.
Tutte queste città imperiali che ho appena descritto si possono ammirare se il tempo è bello e l’aria tersa dal Mandalay Hill, la splendida collina posta a 230 metri di altezza, da cui si domina la piattissima pianura sottostante solcata dal fiume Ayeyarwadi.
Il gioiello di Mandalay era costituito dalla cittadella reale che ospitava oltre un centinaio di palazzi, circondata per 3 chilometri da un’immensa cinta muraria alta 8 metri e protetta da un fossato largo 70 metri. Nel marzo del 1945, durante un violento combattimento fra le truppe anglo-indiane e le forze giapponesi, i palazzi reali hanno preso fuoco e sono andati quasi completamente distrutti. Oggi si visita la discutibile ricostruzione di uno di questi palazzi, quello del penultimo re birmano Shwe Nan Daw, mentre la cittadella è chiusa ai turisti perché abitata dai nefasti generali della giunta miliatare.
In questa regione vive il 60 per cento dei monaci di tutto il paese e in effetti Mandalay è famosa per due monumenti buddisti di grande significato. Il primo è Mahamuni Paya, uno dei siti religiosi più importanti del paese per la sua statua del Buddha alta 4 metri. Realizzata in bronzo, nel corso degli anni migliaia e migliaia di devoti l’hanno quasi sfigurata ricoprendola di foglie d’oro, che formano uno strato spesso 15 centimetri. Come a tutti i monumenti principali del paese, vi si accede da un lungo corridoio coperto, ai lati del quale è allineata una miriade di bancarelle che propongono ai pellegrini oggetti da offrire ai monaci. Durante la nostra visita questo monumento era affollatissimo, anche per l’arrivo di un generale della famigerata giunta militare, seguito da telecamere e microfoni.
Frequentatissima dai pellegrini a Mandalay è anche la Kuthodaw Paya, secondo monumento mistico di grande importanza, spesso definita il libro più grande al mondo. Attorno allo stupa principale sono state disposte 729 lastre di marmo, ciascuna conservata in un piccolo stupa, sulle quali sono incisi i testi dei 15 libri che compongono il Tripitaka, le scritture buddiste classiche.

Birmania – Un lago, un mondo

Birmania – In fuga lontano dalla globalizzazione
Birmania – Un passo nella storia
Birmania – Birmania, dilemma etico per il turista
Birmania – Un paese sospeso tra storia e futuro

A 900 metri di altitudine, sul lago Inle di una bellezza incomparabile. Una società fluttuante, dove la canoa non solo è un mezzo di trasporto, ma diventa anche spazio sociale. Un viaggio con Kel12 nelle tradizioni, nel credo, nei mercati e nell’artigianato di una società dove il tempo sembra essersi fermato.

Arriviamo al lago Inle all’ora del tramonto, dopo un breve spostamento in aereo. Una barca lunga e stretta, che sarà il nostro mezzo di trasporto per i prossimi giorni, ci sta aspettando per portarci all’albergo. Il sole sta per tramontare e i cielo assume tutte le sfumature dal rosso all’arancione, che si specchiano sull’acqua ferma. I contadini sulle loro barche piatte stanno remando per tornare dagli orti galleggianti alle loro case a palafitta nei villaggi. Qualche pescatore si attarda. La sua immagine allungata si riflette sulla superficie dell’acqua. Sembra un paesaggio irreale. È questa la prima immagine di questo lago, che è un mondo a sé. Siamo arrivati al nostro splendido albergo, che si affaccia sulla riva ed è gestito da un francese.
Situato a circa 900 metri di altezza e delimitato da due catene montuose il lago Inle, di una bellezza incomparabile, è lungo solo 22 chilometri e largo 11, ma da esso si dirama una vastissima ragnatela di canali navigabili. È famoso per il suo stile di vita. Una società fluttuante, dove la canoa non solo è mezzo di trasporto, ma diventa anche spazio sociale. La popolazione vive di agricoltura, di artigianato e di pesca. In birmano “in” significa lago, mentre “le” vuol dire quattro. In effetti i primi documenti risalenti al 1637 parlano di quattro villaggi. Oggi sulle rive se ne affacciano diciassette, abitati complessivamente da 70 mila persone. Ma l’intera regione, compreso chi abita sulla terraferma ma vive del lago, ne conta 130 mila.
Secondo la leggenda, nel 1359 due fratelli originari di Dawei nel sud del paese arrivarono in questa regione per lavorare al servizio di un cosiddetto “sao pha”, che significa “signore del cielo”, il titolo ereditario assegnato ai capi Shan. Fu talmente soddisfatto del duro lavoro e del comportamento dei due che chiese loro di far giungere altre trentasei famiglie da Dawei: tutti gli Intha, la principale etnia che popola le rive di queste acque, sarebbero loro discendenti. Gli Intha sono in effetti grandi lavoratori, conosciuti per la loro originale tecnica di remata, che consiste nell’utilizzare piccole imbarcazioni piatte, sospinte da un remo su cui si fa pressione con la gamba, avvantaggiandosi di una leva simile alla forca veneziana. La superficie del lago è in continua evoluzione a causa dei famosi orti galleggianti, fissati al fondo – la profondità oscilla tra due e tre metri – con un palo di bambù. Le isole e le penisole che si vengono così a formare sono collegate da una rete di canali che costituiscono le principali vie di trasporto e permettono di navigare per ore senza percorrere mai lo stesso tragitto.

