Mondo etrusco – La civiltà più colta prima dei Romani

Mondo etrusco – Quattro tappe tra turismo e cultura

L’itinerario si sviluppa tra colline, laghetti e pianure, attraversa romantici villaggi appesi alla cima dei colli a cavallo di tre regioni – Toscana, Umbria e Lazio – che diedero origine ad un grande e misterioso popolo.

Un itinerario a tema alla scoperta del mondo etrusco: la civiltà di più elevato livello che abitò la penisola italica prima dei Romani. Un popolo particolarmente aperto agli influssi delle culture con cui venne in contatto grazie alla sua abilità nella navigazione, alla ricchezza di ferro delle sue montagne, alla fertilità del suo terreno. Commerciò con la Sardegna, con il Medio Oriente, con la Grecia e con l’Europa del nord. Tanto aperto che sulle sue origini nacquero diverse leggende. Si parlò di popolazioni giunte dal Medio Oriente o addirittura dal nord. Gli Etruschi semplicemente seppero cogliere gli influssi di altre civiltà per poi adattarli alle loro necessità.
L’itinerario si sviluppa tra colline, laghetti e pianure, attraversa romantici villaggi appesi alla cima dei colli nei territori della Toscana, dell’Umbria e del Lazio che diedero origine al popolo etrusco. La cosiddetta “Etruria propria”, cioè quella originaria, si estendeva infatti dall’Arno al Tevere ed era delimitata ad ovest dal Tirreno e ad est giungeva fino alle attuali Perugia, Orvieto e Viterbo. Nei periodi di maggior espansione e prima di essere romanizzato il popolo etrusco giunse fino alla costa adriatica, alla Padania e alla Campania.
Il nostro percorso, di circa 800 chilometri, parte da Firenze, dove si visita uno dei principali musei di arte etrusca, per concludersi a Cerveteri. In queste due città si possono infatti visitare i due principali musei di arte etrusca. I luoghi ricchi di testimonianze di questo popolo nella fascia fra Firenze e Roma sono moltissimi. Ne abbiamo scelti quattro particolarmente “spettacolari” dal profilo turistico e rappresentativi della cultura etrusca: Populonia, importante per le sue attività siderurgiche e unica città in riva al mare, che si affaccia sullo splendido golfo di Baratti; il triangolo dei romantici villaggi di Sovana, Sorano e Pitigliano scavati nelle impressionanti colline di tufo, una pietra particolarmente modellabile; Tarquinia per le sue incredibili pitture giunte a noi in ottimo stato di conservazione; e Cerveteri, forse il luogo più suggestivo del viaggio, dove percorrendo la città dei morti si ha la sensazione che il tempo si sia fermato.
Si consiglia di visitare questi straordinari siti archeologici accompagnati da una guida per meglio coglierne il significato profondo, sebbene tutte queste testimonianze siano giunte fino a noi in buono stato, così da poterne facilmente capire la funzionalità. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare non si tratta quindi di un viaggio per specialisti archeologi. Nei musei, soprattutto di Firenze e Roma ma anche di Tarquinia e Cerveteri, si possono ammirare soprattutto i corredi funerari scoperti nei sepolcri non derubati dai tombaroli di tutte le epoche, a partire da quella romana. Sì, corredi funerari, perché della civiltà etrusca ci rimangono soprattutto le testimonianze del culto dei morti. E’ infatti attraverso le tombe e gli oggetti ritrovati al loro interno che si è riusciti a studiare questo popolo. I defunti nella loro vita ultraterrena andavano infatti ad “abitare” case scavate nella roccia che riproducevano le abitazioni, molto più fragili perché costruite in legno e argilla, utilizzate nella vita terrena. Anche il corredo funebre era rappresentato da oggetti di uso giornaliero. I soggetti che appaiono nelle tombe affrescate (soprattutto a Tarquinia) e quelli incisi sulle ceramiche, nonché la funzionalità degli oggetti ritrovati (arredi, statue, ex voto) hanno permesso agli studiosi di capire come gli Etruschi abitavano, si vestivano, quali sport praticavano, quale musica ascoltavano, quali erano le loro credenze religiose. Ne esce l’immagine di un popolo molto evoluto, dove per esempio la donna, a differenza di quanto avveniva in Grecia e più tardi a Roma, occupava un posto importante nella famiglia e nella società.
L’arte per l’arte – spiegano Antonio Giuliano e Giancarlo Buzzi – agli Etruschi non interessava: le opere obbedivano a scopi funzionali”, a differenza di quanto avveniva nella cultura greca. Il periodo di maggior maturità artistica, spiegano i due studiosi, viene raggiunto nel VI secolo a.C. (a questo periodo risalgono gli affreschi di Tarquinia) quando gli Etruschi “fanno proprio il gusto dei Greci… ma lo correggono con spunti veristici, con una maggiore concretezza e immediatezza delle figurazioni”.

La cronologia
Prima di Gesù Cristo dieci secoli densi di storia e grandi scoperte
La cronologia dello sviluppo della civiltà etrusca va dal IX al I secolo prima della nascita di Cristo.
Perché nella regione che si estende tra Firenze e Roma e si affaccia sul Tirreno si è sviluppato il popolo etrusco? Le montagne dell’Etruria erano ricche soprattutto di ferro, ma anche di rame, stagno, piombo, zinco, argento e persino di sale. Come spiega Giovannangelo Camporeale, professore di etruscologia all’Università di Firenze e autore di numerosi saggi, si può equiparare, per la ricchezza della regione, l’importanza per quell’epoca della presenza di giacimenti di ferro a quella attuale di petrolio. Le manifatture etrusche raggiunsero un elevato livello. Gli oggetti in metallo venivano esportati in tutto il Mediterraneo e nel nord Europa, assieme a quelli in bucchero: una terra cotta che riscaldata in assenza di ossigeno e debitamente laccata assomigliava enormemente al bronzo, ma costava molto meno.
Il suolo, molto fertile, era adatto alla coltivazione di cereali (si parlerà più tardi dell’Etruria come del granaio di Roma), di vite (il vino etrusco veniva esportato) e di olivi. Le zone interne erano inoltre ricche di boschi, il cui legname serviva a rifornire i forni metallurgici e i cantieri navali. Gli Etruschi erano infatti abili navigatori e trasportavano nei paesi che si affacciavano sul Mediterraneo i loro prodotti e le loro ricchezze. Erano però anche molto aperti, come abbiamo visto, agli scambi culturali.
Sia attorno alle origini del popolo etrusco che della sua lingua, la tradizione ha costruito un alone di mistero. In effetti sono scarsissimi i documenti storici scritti giunti fino a noi, salvo qualche iscrizione su tombe o su oggetti che ha permesso di stabilire come l’alfabeto fosse molto simile a quello greco. “Strutturalmente però la lingua non è inseribile in uno dei gruppi linguistici che conosciamo” (Antonio Giuliano e Giancarlo Buzzi). Data la scarsità di documenti scritti, molto di quanto sappiano su questo popolo lo desumiamo dai ritrovamenti archeologici (tombe e corredi funebri) e da testimonianze latine e greche dei periodi in cui la civiltà tirrenica era però già in fase di decadenza.
Anche per quanto concerne le origini degli Etruschi si è voluto creare un alone di mistero immaginando migrazioni di interi popoli dal Medio oriente o dal nord Europa. “Non è il caso di pensare – osservano Antonio Giuliano e Giancarlo Buzzi – a una civiltà venuta dal di fuori che si impose, soppiantandole, a civiltà locali, ma a una tradizione culturale locale ben evidente e solida che si aprì a influssi esterni, a diverse e molteplici sollecitazioni”.
Il territorio era organizzato in città-stato simili a quelle greche, i cui vertici si incontravano una volta all’anno in un luogo non ancora identificato.
Dopo un periodo iniziale in cui “è ragionevole supporre fosse emerso un ceto aristocratico, durante il VII secolo a.C. si affermò un nuovo ceto di imprenditori e di trafficanti, che accumulava ricchezze e finiva per costituire un più vasto gruppo gentilizio, nelle cui mani si concentrava il potere”. Tra la fine del VII secolo e il principio del VI si afferma la città (alcune raggiunsero, secondo gli studiosi, alcune decina di migliaia di abitanti). “Artigiani, mercanti, agricoltori formavano un nuovo ceto, estremamente dinamico, la cui ricchezza non era più basata sulla proprietà immobiliare, ma sulla produzione e sullo scambio”. Pertanto la città è una conquista innanzitutto sociale.
Un’altra tappa fondamentale nel percorso storico del popolo etrusco è rappresentata dalla battaglia di Cuma del 474 a.C., quando i Siracusani vincono gli Etruschi e diventano padroni del Tirreno. Le metropoli costiere, a causa del declino della potenza marinara, si rivolgono allora verso l’interno, da una parte rivitalizzando le città-stato agricole, ma dall’altra creando fonti di conflitto.
Ci stiamo avviando verso il declino della civiltà etrusca. Un secolo più tardi inizia il lento processo di romanizzazione. La prima città-stato romanizzata è Veio nel 396 a.C. Seguiranno lentamente le altre. In alcuni casi il processo avverrà in maniera pacifica, in altri meno.

L’itinerario

1° giorno
Locarno – Firenze (425 km)

2° giorno
Museo Archeologico di Firenze

3° giorno
Firenze – Populonia (169 km)
Populonia – Valpiana (40 km)

4° giorno
Valpiana – Sovana (115 km)

5° giorno
Sovana – Tarquinia (73 km)
Tarquinia – Bracciano (68 km)

6° giorno
Bracciano – Cerveteri (18 km)
Cerveteri – Firenze (314 km)

7° giorno
Firenze – Locarno (425 km)

Mondo etrusco – Quattro tappe tra turismo e cultura

Mondo etrusco – La civiltà più colta prima dei romani

Il nostro percorso, di circa 800 chilometri, parte da Firenze per concludersi a Cerveteri. I luoghi ricchi di testimonianze di questo popolo nella fascia fra Roma e Toscana sono moltissimi.

Il nostro itinerario inizia dal Museo archeologico nazionale di Firenze, dove sono raccolti alcuni capolavori di arte etrusca e di arte greca rinvenuti in tombe etrusche. Di particolare pregio sono le statue in bronzo: accanto a una serie di bronzetti votivi troneggiano la “Chimera” (fine V-inizio IV secolo a.C.) proveniente da Arezzo e “L’Arringatore” (II secolo a.C.) ritrovato nella zona di Perugia. La “Chimera”, scoperta nel 1553, per Cosimo I de’ Medici divenne il simbolo del potere mediceo rappresentando le fiere selvagge che il duca aveva domato per costituire il suo regno. “L’Arringatore”, un personaggio maschile nel pieno della maturità caratterizzato da un volto severo e nello stesso tempo grave e ispirato, arredò per lungo tempo la camera da letto di Cosimo I.

