Chicago – La metropoli che inventò i grattacieli

Stati Uniti – Viaggiando nella storia
Stati Uniti – I miti dell’America

Città intelligente, dinamica, aperta, dove si può “tastare il polso dell’America”. Ricca di parchi e straordinari musei, offre una delle più pregevoli e raffinate combinazioni di architettura moderna al mondo. Fu qui che, a fine Ottocento, l’urbanistica ha cambiato volto.

Yes, we can”. Ricordate lo slogan con cui Barak Obama ha vinto le elezioni presidenziali americane nel 2008? Ebbene questo potrebbe essere anche il simbolo della sua Chicago. Una città intelligente, dinamica, aperta, partecipativa. Un esempio sopra tutti può spiegare e giustificare questi aggettivi. Nel 1871 un terribile incendio devastò il centro città: andò distrutto il 70 per cento delle costruzioni, che erano in legno. La forza propositiva di questa metropoli l’aiutò a rinascere in tempi brevi: in un solo anno vennero costruiti 10 mila nuovi edifici e nel giro di poco tempo la popolazione era raddoppiata. Nel 1893, poco più di vent’anni dopo la terribile catastrofe, venne organizzata l’Esposizione Universale Colombiana per dimostrare al mondo che Chicago era risorta. Con sfoggio di architettura neoclassica e di tecnologie moderne la manifestazione ebbe oltre 27 milioni di visitatori, che consacrarono la città a livello internazionale. Il talento di un gruppo di giovani architetti creò la Chicago School of Architectur. Una scuola di grande importanza per l’architettura moderna. Fu infatti in questa città che negli anni Ottanta dell’Ottocento sorse il primo grattacielo, stimolato dalla ricerca di nuovi spazi che si potevano trovare solo costruendo in altezza. I primi edifici avevano ancora una struttura tradizionale, retta da spesse pareti alla base che reggevano il peso dell’edificio, fino a quando nel 1884 l’architetto William Le Baron Jenny elaborò la nuova tecnologia dello scheletro in acciaio a cui venivano ancorate le pareti interne. Tecnologia che in seguito si perfezionò ulteriormente per meglio radicare gli edifici nel terreno paludoso e per ridurre gli effetti dei venti. Sì, perché Chicago viene anche definita “la città del vento”. I progressi nella progettazione di ascensori più efficienti permisero sempre più ai grattacieli di crescere in altezza. Nel Monadnock Building si può vedere nello stesso edificio una parte in muratura del 1891 e la rivoluzionaria struttura con scheletro in acciaio di due anni dopo. Una passeggiata nel centro di Chicago permette di ammirare molti esempi che illustrano lo sviluppo dei grattacieli da fine Ottocento ai giorni nostri.
Come affermava la famosa attrice Sarah Bernhardt a Chicago si può tastare “il polso dell’America”. Spesso viene chiamata la seconda, pensando alla rivale New York come alla prima. Ma tra le due città, entrambe estremamente affascinanti, esiste a mio parere una diversità: Chicago è profondamente americana, mentre la metropoli della grande mela è universale.
Per visitare Chicago è necessaria almeno una settimana. La città è ricca di spazi verdi soprattutto lungo le rive del Michigan, quinto bacino d’acqua al mondo, che assomiglia più al mare che ai nostri laghi. Tra una visita e l’altra ci si può sempre rilassare in uno degli ampi parchi senza sentirsi oppressi dal caos del centro urbano, ricco comunque di arterie molto ampie che rendono piacevole anche passeggiare in città. Un’altra caratteristica di Chicago è la ricchezza di musei con concezione moderna (purtroppo ancora molto rari in Europa), che trasformano spesso la visita in un’esperienza interattiva.
Si consiglia di scegliere un albergo sulla parte nord della Michigan Avenue, lungo il cosiddetto Magnificent Mile, che consente di effettuare tutte le visite a piedi, ricorrendo raramente all’uso dei taxi che hanno per altro costi molto ragionevoli. Acquistando una Chicago Go Card (190 dollari per 5 giorni) si accede a musei, talvolta evitando le code, alle crociere, ai bus turistici e alle visite guidate.

Un tuffo nella storia
La nostra visita inizia dal Chicago History Museum, che si trova a nord della città. Prima di entrare nel vivo dell’argomento offrendo un’accurata ricostruzione della storia cittadina, questo museo propone un’interessante riflessione critica sul valore della libertà. Un’altra dimostrazione di come questa città desideri mostrarsi come modello di apertura e democrazia. Il tema viene affrontato toccando i momenti cruciali della storia americana: le lotte sindacali, quelle per i diritti civili e per il suffragio alle donne, per la libertà delle comunità indiane, contro la schiavitù, contro la repressione durante la seconda guerra mondiale nei confronti dei cittadini americani di origine giapponese.
Il museo ripercorre quindi le tappe salienti di una storia quasi bicentenaria, che iniziò nel 1837 quando Chicago ottenne lo statuto di città e contava 4 mila abitanti. Lo sviluppo nell’Ottocento era legato ai trasporti, sia via fiume, che collegavano il centro degli Stati Uniti al Mississippi, sia ferroviari: nel 1860 Chicago era diventato il più importante snodo al mondo. Fu soprattutto grazie alle vie di collegamento che la città divenne un crogiolo di idee innovative, che le permisero di risollevarsi dopo il terribile incendio del 1871.
Il percorso museale si conclude con un altro inno alla libertà rappresentato dai discorso di uno dei padri dell’America: il presidente Abramo Lincoln, l’uomo a cui si deve l’abolizione della schiavitù e la creazione di uno stato moderno fondato sulla libertà e sulle pari opportunità: utopie purtroppo non sempre rispettate.
L’History Museum si trova ai bordi dell’amplissimo Lincoln Park, che ospita lo zoo, diverse spiagge lacustri e confina con un animato quartiere della città, dove ha sede lo stadio di baseball degli amatissimi Chicago Cubs.
Dopo la visita al museo e un momento di rilassamento nel parco, la nostra giornata prosegue con una passeggiata lungo l’ampio e frequentatissimo Magnificent Mile, la parte nord di Michigan Avenue, elegante mecca dello shopping, su cui si affaccia il John Honcock Center, uno dei grattacieli più rinomati della metropoli, da cui si gode una vista imperdibile. All’ultimo piano un ottimo ristorante abbina panorama e gastronomia.
A piedi raggiungiamo poi Navy Pear, l’animato molo sul lago, che attira folle di visitatori, a cui offre una miriade di negozi e ristorantini (soprattutto fast food: siamo negli Stati Uniti…) e la famosissima ruota panoramica alta 45 metri. Se avete fortuna, al tramonto dal Navy Pear, potete ammirare lo splendido skyline di Chicago che colora la città di rosso.

Un viaggio nell’architettura
Una seconda giornata la consacriamo esclusivamente a una delle più pregevoli e raffinate composizioni di architettura moderna del pianeta: il centro di Chicago, che, come abbiamo scritto sopra, ha visto nascere i primi grattacieli al mondo.
La Chicago Architecture Fondation (224 South Michigan Avenue) organizza interessanti escursioni a piedi (circa 2 ore), con guide anche in francese e italiano, nel Loop (centro storico) e una suggestiva crociera (circa 90 minuti) lungo i canali che percorrono la città. Due proposte per ammirare e capire l’evoluzione architettonica e tecnica dei grattacieli a partire dalla fine dell’Ottocento fino ai giorni nostri. Durante il trasferimento tra la sede della Chicago Architecture Fondation e l’imbarco per la crociera si attraversa il Millenium Park, un’altra dimostrazione del dinamismo di questa città. Fino a non molti anni fa su quest’area, che gode di un’interessante posizione centrale sorgeva un brutto caseggiato. Con un ambizioso progetto da 500 milioni di dollari questo luogo è stato trasformato in uno dei maggiori centri di attrazione cittadina. Si tratta di uno straordinario complesso di luoghi d’interesse, una sorta di galleria d’arte all’aperto. Ospita uno splendido auditorium, opera di Frank Gehry, dove in estate si tengono concerti a ingresso libero; una fontana di Jaume Plensa alta 15 metri costituita da due torri di mattoni in vetro, da cui sgorgano cascate sotto le quali nelle calde giornate si rinfrescano grandi e piccini; la goccia d’acqua più pesante al mondo (110 tonnellate), la scultura in argento liscio di Anish Kapoor, dove i turisti si fotografano specchiati e deformati; la passerella sopraelevata design di Gehry, che collega il centro città alla riva del lago, da cui si gode una splendida vista sullo skyline cittadino.

Sono musei? No, experience!
Alcune giornate a Chicago vanno consacrate alla visita dei principali musei della città, che si trasformano in vere e proprie “experience”, a seconda dei propri interessi.
Iniziamo dall’Art Institut of Chicago, uno dei principali musei al mondo. Come al Louvre di Parigi o al Metropolitan di New York è necessario operare delle scelte se si ha una sola giornata a disposizione. E allora vale certamente la pena di iniziare dalle sale dedicate ai pittori impressionisti. Qui si trova infatti la principale collezione al mondo dopo quella del Musée d’Orsay di Parigi. Come mai? Come si sa i pittori impressionisti erano fortemente osteggiati in Francia e molti sono morti in miseria. I loro mercanti, trovando difficoltà a vendere le opere nel vecchio continente, si rivolsero così al nuovo, dove ebbero maggiore fortuna. La collezione delle opere di Monet dell’Art Institut è eccezionale. Ma questo museo propone anche capolavori di Caillebotte, Seurat, Degas, Gauguin, Matisse, Renoir, Manet e Van Gogh (un’intera sala con una decina di tele è dedicata a quest’ultimo). Molto interessante anche la collezione degli artisti americani influenzati dagli impressionisti.
Un altro museo dove si potrebbero trascorrere giornate intere è il Field Museum of Natural History, che conta ben 36 mila metri quadrati di sale. Non ci si lasci scoraggiare da queste dimensioni e non si manchi di rendere visita a Sue, il più completo scheletro (perfettamente conservato) di Tyrannosaurus rinvenuto finora. È stato ritrovato nel Sud Dakota, è vissuto tra i 67 e i 65 milioni di anni fa, è lungo 12,8 metri, alto 4 e si pensa che pesasse 7 tonnellate. Interessante anche l’esposizione Evolving Planet, che narra la vita sulla terra dall’epoca prima dei dinosauri fino all’era glaciale.
Dopo una passeggiata nel Grant Park, gli appassionati di astronomia non possono rinunciare a visitare nelle vicinanze l’Adler Planetarium&Astronomy museum, il più vecchio planetario dell’emisfero occidentale. Anche i non esperti in materia rimangono affascinati dagli sky shows, spettacoli che si tengono sotto la cupola originale del planetario o in uno dei teatri con il soffitto a volta dove vengono proposte visioni in 3D. Prima di lasciare il Planetarium vale la pena di fermarsi a contemplare non più il cielo, ma lo skyline cittadino, che da qui propone una delle sue migliori prospettive.
Altre esperienze imperdibili si possono vivere al Museum of Science and Industry, dove si ammirano un sottomarino tedesco della seconda guerra mondiale, alcune navicelle spaziali del programma americano di conquista dello spazio, il primo treno veloce al mondo e dove si può partecipare a “experiences” come la visita di una miniera di carbone, che è stata completamente ricostruita con tanto di cunicoli e di trenini-carrelli che trasportano i visitatori.

Da non perdere
Una giornata meno impegnativa può essere dedicata alla visita dello Shee Aquarium e della Willis Tower.
L’acquario coperto più grande al mondo possiede 250 mila animali acquatici di 2000 specie. Anche qui, come nei principali musei, vengono organizzati diversi show durante la giornata, come il pasto degli squali o il suggestivo spettacolo dei delfini e delle orche.
Non si può infine lasciare Chicago senza essere saliti sulla famosa Sears Tower, oggi Willis Tower, uno dei grattacieli più alti al mondo. Bisogna prendersi il tempo necessario perché le code possono essere molto lunghe, ma la spettacolare vista da quota 441 metri di altezza ripaga ampiamente dell’attesa.