Tutta la vita attorno al lago
Il mattino alle 8 la nostra barca ci attende per una splendida gita, che in tre ore lungo canali navigabili ci porterà verso sud, al villaggio di Sagar. È aperto al turismo da pochi anni, da quando il governo ha concesso uno statuto speciale alla tribù dei Pa O, di etnia Shan, che abita Sagar, ma vive soprattutto sulle montagne ed è famosa per il suo aglio, che sembra sia il migliore del paese. Per visitare il villaggio bisogna essere accompagnati da una loro guida. La tribù dei Pa O conta circa 500 mila persone e sembra bene organizzata, perché possiede un albergo e un ristorante sul lago e richiede un pedaggio a chi visita Sagar. Con queste entrate finanziano opere sociali.
La gita è particolarmente interessante per capire come queste popolazioni riescano a vivere sull’acqua. Siccome il lago è poco profondo ed è colmo di alghe, la nostra barca è dotata di un motore a scoppio con una strana elica che non affonda, ma gira a filo d’acqua causando uno spruzzo a forma di arco. Attraversiamo diversi pittoreschi villaggi con le case a palafitta. La gente vive sulle rive del lago e dei canali: i bimbi giocano con l’acqua, le donne lavano i panni, molti si lavano, altri coltivano i loro orti galleggianti a bordo delle canoe o trasportano merce, altri ancora pescano. Il paesaggio è verdissimo e cambia continuamente prospettiva. Lungo un canale incontriamo addirittura due bufali che nuotano. Finalmente arriviamo a Sagar, dove il mercato sta per chiudere. Gli abitanti ci accolgono con la consueta gentilezza, ci mostrano le loro case e ci offrono banane. La abitazioni hanno la struttura in canna di bambù e le pareti e i tetti in paglia o fogliame. Sono molto simili a quelle che abbiamo visto sulle montagne. Sulla riva visitiamo alcuni suggestivi stupa abbandonati (monumenti religiosi a forma di cono), che si specchiano nelle acque del canale. Le rare statue di Buddha sono naif e hanno uno sguardo meno dolce del solito.
Sulla via del ritorno notiamo diversi pescatori all’opera. Su minuscole canoe trasportano enormi ceste a forma di cono con un telaio in bambù avvolto da reti. Le posano sul fondo del lago rovesciate e piantano un palo di bambù per sapere dove si trovano. Quindi si spostano attorno e sbattono violentemente il remo della canoa sull’acqua per spaventare i pesci e orientarli verso la rete. Sembra che nel lago Inle ne vivano venticinque specie. Il nostro barcaiolo si avvicina alla canoa di un pescatore che ci mostra orgoglioso il suo bottino custodito sul fondo dell’imbarcazione.

Gli orti galleggianti
Siamo rimasti sul lago altri due giorni per visitare i mercati, i villaggi specializzati nell’artigianato, i luoghi di culto. Ogni giorno ci colpiva l’enorme diffusione degli orti galleggianti. Gli studiosi affermano che se si va avanti di questo passo nel giro di alcuni secoli il lago scomparirà. Creare un orto galleggiante è faticoso, ma relativamente semplice. Le piante di giacinto che crescono spontaneamente sul lago hanno infatti la proprietà di costituire piccole isole. Si tratta di staccare con grande fatica uno di questi isolotti, di trascinarlo con la canoa dove si desidera, di fissarlo con pali di bambù al fondo del lago (altrimenti fluttua e se ne va) e di ricoprirlo di alghe di cui il lago è colmo, che rendono il “terreno” fertilissimo. Questi isolotti vengono allineati in filari tra i quali i contadini entrano con le loro canoe strette e piatte. Oggi si coltivano soprattutto pomodori (ma anche fiori, frutta e altri ortaggi) che maturano ben tre volte all’anno. Quelli del primo raccolto sono di piccole dimensioni e vengono pertanto consumati localmente, ma i successivi vengono distribuiti in tutto il paese e coprono il 60 per cento del fabbisogno.