La città del ferro
Solitamente le altre città costiere etrusche sorgevano a una decina di chilometri dal mare. Populonia, che gestiva gli enormi giacimenti di ferro dell’isola d’Elba, costituisce un’eccezione e la sua acropoli, di cui rimangono solo le fondamenta di alcuni edifici sacri, era situata su uno sperone dal quale si domina il mare: da una parte il meraviglioso golfo di Baratti e la costa, dall’altra l’Elba. Accanto all’acropoli oggi sorge un grazioso borgo medievale.
Il suggestivo golfo di Baratti costituisce un porto naturale dove attraccavano le navi provenienti dall’isola e cariche di pietre contenenti ferro. Poco distante sorgeva il centro siderurgico, di cui si possono osservare ancora oggi le fondamenta seguendo la “Via del ferro”. La necropoli sorgeva a pochi metri dal mare nel golfo di Baratti, accanto agli impianti siderurgici e di fronte all’acropoli (la città dei morti, nella civiltà etrusca, era sempre separata da quella dei vivi). Nel corso dei secoli fu sepolta dalle scorie di ferro prodotte in grande quantità dapprima dagli Etruschi e in seguito dai Romani. Gli archeologi dovettero scavare sotto questa immensa montagna nera per trovare sepolcri etruschi in ottimo stato di conservazione e molto interessanti, perché in uno spazio molto delimitato si presentano nelle varie tipologie: a tumulo, a edicola, a sarcofago, a camera.
Il luogo più suggestivo di Populonia è certamente l’itinerario che conduce alla visita delle cave di pietra etrusche e della necropoli delle Grotte, “quasi senza confronto nel mondo etrusco” (guida archeologica del Touring), che unisce all’eccezionalità dei monumenti etruschi il fascino del paesaggio immerso nel verde della macchia mediterranea con sullo sfondo il mare. Il sentiero che sale, illuminato dal sole, è scintillante per la presenza di residui metalliferi nella sabbia. Giunti in cima alla collina si incontrano dapprima le cave di arenaria, una pietra costituita da sabbia cementificata, molto diffusa nella zona e ampiamente utilizzata per costruire monumenti funebri. Facilmente modellabile, veniva utilizzata per costruire muri a secco giunti fino a noi in perfetto stato nonostante siano stati costruiti oltre 2500 anni fa. Di fronte alla cava la necropoli delle Grotte, interamente scavata nella parete di arenaria, propone una serie di tombe a camera che datano del IV e III secolo a.C. Lasciato quel luogo suggestivo, il sentiero che scende verso il mare è cosparso da altri sepolcri scavati nella roccia.

L’Etruria del tufo
Questo triangolo di Maremma tufacea è di una bellezza speciale. I villaggi di Pitigliano e di Sorana osservati da lontano sembrano scaturire dalla roccia vulcanica, assumono le forme e i colori del tufo in perfetta armonia con la splendida natura circostante. Affascinanti anche le viuzze dei loro borghi medievali, ma la perla del magico triangolo è forse costituita da Sovana per la suggestione arcaica del minuscolo borgo distribuito tra la Rocca degli Aldobrandeschi (centro di potere della potente famiglia feudale) e il bellissimo duomo romanico, per l’importanza e per la monumentalità delle straordinarie necropoli etrusche. Dal IV secolo a.C. l’aristocrazia agraria dominante a Sovana esibisce la propria ricchezza realizzando costosissimi e monumentali sepolcri, suggestivamente scavati nei pendii tufacei delle tre valli che circondano l’abitato con una notevole varietà di tipi architettonici. Il monumento più imponente è certamente la tomba Ildebranda realizzata nel III secolo a.C. Completamente scavata nella roccia di tufo, ricorda in maniera impressionante gli splendidi monumenti di Petra in Giordania.
I tre villaggi del magico triangolo sono collegati tra loro da strade etrusche, le cosiddette vie cave. Scavate nella roccia, sono profondamente incassate tra alte pareti tufacee e costituiscono il segno di percorsi antichi che si diramavano in tutte le direzioni dagli antichi centri abitati. Percorrendole avete l’impressione di immergervi nella notte dei tempi. L’emozione è grandissima anche per la lontana luce che le illumina, che conferisce a questi percorsi un significato sacro.

Gli affreschi di Tarquinia
La pietra su cui sorge Tarquinia è molto friabile. Non permette quindi grandi interventi scultorei. Fu probabilmente questa la ragione principale alla base dello sviluppo della pittura funeraria, che non rappresenta solo l’episodio pittorico più importante prima dell’epoca imperiale romana, ma anche una fonte preziosa di informazione sui “valori” all’insegna dei quali viveva la società etrusca, sul costume e sulle credenze soprattutto della classe aristocratica. Gli affreschi rappresentano infatti scene di vita: banchetti funerari e non, allietati da danzatori e suonatori di cetra e di flauto, giochi funebri (alcuni molto truci), riti religiosi, scene di caccia e di gioco, scene erotiche e molto altro ancora.
Delle circa 200 tombe affrescate se ne possono visitare una ventina, quasi tutte in ottimo stato di conservazione. I sepolcri tarquinesi presentano di solito un vano rettangolare a cui si accede con un corridoio a gradini scavato nella parete del colle. Il visitatore si ferma davanti a una porta in vetro che blocca l’ingresso al locale, ma che permette un’ottima visuale sulle pitture realizzate con la tecnica dell’affresco: su una parete intonacata l’artista segnava con una punta i contorni delle figure, poi applicava i colori minerali e vegetali sciolti in acqua. Le immagini sono di due tipi: decorazioni semplici simboliche e allegoriche sui soffitti e sugli spazi frontali delle pareti; decorazioni complesse, rappresentanti varie scene di vita, in genere a metà dell’altezza delle pareti.
I corredi funebri trovati nelle tombe di Tarquinia sono presentati in modo didattico nel rinnovato museo nazionale ospitato dal quattrocentesco Palazzo Vitelleschi. I dipinti di alcune tombe che erano minacciati dalle intemperie sono stati strappati e riproposti al museo, dove si possono ammirare non solo opere etrusche, ma anche preziosi oggetti, soprattutto vasi, provenienti dalla Grecia ma di proprietà dei defunti.

Una vera città dei morti
Quella di Cerveteri è la visita più suggestiva di tutto il viaggio. Per due ore, tanto dura la visita al sito archeologico, camminate nel silenzio in una vera città dei morti. Il tempo sembra essersi fermato. Con un po’ di capacità di astrazione potete immaginarvi, come fa lo scrittore Giorgio Bassani nel romanzo “Il giardino dei Finzi-Contini”, di tornare ai tempi in cui gli etruschi visitavano questo luogo così come nei nostri paesi “il cancello del camposanto era il termine obbligato di ogni passeggiata serale”. “Varcata la soglia del cimitero – scrive Bassani – dove ognuno di loro possedeva una seconda casa, e dentro questa il giaciglio già pronto su cui, tra poco, sarebbe stato coricato accanto ai padri, l’eternità non doveva più sembrare un’illusione, una favola, una promessa da sacerdoti. Il futuro avrebbe stravolto il mondo a suo piacere. Lì, tuttavia, nel breve recinto sacro ai morti famigliari; nel cuore di quelle tombe dove, insieme coi morti, si provvedeva a far scendere tutto ciò che rendeva bella e desiderabile la vita; in quell’angolo di mondo difeso, riparato: almeno lì (e il loro pensiero, la loro pazzia, aleggiava ancora, dopo venticinque secoli, attorno ai tumuli conici, ricoperti d’erbe selvagge), almeno lì nulla sarebbe mai cambiato”.
Camminando lungo il percorso trovate sepolcri di ogni epoca etrusca e di ogni genere. A seconda dello sviluppo e delle fortune della città le tombe diventano più imponenti. Con l’affacciarsi delle nuove classi sociali compaiono le cosiddette tombe a dado, soprannominate dalle guide locali le casette a schiera. In questa città dei morti, dove ognuno si costruiva la sua casa per l’aldilà a seconda delle sue possibilità e il più simile possibile a quella abitata durante la vita terrena, potete leggere e capire la vita di questo popolo straordinario. Al museo di Cerveteri, che merita una visita, sono conservati gli arredi funebri di molte tombe.
Seguiamo ancora Giorgio Bassani: “Penetrammo nell’interno della tomba più importante, quella che era stata della nobile famiglia Matuta: una bassa sala sotterranea che accoglie una ventina di letti funebri disposti dentro altrettante nicchie delle pareti di tufo, e adorna fittamente di stucchi policromi raffiguranti i cari, fidati oggetti della vita di tutti i giorni: zappe, funi, accette, forbici, vanghe, coltelli, archi, frecce, perfino cani da caccia e volatili di palude”.

L’itinerario

1° giorno
Locarno – Firenze (425 km)

2° giorno
Museo Archeologico di Firenze

3° giorno
Firenze – Populonia (169 km)
Populonia – Valpiana (40 km)

4° giorno
Valpiana – Sovana (115 km)

5° giorno
Sovana – Tarquinia (73 km)
Tarquinia – Bracciano (68 km)

6° giorno
Bracciano – Cerveteri (18 km)
Cerveteri – Firenze (314 km)

7° giorno
Firenze – Locarno (425 km)

Oman – Nel sultanato dove la natura regna sempre sovrana

Oman – Quattro giorni tra mare, deserto e montagne

Splendide spiagge di finissima sabbia bianca, un mare superbo, forti e castelli, i baluardi delle oasi, e nel deserto dune indimenticabili.

Quando dici a qualcuno che vai in Oman, o non conosce il paese, oppure nel migliore dei casi pensa che sia il luogo ideale per trascorrere una settimana al caldo durante l’inverno. E’ vero che questo paese ha splendide spiagge di sabbia bianca finissima e un mare superbo con fondali che sono il sogno di ogni sub, ma offre molto altro ancora. Potete scoprire forti e castelli situati in splendide oasi, moschee antiche e moderne, grotte, valli, montagne inserite in paesaggi lunari e le indimenticabili dune di uno dei deserti più impervi al mondo. Le infrastrutture alberghiere sono di ottimo livello, la gente è mite, cordiale e tollerante nei confronti dei costumi e delle tradizioni straniere, pur senza essere giustamente disposta a sacrificare la propria identità nazionale. “Sono giunto alla conclusione di respingere l’idea che il patrimonio culturale debba avere una posizione subordinata nel mondo moderno. Il nostro patrimonio nazionale è ricco e necessita unicamente di essere leggermente ritoccato per adattarlo alla realtà del giorno d’oggi in modo bilanciato, così che un elemento non prevalga sull’altro”. Sono parole del sultano Qabus, un principe illuminato che in 38 anni di governo ha cambiato i destini del suo paese, fino al 1970 ancora immerso nel Medioevo. Il monarca è stimato a livello internazionale e dal suo popolo. Il suo paese è tanto pulito, ordinato e sicuro che viene considerato la Svizzera della Penisola Arabica. L’Oman sta vivendo un rapido sviluppo economico, ma tutte le iniziative devono rispettare principi ecologici. Questi principi vengono applicati con tale scrupolo che l’Oman è stato il primo stato arabo ad essere premiato dall’Unesco “per gli sforzi internazionali compiuti in nome dell’ambiente”. “Il cambiamento è necessario – ha spiegato il sultano in un’intervista a “Repubblica” (27 maggio 1994). La vita dei miei sudditi aveva bisogno di essere semplificata e resa più confortevole, ma era importante non perdere il contatto con il passato, la cultura e la civiltà propria di queste terre e di questa gente. Così, per esempio, ci siamo preoccupati che le nuove costruzioni seguissero un criterio unico per dimensioni e colori delle facciate, in armonia con il clima e la tradizione”. Percorrendo l’Oman non troverete infatti quella pacchiana rincorsa al modo di vivere occidentale che incontrate invece in altri paesi del Golfo.
Circa l’80 per cento degli omaniti si riconosce nel gruppo musulmano degli ibaditi, che professa un islamismo rigoroso e severo. La legge stabilisce comunque la libertà di pensiero e di credo religioso. Il popolo, d’altra parte, è tendenzialmente pragmatico nell’interpretazione della religione, tollerante nei confronti di altri movimenti islamici e permette agli stranieri di seguire il proprio culto.