Itinerario
1° giorno Zurigo-Philadelphia
2° giorno Philadelphia-New Orleans
3° giorno New Orleans
4° giorno (330 km – 4h) New Orleans – River Road – Natchez
5° giorno Natchez
6° giorno (800 km – 9h) Natchez – Nashville (per la Natchez Trace PKWY)
7° giorno (350 km – 4h) Nashville – Lexington
8° giorno (130 km – 2h) Lexington – Frankfort – Louisville
9° giorno (500 km – 5h) Louisville – Chicago
10°-15° giorno Chicago
16° giorno Chicago – Locarno

Per saperne di più
Usa Est La guida verde Michelin, Milano 2009
Stati Uniti centrali The Rough Guide, Milano 2009
Stati Uniti orientali Lonely Planet, Torino 2012
Chicago Lonely Planet, Torino 2014
T. Harry Williams, La guerra civile americana, in Storia del mondo contemporanea Milano 1982

Normandia – Sulle tracce del grande Claude Monet

Un itinerario nel nord della Francia, guidati da Marco Goldin, uno dei maggiori esperti dell’Impressionismo, alla scoperta dei luoghi più spettacolari in cui il padre di questo movimento ha posato il cavalletto “en plein air” per dipingere i suoi capolavori

Le ampie spiagge di Deauville e Trouville-sur-Mer su cui si affacciano antichi edifici ben restaurati, risalenti agli albori del turismo; la pittoresca Honfleur situata sull’estuario della Senna, con le antiche viuzze strette fra le case a graticcio; la movimentata Le Havre; le splendide falesie della Côte d’Alabâtre a Dieppe, Pourville-sur-Mer, Fécamp ed Étretat; l’antica Rouen, città piena di fascino e ricca di storia con la sua imponente cattedrale di Nôtre-Dame e per finire l’incantevole giardino di Giverny creato da Monet: sono le tappe principali del nostro viaggio in Normandia. L’itinerario si conclude a Parigi visitando i numerosi musei che raccontano il percorso del padre dell’Impressionismo.
Il file rouge del viaggio per amanti dell’arte è costituito dall’opera di Claude Monet, per il quale questi luoghi, assieme alle rive della Senna attorno a Parigi, hanno rappresentato i soggetti della sua creazione artistica. La nostra guida d’eccezione, Marco Goldin, che tante mostre ha dedicato all’Impressionismo nei suoi oltre vent’anni di attività, ci illustra gli interessanti legami tra questi paesaggi e l’opera dell’artista, che li vede dipinti in momenti diversi: dapprima con maggiore attenzione al reale, poi sempre più interiorizzati con il passare del tempo fino a diventare delle rappresentazioni dell’anima. Un percorso interiore che durante il viaggio si ha l’occasione di verificare visitando i musei di Le Havre, di Rouen e soprattutto di Parigi, ricchi di opere di Monet. Dopo aver conosciuto questi luoghi, dove i paesaggi sono rimasti praticamente intatti, si prova un’emozione diversa di fronte ai capolavori dell’artista.

Trouville e Honfleur
La prima tappa del nostro itinerario sono le spiagge di Trouville e di Deauville, che proprio ai tempi in cui le ritraeva Monet, nella seconda metà dell’Ottocento, conoscevano un forte sviluppo turistico, grazie soprattutto alla nascita di una fitta rete ferroviaria in tutta la Francia. Il pittore descrive “la vita sulla spiaggia, con le sue luci e il suo vento costante, ma anche la sequenza di hotel e ristoranti, ognuno con la sua passerella di legno, dipinta di verde o rosso” che dava accesso al mare (da ‘Verso Monet’ di Marco Goldin, edizioni Linea d’ombra, Trieste 2013). Ma Trouville è anche il luogo in cui dipingeva Eugène Boudin, il primo maestro di Monet, che di lui scrive ne ‘La mia vita’: “E Boudin, con inesauribile bontà, intraprese la mia educazione. Finalmente i miei occhi si aprirono e capii la natura. Al tempo stesso imparai ad amarla”.
La tappa successiva del nostro viaggio è proprio la città natale di Boudin, alla cui opera è dedicato un interessante museo. Honfleur è un borgo incantevole con il suo romantico porticciolo (Vieux Bassin) e la chiesa di Santa Caterina, raro esemplare in Europa di edificio religioso costruito completamente in legno. In questi luoghi Monet ha mosso i suoi primi passi come pittore ritraendo il porto, la chiesa e la campagna in cui si trovava la Ferme de Saint Siméon (oggi albergo di lusso), punto d’incontro di diversi artisti, tra cui gli stessi Boudin e Monet, ma anche di Pissarro e del pittore olandese Johan Jongkind, di cui Monet scrisse: “È a lui che devo l’educazione definitiva del mio occhio”.
L’opera di Boudin è ben rappresentata, assieme ad alcuni interessanti lavori di Monet, anche al Musée d’art moderne André Malraux di Le Havre. In questa dinamica città industriale, che ospita uno degli scali portuali più importanti d’Europa, Monet si trasferì da Parigi all’età di 5 anni e vi trascorse infanzia e adolescenza. Destinato a seguire l’attività commerciale della famiglia si ribellò per dedicarsi alla pittura. Si fece notare sin da ragazzo per il suo talento di ritrattista, che lo rese noto in città e gli procurò qualche piccola entrata.

La Côte d’Alabâtre
In autostrada raggiungiamo Dieppe per poi ripercorrere la Côte d’Alabâtre di nuovo in direzione di Le Havre. A Pourville, dove Monet compose diversi capolavori, scopriamo un luogo magico ben descritto da Goldin (op. cit.): “Scogliere a picco sul mare tempestoso, la mutevolezza della luce, i prati spazzati dal vento e dalla pioggia, la piccola casa dei doganieri e soprattutto quel mare vasto che si tende davanti a lui nei mille colori che dall’azzurro divergono e sfumano nelle molteplici ore del giorno”. Dalla chiesetta romanica a picco sul mare, magistralmente rappresentata da Monet, scendiamo lungo un ripido sentiero che percorreva l’artista verso una spiaggetta dominata dalle falesie. Un luogo idilliaco dove il pittore piazzava il suo cavalletto in varie posizioni per rappresentare l’oceano e le falesie.
Una sessantina di chilometri lungo la costa ci separano dalle nostre successive destinazioni: Fécamp e Étretat, altri luoghi magici della pittura di Monet, caratterizzati anch’essi dalla presenza di imponenti falesie, che ad Étretat – romantico villaggio in riva al mare – si spezzano nell’oceano attraverso un ampio arco. Purtroppo la nebbia ci impedisce di godere della bellezza di questo paesaggio, che assume però connotazioni misteriose che inducono alla meditazione. Le condizioni meteorologiche in Normandia sono molto variabili e generano spesso condizioni di luce assai diverse da un momento all’altro. Luce che rappresenta un elemento fondamentale nella pittura di Monet e ha “il compito – scrive Goldin (op. cit.) – di rivelare quanto di nascosto è nella natura. Di renderlo evidente al di là del mistero”. I colori erano invece per gli impressionisti “gli attributi della luce”. Mentre “la natura acquisisce centralità, diventa l’immagine a cui riferirsi… Il paesaggio impressionista nasce (infatti) dall’unione di natura e cultura, dalla sovrapposizione di natura e vita moderna”. A questo proposito Monet afferma: “No, non sono un grande pittore. Grande poeta nemmeno. Io so solamente che faccio quanto è nelle mie possibilità per rendere ciò che provo davanti alla natura”.

Le cattedrali di Rouen
Lasciamo la costa percorrendo la valle della Senna fino a Rouen. Ci inoltriamo nelle viuzze tortuose scoprendo splendide case a graticcio, visitiamo il ricchissimo Musée des Beaux-Arts con una vasta sezione dedicata all’Impressionismo (ma c’è anche uno splendido Caravaggio) e ci fermiamo incantati davanti alla sontuosa cattedrale gotica, una delle principali di Francia. Come non ricordare le cattedrali di Monet, dipinte proprio in questa piazza da varie posizioni, che “restano in tutta la sua opera – osserva Goldin – un punto fondamentale di passaggio”, perché l’autore “fa di una pietra toccata dal sole o dalla notte, dalla rugiada del mattino o dalla nebbia della sera, un’esperienza non più della verità delle cose ma della verità interiore… Le pareti di roccia della chiesa sono un’anticipazione sontuosa di quanto avverrà di lì a pochissimo con le ninfee”.

Le ninfee di Giverny
Ed eccoci allora a Giverny, la residenza tanto amata da Monet, dove visse fino alla sua morte nel 1926. La acquistò nel 1883, quando era ormai diventato un artista ricco e di successo e l’ampliò nel corso degli anni, creando anche uno stagno per ospitare le celebri ninfee. Il giardino fu progettato da lui stesso e pensato non come tale, ma come soggetto della sua pittura. I piani di realizzazione erano talmente precisi, con indicati i tipi di fiori per ogni stagione e zona del parco, che ancora oggi viene coltivato così come lo aveva pensato l’artista. Visitarlo è un vero spettacolo per chi ama i fiori e la natura, al di là del suo forte significato artistico.
Monet – scrive ancora Goldin – ha bisogno di un luogo da guardare. In cui poter guardare la bellezza. E dopo aver tanto a lungo, durante gli anni, modificato i luoghi del suo guardare, ha bisogno adesso di uno spazio che sia quello definitivo… A Giverny s’incontrano natura e invenzione della natura, la sua memoria rivolta al futuro… Monet ha voluto crearvi il luogo, cioè la somma della sua esperienza di tutti gli altri luoghi visitati e vissuti, tanto che la stessa pittura delle ninfee è la somma e l’esito finale, di tutti i raggiungimenti passati… Dai salici, ai glicini, alle ninfee, alle rose, tutto pulsa nell’ultimo Monet per giungere alla pura bellezza che ha abbandonato il racconto… ’per entrare’ nella profondità delle cose e arrivare a parlare della natura come essenza… Monet che era partito come erede di Corot, adesso si trovava nella condizione di essere l’anticipatore di Pollock”.

Monet a Parigi
Tutto quanto abbiamo visto, tutti gli stimoli raccolti durante il viaggio, possono trovare un riscontro a Parigi visitando i numerosi musei dedicati all’Impressionismo, tanto osteggiato dalla cultura ufficiale di fine Ottocento. Al Musée d’Orsay si possono ammirare non solo le opere di questa scuola, ma anche quelle dei predecessori (la scuola di Barbizon) da cui è nato il rinnovamento della pittura ottocentesca. Al Musée Marmottan sono invece raccolti quadri della donazione del figlio Michel realizzati da Monet soprattutto durante gli ultimi anni di attività. Alcuni sono rimasti a uno stadio iniziale e molti sono incompiuti. Al Musée de l’Orangerie, oltre a una vasta collezione sull’Impressionismo, in due enormi sale ovoidali sono esposti 100 metri di dipinto dell’altezza di 1 metro e 97 dedicato alle ninfee e donato da Monet allo Stato francese nel 1918, al termine della prima guerra mondiale, come simbolo di pace. La disposizione delle pitture è stata decisa dall’artista, che ha dedicato molti anni di lavoro a quest’opera d’arte unica al mondo. E per terminare non si manchi una visita al museo Rodin, l’autore che ha rappresentato per la scultura dell’Ottocento ciò che ha significato Monet per la pittura. Molte delle opere esposte nei musei citati sono state presentate da Goldin nelle sue esposizioni degli ultimi vent’anni.

L’itinerario
1° giorno Milano Linate – Parigi – St. Gatien
2° giorno St. Gatien – Trouville – Deauville – Honfleur – Le Havre – Dieppe
3° giorno Dieppe – Pourville – Verangeville – Fécamp – Etretat – Rouen
4° giorno Rouen – Giverny – Parigi
5° giorno Parigi
6° giorno Parigi – Milano Linate

Olanda – Sulle tracce di Van Gogh

Viaggio sulle orme di uno degli artisti più amati al mondo, guidati da Marco Goldin, storico dell’arte e curatore di mostre. Con un’escursione nel Seicento olandese di Rembrandt e Vermeer. Per finire con la festa del tulipano al Keukenhof.