Buddha deformati dalla devozione
Le cinque statue di Buddha conservate nel tempio Phaung Daw Oo, che si affaccia sul lago, sono tra le più venerate in Myanmar. La devozione dei fedeli le ha addirittura sfigurate. In Birmania vige infatti l’usanza da parte dei pellegrini di applicare alle statue del Buddha sottilissimi lamine d’oro, che si acquistano in bustine (simili a quelle delle nostre figurine) nei luoghi di culto. Ebbene a furia di ricevere foglie d’oro queste cinque statue sono ormai sfigurate e non hanno più la parvenza del Buddha. Ogni anno, tra settembre e ottobre, quattro delle cinque statue vengono trasportate sul lago a bordo di una stupenda imbarcazione, seguita da centinaia di canoe di fedeli in festa, e accompagnate nei vari villaggi, dove trascorrono una notte di grande festa. La quinta statua, a partire dagli anni Settanta, non viene più spostata. Sembra che durante una tempesta la barca che trasportava le cinque statue si rovesciò: quattro furono ripescate, la quinta non fu ritrovata perché si trovava già al suo posto cosparsa di alghe. Da allora non viene più rimossa.
Il monastero Nag Phe Kyaung è noto per i suoi gatti saltatori, ma custodisce una splendida collezione di statue del Buddha realizzate in vari stili e in diverse epoche. I maligni sostengono che qualche volta anche i monaci buddisti si annoiano. Qualcuno di loro si è allora dedicato ad ammaestrare gatti, che sollecitati saltano dentro un cerchio, come fanno le tigri e i leoni al circo.
Un altro luogo mistico di grande fascino è Shwe Inn Thein, uno straordinario complesso di stupa del XVII secolo costruiti su una collina che purtroppo sono stati danneggiati dall’azione degli elementi naturali, ma finora non ancora sottoposti a restauro. Ed è proprio questo stato di abbandono a conferire a quel luogo un’atmosfera magica e di pace. Al sito si giunge percorrendo un cammino coperto sotto un colonnato lungo quasi due chilometri, che collega il luogo sacro al paese. Purtroppo il turismo ne ha in parte snaturato la magia, perché lungo il corridoio si allineano bancarelle che vendono chincaglierie di cattivo gusto. E dire che l’artigianato di qualità in questo paese non manca!

Un artigianato di qualità
In Myanmar in generale e al lago Inle in particolare si può ancora trovare un artigianato di elevata qualità, accanto a chincaglierie di cattivo gusto prodotte per turisti frettolosi. In questo paese l’industrializzazione non si è espansa al di fuori dei centri principali, per cui si costruiscono ancora molti oggetti artigianalmente e si sono conservate abilità manuali andate perse ormai quasi ovunque. I prodotti artigianali più preziosi del lago Inle sono certamente i tessuti ottenuti filando la fibra contenuta nel fusto del fior di loto. È l’unico posto al mondo dove avviene questa lavorazione, che richiede tempi lunghissimi. Ma qui la mano d’opera costa poco, troppo poco: una tessitrice non arriva a guadagnare 100 dollari al mese. Quasi in ogni casa è presente un telaio. Al lago Inle, come ad Amarapura, la città imperiale vicino a Mandalay si tesse il filato di seta proveniente dalla Cina, ottenendo stoffe di elevatissimo pregio. In altre parti del Myanmar, anche sulle montagne vengono invece prodotti teli variopinti in cotone con soggetti tradizionali di grande bellezza. I più belli si acquistano sul luogo di produzione.
Sul lago Inle esistono anche centri di lavorazione dell’argento, di produzione della carta fatta a mano e dei sigari con le foglie di tabacco coltivato negli orti.
Lungo una strada di Mandalay, alcune centinaia di chilometri a sud rispetto al lago Inle, un’intera via è dedicata agli atélier dove si lavora il marmo e si producono soprattutto Buddha di dubbio gusto. Bagan, la città che ospitò il primo impero birmano tra l’XI e il XIII secolo è invece famosa per i suoi preziosi oggetti in lacca, la cui lavorazione richiede alcuni mesi.