Muscat
Una città fedele a sé stessa, moderna ma ancora ‘antica’
La guida che mi aspetta all’aeroporto di Muscat, la capitale dell’Oman, indossa la tradizionale veste bianca degli uomini omaniti, la cosiddetta dishdasha. Mentre il taxi con aria condizionata sfreccia sull’autostrada a sei corsie verso il centro della capitale passiamo davanti ai lucenti palazzi della politica e della finanza del quartiere residenziale di Riwi. E’ la capitale del nuovo corso, moderna, efficiente, pulita come una città svizzera. Ma è a Mutrah, il quartiere del porto, che si incontra lo spirito antico della civiltà araba. Sulla splendida insenatura naturale, ricavata in un anfiteatro di rocce scure, si affacciano i due forti di Jalali e Mirani, che ricordano il periodo dell’occupazione portoghese durata 150 anni (dall’inizio del 1500 alla metà del 1600). E’ qui che potete immergervi nella piacevole atmosfera caotica del tradizionale mercato arabo (suk). Tra le solite botteghe di souvenir per turisti, tessuti, ferramenta, oro e argento trovate anche alcuni negozi di antiquariato. La contrattazione è d’obbligo, ma gli sconti concessi sono minimi.
Il mattino, non molto distante dal suk, non mancate di visitare l’animatissimo mercato del pesce, dove potrete ammirare anche alcuni splendidi esemplari di squali. Vi accorgerete allora che questa parte della città, nonostante sia la principale zona portuale della capitale, abbia più l’aspetto di un villaggio di pescatori. Ed è proprio questo il fascino di Muscat, di essere rimasta fedele a se stessa senza occidentalizzarsi.
Ma il cuore della città è costituito dal minuscolo quartiere cinto da mura e munito di porte che dà il nome alla capitale. Oggi ospita il palazzo del sultano, altri edifici governativi e alcuni musei, tra cui il modernissimo e didattico Bait al Baranda, che illustra la storia della città. Molto interessante l’ampia parte dedicata alla cosiddetta “rinascita”, cioè il periodo degli ultimi 38 anni del paese sotto la guida illuminata dal sultano Qabus.
Non si può lasciare Muscat senza aver visitato (aperta per i turisti dalle 9 alle 11) la nuovissima e imponente Grand Mosque, donata alla nazione dal sultano per il trentesimo anniversario del suo regno. E’ uno splendido esempio di architettura islamica moderna. I suoi interni sbalordiscono per la ricchezza delle decorazioni ispirate dalle varie regioni di diffusione della religione musulmana. Il tappeto persiano della sala principale è il più grande del mondo (70 metri per 60) ed è stato realizzato in quattro anni in Iran da 600 tessitrici.

Oman – Quattro giorni tra mare, deserto e montagne

Oman – Nel sultanato dove la natura regna sempre sovrana

Il paesaggio lunare dopo Muscat, le suggestive spiagge che portano a Sur, strade a sei corsie, qui il progresso corre più veloce delle guide turistiche.

La prima tappa prevede di raggiungere Ras Al Jinz, punto più orientale della Penisola Arabica e luogo di cova di diverse specie di tartarughe.
Da Muscat si attraversa un paesaggio lunare, con montagne rocciose tendenti al rosso, sulle quali non cresce nulla. D’altra parte qui non piove mai! La strada è scorrevole e si raggiunge velocemente la costa a Qurayyat, da dove un’autostrada a sei corsie porta fino a Sur costeggiando per chilometri e chilometri meravigliose spiagge di sabbia bianchissima. Mi sorprende notare che il percorso prevede addirittura l’illuminazione durante la notte. E pensare che secondo l’edizione 2005 della mia guida turistica Lonely Planet quest’itinerario sarebbe da percorrere in fuoristrada, perché le strade non sono asfaltate e attraversano fiumi… Segno che in questo paese il progresso è più veloce degli aggiornamenti delle guide.
Giunti a Tiwi si lascia l’autostrada per scendere nel villaggio e posteggiare l’automobile proprio sotto il viadotto autostradale. Da lì inizia una splendida passeggiata lungo il Wadi Shab, considerata una delle vallate più attrattive del paese. In arabo il suo nome significa “Gola fra le rupi”. In effetti il percorso si inoltra in un canyon impressionante, dove scorre un ruscello che crea affascinanti pozze verdazzurro. Il terribile ciclone Gonu del giugno 2007 ha lasciato tracce della sua furia devastando alcune piantagioni a terrazza, ma la natura sembra autosufficiente per riparare i danni. Ci inoltriamo tra quelle rocce altissime che si colorano sempre più di rosso durante il tramonto. Ragazzini sguazzano nelle pozze. Le palme che hanno resistito al ciclone danno un carattere particolarmente affascinante al luogo. La vallata è lunghissima. Ne percorriamo solo una piccola parte, prima di riprendere il nostro itinerario verso Ras Al Hadd, dove esiste un piccolo e modesto ma pulito albergo non distante dal luogo di cova delle tartarughe di mare.

La cova delle tartarughe
Alle 21.30 bisogna presentarsi al nuovissimo Centro di ricerca scientifica sulle tartarughe perfettamente organizzato. Ci troviamo in una zona protetta inserita nel patrimonio mondiale dell’Unesco. Il progetto prevede lo studio delle abitudini migratorie di questo animale in via di estinzione. I visitatori vengono divisi in piccoli gruppi di 10-15 persone, condotti da tre guide. Una rimane con il gruppo, le altre due, dotate di torce con luci speciali, vanno alla ricerca degli animali che stanno covando le uova a pochi metri dalle onde del mare. Abbiamo fortuna: una tartaruga è stata individuata. Ci spiegano di avvicinarci piano e in silenzio. La guida illumina con una luce rossa l’animale dalle dimensioni di un metro circa. Ha lentamente scavato un ampio solco nella sabbia dove sta depositando uova grandi come una pallina da ping pong. Finita la cova inizia l’enorme fatica di coprire con la sabbia quel “tesoro”. Con le zampe anteriori l’animale fa schizzare sabbia per un paio di metri. Questa operazione dura fino ad un’ora. Ma nel frattempo una delle nostre guide ha scovato un’altra tartaruga, verso la quale ci spostiamo lentamente per non spaventarla. La notte è stellata e sembra di poter toccare il cielo con un dito. Le onde del mare scandiscono il tempo. E’ un’esperienza indimenticabile!

Un tuffo nel passato
Il mattino seguente si ritorna verso Sur, che ci ricorda la forte vocazione marinara del paese. Questa città con il suo antico porto svolse infatti storicamente un ruolo importante nello sviluppo dei commerci tra l’Oman, l’Africa orientale e l’India. Per secoli fu uno dei principali cantieri navali della regione e ancora oggi rimane un’importante sede per la costruzione dei dhow, le tipiche imbarcazioni preparate direttamente sulla spiaggia. La costruzione di una di queste imbarcazioni in legno può richiedere più di un anno, ma la vita dello scafo può durare anche cento anni, grazie al fatto che sono costruite a incastro e quindi senza chiodi. Osservando gli operai dei cantieri mentre piallano a mano le assi di legno si riconosce subito una maestria che viene da secoli di esperienza.
Nel museo locale sono esposte immagini e modellini di molte imbarcazioni storiche. Mi ha colpito anche una serie di fotografie che pensavo fossero d’inizio secolo. Risalgono invece agli anni Sessanta e documentano bene come l’Oman fosse davvero fermo al Medioevo quando l’attuale sultano Qabus salì al potere rovesciando il regno del padre che si opponeva a qualsiasi cambiamento.
Lasciamo il mare per inoltrarci nell’entroterra in direzione del deserto. Dopo circa un’ora di automobile lasciamo la strada principale per risalire il Wadi Bani Kalid rinomato per la sua bellezza. La strada sale a zig zag tra i palmeti offrendo spettacolari scorci sulle montagne circostanti. Giunti al termine della carrozzabile, in prossimità di un laghetto, si parcheggia e si prosegue a piedi. A prenderci in consegna è un ragazzino che indossa la maglia di Kaka, il famoso calciatore del Milan (qui vanno matti per il calcio!). Da buon milanista non potevo che affidarmi a lui per proseguire a piedi verso la sorgente del fiume. Si cammina per una mezz’oretta tra altissime pareti di roccia attraversando pozze con l’acqua verde come quella della Verzasca. Ragazzini e turisti fanno il bagno. Maledico di aver lasciato il costume in automobile. A un certo punto si intravede un pertugio nella roccia, nel quale ci infiliamo. Kaka mi illumina il percorso con il suo telefonino portatile, finché giungiamo in un luogo caldo, buio e basso: siamo alla sorgente. Solo grazie al flash della mia macchina fotografica riesco a intravedere l’acqua che sgorga dalla montagna. Se soffrite di claustrofobia non entrate là dentro!

Il buio nel deserto
Un’ora circa di automobile ci separa dall’inizio del Rub al-Khali, denominato anche il “Quarto vuoto” perché occupa circa un quarto della Penisola Arabica. Questo deserto, incuneato tra gli Emirati, l’Arabia Saudita, lo Yemen e l’Oman, è considerato uno dei luoghi più desolati e caldi del pianeta. Raggiungiamo la regione del Wahiba Sands, cioè delle sabbie orientali, zona abituale di insediamento dei beduini del deserto, che offre una delle maggiori aree al mondo di dune sabbiose. Un campo con le tende tipiche dei beduini ricoperte di foglie di palma ci attende per la notte. Le dune sono alte e hanno un colore caldo. Il silenzio e la bellezza del paesaggio ispirano la meditazione. Passeggio a piedi nudi assieme alla guida perdendomi tra le dune, finché vedo le tracce di un fuoristrada. Mi spiega che i beduini, all’ora del tramonto, accompagnano i turisti in quei luoghi guidando spericolatamente su e giù per le dune. Desidero esserci anch’io. Torniamo al campo in tempo per provare anche quest’esperienza. Il fuoristrada su cui mi invitano a salire è alquanto sgangherato, ma quando viaggia sembra un’ottovolante. La signora tedesca che siede vicino a me grida divertita dalla paura. Raggiungiamo la collina più alta per contemplare il tramonto e prima dell’avventuroso rientro al campo torna il silenzio per contemplare il sole che scende e le nostre ombre che si allungano sempre più sulla sabbia.
Diventa subito notte e il cielo si popola di stelle. Avevo sempre sentito parlare del cielo del deserto, ma è ancora più straordinario di quanto immaginassi. Chi vuole può dormire all’aperto su letti in metallo sistemati fuori dalla tenda per continuare a contemplare il cielo, ma fa freddo ed io mi riparo al coperto.

Il mercato del bestiame
E’ venerdì mattina, giorno del mercato del bestiame a Nizwa, una cittadina situata al nord ai piedi delle montagne più imponenti del paese. Partiamo di buon’ora perché la fiera si conclude alle 11. In due ore circa di strade ampie e veloci arriviamo nella “Perla dell’Islam”, così veniva definita storicamente l’ultraconservatrice Nizwa, sede di faziosi imam fino agli anni Cinquanta e oggi seconda meta turistica dell’Oman.
Quando arriviamo il mercato del bestiame è in pieno svolgimento. Di fatto, però si tratta di un’importante asta. Gli animali sono “parcheggiati” al di fuori di una sorta di pista circolare, dove gli addetti sfilano trascinando un animale legato a una corda. Gli spettatori-acquirenti, situati ai lati, formulano le loro proposte. Terminato il giro, dopo qualche ulteriore contrattazione, l’animale viene assegnato al migliore offerente oppure viene ritirato dall’asta.
La cittadina è famosa anche per il suo forte rotondo del XVII secolo, dal quale si gode una meravigliosa vista sul villaggio attorniato da un immenso palmeto (gli ottimi datteri si possono comprare al souk sottostante), circondato a sua volta da una corona di maestose montagne.