Il Panorama Mesdag è la più bella sensazione della mia vita. Ha un solo piccolo difetto che è la sua mancanza di difetti”. Così si esprime Vincent Van Gogh nel 1881 dopo aver visitato quell’opera d’arte con cui si apre il nostro itinerario sulle orme del grande maestro olandese. Un viaggio realizzato con una guida d’eccezione: Marco Goldin, uno dei maggiori conoscitori dell’opera di Van Gogh, autore di numerosi saggi e di mostre di grande successo, dove ha esposto molti capolavori di Vincent ottenuti in prestito da musei di mezzo mondo. Condotti da Goldin abbiamo scoperto l’evoluzione di questo pittore determinante per la storia dell’arte e collocato le sue opere all’interno del suo breve ma intenso percorso artistico. In questa occasione unica, il nostro accompagnatore ha commentato e interpretato i capolavori del genio olandese, i gusti dei collezionisti che per primi hanno creduto in lui, le origini lontane della sua arte, il contesto dentro il quale operava, i luoghi che lo hanno ispirato. E tra questi luoghi figurano proprio le dune di Scheveningen rappresentate nel Panorama Mesdag e ritratte da Van Gogh in un solo dipinto giovanile, oggi purtroppo scomparso in quanto rubato proprio al Museo Van Gogh.
Il “Panorama Mesdag” è un’opera spettacolare ed eccezionale. Si tratta di un dipinto di forma circolare di 120 metri di circonferenza per 14 di altezza. Lo spettatore si trova al centro della “rotonda”, a 14 metri di distanza dall’opera, e ha l’impressione di ammirare un panorama dall’alto di una duna. Infatti tra lui e il dipinto c’è una distesa di sabbia vera. A fine Ottocento, sia in Europa che negli Stati Uniti era diventata una moda montare capannoni dove si potevano ammirare panorami di questo genere. Per entrare si pagava il biglietto come per andare al cinema. Spesso all’interno si suonava musica dal vivo. Hendrik Willem Mesdag, ideatore e autore di questa originale opera d’arte, ha voluto rappresentare la vera anima di Scheveningen nel 1880, con le sue dune e l’antico villaggio di pescatori, per fermare il tempo, prima che il turismo snaturasse in parte quello splendido paesaggio.
Ma il Panorama Mesdag è interessante anche per un altro aspetto. A realizzare l’opera furono alcuni autori di quella scuola dell’Aia che hanno ispirato Van Gogh quando all’età di 27 anni ha scoperto la sua vocazione per l’arte. A cominciare dallo stesso Mesdag, che oltre a essere artista fu anche un grande collezionista e cliente di una casa d’aste gestita da uno zio di Van Gogh. E la tappa successiva del nostro viaggio è proprio la visita di questa collezione (Museum Mesdag), che il suo proprietario ha donato allo Stato nel 1903. Le opere esposte sono molto interessanti perché permettono di confrontare la scuola francese di Barbizon, cui appartenevano Millet, Daubigny, Corot, Rousseau e Courbet, con la scuola dell’Aia, di cui facevano parte lo stesso Mesdag, Jozef Israël e Mauve, lo zio di Van Gogh che lo incoraggiò ad avvicinarsi alla carriera artistica. Nei quadri naturalistici dai toni scuri e con profonda sensibilità sociale delle due scuole affondano le radici pittoriche di Van Gogh. Ma il nostro autore – spiega Goldin – va oltre la rappresentazione della natura: la interpreta. Le immagini a cui si ispira sono le stesse di quelle dei suoi predecessori e in una prima fase anche i colori rimangono cupi, ma il suo approccio – prosegue la nostra guida – è completamente diverso e assolutamente innovativo. “Non conosco altra via che quella di lottare con la natura – scriveva Vincent al fratello Theo – finché non mi riveli il suo segreto”. In Van Gogh, spiega Goldin, la natura e l’animo umano si compenetrano muovendosi reciprocamente l’una verso l’altro e viceversa, così che il respiro della natura diventa il respiro di colui che quella natura dipinge. E questo rende i paesaggi di Van Gogh forse i più straordinari di tutta la storia della pittura. Nel 1882, osserva Goldin, Vincent scrive al fratello Theo di come i suoi colori si vadano sempre più schiarendo nell’osservazione della natura. Ma il culmine del suo incontro con la luce Van Gogh lo raggiunge quando, dopo aver vissuto ad Anversa e Parigi, parte per il sud della Francia. “E quando vi sarà giunto non potrà che constatare come lì la luce abbia il suo senso e che da lì non si possa partire”.
Il tragitto artistico di Van Gogh dura solo dieci intensissimi anni, dal 1880 al 1890, durante i quali dipinge oltre 900 opere, 200 delle quali, grazie a una donazione dei discendenti dell’artista, appartengono al Museo Van Gogh di Amsterdam, assieme a 580 disegni.
Un’altra novantina di quadri e 200 disegni sono invece di proprietà della Collezione Kröller-Müller, che si trova immersa nello splendido Parco nazionale dell’Hoge Veluwe, e sono frutto del lavoro di una ricca e sensibile collezionista privata. Helene Kröller-Müller è stata tra i primi a scoprire l’opera di Van Gogh e nel 1935 ha ceduto i suoi dipinti allo Stato olandese.
Sono queste le due tappe successive del nostro viaggio. In entrambe i musei Goldin sottolinea l’incredibile evoluzione pittorica di questo genio dell’arte, partendo dalle tele buie del periodo olandese – caratterizzate da capolavori come “I mangiatori di patate” o i tessitori al telaio (alcune versioni si trovano in entrambe i musei) – per giungere alle opere più note come “La casa gialla” o la sua camera da letto di Arles, il “Mandorlo in fiore” dipinto per la nascita del figlio di Theo, un’incredibile serie di autoritratti, gli indimenticabili campi di grano con i corvi minacciosi nel cielo (uno dei suoi ultimi quadri) al Van Gogh Museum di Amsterdam, oppure i girasoli, “Il caffè di notte”, gli ulivi, il postino Joseph Roulin, il “Seminatore al tramonto” al Kröller-Müller Museum.
Nel parco di questo museo si può inoltre visitare uno dei giardini delle sculture più ampi d’Europa con oltre 150 opere di artisti contemporanei mentre a una ventina di minuti in bicicletta si può ammirare il padiglione di caccia St-Hubertus, costruito tra il 1914 e il 1920 dall’architetto olandese Berlage sulle rive di un lago artificiale.

La Golden Age olandese
Il secondo obiettivo del nostro viaggio in Olanda era la scoperta di molte tra le opere più significative del Seicento olandese, la ‘Golden age’. “Già nei primi anni del XVII secolo – scrive E. H. Kossmann in Storia del Mondo Moderno, volume IV, Cambridge 1982 – (l’Olanda) si stava abituando al suo status di paese indipendente e sovrano; diveniva in tutto e per tutto una nazione”. La compagnia delle Indie Orientali, che si può considerare la prima multinazionale della storia, fu “l’arma commerciale e militare con la quale gli Olandesi avrebbero distrutto il centenario impero portoghese in Asia” per diventare la principale potenza commerciale marittima d’Europa, retta da una borghesia e subordinata ai suoi interessi. “Nella storia – commenta ancora Kossmann – non c’è forse altro esempio di una civiltà, originalissima e completa, sorta in così breve tempo e in un territorio così angusto”. Questa epoca d’oro durò fino alla fine del XVII secolo, quando “gli influssi stranieri fecero perdere alla repubblica olandese i suoi caratteri profondamente originali e la resero più uniforme al resto d’Europa”. D’altra parte, “allo stesso tempo gli altri paesi cominciarono a imitare i suoi moduli di pensiero e di comportamento”, tanto che “l’illuminismo poté fondarsi su molte conquiste olandesi. E non è forse anche vero – conclude Kossmann – che anche la struttura sociale di altri paesi cominciò a evolversi nella stessa direzione?”.
Parallelamente, nella storia dell’arte, fa notare Marco Goldin, il Seicento olandese fu un momento unico e irripetibile. Mai prima di allora, né dopo, si verificò una tale concentrazione di pittori: non tutti grandi, ma con una qualità media molto elevata. È in Olanda che in quegli anni iniziò il collezionismo legato alla borghesia nascente. Fino ad allora i committenti delle opere erano i nobili o gli alti prelati. Ora l’arte veniva proposta sul libero mercato e venduta nelle gallerie o direttamente negli studi dei pittori. Ma questo comportò naturalmente un cambiamento dei soggetti e persino dei formati dei quadri. Vennero individuati temi che potessero piacere agli acquirenti. Si trattava insomma di un mondo in profondo mutamento in cui l’arte non veniva più considerata un bene di lusso. Nacquero molti generi pittorici: i ritratti, le nature morte, i paesaggi, le marine, le architetture, eccetera. Ma si assistette anche a un grande salto qualitativo. I ritratti non furono più celebrativi, ma diventarono introspettivi e cercarono di interpretare la psicologia del personaggio. Nei paesaggi il tema della realtà balzò in primissimo piano e due secoli più tardi Monet e gli impressionisti guardarono a queste opere per trovare la loro ispirazione.
Per scoprire questi straordinari capolavori del Seicento olandese abbiamo visitato il Rijksmuseum di Amsterdam e il Mauritshuis all’Aia. Con la guida di Goldin abbiamo constatato come ogni movimento artistico esprima dei geni, che ne hanno determinato l’evoluzione, ma anche come tra le varie opere di questi grandi maestri esistano capolavori fondamentali sia per lo sviluppo artistico del singolo artista, sia per un’intera epoca. E non sempre si tratta delle opere più famose.
Hanno lasciato una traccia indelebile dentro di noi alcuni quadri di Rembrandt, soprattutto ritratti e autoritratti, e i capolavori di Vermeer, questo autore di cui si conoscono solo una trentina di opere, di cui abbiamo visto sei capolavori. La visita di questi due musei, per tutto quanto propongono, rimane un momento davvero indimenticabile del viaggio.

Uno spettacolo indimenticabile
Nei due paragrafi precedenti abbiamo parlato di capolavori artistici prodotti da uomini eccezionali. Qui ci occupiamo invece di un altro grande autore, forse il più straordinario di tutti: la natura. Ma anche in questo caso con un’intermediazione umana, perché sono 500 i produttori che ogni anno creano uno degli spettacoli più unici al mondo per chi ama i fiori: l’Esposizione Floreale Nazionale del Keukenhof, a un’ora di strada da Amsterdam, giunta alla 67ma edizione. Si tratta di un’esperienza indescrivibile, che si tiene da fine marzo a metà maggio, ma che raggiunge il suo culmine nella seconda metà di aprile. 7 milioni di bulbi, 800 specie di tulipani, 32 ettari fioriti sono i numeri di questa kermesse. Per la visita occorre almeno mezza giornata. Si può passeggiare tra le aiuole del parco e visitare i tre padiglioni nei quali si tengono straordinarie mostre temporanee floreali. Quando l’abbiamo visitato noi il padiglione principale Willem-Alexander proponeva migliaia di tulipani sistemati in aiuole per creare un mosaico variopinto di macchie di colore. All’Oranje Nassau erano invece esposte migliaia di rose ordinate secondo le tinte. Il Beatrix era dedicato al mondo delle orchidee, mentre al padiglione Juliana si racconta la storia del tulipano, che giunse in Olanda nel Cinquecento importato dalla Turchia. Nel Seicento si assistette a una vera tulipanomania: i prezzi dei bulbi raggiunsero infatti il valore di una casa. Ma ancora oggi per l’Olanda questo mercato ricopre un’importanza particolare: il 62 per cento dei bulbi presenti nel mondo proviene infatti da questo paese.

Itinerario
1° giorno Locarno – Amsterdam via Milano o Zurigo
2° giorno Amsterdam: Rijskmuseum e Van Gogh Museum
3° giorno Amsterdam – L’Aia: Mauritshuis Museum, Mesdag Museum, Panorama Mesdag e visita della spiaggia di Scheveningen
4° giorno L’Aia – Otterlo: Kröller-Müller Museum, casa di caccia di St. Hubertus, gita in bicicletta nel parco nazionale di Hoge-Veluwe
5° giorno Visita del parco di tulipani di Keukenhof, vicino all’aeroporto. Ritorno Amsterdam-Locarno

Indonesia – Nell’ultimo paradiso dello “snorkeling”

Un viaggio in veliero nell’arcipelago delle Molucche, tra le isole delle spezie e il parco marino di Raja Ampat. Qui ci sono le barriere coralline più ricche e suggestive del pianeta. Oltre 1400 specie di pesci e più di settecento tipi di molluschi.

Dieci giorni in barca nell’Oceano Pacifico indonesiano, uno dei mari più spettacolari al mondo, a bordo del Matahariku, un veliero che può ospitare fino a 12 passeggeri. L’itinerario è organizzato da Kel12, un’agenzia di viaggio milanese specializzata in destinazioni di scoperta, con sede anche a Chiasso.
La crociera si articola su due temi di interesse. Il primo, storico-naturalistico, scopre l’arcipelago delle Molucche, note nei secoli scorsi come ‘isole delle spezie’. L’importanza storica di questa regione risale a molti secoli fa, quando fu teatro di un intenso commercio sviluppato dapprima dai Romani e in seguito dagli Arabi, dagli Indiani, dai Cinesi e infine dagli Europei. Solo in questi luoghi era infatti possibile coltivare chiodi di garofano, noce moscata o macis (il suo fiore). Questi prodotti e il loro commercio attirarono l’interesse delle potenze coloniali europee, che nell’Oceano Pacifico si scontrarono duramente per conquistare l’Indonesia e garantirsi così il monopolio del mercato delle spezie.
Il secondo tema del viaggio riguarda invece la visita della zona a sud (arcipelago di Misool) del Parco Marino di Raja Ampat. “I biologi – riporta la guida turistica Lonely Planet – considerano l’Indonesia orientale l’epicentro della vita marina sul pianeta e il primato della biodiversità spetta appunto alle isole Raja Ampat, definite dagli ambientalisti una fabbrica di specie. Secondo le ultime stime queste isole ospiterebbero infatti 1459 specie di pesci e oltre 550 coralli duri (più del 75 per cento del totale mondiale). Da qui le correnti oceaniche trasportano le larve di coralli fino all’Oceano Indiano e all’Oceano Pacifico, permettendo di ripopolare altre barriere”.

Batavia e Giacarta
La prima meta del nostro itinerario è Giacarta, la caotica capitale indonesiana, che raggiungiamo da Milano Malpensa in circa 16 ore di volo. Vi trascorriamo solo mezza giornata, il tempo sufficiente per visitare Kota, il centro storico, corrispondente all’antica capitale coloniale delle Indie Orientali Olandesi: di quell’epoca rimangono alcuni palazzi seicenteschi che si affacciano soprattutto sull’animatissima piazza centrale, sbiadito ricordo di un glorioso passato, dove oggi si esibiscono artisti di strada. La gente che incontriamo è sorridente e si dimostra ospitale. Durante tutto il viaggio abbiamo l’impressione che gli indonesiani siano di animo gentile.
Altre tre ore di volo ci separano da Ambon, dove inizia la nostra crociera a bordo della Matahariku, un veliero lungo 40 metri e munito di un amplissimo ponte superiore con vista a 360 gradi, dove durante la navigazione trascorriamo gran parte del nostro tempo contemplando il mare, quasi sempre calmo.
Ad accoglierci a bordo c’è un equipaggio di undici persone sotto il comando di Eric, un omone olandese dall’aspetto burbero ma dallo sguardo dolce, entusiasta di mostrarci le meraviglie del mare indonesiano, su cui naviga da ormai dodici anni. Siamo in sette passeggeri, che in parte non si conoscono, ma alla fine del viaggio si saluteranno come vecchi amici.