Una terra di mercati
Non puoi conoscere un paese senza visitare i suoi mercati. E questo vale soprattutto per una nazione poco industrializzata come il Myanmar. Il mercato forse più interessante e pittoresco che abbiamo visitato durante il viaggio è quello del villaggio di Nan Pan, il più grande che si tiene sulle rive del lago Inle, dove ogni giorno della settimana cambiano le sedi dei mercati. In questo luogo affluisce sia la gente che viene dal lago, sia quella che scende dalle vicine montagne. L’afflusso dalla riva è caotico perché le imbarcazioni sono moltissime ed è quasi impossibile ormeggiare. Una volta a terra il mercato è enorme e vi si trova di tutto. La parte dedicata ai turisti è per fortuna molto ristretta. Tutto il resto è per gli indigeni. Il più variopinto è il settore ortofrutticolo. È incredibile la varietà dei prodotti alimentari. Qui si utilizza tutto di tutto. Non si butta via niente. Lo abbiamo notato in tutti i mercati durante il viaggio. May, la nostra graziosa guida, che è anche una buongustaia, ci mostra tutti i cibi e ci spiega come si cucinano.
Praticamente ogni giorno durante il nostro itinerario in Myanmar abbiamo visitato mercati. I più interessanti sono quelli a cui affluiscono i contadini da varie parte della regione, come accade al lago Inle, ma anche a Kyaing Tong nel nord-est e a Bagan. Notissimo è anche il mercato di Yangon, dove si trova di tutto, ma non il fascino della campagna.

Birmania, dilemma etico per il turista

Birmania – In fuga lontano dalla globalizzazione
Birmania – Un passo nella storia
Birmania – Un lago, un mondo
Birmania – Un paese sospeso tra storia e futuro

Riteniamo che sia troppo presto per il turismo, gli investimenti e gli aiuti… – affermava nel 1995, dopo il colpo di stato militare, il premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi. Finché arriva denaro, lo Slorc (ndr. il partito dei militari) non sarà mai incentivato al cambiamento“.
Nutro un profondo rispetto per la Signora (così viene chiamata Aung San Suu Kyi in Myanmar), ma non sono d’accordo con lei – scriveva nel 2004 un sostenitore della Lega Nazionale per la Democrazia. Se avessi modo di parlarle so che mi ascolterebbe. Il boicottaggio generale non è possibile”. Purtroppo la Signora è tuttora perseguitata dalla giunta militare, le è impedito di partecipare alla vita politica. I militari sono al potere da quasi cinquant’anni. Nel 1990 concessero le elezioni, ma quando la Lega Nazionale per la Democrazia di Aung San Suu Kyi vinse con l’82 per cento dei voti non rispettarono il verdetto del popolo.
E allora, data questa situazione, è il caso di visitare la Birmania? È il problema di coscienza con cui mi sono scontrato prima di decidere di partire per questo splendido ma sfortunato paese. La guida Lonely Planet nelle prime pagine del volume dedicato al Myanmar, si pone lo stesso interrogativo e spiega le ragioni della pubblicazione. “Pensiamo – si legge nelle pagine iniziali – che il viaggio sia uno dei mezzi più potenti che il mondo abbia a disposizione per la diffusione della tolleranza, della comprensione reciproca e della democrazia… È vero, nel 1995 Aung San Suu Kyi affermò che il paese non era pronto per il turismo, ma aggiunse che ‘i turisti possono aprire il mondo alla gente del Myanmar proprio come la gente del Myanmar può aprire gli occhi dei turisti sulla situazione del proprio paese, se sono interessati a conoscerla’. Siamo d’accordo”, conclude l’autore della guida.
Scorriamo brevemente gli argomenti pro e contro ben riassunti da Lonely Planet. Iniziamo da quelli contrari. Il governo è ricorso ai lavori forzati per costruire le infrastrutture turistiche. Visitare il Myanmar può essere interpretato come una forma di approvazione della dittatura. È impossibile evitare che parte del denaro dei turisti finisca nelle tasche della giunta, che, d’altra parte, mostra ai visitatori solo ciò che vuole. Ecco invece le ragioni dei favorevoli. La maggioranza della popolazione vede di buon occhio i turisti. Nelle zone frequentate dagli stranieri è più difficile che avvengano abusi riguardo ai diritti umani. Se non si viaggiasse in Myanmar, il governo potrebbe decidere di imprimere un ulteriore giro di vite alla repressione. Per la popolazione locale chi visita il paese è fonte di reddito e un mezzo per comunicare con il mondo esterno. Non so quale delle due tesi sia la più corretta, ma molto dipende dalla mentalità, dal modo con il quale ci si avvicina a questo come ad altri paesi con regimi totalitari. “I visitatori che giungono nel nostro paese – ha affermato Aung San Suu Kyi in un’intervista – possono risultare utili a seconda di quello che fanno e di come lo fanno”. Ho trovato in Myanmar gente deliziosa, che ha piacere di incontrare gli stranieri. Da tutte le persone che si sono aperte al dialogo, il governo mi è sembrato mal tollerato e assolutamente impopolare, mentre della Signora tutti parlano con venerazione e rispetto. È vero, i turisti non hanno accesso a tutte le regioni, ma dove arrivano con la giusta mentalità possono portare un’immagine di rispetto e di tolleranza. Questo è il turismo in cui credo.