Alla scoperta dei Monti Hajar
Da Nizwa si raggiungono in breve tempo Al-Hamra, uno dei villaggi più antichi del paese famoso per le sue case in mattoni di fango, e Bahla, rinomata per il suo forte elencato nel patrimonio mondiale dell’Unesco e attualmente in via di restauro.
Ci troviamo nel cuore dei Monti Hajar. Da qui si parte per le escursioni più spettacolari alla scoperta di queste montagne dai colori cangianti a seconda delle ore del giorno e così diverse da quelle europee. Una delle gite più gettonate, da effettuarsi in fuoristrada, è quella del Jebel Shams (Montagna del Sole) il monte più alto dell’Oman (3075 metri). “Per apprezzare appieno la sua sinistra bellezza – consiglia la guida Lonely Planet – potete trascorrere una notte sull’orlo del canyon nel nuovissimo Jebel Shams Hotel”. Il giorno seguente, sempre in fuoristrada, da Al-Hamra potete attraversare i monti Hajar passando per il Wadi Bani Awf. Si tratta di una strada spettacolare, che offre scorci suggestivi. Dopo un primo tratto di strada asfaltata in salita, si affronta una lunga discesa lungo una pista attraversando il delizioso villaggio di Hatt e raggiungendo il Wadi Bani Awf. La pista raggiunge la strada asfaltata nei pressi di Ar Rustaq, un’altra incantevole oasi, immersa tra i palmeti e le montagne, con un forte del XVII secolo. Sulla strada per Muskat non mancate di visitare anche la pittoresca cittadina di Nakhal con uno dei più bei forti dell’Oman.

Sulla lunga via dell’incenso ecco le lacrime degli dei
La regione del Dhofar dista mille chilometri da Muscat ed è facilmente raggiungibile in aereo. Dal finestrino osservo l’interminabile deserto roccioso che separa la capitale da Salalah, una città subtropicale che deve molto del suo carattere alle antiche colonie omanite dell’Africa orientale. Nel tragitto in taxi dall’aeroporto all’albergo mi colpiscono le imponenti coltivazioni delle palme di cocco, di banani e di papaia, che in effetti offrono un assaggio di Zanzibar nel cuore del deserto. Prima di raggiungere l’albergo la guida ferma il taxi davanti a una bancarella sui lati della strada che vende noci di cocco. Prima si beve il latte, poi si mangia la parte bianca. La banane sono di piccole dimensioni e gustosissime.
Il tempo per depositare le valige in hotel e via per il suk, dove mi colpisce il mosaico etnico della popolazione. L’influenza del periodo coloniale si fa sentire anche qui: molte persone sono mulatte o di colore. Le donne, contrariamente a Muscat, portano tutte il burka, salvo rare eccezioni. La specialità del locale suk sono l’incenso e i profumi. Già, perché in questa regione si produce da secoli l’incenso più puro al mondo. Il suk non è troppo animato. Eppure mi sembra poco turistico. Mi spiegano che in questa regione da metà giugno a metà settembre i monsoni provenienti dall’India provocano leggerissima pioggerella molto apprezzata dagli abitanti della Penisola Arabica, che si riversano a Salalah per avere un po’ di ristoro in un periodo di caldo torrido. Durante l’estate, mi spiega la guida, in questo souk non si può camminare ed i clienti sono sì turisti, ma arabi del Golfo.
Il mattino seguente visito a Salalah il museo “La terra dell’incenso” e quello marittimo che si trova nella stessa sede. Si tratta di due strutture modernissime e molto didattiche. Il primo racconta la storia della regione, il secondo sottolinea la tradizione marinara dell’Oman.
Ci avviamo verso ovest, cioè in direzione dello Yemen, che dista circa 200 chilometri. Sulla strada incrociamo numerosi cammelli, che spesso ci costringono a rallentare perché invadono la carreggiata: sembra che amino camminare sull’asfalto. Con la scomparsa delle carovane oggi sono allevati soprattutto per le corse ed i più pregiati raggiungono prezzi elevatissimi. Lasciamo la strada principale per addentrarci su una pista che ci porta in una zona dove crescono gli alberi dell’incenso. Crescono praticamente nel deserto, dal nulla. Sono alti un paio di metri ed hanno un aspetto quasi sofferente. L’incenso lo si ottiene incidendo la corteccia con un coltello. Ne esce un liquido bianco che una volta seccato viene staccato. E’ questo il preziosissimo incenso che anticamente valeva quanto l’oro e ha fatto la fortuna di queste popolazioni. Se si pensa che questa sostanza ha accompagnato per secoli i riti della venerazione e della sepoltura, i culti magici e le cerimonie di stato di egizi, babilonesi, persiani, greci e romani, si può ben capire l’importanza che aveva la “Via dell’incenso” che si snodava lungo una rotta di quasi tremila chilometri. Le carovane superavano deserti e altipiani, sfidavano temperature insopportabili, assalti dei predoni per far arrivare “le lacrime degli dei” sulle coste del Mediterraneo, dopo un viaggio di oltre due mesi.
Torniamo sulla strada principale per raggiungere in breve tempo Mughasail, una baia spettacolare con scogliere a picco sul mare, dove le onde hanno scavato delle caverne. La piattaforma rocciosa da cui si osserva lo splendido mare è collegata con queste caverne dai cosiddetti soffioni, una sorta di fori del diametro di mezzo metro. Quando le onde si infrangono fuoriescono con violenza da questi fori in superficie, provocando un suono forte e minaccioso. Tanto più il mare è agitato, tanto maggiore è lo spettacolo. Gli spruzzi sembra raggiungano quattro metri sopra la superficie.
Ritorniamo in direzione di Salalah per un piacevole pic nic al Wadi Dharbat, una valle che durante il monsone si trasforma in un paradiso verde con pozze varie e addirittura una cascata alta 300 metri. La guida mi descrive con grande enfasi questi paesaggi della stagione delle piogge.
Prima di riprendere l’aereo per Muscat c’è ancora il tempo per visitare la tomba di Giobbe, che venne messo alla prova per anni da Dio per verificare la sua religiosità, finché, paziente, poté dimostrare la sua buona fede. Giobbe è considerato profeta anche dalla religione islamica. La sua tomba è situata su una collina, da cui si gode una splendida vista su tutta la regione di Salalah.

Uzbekistan – La via della seta

Uzbekistan – Lungo la mitica via della seta

Sulle orme delle antiche carovane, tra oasi e steppe desertiche, un suggestivo itinerario in Uzbekistan, sospesi a metà strada tra la Cina e l’Occidente.

Il nostro itinerario nell’Asia centrale, in Uzbekistan, organizzato dall’agenzia turistica Kel12 di Milano, si snoda lungo la mitica “Via della seta” e ha come mete principali le città di Bukhara e di Samarcanda, che rappresentavano nell’antichità strategici punti di sosta a metà del percorso tra la Cina e l’Occidente. Lungo il tragitto sorsero così numerosi caravanserragli che offrivano alloggio, stalle e magazzini alle carovane e che diedero vita a un’attività commerciale senza precedenti. La “Via della seta” non si sviluppò mai lungo un unico percorso, ma era costituita da una fragile rete di itinerari carovanieri intercontinentali. Le città che si trovavano lungo questi tragitti conobbero un grande sviluppo. Le devastazioni e i disordini provocati da Gengis Khan e da Tamerlano, che incontreremo più volte lungo il nostro itinerario, resero sempre più insicure queste vie e portarono come conseguenza alla crisi economica della regione. L’ultimo e definitivo colpo inferto all’ormai agonizzante “Via della seta” fu poi rappresentato dall’apertura delle rotte commerciali marittime tra Europa e Asia, che rendevano superflue le fatiche delle carovane. Si concludeva così un capitolo fondamentale nella storia dell’umanità: per la prima volta infatti, attraverso questi itinerari, si era sviluppato un interscambio di idee, tecnologie e convinzioni religiose, grazie ai contatti tra realtà culturali estremamente diverse.
Il diario di viaggio che segue si sofferma sulle tappe principali di un itinerario, effettuato in torpedone, che percorre tutto l’Uzbekistan, passando da un’oasi all’altra e attraversando l’inospitale steppa che separa alcune perle dell’Islam come Khiva, Bukhara e Samarcanda.

Khiva, città-museo 
La nostra visita all’Uzbekistan inizia da Khiva, venerdì 24 ottobre. Il 23 siamo volati da Roma a Tashkent, la capitale del paese, che dista sei ore di aereo. Giungiamo in serata a causa del fuso orario (5 ore). Il tempo per un breve sonno e il mattino di buonora ripartiamo in volo in direzione ovest per Urgench, da dove in mezz’ora di torpedone raggiungiamo la città-museo di Khiva, diventata tale nel corso di un programma di conservazione sovietico.
La prima immagine è quella delle sue pittoresche mura di fango lunghe due chilometri e mezzo, che circondano tutto il centro storico. Il nostro albergo (hotel Asia Khiva), situato davanti alla porta principale, è una struttura nuova con camere più che dignitose. Preso possesso della camera partiamo a piedi per la visita della città. Tutti i monumenti sono a portata di mano. Si respira un’atmosfera orientale: minareti, moschee dalle cupole verdi, palazzi dei visir, madrasse e naturalmente il mercato.
La nostra visita inizia proprio dal souk, che caratterizzò questa città nel corso della storia per un fiorente mercato degli schiavi durato più di tre secoli, fino al 1873. Era il più grande dell’Asia centrale. Nelle pareti sono ancora visibili le nicchie dove venivano esposti gli sventurati in vendita. Il souk attuale è animato soprattutto da gente del posto. Di turisti se ne vedono pochi. La merce esposta, destinata soprattutto agli indigeni, è molto variopinta, di cattivo gusto e dominata dai materiali sintetici. Non c’è traccia del ricco artigianato di un tempo. Non si vende seta, nonostante questa città si trovasse anticamente proprio sulla “Via della seta”, e nemmeno cotone, sebbene qui attorno tutti vivano della coltura del cotone. Regnano i tessuti sintetici: persino i fiori sono di plastica. Come spesso accade, la parte più bella del souk è quella dedicata alla frutta, alla verdura e alle spezie. Per la prima volta vedo alcune bancarelle vendere solo pasta: di ogni tipo e di ogni forma.
Khiva fu distrutta nel 1740 dai Persiani e in seguito ricostruita. La maggior parte dei suoi monumenti risale pertanto al XVIII secolo. La città, storicamente, era tristemente nota per la ferocia dei suoi regnanti, di cui si visitano due fastosi palazzi decorati con magnifiche ceramiche. Come spiega la nota viaggiatrice ginevrina Ella Maillart (“Vagabonda in Turkmenistan”, Torino 2002) “per il mongolo nomade il lusso consisteva nell’applicare parati e tessuti ricamati alle pareti della sua tenda. Quando fissò la sua dimora volle che i suoi palazzi e le sue moschee gli restituissero con le loro decorazioni di ceramica la stessa sensazione”. Ma a questa raffinatezza si accompagnava nei visir di Khiva una ferocia incredibile. Arminius Vambéry, un viaggiatore ungherese dell’Ottocento, racconta di aver assistito nel 1863 all’esecuzione di trecento prigionieri impiccati o decapitati. “I loro capi con i capelli grigi erano invece distesi a terra in attesa di essere ammanettati, quando il boia si inginocchiò sui loro petti e cavò loro gli occhi, pulendo il coltello insanguinato sulle loro barbe. Tentarono di rialzarsi, ma sbatterono alla cieca gli uni contro gli altri e crollarono al suolo agonizzanti”.
Questi truci racconti non si conciliano con il mio stato d’animo mentre visito questa città dall’atmosfera quasi ibernata, che ti fa sentire ai margini del mondo. La sua architettura è armoniosa. Il colore delle costruzioni, così come quello delle mura costruite in mattoni di argilla e paglia, è quello della terra e si mimetizza perfettamente con il paesaggio mettendo in risalto i verdi e i blu delle smaglianti maioliche. Queste immagini mi rimarranno impresse nella memoria per la loro diversità, per l’armonia e per le tinte dolci soprattutto al momento del tramonto.