Le isole delle spezie
Mentre a bordo ci viene servita la cena, la Matahariku salpa in direzione della prima isola del nostro viaggio (Saparua) nell’arcipelago delle Lease, che raggiungiamo il mattino seguente. Ci ancoriamo al largo e con piccole imbarcazioni raggiungiamo il villaggio, dominato – come quasi tutti quelli che visitiamo anche in seguito – da un piccolo forte che ricorda la colonizzazione olandese. Mentre ci avviciniamo a terra rimaniamo inebriati dal profumo dei chiodi di garofano. È novembre, il tempo del raccolto, e gli uomini stanno accovacciati sui rami delle piante per coglierne uno ad uno i boccioli di fiore che in altri tempi avevano il valore dell’oro. A bordo di due pittoreschi taxi attraversiamo villaggi dove il tempo sembra essersi fermato. Davanti alle case dai colori pastello sono stese plastiche azzurre su cui per due giorni il raccolto viene sparso ad essiccare.
Torniamo sulla Matahariku e navighiamo la notte per raggiungere il mattino seguente le isole Banda, protagoniste di dure battaglie, soprattutto fra Inglesi e Olandesi, per assicurarsi il monopolio del commercio delle spezie. La prima isola che visitiamo è Palau Api. Non ci sono automobili; solo qualche motocicletta messa bene in vista davanti all’entrata di casa come status symbol. Dopo una breve visita al villaggio ci inoltriamo in una piantagione di noce moscata. Gli alberi più maestosi non sono quelli che producono l’ambita spezia, bensì gli altissimi Canary, che proteggono dal sole le delicate noci moscate. Dispongono di secolari e spettacolari radici che paiono pietrificate e che con le loro forme artistiche costituiscono la gioia degli amanti di fotografia.
Tornati a bordo, poche ore di navigazione ci separano da Bandaneira, capoluogo dell’arcipelago delle Lease. Accanto sorge Palau Ai dominata da un imponente vulcano, con la classica forma a cono, molto attivo nel corso dei secoli. Le sue colate laviche si estendono fino al mare e nel corso del tempo sono state ricoperte da coralli variopinti, che contrastano con il nero antracite della lava.
A partire soprattutto da questo momento lo snorkeling si fa serio. Come si mette la testa sott’acqua, trasportati da una dolce corrente, sembra di assistere a un documentario. Incontro qui la mia prima tartaruga marina, che si muove lentamente in profondità. Ma a stupirmi sono soprattutto le tinte dei coralli e l’enorme varietà di pesci di tutti i colori.
Trascorriamo la notte ancorati nella baia tra le isole Api e Neira e il mattino visitiamo il villaggio di Bandaneira. In questa terra nessuno può vantare le sue antiche origini, perché la furia olandese ha letteralmente e brutalmente eliminato all’inizio del Seicento la popolazione indigena. Chi voleva sfuggire alla morte abbandonava le sue terre. Anche qui giungiamo durante il raccolto della noce moscata, che viene ordinatamente esposta al sole ad essiccare.

Il Parco Marino
Con il nostro veliero lasciamo questi luoghi storici di tristi memorie e ci dirigiamo verso l’arcipelago Misool, il versante sud del Parco Marino di Raja Ampat, dove la maggior parte delle isole sono disabitate e la vegetazione scaturisce come per incanto dalla roccia vulcanica. Centinaia di scogli emergono dal mare simili a enormi funghi. Le onde dell’Oceano hanno infatti scavato le rocce alla base.
Man mano che il viaggio prosegue la bellezza dei fondali marini diventa sempre più straordinaria. Osserviamo vere e proprie foreste di coralli: una visione inimmaginabile e difficile da descrivere a parole. I coralli sono di tutti i colori: bianchi, blu, verdi, rossi, viola, gialli, marroni. E di tutte le forme. Alcuni sembrano levigati ma ricoperti da una superficie a stelline. Altri, denominati ‘corallo tavolo’ si presentano come enormi piattaforme circolari. Ce ne sono di tubolari, a forma di foglie, di funghi, a scomparti (una sorta di condominio per pesci), quelli classici a ramificazioni. Ma i più spettacolari sono quelli a ventaglio, finemente cesellati dalla natura.
Dai fondali marini torniamo in superficie e visitiamo un semplice villaggio di pescatori, dove la vita sembra scorrere tranquilla. È venerdì, giorno di festa per i musulmani, e i ragazzi non vanno a scuola. Quando sbarchiamo su un’isoletta sperduta in mezzo all’Oceano diventiamo l’attrazione del villaggio. Gli anziani vanno a prendere alcune sedie per accoglierci e farci accomodare sulla spiaggia, mentre i bambini ci seguono numerosissimi durante una passeggiata che si inoltra in un palmeto da cartolina. Siamo in un periodo di elezioni e i manifesti politici giungono anche su questo piccolo lembo di terra solitario. Sulla spiaggia troviamo splendide conchiglie e prima di ripartire le donne ci offrono un tè alle spezie. Ma è tempo di proseguire il nostro viaggio e di scoprire altri arcipelaghi, dove a bordo di piccole imbarcazioni è piacevole perdersi in magici labirinti di scogli per scoprire su alcune pareti dipinti di creature marine e impronte di mani risalenti a oltre 5 mila anni fa.
Gli ultimi giorni sono dedicati esclusivamente allo snorkeling. Seguendo la nostra simpatica guida olandese scorgiamo pesci che non avremmo mai notato senza di lui, come alcune aragoste dalle lunghe antenne, l’altezzoso pesce napoleone, un cosiddetto pesce coccodrillo che si mimetizza nella sabbia o un altro verde posato su un corallo della stessa tinta. Incontro anche il mio primo squaletto, lungo forse mezzo metro. Si differenzia da tutti gli altri abitanti del mare perché si sposta senza dimenarsi, ma scorrendo via altezzoso e diritto: noblesse oblige!
Se questi sono esemplari più importanti e rari che entusiasmano i miei compagni di viaggio più esperti, ad affascinarmi maggiormente è però la miriade di pesci pagliaccio, di cui fa parte anche il tenerissimo Nemo (ricordate il commovente film della Walt Disney?), che propongono tutte le variazioni dal giallo all’arancione, al rosso, fino al viola. Eleganti anche le cosiddette damigelle striate dai toni color pastello.
Di questo viaggio mi rimarrà l’immagine indelebile di una moltitudine di pesciolini, che finora avevo visto solo in acquario, inseriti in uno scenario corallino indimenticabile. Non scorderò nemmeno il piacere di seguire dall’alto branchi di migliaia di pesciolini trasportati come me dalla corrente del mare, che a tratti abbandonano la formazione per disperdersi in tutte le direzioni creando l’effetto di un fuoco d’artificio sottomarino grazie ai raggi del sole che penetrano in superficie le acque dell’Oceano. Mi rimarranno anche le immagini di splendidi tramonti infuocati, spesso allietati dalla presenza dei delfini che si rincorrono all’orizzonte.

Per saperne di più
Indonesia Lonely Planet, Torino 2013
Spezie, una storia di scoperte, avidità e lusso Francesco Antonucci, Editori Laterza, Bari 2014
L’isola della noce moscata Giles Milton, RCS Libri S.p.A., Milano 1999

Bretagna – Là dove si credeva che la terra finisse

Bretagna Il passo lento della storia tra riti, cultura e tradizioni

Questa selvaggia penisola allungata sull’Oceano con le sue vertiginose scogliere, le calette nascoste, le spiagge sferzate dal vento e dalle onde offre una straordinaria sintesi tra natura, cultura e tradizioni.

Un viaggio in Bretagna, là dove anticamente si pensava che la terra avesse fine (Finistère), offre splendidi e selvaggi paesaggi marini, interessanti e uniche opere architettoniche, nonché ricche tradizioni che sopravvivono da secoli.
Il nostro itinerario si limita alla scoperta della cosiddetta Bassa Bretagna, cioè la parte più ad ovest, dove si parla ancora il bretone e dove gli antichi usi e costumi sono tuttora molto diffusi. Non ci sono voli aerei diretti per la Bassa Bretagna ed è pertanto necessario fare scalo a Parigi per raggiungere Brest, dove si può noleggiare un’automobile. Il tragitto che proponiamo richiede una settimana abbondante. Coloro che dispongono di più tempo possono partire dal Ticino con il proprio veicolo, ma devono contare due giorni di viaggio all’andata e due al ritorno.

La Côte de Granit Rose
Il nostro viaggio inizia dalla regione più a nord, quella che si affaccia sulla Manica – il canale che divide la Francia dalla Gran Bretagna – visitando in particolare la costa dei Graniti Rosa. Prima di arrivarvi da Brest facciamo tappa a Tréguier, un’antica cittadina con strette viuzze e pregevoli case a graticcio annidate in fondo a un estuario con un’imponente cattedrale, dove si trova la tomba di St. Yves, il patrono degli avvocati. Saliamo lungo l’estuario fino a Le Gouffre, dove una splendida passeggiata lungo il mare dà un primo assaggio dei graniti rosa, con immensi massi rocciosi tra i quali sono state edificate alcune case signorili in granito, sempre rosa, che talvolta si appoggiano agli scogli. Ma lo spettacolo più straordinario lo si osserva una trentina di chilometri più ad ovest attorno al faro di Ploumanach, percorrendo a piedi una breve tratta del cosiddetto “sentiero dei doganieri”, che si estende lungo quasi tutta la costa bretone. L’atmosfera magica dei luoghi non è dovuta solo al colore di questo granito di grana grossa, ma anche alle sorprendenti forme scolpite dall’erosione del vento e dalla violenza delle onde oceaniche. Sembra di trovarsi in un vastissimo museo di sculture all’aperto, dentro il quale si può passeggiare per ore e dove l’artista ha un unico nome: natura.
Sulla vicina Île Grande, invece, il granito assume tonalità azzurre. Alla stazione ornitologica uno specialista commenta le immagini provenienti in diretta da una telecamera installata su un isolotto dell’arcipelago delle Sept-Îles, che si trova al largo ed è popolato da una foltissima colonia di uccelli, provenienti in primavera dalle coste africane.

Dalla costa nord a quella ovest
Dalla Costa Rosa in meno di un’ora in automobile si raggiunge la cittadina di Morlaix, da cui parte un interessante circuito alla scoperta dei migliori complessi parrocchiali (enclos paroissiaux), di cui riferiremo settimana prossima toccando gli aspetti più culturali-artistici e legati alla tradizione del nostro itinerario.Torniamo allora sulla costa nord, dove visitiamo ancora la tipica cittadina bretone di Roscoff, sviluppatasi a partire dal XVI secolo grazie agli scambi commerciali con l’Inghilterra. Dimore signorili in granito costruite da ricchi mercanti, armatori e corsari caratterizzano il quartiere che si affaccia sul porto. Un curioso museo dedicato ai “venditori di cipolla rosa” con immagini e documenti racconta la storia dei venditori che nel XIX secolo attraversavano la Manica e battevano in lungo e in largo le strade della Gran Bretagna a piedi o in bicicletta carichi di trecce di cipolle. Come non tracciare un parallelo con l’immigrazione dalle nostre valli verso il nord Europa o l’Italia? Perché viaggiare non significa dimenticare le proprie origini, bensì capire meglio le proprie radici scoprendo le esperienze di altri popoli. Da Roscoff ci trasferiamo dalla costa nord a quella ovest, passando da Le Folgoet, dove la basilica di Notre-Dame merita una visita soprattutto per ammirare un pontile che lega le due navate laterali della chiesa, finemente scolpito in granito e considerato uno dei capolavori dell’arte bretone.

Gli Abers costa selvaggia
La parte più settentrionale della costa ovest del Finistère offre lo spettacolo di un litorale molto selvaggio e frastagliato intercalato da numerosi estuari, detti “abers”, che danno il nome alla regione e che bene si possono ammirare visitando le Dunes de Ste-Marguerite e di Corn-ar-Gazel. Il sentiero dei doganieri, che segue quasi tutta la costa bretone, qui scorre su spettacolari falesie a strapiombo sul mare. In questa regione il turismo è scarso. Ci troviamo nella terra ideale per chi ama passeggiare nel silenzio, interrotto solo dal suono provocato dall’impatto delle onde contro gli scogli e accompagnato dal forte odore delle alghe, talvolta sgradevole, che costituiscono da secoli un patrimonio regionale importante. La Francia è infatti leader in Europa nel commercio delle alghe e i quattro quinti della produzione provengono proprio da queste coste. Nel piccolo villaggio di Plouguerneau un piccolo ecomuseo racconta la storia della raccolta praticata da secoli. Anticamente le alghe venivano utilizzate come fertilizzante, combustibile o cibo per animali. Oggi sono impiegate per la fabbricazione di prodotti cosmetici, nei centri di talassoterapia e sempre più spesso anche in cucina dai cuochi di grido, che le considerano la “verdura di mare”. Una sessantina di imbarcazioni provviste di un braccio meccanico snodato rastrellano i fondali marini raccogliendo ogni anno oltre 70 mila tonnellate di alghe, che poi vengono stese a seccare sul litorale.