Bukhara città sacra 
Lunga trasferta in torpedone da Khiva a Bukhara, la città sacra. La strada percorre una zona desertica e disabitata lungo il confine con il Turkmenistan. La steppa è monotona e il viaggio dura quasi una giornata. Ben si può capire quanto fosse irraggiungibile questa città per gli eserciti che la volevano conquistare. Molti perdettero la maggior parte dei loro soldati e dei cammelli in queste steppe inospitali. Sabato in serata giungiamo a Bukhara, che “per più di mille anni – come osserva Tiziano Terzani (“Buona notte signor Lenin, Milano 1992) – nel mondo mussulmano fu considerata equivalente alla Mecca come importante centro di studi, per lo splendore delle sue moschee e il livello intellettuale delle sue madrasse, le scuole coraniche”. Tanto che gli storici arabi la definirono “il paradiso del mondo”. Ci si può bene immaginare come dovessero rimanere incantati i carovanieri che percorrevano la “Via della seta”, quando dopo giorni di lunga e monotona marcia percorsi nella steppa giungevano all’ombra dei sontuosi monumenti di questa città sacra.
Anche qui come a Khiva gli emiri erano sanguinari. Esisteva una prigione, il cosiddetto “pozzo degli scarafaggi”, dove venivano allevati insetti che scarnificavano i prigionieri. Un colonnello britannico vi passò alcuni mesi prima di essere giustiziato per essere entrato a cavallo nell’Ark, la città regale, dove solo l’emiro poteva cavalcare. L’Ark era una città nella città, abitata dal quinto secolo fino a quando Bukhara cadde in mano all’Armata Rossa. La sua visita è di grande interesse, così come il famosissimo minareto Kalon, uno dei simboli della città. Si narra che Gengis Khan, quando nel 1220 espugnò e distrusse Bukhara al grido “Io sono il castigo di Dio per i vostri peccati”, rimase talmente esterrefatto alla vista di questo monumento che ordinò di risparmiarlo. È giunto fino a noi ben conservato con le sue quattordici fasce decorative, diverse l’una dall’altra, a testimonianza del primo utilizzo delle lucenti piastrelle blu che si diffusero in tutta l’Asia centrale sotto Tamerlano. Ai tempi dell’emiro i condannati a morte venivano messi in un sacco e lanciati dal minareto alto 47 metri, soprannominato dai bolscevichi “Torre della morte”. Tiziano Terzani fa notare come gli abitanti di Bukhara, nonostante il dispotismo degli emiri, parlino oggi di quell’epoca come di tempi d’oro. “La Bukhara mussulmana – osserva Colin Thurbon (“Il cuore perduto dell’Asia”, Milano 1994) – era cinta da 12 chilometri di mura e di porte fortificate e le sue moschee e medresse erano innumerevoli. I bukharioti erano considerati gli abitanti più distinti e civilizzati dell’Asia centrale. I loro modi e il loro abbigliamento divennero un parametro dell’eleganza orientale…Tutto questo splendore – prosegue lo studioso inglese – nascondeva però a malapena l’intimo squallore… Chi faceva il bagno o beveva nelle piscine pubbliche contraeva la ributtante filaria della Medina, che soltanto un barbiere esperto era in grado di estrarre dalla carne incidendo la pelle con una lama e attorcigliando il verme – a volte lungo più di un metro – su un ramoscello”.
Un altro edificio di rara bellezza giunto dal X secolo fino a noi è il mausoleo di Ismail Samani: “uno degli edifici più eleganti dell’Asia centrale – secondo la guida turistica Lonely Planet – che cambia gradualmente ‘carattere’ nel corso della giornata man mano che mutano le ombre”. L’abile intreccio dei mattoni in terracotta presenta una sorta di affascinante ricamo, che alleggerisce questo sobrio monumento, giunto fino a noi grazie a un espediente dei bukharioti. “Quando gli abitanti videro gli invasori mongoli bruciare e distruggere tutta la città – spiega ancora Tiziano Terzani – corsero al mausoleo di Samani e seppellirono l’intera costruzione sotto una collina di terra perché gli uomini di Gengis Khan non la vedessero”.
Nella piazza Lyabi-Hauz, costruita nel 1620 attorno a una vasca, all’ombra di gelsi antichissimi, abbiamo gustato ottimi spiedini al grill, una specialità del luogo. Ma Bukhara è famosa in tutto il mondo anche per i suoi tappeti, che costituiscono per noi il modello classico della nostra idea di “tappeto orientale”. Eseguito su fondo rosso di tutte le tonalità, propone una composizione costituita da un susseguirsi di forme essenziali, rigorosamente geometriche: ottagoni tagliati diagonalmente da un disegno bianco e nero sempre uguale. 

Samarcanda – Lungo la mitica “via della seta”

Uzbekistan – La via della seta

Alessandro Magno quando conquistò Samarcanda esclamò: “Tutto quello che ho udito di Markanda è vero, tranne il fatto che è più bella di quanto immaginassi”.

Lunedì 27 ottobre, giornata di trasferimento da Bukhara alla mitica Samarcanda. Partiamo il mattino di buonora per Shakhrisabz, città natale di Tamerlano, che richiede una deviazione rispetto al percorso più diretto. Attraversiamo la lunga periferia di Bukhara, particolarmente squallida. Le case sono alte solo un piano, ma molto trascurate. Man mano che ci allontaniamo dalla città ricompare il deserto con la sua monotonia, ma anche con la sua armonia. Di tanto in tanto si incontra un’oasi: non quelle idilliache, bensì insignificanti agglomerati di case trascurate. Sul tragitto passiamo anche davanti a due impianti di vitale importanza per il paese: uno per l’estrazione dal sottosuolo di gas e l’altro di petrolio. Giunti nella città natale di Tamerlano, che il regime autoritario di Karimov sembra avere adottato come eroe nazionale, ci imbattiamo subito nel monumento dedicato al condottiero. Molte persone sono radunate attorno ad esso, diverse orchestrine suonano motivi uzbeki. È una giornata freddissima, ma le giovani spose avvolte in leggerissimi e scollati abiti bianchi non rinunciano a una foto ricordo davanti alla statua del nuovo eroe, che ha sostituito quella di Lenin.
Condottiero valoroso e intelligente, Tamerlano riuscì a costituire un impero che aveva il suo confine orientale in India, mentre verso occidente arrivava ad affacciarsi sul Mediterraneo. Si creò la fama di uomo spietato e sanguinario, perché le sue campagne consistevano essenzialmente in guerre di occupazione e di saccheggio, piuttosto che nell’organizzazione sistematica, amministrativa e politica dei territori conquistati. Nel suo paese fu però anche un grande mecenate, un protettore di artisti: Samarcanda rimane la sua opera più duratura. Eppure è probabile che Shakhrisabz, la sua città natale, prima di essere distrutta nel XVI secolo dall’emiro di Bukhara, mettesse in ombra la stessa Samarcanda. Del palazzo reale, che richiese 24 anni di lavoro e fu probabilmente il progetto più ambizioso di Tamerlano, rimangono solo alcuni frammenti del gigantesco ingresso alto 40 metri. Oggi si può soltanto immaginare ciò che doveva essere il resto dell’edificio per grandezza e splendore. Proseguiamo la nostra visita incamminandoci verso il mausoleo dove è custodito il corpo di Jehangir, figlio prediletto di Tamerlano morto a 22 anni per una caduta da cavallo e descritto dalla tradizione locale come un eroe mancato. Il monumento è decorato con dipinti della fine del XIV secolo di particolare finezza.
Riprendiamo il nostro tragitto verso Samarcanda scegliendo la strada meno diretta che aggira le montagne. Il percorso è particolarmente suggestivo. Piove e siamo verso sera, d’autunno. Le poche foglie che rimangono sugli alberi sono ingiallite. Il terreno è arido, desertico, ma abitato. Mi colpisce l’armonia di quei paesaggi collinari. Le case sono costruite in argilla e ricoperte da tetti in paglia. Gli uomini si spostano a dorso d’asino o a cavallo. Le donne portano abiti colorati e i bimbi al passaggio del nostro torpedone salutano affettuosamente. Capre e pecore sono ovunque. Quà e la qualche mucca. La luce del crepuscolo, la stagione che annuncia il freddo inverno alle porte e forse il mio stato d’animo mi danno la sensazione di assistere a un presepio vivente, tale è l’armonia dei colori e delle forme. A poco a poco cala la notte e quel paesaggio magico si spegne davanti ai miei occhi. Ma siamo ormai alle porte di Samarcanda, che ci accoglie con le sue smaglianti luci cittadine, per la verità poco affascinanti.

Samarcanda, l’incomparabile
“Samarcanda l’incomparabile”, così titola il capitolo dedicato alla “città dorata” Ella Maillart, la nota viaggiatrice ginevrina che visitò questi luoghi negli anni Trenta, in piena era staliniana. Martedì 28 ottobre dedichiamo l’intera giornata alla visita di questo gioiello dell’Islam. E se ci fosse stato un po’ più di tempo sarebbe stato meglio! Perché Samarcanda è davvero quella città mitica che immaginavo e che sognavo. I suoi monumenti, anche se ormai immersi nel tessuto di una città moderna, sono davvero degni della loro fama. Questa è stata certamente la giornata più straordinaria di tutto il viaggio. Anche Alessandro Magno, quando nel 329 a.C. la conquistò, esclamò: “Tutto quello che ho udito di Markanda è vero, tranne il fatto che è più bella di quanto immaginassi”.
Nessun nome richiama alla mente la “Via della seta” quanto quello di Samarcanda, che si trovava al crocevia delle strade che conducevano le carovane in Cina, India e Persia. Quando Gengis Khan la distrusse completamente nel 1220 avrebbe potuto essere la fine della sua storia, ma nel 1370 Tamerlano decise di fare di Samarcanda la sua capitale e nei successivi 35 anni forgiò una nuova città, che diventò “giardino dell’anima” , “specchio del mondo” e assurse a epicentro culturale ed economico dell’Asia centrale. Tamerlano (1336-1405) è infatti il personaggio attorno a cui ruota tutta la storia dell’epoca d’oro di questa città e dei suoi monumenti. Persino di quelli postumi a Tamerlano. Penso alle due madrasse del Registan, la piazza principale, costruite due secoli più tardi copiando lo stile della Samarcanda di Tamerlano.
Il nostro itinerario inizia il mattino con la visita del mausoleo Guri Amir, che ospita la tomba di Tamerlano, nonché quelle del suo nipote e del suo maestro preferiti. “Chiunque aprirà questa tomba – recava un’iscrizione – sarà sconfitto da un nemico più terribile di me”. Gli archeologi comunisti non si fecero però fermare da questa avvertenza e aprirono il sarcofago per sapere se era vero che Tamerlano, “la tigre zoppa”, era claudicante a causa di una ferita ricevuta in battaglia e per verificare se a suo nipote Ulughbek, quando fu deposto, venne mozzata la testa. Ebbene i due interrogativi ebbero conferma positiva, ma il giorno dopo la scoperta, il 22 giugno 1941, Hitler attaccò l’Unione Sovietica.
Ulughbek successe al trono dello zio e regnò fino al 1449, quando venne deposto da un complotto di fondamentalisti islamici (già allora imperversavano), che non gradivano le sue scoperte scientifiche in campo astronomico. Più famoso come astronomo che come sovrano, trasformò la città in un centro intellettuale e costruì un centro di ricerca astronomico articolato su tre piani con un immenso astrolabio per l’osservazione della posizione delle stelle. È sopravvissuta solo la parte interrata. Il resto è stato distrutto.
Ma eccoci alla visita del luogo certamente più suggestivo di questa incredibile città: Shahr-iZindah, un viale di tombe. Lastricate di maiolica all’interno e all’esterno, disposte in lungo, così da creare un percorso lungo una via, questi sepolcri ricoperti di piastrine che vanno dal blu al verde rendono questo luogo di un fascino incredibile. Tamerlano fece seppellire qui alcune delle persone a lui più care. Il posto era sacro perché ospitava già la tomba di un cugino del profeta Maometto. “La leggenda vuole che il santo – racconta Terzani (op. cit.) – venuto qui a combattere gli infedeli, fosse catturato e decapitato. Ma lui non se ne fece un cruccio. Raccattò la testa che gli avevano appena mozzata, se la mise sotto il braccio e andò a stare in fondo a un pozzo che era lì nei pressi. Il pozzo c’è ancora e la gente dice che il Re Vivente (da qui il nome del luogo) è sempre laggiù che dorme e aspetta l’occasione per uscire e riprendere la sua guerra contro gli infedeli”. Questa destinazione è meta di pellegrinaggi per i musulmani di tutto il mondo: tre viaggi qui equivalgono a uno alla Mecca.
Prima del pranzo visitiamo ancora il museo di Afrosiab. Ospita i frammenti di alcuni affreschi interessanti del VII secolo, che raffigurano scene di caccia, un corteo di ambasciatori e visite di regnanti locali.
Dopo il pranzo a base di spiedini – specialità del luogo – ci rechiamo a visitare la moschea Bibi-Khanim, fatta costruire da una moglie di Tamerlano come regalo-sorpresa durante un’assenza del marito. La moschea, molto ricostruita, è particolarmente imponente e nota per una leggenda, secondo cui l’architetto progettista s’innamorò pazzamente della regina e rifiutò di terminare il lavoro a meno che lei non gli desse un bacio. Tale gesto lasciò un segno sulla guancia della donna e quando Tamerlano lo vide fece giustiziare l’architetto, condannò la moglie a essere murata viva nel suo mausoleo e ordinò che le donne portassero il velo per non rappresentare una tentazione per gli altri uomini al di fuori del matrimonio.
Accanto alla moschea si trova il frenetico e pittoresco, ma particolarmente ordinato, mercato agricolo coperto. Poco distante il souk con la sua offerta di vestiti, scialli, cappelli, turbanti di ogni genere e ogni altra sorta di oggetti. Dulcis in fundo il Registan, la piazza principale di Samarcanda. Nel medioevo era il centro commerciale della città e l’intera piazza era probabilmente occupata dal bazar. Oggi è dominata da tre palazzi e al centro offre ampi spazi. L’edificio principale è la Madrassa di Ulughbek del XV secolo, ai lati altre due madrasse edificate due secoli più tardi riprendendo i modelli architettonici dell’era di Tamerlano.