La Route Des Phares
Al largo di queste coste, denominate anche “des Naufrageurs”, battute dalle onde dell’Atlantico e della Manica, sono affondate centinaia di navi. Si racconta addirittura che un tempo i contadini accendessero sulla costa fuochi all’aperto per confondere i capitani e provocare il naufragio delle loro imbarcazioni per poi saccheggiarne i relitti. Aneddoti a parte, molte più navi sarebbero affondate nel corso dei secoli se non ci fossero stati i fasci di luce dei fari, costruiti in Bretagna a partire dal 1695. Sentinelle dei mari, per secoli unico punto di riferimento per chi solcava le onde impetuose dell’Oceano Atlantico, queste strutture sono oggi per la quasi totalità automatizzate. I fari più imponenti sono certamente quelli dell’Île Vierge, a nord della costa ovest, che con i suoi 82.50 metri è il più alto d’Europa e quello delizioso di St-Mathieu, a sud, con accanto le suggestive rovine di un monastero benedettino del VI secolo. Ma sui quasi 90 chilometri di costa tra Brest e Portsall si sviluppa la cosiddetta “Route des phares et des balises”, dove si possono ammirare ben 30 fari e oltre 85 boe di segnalazione. Su una terrazza che si affaccia sul porto di Portsall si trova una delle due enormi ancore di 20 tonnellate ciascuna che appartenevano alla petroliera Amoco Cadiz. E’ il triste ricordo della catastrofe ecologica causata dal suo naufragio il 16 marzo 1978, quando durante una terribile tempesta, a causa di un guasto tecnico rimase in balia delle onde. Mentre attendeva l’autorizzazione dei suoi proprietari a farsi soccorrere si spezzò in due all’impatto con uno scoglio e riversò in mare 230 mila tonnellate di petrolio greggio.

La spettacolare penisola di Crozon
La penisola di Crozon rappresenta certamente uno dei luoghi più spettacolari e selvaggi di questo viaggio in terra bretone. Una sua magnifica veduta d’insieme si può avere dalla collina denominata Ménez-Hom. Questo monte alto appena 330 metri permette di spaziare sui luoghi appena descritti e ci introduce alla penisola di Crozon con le sue splendide punte che stiamo per visitare. Anticipa anche un panorama sulla penisola della Cornovaglia francese, che costituirà una delle prossime tappe. La penisola di Crozon propone quattro punte molto spettacolari. Iniziamo la visita da quella più a nord, denominata “des Espagnols”, che offre una splendida vista sulla costa tra Brest e la Pointe de St-Mathieu. Data la vicinanza con quest’altra sponda, nel 1594 una guarnigione di militari spagnoli alleati con la Lega Cattolica costruì (da qui il nome) una fortezza, di cui si visitano le rovine, per controllare l’ingresso del traffico marittimo verso la città di Brest. La Pointe de Penhir, con un dirupo di 70 metri sul mare, è la più spettacolare delle quattro punte della penisola e ospita un suggestivo monumento in onore dei bretoni delle Forces Françaises Libres, il movimento di liberazione fondato a Londra da Charles De Gaulle. La Pointe de Dinan propone invece una bella passeggiata da cui si ammira una fantastica roccia a forma di castello, mentre a Cap de la Chèvre si visitano le rovine di un posto di osservazione tedesco durante la seconda guerra mondiale.

La Cornovaglia francese
Dapprima reame e in seguito ducato, la Cornovaglia anticamente si estendeva su un territorio molto più vasto. Oggi si limita alla sola parte costiera, di cui il nostro itinerario prevede la visita della parte nord, quella più spettacolare. Questa regione è arricchita anche da tre interessanti luoghi d’arte: la capitale Quimper, lo splendido villaggio di Locronan e la suggestiva cittadella di Concarneau. In questa pagina ci limitiamo a parlare delle sole località costiere rimandando a settimana prossima la visita delle città d’arte. Secondo un detto bretone “nessuno ha mai attraversato questo mare senza paura né dolore” e una preghiera recita “Soccorrimi o Dio al Raz, la mia nave è così piccola e il mare così immenso…”. Alla Pointe du Raz, uno dei luoghi più selvaggi e spettacolari di tutta la Bretagna, dove si dice che il vento urla e l’Oceano tuona, sorge una eloquente statua dedicata a Notre-Dame-des Naufragés. Oltre 1 milione di turisti ogni anno contempla il mare aperto da questa punta, il cui accesso è regolamentato per permettere la tutela dell’ambiente naturale (per la visita si calcoli almeno 1 ora a piedi). Poco lontano e raggiungibile anche a piedi partendo dalla Pointe du Raz lungo il sentiero costiero, l’altrettanto interessante Pointe du Van (se la si raggiunge in auto si calcoli un’ora a piedi per la visita). Proseguendo sulla costa in direzione di Douarnenez, la capitale delle sardine, s’incontrano altre punte dal panorama straordinario (Pointe de Brézellec, Pointe de Beuzec e Pointe du Millier) e l’interessante Riserva Ornitologica di Cap Sizun, dove, soprattutto in primavera, si possono ammirare alcune migliaia di uccelli marini che si raggruppano in colonie. A Douarnenez attraversando una maxiscatola di sardine blu e gialla, si possono scoprire i segreti della conservazione del pesce, attività attorno alla quale da oltre due secoli ruota la vita di questa città. Nel porto, trasformato nel più importante museo galleggiante d’Europa, si possono visitare rimorchiatori, langoustier, velieri e molti altri esemplari di vecchi bastimenti.

Itinerario
1° giorno (150 km) Brest – Tréguier – Côte Rose
2° giorno Visita della Côte Rose
3° giorno (200 km) Côte Rose – Morlaix (itinerario complessi parrocchiali) – Roscoff
4° giorno (130 km) Roscoff – Le Folgoët – Porspoder (Abers)
5° giorno (150 km) Porspoder – Ponte de St-Mathieu – Plougastel – Daoulas – Ménez – Horn-Ste-Anne – La Palud
6° giorno (130 km) Ste-Anne – Locronan – Quimper – Concarneau – Ste-Anne
7° giorno (200 km) Ste-Anne – Cornovaglia (costiera nord) – Ste-Anne
8° giorno (100 km) Ste-Anne – Penisola di Crozon – Ste-Anne

Per saperne di più
Bretagna Guida Michelin rossa, Nanterre 2016
Bretagne, carte routière et Touristique Michelin, Boulogne 2015
Bretagna Traveller, Milano 2005

Bretagna – Il passo lento della storia tra riti, cultura e tradizioni

Bretagna – Là dove si credeva che la terra finisse

Oltre alla visita di alcune città medievali questo itinerario va alla scoperta dei più interessanti complessi parrocchiali, uno dei fenomeni artistici più singolari della regione con i suoi meravigliosi calvari scolpiti nel granito.

Prosegue il nostro viaggio nella cosiddetta Bassa Bretagna, cioè la regione più ad ovest della Francia, dove si parla ancora la lingua bretone e dove gli antichi usi e costumi sono tuttora molto diffusi. Ci soffermeremo sugli aspetti più culturali di questa affascinante regione, ricca di testimonianze storiche e artistiche. Oltre alla visita di alcune città medievali questo itinerario va alla scoperta dei principali complessi parrocchiali, uno dei fenomeni artistici più interessanti della Bretagna con i meravigliosi calvari scolpiti nel granito. Per scoprire queste meraviglie dell’arte locale si consiglia di percorrere l’itinerario circolare descritto dalla Guida Michelin Verde (vedi “per saperne di più”), che parte da Morlaix e tocca nell’ordine St-Thégonnec, Guimiliau, Lampul-Guimiliau, La Roche-Maurice, Pencran, La Martyre, Sizun. Per meglio capire ciò che vedremo è necessario spendere due parole sulla storia di questa regione, dove si riteneva finisse la terra (Finistère), e sulle sue tradizioni.

Asterix e Obelix
Chi non ha letto i fumetti di Asterix e Obelix, vicende che hanno come sfondo l’importante periodo di storia bretone? Le imprese dei due eroi raccontano infatti le battaglie dei Galli contro i Romani, che a partire dal 57 prima di Cristo invasero la regione, mantenendone il dominio fino al IV secolo dopo Cristo. Terminata l’epoca romana, tra il V e il VI secolo, la Bretagna fu invasa dai Celti provenienti dalla Britannia (cioè dall’Inghilterra) centro occidentale. Questa popolazione fu spinta ad attraversare il canale della Manica quando le sue terre furono a loro volta invase dai popoli germanici e danesi. La lingua bretone, che nel corso dei secoli ha subito numerosi mutamenti, fu introdotta da questi esuli inglesi, che per lungo tempo mantennero relazioni con la loro terra d’origine. È pure verosimile che le leggende riferite a re Artù, ai Cavalieri della tavola rotonda e a Mago Merlino, che in Bretagna fiorirono numerose, fossero state importate, insieme con la lingua e altre tradizioni, dall’immigrazione celtica di quel periodo. La Bretagna, e soprattutto la regione più ad ovest (Finistère), rimane fedele alle sue tradizioni e alla sua lingua, che viene ancora oggi parlata da oltre 300 mila persone. In questi ultimi vent’anni, dopo i profondi cambiamenti del dopoguerra, soprattutto nella Bassa Bretagna si è assistito a una valorizzazione delle proprie radici, nonostante l’abbandono dei villaggi rurali e l’inevitabile sviluppo del commercio, dell’industria e del turismo. Si sta per esempio recuperando la grande varietà e ricchezza dei costumi, trasmessi da una generazione all’altra, che ancora oggi vengono sfoggiati durante le grandi feste popolari, come per esempio le importanti processioni organizzate per celebrare il santo protettore dei villaggi. Gli abiti da cerimonia, generalmente neri, brillano soprattutto per la vivacità dei grembiuli ricamati. L’originalità del costume femminile è costituita anche dai copricapo: in ogni regione le cuffie hanno caratteristiche diverse, sempre austere, ma molto fantasiose.

Gli enclos paroisseaux
Anche il rapporto dei bretoni con la morte è profondamente influenzato dall’eredità celtica. Sugli ossari vediamo scolpito uno scheletro che tiene una falce, l’Ankou (il nome significa “angoscia”), che, narra la tradizione, la notte vaga su un carro che scricchiola. Chi sente il rumore o lo incontra morirà presto. La porta dell’inferno si troverebbe, si dice, nei monti d’Arrée, nel Finistère che stiamo visitando. Ed è proprio per permettere alla vita spirituale delle parrocchie di mantenere uno stretto legame con la comunità dei morti, che sono nati i cosiddetti “enclos paroisseaux”, cioè i recinti o complessi parrocchiali, i gruppi monumentali più caratteristici dei borghi bretoni. Un piccolo cimitero con pietre tombali uniformi è situato al centro del complesso. Attorno al camposanto, al quale si accede in generale da una porta trionfale, si trovano la chiesa con la piazzetta antistante, il calvario e l’ossario. Il complesso è solitamente racchiuso dentro un recinto in pietra. Queste architetture religiose, meraviglie spontanee che non hanno paragoni altrove, sono caratteristiche della devozione bretone ed espressione artistica della prosperità dei porti fluviali della regione tra il XV e il XVII secolo. La varietà architettonica di questi “recinti” si spiega con il forte spirito competitivo che regnava tra un villaggio e l’altro. L’ansia di primeggiare si tradusse in una specie di gara a chi faceva di più e meglio: a Guimilau si realizzarono raffinate decorazioni sul calvario, a La Martyre si puntò su un ornatissimo arco trionfale, a Pleyben si fece un ardito campanile e a Saint-Thégonnec l’attenzione fu messa nella varietà e nel numero di statue del calvario. Al cimitero si accedeva attraverso una porta monumentale riccamente decorata, una sorta di arco trionfale, denominato “porta dei morti”, che simboleggiava l’entrata del giusto nell’immortalità. Per far posto alle nuove salme nei minuscoli cimiteri si riesumavano i cadaveri. Le ossa venivano raccolte in piccoli contenitori traforati addossati al muro della chiesa o del cimitero. I crani venivano invece sistemati nelle cosiddette “scatole per capo” e conservate negli ossari. Ma l’elemento più suggestivo dei complessi parrocchiali è costituito dai cosiddetti calvari, piccoli monumenti in granito che rappresentano scene della Passione e culminano nel Cristo crocifisso. Si tratta di sculture semplici, ma l’espressione dei personaggi e l’energia che emanano sono davvero sorprendenti. Questi calvari erano concepiti come una sorta di fumetto e avevano una funzione didattica. Molti presentano una piattaforma su cui il sacerdote saliva per spiegare ai fedeli, con l’ausilio di una bacchetta, le scene rappresentate. Attorno al 1650, quando questa originale forma artistica raggiunse il suo apice, l’avventura si concluse: la Francia intraprese infatti una serie di interminabili guerre contro gli Inglesi e gli Olandesi, che interruppero i flussi mercantili nei porti bretoni facendo sprofondare la regione nella povertà.

Città medievali
Un salto nel passato. È quanto avete l’opportunità di fare visitando Locronan, un piccolo gioiello del Finistère, dove il tempo sembra essersi fermato e dove la vocazione turistica non ha compromesso l’architettura di questo bellissimo villaggio. Scelto da molti registi (tra cui Roman Polanski per “Tess”) come set cinematografico, il borgo si è sviluppato tra il XV e il XVII secolo grazie alla fabbricazione e alla commercializzazione di tele per velieri. La qualità di questi tessuti era tale da essere richiesti in tutta Europa per equipaggiare le navi della marina francese, di quella inglese e di quella spagnola. Si narra che le caravelle di Cristoforo Colombo veleggiassero grazie a tele tessute a Locronan. Il villaggio ha conservato una splendida piazza centrale con un antico pozzo, sulla quale si affacciano edifici rinascimentali in granito e l’ampia chiesa, che deve le sue origini a un vescovo eremita irlandese stabilitosi nel VII secolo in questa regione boschiva e autore, secondo la tradizione, di numerosi miracoli. Camminando lungo le strette viuzze del borgo, con un po’ di fantasia si può immaginare la vita nell’epoca medievale. A un’ora circa di automobile da Locronan sorge un’altra chicca del passato: l’incantevole cittadella (Ville close) di Concarneau circondata da imponenti mura medievali in granito. Si tratta di un’isoletta a forma irregolare lunga 350 metri e larga 100, con strette e pittoresche viuzze, collegata alla terra da un ponte. La si può scoprire sia passeggiando lungo le due animate arterie principali, sia percorrendo il panoramico giro delle mura, da cui si gode una bella vista sul porto peschereccio della cittadina, considerato tra i più importanti di Francia. Tra Locronan e Concarneau vale la pena di visitare anche Quimper, che si scorge da lontano grazie alle guglie della sua cattedrale, provvista di splendide vetrate, davanti alla quale si estende il centro storico caratterizzato da strette viuzze fiancheggiate da case a graticcio e battezzate con i nomi delle corporazioni medievali. Altre due piacevoli scoperte si trovano lungo l’itinerario costiero descritto settimana scorsa. Si tratta di Tréguier, antica cittadina annidata in fondo a un estuario con tipiche case a graticcio e un’imponente cattedrale, e di Roscoff, un villaggio costiero con signorili dimore in granito, edificate da ricchi mercanti, armatori e corsari che hanno costruito la loro fortuna sugli scambi commerciali con l’Inghilterra.

Itinerario
1° giorno (150 km) Brest – Tréguier – Côte Rose
2° giorno Visita della Côte Rose
3° giorno (200 km) Côte Rose – Morlaix (itinerario complessi parrocchiali) – Roscoff
4° giorno (130 km) Roscoff – Le Folgoët – Porspoder (Abers)
5° giorno (150 km) Porspoder – Ponte de St-Mathieu – Plougastel – Daoulas – Ménez – Horn-Ste-Anne – La Palud
6° giorno (130 km) Ste-Anne – Locronan – Quimper – Concarneau – Ste-Anne
7° giorno (200 km) Ste-Anne – Cornovaglia (costiera nord) – Ste-Anne
8° giorno (100 km) Ste-Anne – Penisola di Crozon – Ste-Anne

Per saperne di più
Bretagna Guida Michelin rossa, Nanterre 2016
Bretagne, carte routière et Touristique Michelin, Boulogne 2015
Bretagna Traveller, Milano 2005

Glacier Express – Un mito su rotaia da St. Moritz a Zermatt

L’itinerario più suggestivo, tra paesaggi montani incontaminati, inizia a Tirano in Valtellina, dove col famoso treno del Bernina si sale sul passo per poi scendere verso l’Engadina. I classici vagoni rossi portano ai piedi del Cervino in otto ore di emozionante viaggio tra le Alpi senza alcun cambio

In treno dalla ridente Valtellina a St. Moritz e quindi a Zermatt passando per il Bernina, l’Albula, l’Oberalp. Il tragitto, che porta dalle palme dei laghi di Lugano e di Como fino ai ghiacciai delle Alpi, è praticabile dal 1930 e offre una splendida panoramica degli aspetti più diversi della catena alpina. Con il Bernina Express, attraverso i magnifici e incontaminati paesaggi del Bernina (2253 metri), si raggiunge St. Moritz in poco più di 2 ore. Si prosegue quindi con il Glacier Express fino a Zermatt in altre 8 ore di treno. La tratta tra l’Alta Engadina, la valle di Landwasser e i ghiacciai del Vallese lascia senza fiato con le sue innumerevoli vette panoramiche, con le gole del Reno, i laghi montani del Passo dell’Oberalp (2033 metri) e la splendida vista sui quattromila del Vallese, tra cui spicca per bellezza e imponenza il Cervino. Gran parte della tratta, grazie al connubio tra arte ingegneristica e bellezza della natura, dal 2008 è stata inserita nel patrimonio mondiale dell’Unesco. La ferrovia che porta da Tirano a Zermatt conta oltre 500 ponti e 150 gallerie e si inserisce armoniosamente nel paesaggio montano. Oltre 200 mila turisti viaggiano, d’inverno come d’estate, ogni anno su questi treni che sono tra i più famosi al mondo. Un’audioguida in molteplici lingue accompagna durante il tragitto i turisti, che sul Glacier Express possono anche gustare piatti tipici dei cantoni Grigioni e Vallese.

Da Lugano a St. Moritz
L’esperienza inizia da Lugano, dove un rosso Bernina Express Bus, che parte il mattino, in tre ore porta a Tirano in Valtellina. Raccomandiamo a chi organizza il viaggio in proprio di non limitarsi ad acquistare i biglietti del bus e dei treni, ma anche di prenotare i posti, per evitare cattive sorprese. Da Lugano si costeggia il Ceresio fino a Porlezza e in seguito la costa nord ovest del lago di Como, passando per Menaggio, Dongo e Gravedona. Giunti a Sorico si imbocca la Valtellina, che si estende ad ampio arco attorno alle montagne dei Grigioni, ed è famosa soprattutto per i suoi vini, la vegetazione mediterranea ed i pittoreschi villaggi.
A Tirano, che rivestì in passato un importante ruolo storico grazie alla sua posizione strategica tra nord e sud, termina il tragitto in bus ed inizia quello in treno di 122 chilometri che ci porta a St. Moritz, passando per il passo del Bernina a quota 2253 metri.
Pochi chilometri dopo Tirano si entra in territorio elvetico ed il treno sale lungo il famoso viadotto elicoidale di Brusio. Siccome il Bernina Express non usa il sistema a cremagliera, il percorso si avvolge a spirale verso l’alto allungando artificialmente il tragitto per consentire alla linea ferroviaria di superare il dislivello. Si raggiunge quindi Poschiavo con i suoi sontuosi palazzi in stile rinascimentale, costruiti dai poschiavini emigrati che fecero fortuna all’estero. Il treno prosegue la sua salita verso l’Ospizio del Bernina, passando attraverso lo splendido paesaggio montano dell’Alpe Grüm, da cui si scorge il ghiacciaio del Palü con l’omonimo lago. La vetta del Bernina, che ospita la stazione a più alta quota della Ferrovia Retica (2253 metri), costituisce un confine linguistico (a nord si parla tedesco e romancio, a sud italiano) e uno spartiacque per i fiumi (quelli che scorrono a sud si gettano nell’Adriatico attraverso il Po, quelli a nord si riversano nel Mar Nero attraverso il Danubio). Lungo la discesa che porta a St. Moritz, che grazie a un ambiente cosmopolita ed a un paesaggio senza eguali è una delle mete di vacanza più rinomate al mondo, si passa per la celebre località turistica di Pontresina.

Da St. Moritz a Zermatt
Da St. Moritz ogni mattina partono tre treni che portano a Zermatt, coprendo i 291 chilometri del percorso (con 291 ponti e 91 gallerie) in circa 8 senza cambio: da qui la scherzosa definizione di “treno rapido più lento del mondo”.
Lasciata St. Moritz il Glacier Express, dopo aver attraversato Celerina e Samedan, offre subito uno dei tratti più spettacolari di tutto il percorso dirigendosi verso l’Albula: 6 alti viadotti, 3 gallerie elicoidali e 2 a tornanti consentono di superare gli oltre 400 metri di dislivello fra Preda e Bergün, che si può ammirare da tre diverse angolature. Dopo il tunnel dell’Albula, viaggiando in direzione di Coira, appena superato Fillisur si incontra uno dei simboli del Glacier Express, il viadotto di Landwasser con i suoi imponenti 5 pilastri in muratura. Fu costruito nel 1902 con un progetto rivoluzionario, che fece epoca. Prima di raggiungere Coira si attraversa il Domleschg, una regione ricca di fortezze e castelli e Raichenau, dove il ramo del Reno posteriore si riversa in quello anteriore. I quasi 5 mila anni di storia fanno di Coira, capitale dei Grigioni, la più antica città svizzera, con un pittoresco centro urbano ricco di piazze e stradine tortuose che invitano al passeggio. Ma il nostro treno riparte subito in direzione delle gole del Reno, note anche come il “Grand Canyon svizzero”. Durante l’ultima glaciazione il franamento di una montagna nei pressi della nota località sciistica di Flims ha dato vita a questo straordinario paesaggio, che, a parte la costruzione della ferrovia, è rimasto intatto per millenni. Dopo 15 chilometri di gole la valle si allarga nella Surselva, dove nel villaggio di Trun il 16 marzo 1424 davanti alla cappella presso la stazione venne rinnovata la Lega Grigia – da cui in seguito nacque il Canton Grigioni – creata per combattere contro la repressione della nobiltà. In pochi minuti si giunge a Disentis, dominata dall’imponenza del suo monastero. La più antica abbazia benedettina della Svizzera e la sua chiesa dal doppio campanile risalgono alla fine del Seicento.
In questa località la Rhätische Bahn (RhB), su cui abbiamo viaggiato finora, incontra la linea della Matterhorn-Gotthard-Bahn. Grazie al cambio di locomotiva il treno non è più solo ad aderenza, ma nei tratti più ripidi può usufruire anche di una meccanica di propulsione a ruota dentata che ingrana nella cremagliera montata fra le rotaie. Grazie a questa tecnica il convoglio sale, attraverso un paesaggio incantevole, sull’Oberalp a quota 2033 metri. Dopo aver costeggiato il grazioso laghetto, si entra nel Canton Uri e si inizia la ripida discesa verso Andermatt, la cittadina fondata dai Walser nel XII secolo ed oggi sede dell’importante progetto insediativo “Andermatt Swiss Alps”, che prevede la costruzione di 6 alberghi, quasi 500 appartamenti di vacanza, 25 chalet, nonché strutture congressuali, piscina coperta e campo da golf.
Il Glacier Express prosegue lungo la Reuss attraversando un ridente altipiano circondato da un’impressionante corona di montagne prima di inforcare la galleria del Furka per raggiungere il Vallese e percorrere la verdissima valle di Goms con le case e i fienili color marrone scuro in una conca circondata da vette imponenti. Lungo la valle si attraversano tipici villaggi vallesani, dove il tempo sembra essersi fermato. Si giunge quindi a Briga e si percorre la valle del Rodano fino a Visp. Qui la ferrovia si inerpica lungo la Mattertal fino a Zermatt, una delle località di montagna più famose al mondo per la bellezza mistica del Cervino. Questa tratta, progettata con grande lungimiranza a fine Ottocento, dopo la prima ascensione della vetta (1865), e inaugurata nel 1891, permise a Zermatt di trasformarsi da sperduto villaggio di montagna in rinomata meta turistica, cambiando radicalmente la vita e il futuro dei suoi abitanti.

Itinerario
1° giorno Locarno – Lugano (in treno) / Lugano – Tirano (in bus) / Tirano – St. Moritz (con il Bernina Express)
2° giorno Engadina
3° giorno St. Moritz – Zermatt (con il Glacier Express)
4° giorno Zermatt
5° giorno Zermatt – Locarno (in treno)

Canarie – A spasso tra vulcani e deserti

Canarie – La sfida di un architetto contro la speculazione

Un itineario alla scoperta di Lanzarote e Fuerteventura, le isole più vicine alla costa africana. Tra il “Parque Natural de las Dunas” che sembra una continuazione del Sahara in riva al mare e i paesaggi surreali di vaste distese di lava.

Un territorio vulcanico con rare oasi verdeggianti, ricche di palme, intercalate ad aspre distese di lava nera dall’aspetto surreale e inquietante. Ma Lanzarote non sarebbe quello che è se César Manrique, un artista solitario innamorato della sua terra, non avesse utilizzato il suo genio creativo per realizzare le sue opere e valorizzare il paesaggio, dopo essersi battuto per anni contro la speculazione e la cementificazione dell’isola.
Lanzarote, con un’estensione di 60 chilometri e una larghezza di 20, è però famosa soprattutto per le sue immense spiagge di sabbia dorata sferzate dalla brezza del mare, che ogni anno richiamano oltre 2 milioni e mezzo di turisti. Il nostro itinerario propone di scoprire l’isola, con le sue incredibili bellezze naturali, ma è compatibile anche per chi sceglie questa meta come vacanza di mare. Gli amanti del bagno non perdano l’occasione di immergersi nelle acque limpidissime dell’idilliaca “Playa El Papagayo” a sud est dell’isola e della magnifica “Caleta de Famara” a nord ovest.