Il ritorno alla normalità
Mercoledì 29 ottobre lascio a malincuore Samarcanda per l’ultima tappa di trasferimento in torpedone verso la moderna capitale Tashkent, una metropoli di oltre 2 milioni di abitanti, tipica città dell’ex impero sovietico. Il traffico è caotico, ma i numerosi parchi e viali alberati la ingentiliscono. Il centro è monumentale, arredato da palazzi stile regime, fontane e statue di cattivo gusto rappresentanti la madre patria e, naturalmente, l’eroe nazionale Tamerlano. Visitiamo la pulitissima e ordinatissima metropolitana, opera del regime sovietico negli anni Settanta. È monumentale, di stile simile a quella di Mosca e ogni stazione è caratterizzata da un tema legato alla propaganda politica sovietica. È l’unica testimonianza che rimane di quei tempi, oltre al regime di Karimov, che sembra incarnare tutti i difetti di un’epoca terminata solo a parole. Visitiamo alcune moschee e madrasse seicentesche, che sembrano molto ricostruite. Ma dopo Samarcanda il discorso con l’arte islamica è chiuso. Il mattino seguente all’alba parte il nostro volo per Roma e Milano.

Attorno a Carona tra arte e natura

Una passeggiata nel bosco adatta a tutti con splendidi panorami sul lago Ceresio, con un tocco di arte e di cultura. È l’itinerario che vi propongo oggi sul monte Arbostora sopra Lugano. Posteggiate a Carona, lo splendido villaggio caratte­ristico per le sue antiche viuzze con palazzi pregevoli e con la secentesca chiesa dedicata a San Giorgio, all’entrata del paese, famosa per i suoi affreschi.
Il nostro itinerario inizia con la visita del Parco bota­nico San Grato, situato dieci minuti a piedi dopo il borgo. La sua storia è legata a due industriali: Mar­tin Wintheralter, ex proprietario della fabbrica di cer­niere lampo Riri di Mendrisio, e Luigi Giussani, am­ministratore delle acciaierie Monteforno. Il primo ne fece una propria residenza, il secondo aprì il risto­rante, creò il parco e costruì la piscina (oggi comu­nale). La proprietà passò poi all’Ubs che la donò nel 1997 a Lugano Turismo. Il parco è famoso soprattut­to per la sua collezione di azalee e rododendri che fioriscono in maggio, ma offre anche una straordina­ria varietà di conifere. Una serie di itinerari tematici vi permetteranno di scoprire gli angoli più suggestivi. Seguite quello panoramico, dal quale parte il comodo sentiero verso l’Alpe Vicania. La vista è davvero spet­tacolare: va dal San Salvatore al Camoghé, dal Mon­te Boglia al Sighignola, dal Monte Generoso ai vil­laggi rivieraschi. Un percorso ombreggiato ampio e pianeggiante vi porterà in poco più di un’ora all’Alpe Vicania, che si apre davanti a voi all’improvviso con i suoi ridenti prati. È di proprietà di un’interessante azienda agricola, così come lo splendido castello vi­sconteo sottostante. Il maniero quattrocentesco è cir­condato da un vigneto storico che trova le sue radici nel Medioevo. L’azienda agricola Vicania, che può contare su 172 ettari di natura incontaminata, coltiva la vigna e l’ulivo, pratica la frutticoltura e l’apicoltu­ra e alleva asini e cavalli. Offre la possibilità di effet­tuare escursioni equestri, con pony per i più piccoli. Propone la vendita dei propri prodotti, ma è nota so­prattutto per il suo ristorante di elevata gastronomia. In un ambiente di charme lo chef Andrea Muggiano cucina piatti ispirati alla tradizione mediterranea con prodotti dell’azienda e della regione. Su prenotazione uno degli enologi più interessanti del Ticino, Michele Conceprio, propone degustazioni di vini.
Dopo una stimolante sosta in questo luogo delizioso in tutti i sensi, il nostro itinerario prosegue ritornan­do a Carona percorrendo l’altro versante del Monte Arbostora. Il sentiero nel bosco, anche sulla via del ritorno, è ampio e ombreggiato e propone due appun­tamenti artistici di grande interesse: il santuario del­la Madonna d’Ongero e l’ex monastero di Torello con la suggestiva chiesa romanica di Santa Maria Assun­ta.
Il secentesco santuario di Madonna d’Ongero, che si raggiunge in circa 45 minuti di cammino dall’Alpe Vicania, è considerato un piccolo capolavoro dell’ar­te barocca in Ticino, con le notevoli decorazioni a stucco di Alessandro Casella e con gli affreschi sette­centeschi del grande artista ticinese Giuseppe Anto­nio Petrini contenuti nella navata.
Dalla Via Crucis che introduce al santuario scende un sentiero che in una ventina di minuti porta all’ex monastero di Torello. Venne consacrato all’inizio del Duecento da monaci agostiniani. Il monastero esten­deva i suoi diritti su numerose terre vicine: a Grancia aveva il deposito del grano e possedeva terreni a Ca­rabbia, Pazzallo, Figino e Bioggio. Nel corso dei se­coli venne poi trasformato in masseria. Sopravvissuto fino ai giorni nostri in un panoramico spazio verde che ricorda la Toscana, questo monumento conserva un fascino incredibile. Tornate a Madonna d’Ongero e da lì a Carona. Se siete accaldati potete fermarvi per un tuffo rinfrescante nella bella piscina comuna­le, immersa nel verde.

L’incanto alpino dei tre laghetti

Passo buona parte delle mie giornate in ufficio, davanti al computer, al telefo­no o in riunione, perciò il mio tempo libero lo voglio trascorrere all’aria aperta. D’inverno, sulle piste di sci, e non mi pesa­no nemmeno le levatacce o i chilometri da macinare per giungere nelle località più lontane; d’estate vado sul lago, che mi atti­ra come una calamita, oppure in montagna o nelle valli a camminare.
La mia montagna non è né ardita né speri­colata, ma non per questo meno avvincente. Quest’anno i paesaggi più affascinanti li ho incontrati nella regione dove si produce il mio formaggio preferito, il Piora, in Alta Leventina.
Questi alpeggi si raggiungono facilmente: c’è la funicolare a cremagliera del Ritom, che porta a quota 1800 metri. Parte da Piot­ta, è la più ripida d’Europa e ha una pen­denza massima che arriva fino all’87%. Al­la stazione di arrivo s’imbocca la strada che porta in breve tempo alla diga. Se inve­ce si vuole arrivarci con l’auto, o con la bi­cicletta, una strada stretta ma ben percorri­bile sale da Altanca (per chi arriva dall’au­tostrada l’uscita è quella di Quinto). Ai pie­di della diga c’è un parcheggio a pagamen­to.
Il paesaggio alpino della val Piora, lunga circa otto chilometri, è idilliaco, con pasco­li verdi e una miriade di laghetti, particola­mente frequentati durante la stagione della pesca. Molto interessanti anche la flora e la fauna e, con un po’ di fortuna, si rischia di incontrare camosci, caprioli, marmotte e magari un’aquila. Tra i fiori, stupende le orchidee selvatiche. Gli spazi sono vasti, c’è un grande silenzio. Noi abbiamo fatto il percorso attorno ai tre laghi Ritom, Cada­gno e Tom, partendo proprio dalla diga e costeggiando a sinistra il Ritom fino alla de­viazione segnalata per il lago Tom. Si sale per una trentina di minuti e si arriva in una conca veramente incantevole, dove si trova­no il laghetto e la cascina dell’alpeggio. I colori vivissimi, l’aria tersa, un incanto! La pensano come noi parecchi pescatori che placidamente aspettano le loro prede, e an­che qualche famigliola che ha scelto questo luogo per il pic nic domenicale. Continuia­mo il nostro percorso lungo le rive del lago e, sul versante opposto, saliamo fino al cri­nale. Sotto di noi il terzo lago, il Cadagno, che raggiungiamo di buon passo scendendo verso il piccolo nucleo. Più tardi, documen­tandomi su questo laghetto, scopro che ha una particolarità curiosa e rara: è compo­sto in pratica di due laghi sovrapposti che non entrano in contatto tra loro grazie alla presenza di colonie di batteri: una delle ra­gioni che spiega la presenza di un Centro di Biologia Alpina a queste latitudini.
Eccoci all’alpe Piora, dove visitiamo il ca­seificio che produce l’ottimo formaggio omonimo. Purtroppo per noi non c’è vendi­ta diretta di quella delizia. Ci consoliamo acquistando burro e ricotta. Tutti ottimi pro­dotti: sfido, non ho mai visto mucche in un posto tanto bello. Per forza il loro latte dev’essere eccellente! Proseguiamo fino al­la capanna Sat Cadagno, dove ci gustiamo la polenta col Piora e la ricotta. Il ritorno, con passo un po’ rallentato, lo facciamo sul versante opposto, passando nella magnifica pineta.

Sardegna – Dalle dolci colline al mare dei miti e della storia

Sardegna – Dietro le quinte di un’isola da cartolina

Un viaggio lungo una terra che sa essere aspra e dolce. La scoperta di un’isola alla moda, ma che ha conservato un fascino antico.