Una terra vulcanica
Chiunque avrebbe potuto credere, data la violenza dell’evento, che quella fosse la fine del mondo. Il cielo si oscurò tenebrosamente, il terreno si lacerò sprigionando vapori pestilenziali, il fuoco si riversò a fiumi distruggendo villaggi e uccidendo animali”. Così racconta un curato, testimone delle eruzioni che per sei lunghi anni, dal 1730 al 1736, coinvolsero 30 vulcani e ricoprirono di lava anche quelle poche terre fertili che erano state risparmiate dalle colate nei secoli precedenti. Per la popolazione di allora fu una catastrofe e molti abitanti furono costretti a lasciare l’isola. Oggi, però, paradossalmente, quella tragedia si è trasformata in un’incomparabile ricchezza turistica che caratterizza Lanzarote, conferendole un affascinante aspetto lunare.
Epicentro delle eruzioni settecentesche furono le “Montañas del Fuego”: il luogo più spettacolare, oggi Parco Nazionale voluto da César Manrique, dove l’architetto ha costruito un ristorante belvedere da cui si gode un’incredibile vista sui crateri dei vulcani e sul desolato paesaggio lavico che si estende fino al mare. Una stretta e tortuosa stradina (Ruta de los Vulcanes), che si percorre in torpedone, fiancheggia le cime dando la possibilità di ammirare l’interno dei coni vulcanici, attraverso un paesaggio da cui sorgono fantastiche formazioni laviche in gradazioni di nero, grigio, marrone e rosso, schiarite dal colore bianco giallognolo dei licheni. L’immenso campo di lava e vulcani arriva fino al mare, che si scorge all’orizzonte.
Uno dei tratti marini più affascinanti e inconsueti di Lanzarote è proprio quello della costa a sud ovest, che confina con il Parco Nazionale, dove le poderose onde dell’oceano con la loro bianchissima schiuma bianca, infrangendosi contro i nerissimi scogli lavici, offrono un indimenticabile contrasto. Questo paesaggio lo si può ammirare percorrendo in automobile la strada che dalle “Salinas de Janubio” (interessanti saline), attraversando “Los Hervideros”, porta a “El Golfo”, un pittoresco borgo in riva al mare famoso per i suoi ristoranti di pesce. Questo villaggio è noto per due attrazioni: all’entrata un lago vulcanico dall’acqua color smeraldo, che contrasta con la sabbia nera e il blu del mare, e all’uscita una breve ma spettacolare passeggiata ai bordi del Parco Nazionale.
Per chi ama camminare, Canary Trekking (si veda il programma su internet) organizza interessanti passeggiate di tre, quattro ore nelle zone vulcaniche più interessanti: ai confini del Parco Nazionale e a nord attorno al “Vulcano de la Corona” fino al “Risco de Famara”, un altro tratto spettacolare di costa. “È un piacere profondo, ineffabile, camminare in questi campi deserti e spazzati dal vento – ha scritto il premio Nobel José Saramago nei ‘Quaderni di Lanzarote’ – risalire un pendio difficile e guardare dall’alto il paesaggio nero, scorticato…”.
Il vulcano della Corona, che si può facilmente scalare, è, assieme al Timanfaya del Parco Nazionale, il più imponente dell’isola. La sua ultima eruzione, che risale a 5 mila anni fa, ha prodotto un interessante fenomeno: la creazione di un tunnel a più strati lungo 7,5 chilometri. Le gallerie si sono formate sotto la superficie della colata lavica, che a contatto con l’aria si è raffreddata e solidificata, permettendo al magma fuso di continuare a scorrere in profondità, finché l’eruzione non si è esaurita. Una tratta di 2 chilometri di questo singolare tunnel la si può visitare (Cueva de los Verdes) seguendo un percorso sotterraneo reso molto suggestivo da una sapiente illuminazione. In questi anfratti naturali nelle viscere della terra si nascosero per secoli gli abitanti dell’isola perseguitati dalle frequenti incursioni dei pirati marocchini, algerini, francesi e inglesi.
Lo stesso tunnel lo si trova, con il tetto crollato, in prossimità del mare (Jameos del Agua), vicino a un azzurro lago salato, dove vive una specie di granchio albino cieco, unico al mondo. Anche qui il genio artistico di César Manrique ha creato uno splendido mondo sotterraneo di acqua e piante con bar, ristoranti, un auditorium per 600 persone e un piccolo museo sui fenomeni vulcanici.
Nelle vicinanze vale la pena di visitare anche due altre interessanti attrazioni turistiche volute da Manrique: il “Mirador del Rio”, un punto panoramico con magnifica vista sull’isola Graciosa e altre minori, splendidamente integrato con il suo ristorante nell’ambiente roccioso della scogliera, e il “Jardin de Cactus”, con oltre 10 mila esemplari appartenenti a oltre mille diverse varietà. Nella regione merita una sosta anche la graziosa cittadina di Teguise, antica capitale dell’isola.

Le vigne tra la lava
Dopo l’eruzione del Settecento, che coprì i pochi terreni fertili risparmiati in passato dalla lava, la sussistenza dei “mago”, i contadini dell’isola, si fece difficile e molti furono costretti a emigrare. Ma chi rimase, spinto dalla disperazione, scavò nella cenere vulcanica alla ricerca della terra e vi piantò dei ceppi di vite. Fu un’ottima trovata, perché ancora oggi l’aspetto più caratteristico dell’agricoltura dell’isola è quello dei vigneti scavati nella sabbia vulcanica. Ogni pianta è inoltre protetta da un muretto a mezzaluna in pietra lavica, simile a un ricamo, che non ha il compito di bloccare l’aria – sovente il vento è impetuoso – ma di filtrarla. La composizione vulcanica del suolo conferisce al vino un sapore particolare. Al museo del vino nella “Cantina El Grifo”, la più antica dell’isola, si possono osservare alcune vigne piantate oltre due secoli fa scavando un metro e più nel terreno per trovare la terra.
Grazie a questo sistema di coltivazione unico al mondo si è constatato che la ghiaia lavica svolge varie funzioni: protegge la terra sottostante dall’eccessivo calore del sole, impedisce all’acqua incamerata nel terreno di evaporare troppo in fretta, accentua alcune proprietà minerali del suolo. I contadini di Lanzarote, dopo questa scoperta, spargono sui campi coltivati uno strato di cenere lavica, che agisce da spugna, assorbendo la notte l’umidità e trasmettendola durante il giorno alla terra.

Quando le dune si specchiano nell’Oceano
Uno “scheletro d’isola” la definì Miguel de Unamuno, l’intellettuale spagnolo esiliato a Fuerteventura nel 1924 dal dittatore spagnolo Miguel Primo de Rivera. Rimase probabilmente colpito dalla nudità degli spazi desertici delle dune, dalle cime pelate dei coni vulcanici estinti e dal profilo africano del paesaggio. Emblema spettacolare di questa natura è il “Parque Natural de las Dunas de Corralejo”, una propaggine del Sahara in riva al mare, con le sue dune di sabbia bianchissima che si estendono per una decina di chilometri a sud della città fino alle pendici del vulcano “Montaña Roja”. Solo due mostri di cemento della catena Riu interrompono l’incanto di questo paesaggio.
Con i suoi 160 chilometri di lunghezza e 30 di larghezza Fuerteventura è la seconda isola per vastità dell’arcipelago, dopo Tenerife. È celebre soprattutto per le acque turchesi e per le vaste spiagge sferzate dal vento che ne fanno un paradiso per i surfisti. Il mare è solitamente tanto più bello quanto più ci si allontana dai centri abitati, troppo spesso frutto di speculazione edilizia. All’interno dell’isola si trovano ancora alcuni villaggi caratteristici con case basse e bianchissime costruite attorno alla chiesa, quasi sempre chiusa. Ma se si ha la fortuna di trovarne qualcuna aperta, come a La Oliva, Antigua, Betancuria o Pajara si potranno ammirare i soffitti in legno e gli altari barocchi.
Per scoprire l’isola si può facilmente percorrere in un giorno un itinerario che si sviluppa da nord a sud. Si parte da Corralejo per raggiungere La Oliva con la sua graziosa piazzetta caratterizzata dalla “Iglesia de Nuestra Senora de la Candelaria”, dotata di un campanile costruito in pietra vulcanica nera che contrasta con il bianco del villaggio. A poca distanza si può visitare la “Casa de los Coroneles”, dove gli ufficiali stanziati in paese controllavano gli affari dell’isola per conto degli spagnoli. A Tefia, una ventina di chilometri a sud, l’”Ecomuseo de Alcogida” conserva una decina di antiche case restaurate e illustra la vita quotidiana degli isolani di un tempo con le loro attività agricole e artigianali.
Un segno distintivo del paesaggio di quest’isola è costituito dai frequenti mulini a vento, che nei tempi passati macinavano farina da grano, orzo e granturco, oppure servivano per pompare l’acqua dai pozzi. Ad Antigua un museo ne illustra la storia e presenta un’altra importante attività isolana: la produzione di un ottimo formaggio di capra. Pochi chilometri separano Antigua da Betancuria, antica capitale di Fuerteventura, raccolta all’interno di un cratere e attorniata da cime di vulcani estinti. Questo villaggio, senza dubbio il più bello dell’isola, fu fondato all’inizio del Quattrocento da Jean de Béthencourt, che conquistò Fuerteventura per conto della corona spagnola. Una strada molto spettacolare porta dapprima a Pajara e in seguito a La Pared al limite nord ovest della penisola di Jandia, dove si trova il confine tra due tipi di spiaggia, entrambi meravigliosi ma completamente diversi per il colore della sabbia: a sud dorata, a nord nera perché di origine vulcanica. Da La Pared, viaggiando sempre in direzione sud si raggiunge dapprima Costa Calma, una città rivierasca costruita negli anni Sessanta secondo un moderno piano urbanistico e in seguito la caotica Morro Jable. Spingendosi ancora più a sud si entra nel selvaggio “Parque Natural de Jandia”, dove non è giunta la speculazione edilizia. In un’ora e mezza circa di automobile si ritorna a Corralejo. Seguendo le indicazioni e la strada per l’aeroporto, una ventina di chilometri dopo La Lajita, si attraversa una desolata e spettacolare zona denominata “Malpais Grande”, dove la superficie lavica assume forme sorprendenti.

Itinerario
1° giorno Ticino – Arrecife – Femes – Playa Blanca – Corralejo
2° giorno Parque Natural de Las Dunas de Corralejo
3° giorno (235 km) Corralejo – La Oliva – Tefia – Betancuria – Pajara – Morro Jable – Corralejo
4° giorno Playa Blanca – Punta de Papagayo – Salinas De Janubio – El Golfo – Yaiza – La Geria – San Bartolomé – Arrecife – Costa Teguise
5° giorno Parque Nacional de Timanfaya con escursione a piedi
6° giorno Costa Teguise – Guatiza – Jameos del Agua – Cueva De Los Verdes – Malpais de Corona – Orzola – Mirador del Rio – Haría – Teguise – Costa Teguise
7° giorno Escursione a piedi al Volcan de la Corona
8° giorno Lanzarote – Zurigo Ticino

Per saperne di più
Canarie Meridiani, aprile 2014
Baleari e Canarie Meridiani, giugno 2001
Canarie Traveller, febbraio 2003

Canarie – La sfida di un architetto contro la speculazione

Canarie – A spasso tra vulcani e deserti

Come proteggere l’ambiente e le bellezze naturali contro lo sviluppo incontrollato del turismo senza però rinunciare al progresso economico? È stata questa la sfida di César Manrique (1919-1992), intellettuale, architetto, scultore, pittore nella sua amata isola di Lanzarote alle Canarie. Una sfida vinta in parte. Attraversando i villaggi all’interno di Lanzarote si può notare come lo stile architettonico tradizionale di piccole e basse abitazioni bianchissime, seppur interpretato in chiave moderna, sia rimasto la norma. Anche i borghi che si affacciano sul mare sono in gran parte stati risparmiati dalla speculazione edilizia. Questo impegno di Manrique è stato riconosciuto dopo la sua morte dall’Unesco, che ha dichiarato l’intera isola “Riserva della Biosfera”. Certo, la natura ha fatto la sua parte, ma Lanzarote non sarebbe quella che è oggi se Manrique non avesse deciso di realizzare la sua tela artistica direttamente sul territorio del suo paese.
Già durante gli studi di architettura all’Università di Tenerife e in seguito di Belle Arti a Madrid coltivava il sogno di disegnare le sue opere direttamente nel paesaggio. Tanto che sull’isola sono in molti a pensare che ci sia una Lanzarote prima e una dopo Manrique. Lui ha proposto con successo un modello di sviluppo alternativo, convinto che fosse possibile una sintesi tra arte e natura e un’integrazione tra diversi linguaggi artistici: pittura, scultura, disegno e architettura. Il suo genio ha reinventato il paesaggio, interpretando in chiave moderna l’estetica originale dell’isola.
Nato ad Arecife nel 1919, nel ‘37 Manrique si arruolò come nell’esercito franchista, ma nel ’39 ritornò sull’isola e diede fuoco alla sua divisa. Dopo gli studi trascorse parecchi anni a New York, dove divenne pupillo di Nelson Rockefeller ed espose al Museo Guggenheim. Nel ’68 tornò a Lanzarote. Erano gli anni in cui si decideva se lo sviluppo turistico dovesse corrispondere a colate di cemento e grandi alberghi o al rispetto del paesaggio e a costruzioni in armonia con la natura. In questo periodo Manrique organizzò manifestazioni di protesta e fondò il gruppo ambientalista “El Guincho” riuscendo a fare approvare al governo leggi che regolamentavano lo sviluppo urbanistico con norme per stabilire l’altezza, lo stile e il colore degli edifici. Ma non si limitò alla protesta, propose anche realizzazioni turistiche, che oggi sono alcuni tra i luoghi più spettacolari di Lanzarote: lo scenografico ristorante nel Parco Nazionale di Timanfaya che domina i crateri vulcanici, il “Mirador del Rio”, straordinario punto panoramico splendidamente integrato nell’ambiente roccioso della scogliera, il “Jameos del Agua”, un intervento architettonico moderno in un suggestivo mondo sotterraneo, i “Juguetes del Viento”, dei monumenti mobili che accompagnano il turista nella sua visita dell’isola. Senza dimenticare la sua casa, oggi “Fundación César Manrique”, costruita su un terreno coperto di lava e ceneri sfruttando cinque bolle vulcaniche formatesi oltre 200 anni fa.