Natura, arte, storia e gastronomiasono gli ingredienti di questo itinerario lungo la costa occidentale della Sardegna, quella che si affaccia sulla Spagna. Il percorso si snoda in parte lungo la strada litoranea, per scoprire paesaggi marini incontaminati, e in parte penetra nell’affascinanteentroterra sardo alla ricerca dell’arte e della storia di quest’isola chiusa su se stessa. L’itinerario tocca le tappe principali della storia sarda: dalle straordinarie testimonianze preistoriche della civiltà nuragica alle rovine delle città cartaginesi e romane, per risalire alle tracce romaniche del cosiddetto periodo ‘giudicale’ e a quelle più recenti della lunga dominazione spagnola durata quattro secoli.
Le bellezze naturali non si limitano al mare, ma riguardano anche le armoniose campagne, che a tratti ricordano la Toscana.
La nostra proposta si articola su cinque giorni. Sarebbe più agevole dedicando un paio di giorni in più. Permetterebbe qualche sosta al mare per immergersi nelle acque trasparenti della costa. La stagione consigliata non è l’estate, ma la tarda primavera o il primo autunno. Le compagnie che noleggiano automobili concedono, con un piccolo sovrapprezzo, di ritirare il veicolo all’aeroporto di Cagliari e di riconsegnarlo ad Olbia. Questo permette di dimezzare il percorso.
Un mare incontaminato

Un mare incontaminato
Quando si parla di Sardegna si pensa al mare, all’acqua limpida, a fondali turchesi da sogno. Anche se l’isola non è solo questo, come vedremo col nostro itinerario, iniziamo dalle sue coste occidentali, certamente meno compromesse dal turismo rispetto a talune orientali.
L’itinerario ci porta dapprima a scoprire la Costa del Sud, nel punto più settentrionale dell’isola. Il tratto più suggestivo si estende per una ventina di chilometri da Capo Spartivento, poco dopo il villaggio di Bithia, fino alla baia del porto di Teulada. La costa appare frastagliata con scogli affioranti e in lontananza la granitica isola Rossa. Il percorso, scandito da una serie di torri di avvistamento in collegamento visivo tra loro, offre panorami spettacolari e si qualifica per avere mantenuto quasi integri i caratteri dell’ambiente naturale. Durante il nostro viaggio, all’inizio di maggio, le colline offrivano una tavolozza di colori indimenticabile: dal verde più tenero al più cupo, al giallo e viola dei fiori, alle foglie rosse di un arbusto molto diffuso.
La strada lascia la costa in direzione di Teulada lungo la valle del Rio degli oleandri. Il nostro itinerario si addentra a questo punto nell’entroterra e riprende la costa una sessantina di chilometri più avanti, quando da Gonnesa si lascia la statale 126 in direzione di Nebida, Masua e Buggerru lungo una strada che consente spettacolari scorci panoramici per i contrasti cromatici e l’andamento frastagliatissimo della costa. La zona, suggestiva per le sue rocce calcaree bianche, rossastre e violacee, è ricca di giacimenti metalliferi. Ancora oggi si estraggono zinco e piombo. Particolarmente spettacolare lo scoglio di candido calcare che fronteggia le case di Masua.
Ritorniamo sulla statale 126, per abbandonarla di nuovo in direzione del mare non molti chilometri più avanti verso Piscinas, la località famosa per le sue splendide dune di sabbia. Per un raggio di circa 3 chilometri quadrati alle montagne dorate, alte fino a 50 metri, ancora in movimento, si alternano quelle ormai consolidate dove sbucano dalla sabbia ginepri e fiori di ogni genere e colore. Una passeggiata in questi luoghi vi darà la sensazione di essere in un deserto in riva al mare. La spiaggia, assolutamente non deturpata, offre un delizioso e romantico alberghetto, dove si mangia pure molto bene, che non poteva non chiamarsi Albergo delle Dune.
La costa occidentale sarda offre un’altra strada panoramica di eccezionale interesse: quella che da Bosa porta ad Alghero. Scavata tra formazioni rocciose vi dà l’impressione di trovarvi in un sito ben più alto, anche perché i venti dominanti di ponente e maestrale vengono su fragranti e salmastri dal mare aperto. Man mano che vi avvicinate ad Alghero si impone alla vostra attenzione la possente sagoma del Capo Caccia, dove visiteremo le Grotte di Nettuno. Questi panorami mozzafiato costituiscono uno degli spettacoli naturali più belli dell’isola.
Il centro storico di Alghero è tanto piccolo quanto grazioso e piacevole da percorrere a piedi. È racchiuso in una corta penisola che si affaccia sul mare con i suoi bastioni e le torri che ricordano la dominazione spagnola. Sarebbe però più corretto parlare di catalanità di questa cittadina, da molti denominata “la piccola Barcellona”, dove ancora oggi gli abitanti parlano un dialetto arcaico del catalano.

Entroterra da scoprire
Anche se parliamo di entroterra, rimaniamo in tema di mare e iniziamo dalle Grotte di Nettuno. Si possono raggiungere in battello da Alghero (una gita di circa tre ore) o da un molo che si trova sulla strada litoranea un paio di chilometri prima del parcheggio per le grotte, che si possono raggiungere anche a piedi scendendo 656 gradini. Considerate fra le più suggestive del Mediterraneo, le arditissime costruzioni prodotte dalla natura attraverso un sapiente gioco di stalattiti e stalammiti non mancheranno di emozionarvi. Il nostro itinerario vi porterà a scoprire un altro spettacolo naturale certamente poco noto: quello delle cosiddette “Giare”, che si trovano nell’entroterra sardo tra Cagliari e Oristano. Che cosa sono? “Sono comunemente chiamate Giare – spiega l’autorevole guida rossa del Touring italiano – gli squadrati altopiani basaltici, dal profilo perfettamente orizzontale e coi fianchi scarpati, prodotti da esiti di manifestazioni vulcaniche durante l’Oligocene”. Si tratta di una sorta di immenso terrazzo che domina il territorio circostante, offrendo suggestivi panorami sulla ridente pianura sottostante. I villaggi, sin dalla preistoria, sono situati ai piedi delle Giare (particolarmente grazioso Tuili). Non mancate di visitare la Giara di Gesturi, la più vasta e paesisticamente rilevante. Ha una superficie superiore per lo più pianeggiante di 12 chilomentri di lunghezza e 4 di larghezza. Al culmine si divide in numerosi sentieri che si possono percorrere a piedi. Propone una “tipica vegetazione spontanea a macchia mediterranea, alternata da piccole sughere e praterie erbose punteggiate di numerosi ristagni, dove vivono allo stato brado alcune centinaia di esemplari di cavalli di taglia ridotta, esclusivi della Giara”.
Tra Carbonia e Guspini il nostro itinerario si qualifica per il carattere spiccatamente minerario che connota tutti gli aspetti (paesistici, ambientali e urbanistici) del territorio e permette di cogliere, in chiave di archeologia industriale, i segni dell’attività estrattiva metallifera (nella regione attorno a Iglesias) e carbonifera (nel Sulcis, cioè a sud di Iglesias), in passato vivacissima e oggi abbandonata in quasi tutti i distretti. Carbonia, pianificata negli anni Trenta dal fascismo per garantire manodopera alle miniere di carbone, si è oggi trasformata in una vivace e moderna città terziaria. Una trentina di chilometri più a nord, Ingurtosu (poco prima di Piscinas) rappresenta invece uno degli esempi di insediamento minerario (piombo e zinco) ottocentesco più significativi dell’isola. Previsto per oltre mille addetti, il complesso colpisce oggi per il suo stato di avanzato degrado. Di quei prestigiosi stabilimenti, qui come altrove nella regione, rimangono solo imponenti rovine, che verso il tramonto assumono un aspetto quasi minaccioso.

Dalla preistoria al Romanico
Sono due i periodi della storia sarda – osserva la guida verde del Touring – che hanno prodotto le architetture più orginali dell’isola: da una parte la lunga età nuragica, che ha disseminato delle sue 7 mila torri il paesaggio sardo, dall’altra il periodo ‘giudicale’, che ha visto sorgere nell’isola le grandi chiese romaniche”.
Se l’architettura romanica, con le sue caratteristiche chiese, è a tutti nota, non così si può affermare per quella nuragica, tipica della Sardegna. Soffermiamoci quindi brevemente su questa civiltà, prima di visitarne alcune delle opere più significative. Si sviluppò su un lungo periodo: dal 1800 alla fine del VI secolo a.C. e sopravvisse in certe zone interne fino alla conquista romana e oltre. La popolazione, dedita alla pastorizia e all’agricoltura, era calcolabile in 200, 250 mila abitanti distribuiti capillarmente sul territorio in piccoli villaggi. Nel corso del tempo i nuraghi diventarono veri e propri castelli attorno ai quali venivano costruite abitazioni e spazi pubblici, difesi a distanza da una cinta muraria. Dagli oggetti rinvenuti gli archeologi hanno potuto stabilire che si trattava di una società con un forte senso religioso, con ceti egemoni e classi subalterne. Dalle navicelle in bronzo rinvenute si può dedurre che i Sardi navigavano su proprie flottiglie.
Il nostro itinerario prevede la visita di due nuraghi (Su Nuraxi di Barumini e Losa) considerati “l’espressione più alta della tecnica costruttiva raggiunta nell’isola prima della fase punico-romana”. A differenza della maggior parte dei monumenti preistorici presenti in tutto il mondo questi nuraghi vi colpiranno per l’eccezionale grado di conservazione, che vi permetterà di entrare in locali giunti a noi, a distanza di quasi quattromila anni, ancora integri. E non si tratta di costruzioni semplici, ma estremamente complesse: nel villaggio nuragico Su Nuraxi addirittura a più piani sovrapposti. È davvero emozionante penetrare in quelle rovine e scoprire come vivevano e si difendevano gli uomini a quell’epoca.
Di eccezionale interesse, per lo straordinario stato di conservazione delle tombe, è un altro sito archeologico che si trova sul nostro percorso: il Monte Sirai, vicino a Carbonia. Si tratta di una colonia fenicia, fortemente integrata alla comunità nuragica preesistente, che fu fondata attorno al 750 a.C. e distrutta poco più di 200 anni dopo dai Cartaginesi.
Interessante anche la visita al Tempio di Antas, costruito dai Cartaginesi nel 500 a.C. in zona di un insediamento nuragico. Il tempio, situato in un’idilliaca e verdissima vallata a una ventina di chilometri da Iglesias, è stato ampiamente ricostruito nel corso di un discutibile restauro avvenuto negli anni Sessanta.
A Nora, punto di partenza del nostro itinerario e anticamente uno dei più importanti scali fenici dell’isola, potrete invece visitare le rovine di una fiorente città romana con un teatro ben conservato, le abitazioni, le terme e i templi. La sua ubicazione su una incantevole lingua di terra espansa sul mare consentiva l’attracco alle navi in tutte le condizioni di ventosità.
Nella parte terminale del nostro itinerario, a nordovest dell’isola, sorgono, a pochi chilometri di distanza una dall’altra, quattro chiesette fra gli esemplari più belli del romanico isolano. Alte sullo spazio circostante, immerse nel silenzio di ambienti ormai spopolati, colpiscono il visitatore per la loro armonia e semplicità esteriori e per la severità degli interni. Si tratta della basilica di SS. Trinità di Saccargia, di S. Michele di Salvenero, di S. Maria del Regno ad Ardara e di S. Antioco di Bisarcio.
Molto più a sud, nella prima tappa dell’itinerario, all’ingresso del villaggio di Tratalias sorge la chiesa di S. Maria, armoniosa ma imponente basilica romanica, che merita anch’essa di essere visitata.

L’itinerario

1° giorno – 45 km
Cagliari – Pula – Santa Margherita

2° giorno – 220 km
Santa Margherita – Nora – Bithia – Tratalias (chiesa di S. Maria) – Carbonia – Monte Sirai – Nebida – Masua – Buggerru – Tempio di Antas – Ingurtosu – Piscinas

3° giorno – 290 km
Piscinas – Guspini – Sanluri – Su Nuraxi (nuraghe) – Tuili – Gesturi (Giara) – Losa (nuraghe) – Macomer – Bosa – Alghero

4° giorno – 70 km
Alghero – Porto Conte – Grotta di Nettuno

5° giorno – 130 km
Alghero – Olbia (lungo il tragitto visita alle chiese romaniche di SS. Trinità di Saccargia, S. Michele di Salvenero, S. Maria del Regno ad Ardara e S. Antioco di Bisarcio)

Guide

Italia, La Guida Verde, Michelin, Edizioni per viaggiare, Milano 2002 (pagg. 454-467)
Italia 2008, Alberghi e ristoranti, Michelin
Sardegna, Guida d’Italia (guida rossa), Touring Club Italiano, Milano 2005
Sardegna, Guida d’Italia (guida verde), Touring Club Italiano, Milano 2004
Italie du sud, Les guides bleus, Hachette, Paris 1977
Sardegna, Meridiani, anno XVIII, numero 140, luglio 2005
La storia di Sardegna, Carlo Delfino Editore, Sassari 2000
Paolo Melis, Civiltà nuragica, Carlo Delfino Editore, Sassari 2003

Sardegna – Dietro le quinte di un’isola da cartolina

Sardegna – Dalle dolci colline al mare dei miti e della storia

La costa orientale sarda, quella più mondana, si affaccia sul Tirreno. Oltre al mare cristallino e alle calette da sogno, vale la pena, però, scoprire l’entroterra ancora selvaggio e altrettanto affascinante.

Oggi, quando si sente parlare di Sar­degna, per associazione di idee si pensa immediatamente al mare. È normale: è un’isola e ha splendide spiagge! Eppure storicamente esiste un’altra Sardegna, sviluppatasi all’interno delle coste, che può essere considerata la vera Sardegna. L’itinerario in automobile che vi proponiamo si sviluppa da Cagliari a Olbia lungo la strada statale 125, denominata “Orien­tale Sarda”, costruita sul tracciato di una delle quattro arterie d’epoca romana. Per conoscere la Sardegna più discosta e tradizionale, quella mon­tagnosa, vi suggeriamo due deviazioni sui Monti del Gennargentu e del Supramonte, tristemente famoso per i sequestri di persona.
Il tragitto proposto presenta motivi di interesse sia naturalistici che sociali: un ambiente sociale ancora cristallizzato, in cui sono riconoscibili comportamenti sedimentati da secoli e un am­biente naturale, che nella varietà degli aspetti co­stitutivi, rimanda alle due componenti più sugge­stive e intime dell’isola, ossia i monti solitari e lecoste di straordinaria varietà e bellezza.

Il mare
Il nostro itinerario lungo l’Orientale Sarda corre pre­valentemente all’interno. Per decine di chilometri capita di non incontrare un centro abitato. La strada si affaccia al mare solo in corrispondenza dello sboc­co di vallate alluvionali o allorché si eleva oltre il cordone montuoso litoraneo. Frequenti deviazioni collegano però con le località balneari.
Lungo il percorso vi proponiamo alcune deviazioni sulla costa, oltre naturalmente alla visita della Costa Smeralda e dell’arcipelago della Maddalena. La pri­ma riguarda il golfo di Arbatax. Sul promontorio granitico di capo Bellavista affiorano filoni di porfi­do che, spingendosi in mare, emergono coi caratteri­stici spuntoni noti come le “rocce rosse di Arbatax”. Molto grazioso anche il villaggio di Santa Maria Na­varrese, che si affaccia sul golfo con la sua graziosa chiesina e la torre spagnola, da cui si gode una splen­dida vista.
Giunti a Dorgali vi proponiamo una deviazione di 10 chilometri per scendere al mare, seguendo un tragitto spettacolare, in direzione di Cala Gonone. Splendida la strada lungo la costa che porta a Cala Luna.
Un’ottantina di chilometri più a nord vale la pena di deviare verso San Teodoro, borgata di antica origine, per poi raggiungere l’incantevole Capo Coda Caval­lo, da cui potrete godere di una splendida vista sulla costa e sulle isole verso nord.
La Costa Smeralda con le sue prestigiose località di Porto Cervo e Porto Rotondo non esige certo presen­tazioni. Se amate lo shopping, a Porto Cervo lascere­te l’anima, oltre che il portafogli.
Il luogo di mare forse più incantevole della Sardegna è però l’arcipelago della Maddalena con le sue sette isole. In automobile potrete visitare in parte Caprera e molto bene la Maddalena con le sue straordinarie strade panoramiche. Su tutta l’isola, ma in particola­re a Tegge in riva al mare, potrete ammirare straordi­narie opere d’arte scolpite nel corso dei secoli dalla natura attraverso il vento e le onde del mare. Secon­do il geografo francese Jules Sion, incantato dal­l’asprezza e dalla solitudine del paesaggio, ricordano le incisioni dantesche di Gustave Doré. Poco più avanti, una strada sterrata scende al mare verso Cala Madonnetta. Giunti al termine potrete salire a piedi verso una graziosa cappella costruita a forma di nave da cui si domina il golfo. Quando lascerete l’isola e in 20 minuti di traghetto tornerete a Palau, non man­cate di visitare il Capo d’Orso e di salire a piedi sulle splendide rocce scolpite dal vento.

L’altra Sardegna
Il carattere più rimarchevole del nostro itinerario lungo l’Orientale Sarda è costituito dalla bellezza dei paesaggi montani, che si succedono a partire dal trat­to iniziale. Proponiamo due deviazioni. La prima lungo la valle del Rio Pardu per ammirare le singolari formazioni rocciose localmente note come “tac­chi”, la seconda nel Supramonte, inoltrandovi da Dorgali verso il centro dell’isola, dopo aver attraver­sato suggestive montagne dolomitiche dalla connota­zione di tipo alpino, nonostante l’altezza non cospi­cua. Incontrerete territori incontaminati, paesaggi af­fascinanti, dove l’unico brusio sarà quello del vento. È questa un’altra Sardegna: delle montagne e della pastorizia, delle greggi e delle transumanze, chiusa in se stessa nelle sue impenetrabili regioni, che con­serva con orgoglio anche i suoi antichi tratti guerrie­ri. Una Sardegna che si oppose agli invasori di tutte le epoche, in parte con successo, e che si contrappo­ne a quella delle coste e delle pianure, dei campi col­tivati e delle città, aperta invece agli influssi dei con­quistatori stranieri. Un mondo a sé, caratterizzato dalle difficoltà di accesso e dalle dure condizioni di vita. In queste valli ripide e scoscese si è sviluppata quella comunità umana che in millenni ha costruito la Sardegna pastorale, con le sue pecore, le sue tran­sumanze, la sua fame di pascoli. La pastorizia, assie­me alla cerealicoltura è stata sempre la fonte princi­pale di ricchezza dell’economia sarda. Già nel 1611 Martin Carillo contava circa un milione di pecore. Ma la vita contadina era molto dura secondo il profi­lo tracciato da un pastore di Sarule: “che se nevica è contro di lui, se c’è la siccità che ne piange è lui, se i prezzi scendono lui ci rimette il latte e tutto, se sal­gono contro di lui, se ci sono i carabinieri è contro di lui, perché è pastore e il pastore è sempre solo, solu che se fera, solo come una fiera, e per lui non c’è ca­sa, non c’è paese, non c’è figlio, non c’è festa”.
Se già la Sardegna fu considerata “l’isola dimenticata”, vissuta in condizioni di singolare isolamento, poco considerata dai suoi conquistatori, “un’ecce­zione tra le isole mediterranee, perché ferma e chiu­sa in se stessa”, un “museo naturale di etnografia”, le regioni montagnose del centro est possono conside­rarsi un’isola nell’isola.
Nel cuore di questa Sardegna, in uno dei luoghi più magici toccati dal nostro itinerario, nella fresca cam­pagna del Supramonte, avvolta nel silenzio rilassante e antico delle coltivazioni di vigneti e olivi, dove l’aria profuma delle essenze di mirto e rosmarino, incontrate una delle leggende dell’ospitalità sarda: Su Gologone. Mentre Aga Khan concepiva il suo progetto turistico sulla Costa Smeralda, Peppeddu Palimodde e sua moglie, indebitandosi fino al collo, realizzarono un sogno quasi impossibile: aprire un ristorante con cucina tradizionale e in seguito un al­bergo di lusso in una regione allora dimenticata da tutti, in preda alla miseria e tristemente famosa per i suoi briganti. “Ci dicevano che eravamo matti – rac­conta la signora – perché la gente non sarebbe mai andata al ristorante per mangiare la cucina casalin­ga”. Oggi il ristorante Su Gologone è considerato un tempio della cucina sarda e il raffinato albergo un’oasi per chi ama la natura.

Le tombe dei giganti
Per le sue vicende storiche la Sardegna non offre un patrimonio artistico di particolare interesse, salvo le testimonianze del periodo nuragico, quando l’isola ­come fa notare lo storico Paolo Melis – “ebbe uno sviluppo originale e grandioso, quale non è dato ri­scontrare nelle altre aree mediterranee”.
La civiltà nuragica, come abbiamo nella prima parte, si sviluppò in Sardegna su un lungo periodo che va dal 1800 a. C. alla fine del VI secolo a. C. La popolazione, che si pensa superasse i 200 mila abi­tanti, era dedita soprattutto alla pastorizia e all’agri­coltura ed era distribuita capillarmente sul territorio in piccoli villaggi: i nuraghi appunto, in cui le abita­zioni venivano costruite attorno alla torre centrale (una sorta di castello), difesa a distanza da una cinta muraria.
Il nostro percorso lungo l’Orientale Sarda prevede la visita del villaggio nuragico di Serra Orios, a una de­cina di chilometri da Oliena, formato da oltre 70 co­struzioni per la maggior parte di tipo circolare. L’iti­nerario prevede però anche la visita di tre luoghi fu­nerari, definiti popolarmente “le tombe dei giganti” per le loro notevoli dimensioni. Si tratta di sepolcri collettivi della civiltà nuragica, che solitamente sor­gevano nei pressi di un villaggio. Al centro campeg­gia un’alta stele formata da un’unica lastra con un portale che rappresenta l’ingresso alla vita ultraterre­na. Ai lati della stele si trova una serie di lastroni in­fissi nel terreno, che delimitano uno spazio circolare ad esedra e che hanno un andamento digradante. Quest’area era riservata al culto e alle offerte per i de­funti. La stele è unita mediante un piccolo corridoio al corpo della tomba, che ha grandi dimensioni per la sepoltura comune dei membri del villaggio.
Sul nostro percorso incontriamo le tombe dei giganti Sa Ena ‘e Thomes, a pochi chilometri dal villaggio nuragico di Serra Orios, quella di Lu Coddhu ‘Ecchju a pochi chilometri da Arzachena e quella di Li Lol­ghi, a pochi chilometri dalla precedente.

L’itinerario

1° giorno
Milano – Cagliari

2° giorno – 282 km
Cagliari – Muravena – Jerzu – Arbatax – Cala Gonone – Oliena – Su Gologone

3° giorno – 189 km
Su Gologone – Serra Orios – Sa Ena’e Thomes – Lula – Siniscola – Sta Lucia – Posada – S. Teodoro – Pto S. Paolo – Olbia – Arzachena – Capo Orso – Palau – La Maddalena

4° giorno – 70 km
La Maddalena – Caprera – Palau – Golfo Arzachena – Porto Cervo

5° giorno – 65 km
Porto Cervo – Porto Rotondo – Golfo Aranci – Aeroporto

Guide

Italia, La Guida Verde, Michelin, Edizioni per viaggiare, Milano 2002 (pagg. 454-467)
Italia 2008, Alberghi e ristoranti, Michelin
Sardegna, Guida d’Italia (guida rossa), Touring Club Italiano, Milano 2005
Sardegna, Guida d’Italia (guida verde), Touring Club Italiano, Milano 2004
Italie du sud, Les guides bleus, Hachette, Paris 1977
Sardegna, Meridiani, anno XVIII, numero 140, luglio 2005
La storia di Sardegna, Carlo Delfino Editore, Sassari 2000
Paolo Melis, Civiltà nuragica, Carlo Delfino Editore, Sassari 2003
Serra Orrios e i monumenti archeologici di Dorgali, Sardegna archeologica, Carlo Delfino Editore, Sassari 2005