Perù – Il Machu Picchu gioiello Inca

Perù – Le misteriose Linee di Nazca
Perù – Tutto il fascino dell’Amazzonia
Perù – La dura impronta spagnola sul Perù precolombiano

A 180 chilometri dalla città di Cuzco, considerata l’ombelico del mondo, in fondo alla Valle Sacra e circondata da una magica atmosfera, sorge una montagna interamente scolpita. Visitarla è un’esperienza indimenticabile.

Quando si parla del Perù il pensiero corre subito al Machu Picchu e alla civiltà inca. E in effetti la visita alla Montagna Sacra non delude le aspettative. Nonostante il fortissimo afflusso di turisti – alcune migliaia al giorno – Machu Picchu grazie alla sua magia e alla sua vastità regge bene l’impatto. È situato in fondo a una strettissima valle percorribile solo in treno e chiusa da imponenti montagne con una vegetazione amazzonica. La cima di una di queste vette, che si raggiunge in corriera dal villaggio turistico di Aguas Caliente o dopo un affascinante trekking di quattro giorni che percorre tutta la Valle Sacra, è stata completamente costruita dalla civiltà inca. Quando si arriva su quella cima, nonostante ci si trovi a un’altezza di soli 2400 metri, sembra di avere raggiunto il tetto del mondo. Tutt’attorno, altre montagne più alte, che il mattino sono sovente immerse nella nebbia, conferiscono al luogo un’atmosfera ancora più suggestiva. In basso le acque del Fiume Sacro che scorre sinuoso verso il Rio delle Amazzoni circondano la montagna. I palazzi, i templi e i terrazzamenti sono interconnessi da più di un centinaio di scalinate in pietra a forte pendenza. Colpisce la capacità degli Inca di integrare la natura esistente nei loro progetti architettonici. Attorno a un’enorme roccia già presente sul luogo sono per esempio stati costruiti tre templi (dedicati al sole, alla terra e all’acqua) incorporando questo elemento naturale considerato sacro nell’intervento architettonico dell’uomo. In qualsiasi punto ci si trovi si possono ammirare terrazzamenti spettacolari che sembrano tagliare i pendii scoscesi, trasformando le montagne in giardini pensili. La cittadella, progettata ed edificata a metà del Quattrocento dall’imperatore Pachacuti, non fu mai trovata dagli Spagnoli e fu quindi risparmiata fino alla sua scoperta nel 1911 dalle razzie dei conquistadores e dei tombaroli. A riportare alla luce le rovine ricoperte da una fitta vegetazione fu l’esploratore statunitense Hiram Bingham, convinto di aver scoperto la favolosa città perduta di Vilcabamba, ultimo rifugio degli Inca perseguitati dai conquistadores. Questa tesi venne però smentita in seguito dagli archeologi, nonostante siano tuttora costretti ad affidarsi a supposizioni sulla natura del Machu Picchu, dato che la civiltà inca, così come quelle che la precedettero, non possedeva un sistema di scrittura e quindi non tramandò le sue conoscenze. Ciò nonostante la presenza di numerosi edifici sacri indica che si trattava di un centro cerimoniale, anche se nelle urbanizzazioni inca non esisteva quasi mai una rigida separazione tra il sacro e ciò che apparteneva al mondo del commercio e dell’economia. Di conseguenza questa cittadella è considerata dagli archeologi un classico e ben conservato esempio di centro urbano inca suddiviso in quattro zone: abitativa, agricola, sacra (con particolare attenzione all’astronomia) e artigianale.

Cuzco, ombelico del mondo
Se Machu Picchu è il maggiore gioiello della cultura inca giunto fino a noi, il centro dell’impero incaico distava quasi 200 chilometri – oggi percorribili in treno – e si trovava a Cuzco. Secondo la leggenda, nel XII secolo, Inti, il dio sole, alla ricerca di un territorio per il suo popolo guardò verso la terra e creò Manco Càpac, il primo inca, e Mama Ocllo, sua sorella e consorte. La coppia nacque sull’Isola del Sole nel Lago Titicaca, da dove intrapresero un lungo cammino. Inti consegnò a Manco una verga d’oro chiedendogli di trovare un terreno in cui sarebbe riuscito a conficcarla fino a farla scomparire: quello sarebbe stato l’ombelico del mondo. Nacque così l’affascinante città di Cuzco, indiscussa capitale archeologica del continente sudamericano e oggi una delle città più turistiche della terra.
L’espansione che portò alla creazione dell’impero inca iniziò solo con il nono re Pachacutec, che si rivelò anche un eccellente urbanista, ideando Cuzco a forma di puma: un animale sacro. Fino ad allora gli Inca avevano dominato solo una piccola zona attorno alla capitale. Il successore di Pachacutec, suo figlio Tùpac Yupanqui nella seconda metà del XV secolo conquistò altri territori. Alla sua morte l’impero si estendeva da Quito in Ecuador fino a sud di Santiago del Cile, passando per tutta la costa dell’oceano Pacifico.
Gli Spagnoli, guidati da Francisco Pizarro, conquistarono Cuzco l’8 novembre del 1533 con un manipolo di uomini. Ma dopo avere occupato e saccheggiato la città rivolsero la loro attenzione soprattutto alla nuova capitale Lima e Cuzco entrò in un lento letargo diventando una delle tante città coloniali. Nel corso delle guerre di conquista gli Spagnoli avevano saccheggiato oro e argento e avevano letteralmente smontato gli edifici e utilizzato i raffinati materiali per costruire chiese cattoliche e palazzi. Oggi Cuzco è certamente la città del Perù che testimonia in modo più affascinante i fasti dell’architettura coloniale. Le numerose vie che convergono sulla splendida e pittoresca Plaza de Armas, cuore della Cuzco inca e in seguito fulcro della città dei conquistadores, conducono nei vari quartieri che risalgono all’epoca della conquista spagnola. Ma allo stesso tempo, in città e negli immediati dintorni, rimangono importanti testimonianze dell’impero inca e della curiosa urbanistica a forma di puma, con la piazza centrale situata nella posizione del petto dell’animale sacro e la testa nella collina dove si trova la fortezza di Sacsayhuamán.

Nel cuore della civiltà inca
A pochi passi da Plaza de Armas, nella posizione delle zampe posteriori del puma, si trovava Koricancha, il più ricco tempio dell’impero inca che aveva le pareti completamente rivestite in oro e argento (si parla di 700 lamine d’oro massiccio del peso di 2 chilogrammi ciascuna), dove si ritiene fossero custoditi i corpi mummificati di diversi sovrani inca e dove i sacerdoti sembra studiassero le attività dei corpi celesti. I blocchi dei muri in pietra levigata sono incastrati in maniera così precisa che tra uno e l’altro non si riesce a inserire un foglio di carta. La posizione di questo tempio era stata accuratamente studiata: dal complesso si diramavano dozzine di sentieri sacri diretti verso oltre 300 centri cerimoniali o altri luoghi di culto. Costruito all’inizio del XV secolo, pochi decenni più tardi fu saccheggiato dai conquistadores, in parte distrutto e in seguito trasformato in chiesa cattolica dai domenicani. Oggi il sito si presenta come una strana combinazione di elementi architettonici inca e coloniali, sormontati da un modernissimo tetto protettivo in metallo e vetro.
Su una collina, attualmente nella periferia della città, in corrispondenza della testa del puma, si trova Sacsayhuamán, che fu una fortezza, ma probabilmente anche un centro cerimoniale. Le sue mura corrono a zig zag per 600 metri sull’altipiano e sono considerate uno dei grandi tesori archeologici del Sud America, anche se della struttura originale non rimane che il 20 per cento. Dopo la conquista gli Spagnoli “smontarono” infatti molti muri, convinti che fossero opera del diavolo, e utilizzarono le pietre perfettamente levigate per costruire le loro case a Cuzco, ma lasciarono sul posto i massi più imponenti perché erano troppo pesanti: mediamente 300 tonnellate ciascuno. Ci si chiede come avessero fatto gli Inca a trasportarli fin lì dalle cave distanti diversi chilometri.
Ai margini della città si possono visitare altri luoghi sacri. A Qenqo su un altare ricavato dalla roccia e dominato da una scultura raffigurante un puma si effettuavano supplizi di animali, il cui sangue scorreva verso una grotta sottostante lungo canali scavati nel sasso. A Puka Pukara (Forte Rosso), lungo la strada che porta alla Valle Sacra, venivano probabilmente ospitati i viandanti. Mentre a Tambo Machay, un luogo soprannominato “il Bagno degli Inca”, si può ammirare un tempio dedicato al culto dell’acqua, che sgorga tuttora dalla roccia.

Verso la Valle Sacra
Raggiungiamo la valle dove scorre il Fiume Sacro uscendo a ovest di Cuzco per passare da Maras, una località famosa per la sua miniera di sale. Il luogo è particolarmente suggestivo. In questa ripida vallata gli Inca hanno ricavato dei terrazzamenti, dove hanno scavato numerose vasche collegate tra loro da canali scolpiti nella roccia. L’acqua che sgorga dalla sorgente e finisce nelle vasche è fortemente salata (molto più di quella del mare), perché lungo il suo percorso attraversa una montagna costituita di sale. Una volta raccolta nelle vasche viene lasciata evaporare al sole per ottenere un sale purissimo. Ancora oggi i contadini del vicino villaggio utilizzano queste antiche saline degli Inca, gestendole in cooperativa come attività accessoria.
Da Maras la strada scende ripida verso la Valle Sacra, dove si raggiunge l’interessante sito archeologico di Ollantaytambo. La fortezza-tempio, che si trova in posizione strategica su un’antica via d’accesso alla regione amazzonica, fu l’ultima roccaforte inca a resistere all’esercito spagnolo. Osservandola si resta colpiti dai terrazzamenti in pietra che si stagliano contro il profilo naturale dei dirupi. La zona del tempio, finemente lavorata, si trova in cima alle terrazze. All’epoca della conquista erano in costruzione delle mura che non furono mai ultimate. In alto, sopra l’altra sponda del Fiume Sacro, si trovano altri edifici inca in rovina e una inquietante roccia scolpita, che rappresenta Wiracocha: il dio creatore del Perù osserva i turisti con sguardo particolarmente severo.
A Ollantaytambo termina la strada carrozzabile e parte il treno che porta ad Aguas Callente, da dove si sale in corriera al Machu Picchu. Oltre il villaggio di Ollataytambo la Valle Sacra si restringe fino a coincidere con il corso del tumultuoso fiume immerso in una vegetazione subtropicale, circondato da montagne torreggianti e dominato dalla cima innevata del Salcantay.

Itinerario
1° giorno Ticino-Lima
2° giorno Lima
3° giorno Lima-Isole Ballestas-Nazca
4° giorno Nazca
5° giorno Nazca-Arequipa
6° giorno Arequipa-Canyon del Colca
7° giorno Canyon del Colca-Lago Titicaca (Puno)
8° giorno Lago Titicaca
9° giorno Lago Titicaca-Cuzco
10° giorno Cuzco
11° giorno Cuzco-Urubamba-Aguas Calientes (Machu Picchu)
12° giorno Machu Picchu-Cuzco
13° giorno Cuzco-Puerto Maldonado (Amazzonia)
14° giorno Amazzonia
15° giorno Puerto Maldonado-Lima
16° e 17° giorno Lima-Ticino

Per saperne di più
Perù Lonely Planet, Torino 2010
Perù Rough Guides, Feltrinelli, Milano 2013
Perù National Geographic, Vercelli 2010