Birmania – Un lago, un mondo

Birmania – In fuga lontano dalla globalizzazione
Birmania – Un passo nella storia
Birmania – Birmania, dilemma etico per il turista
Birmania – Un paese sospeso tra storia e futuro

A 900 metri di altitudine, sul lago Inle di una bellezza incomparabile. Una società fluttuante, dove la canoa non solo è un mezzo di trasporto, ma diventa anche spazio sociale. Un viaggio con Kel12 nelle tradizioni, nel credo, nei mercati e nell’artigianato di una società dove il tempo sembra essersi fermato.

Arriviamo al lago Inle all’ora del tramonto, dopo un breve spostamento in aereo. Una barca lunga e stretta, che sarà il nostro mezzo di trasporto per i prossimi giorni, ci sta aspettando per portarci all’albergo. Il sole sta per tramontare e i cielo assume tutte le sfumature dal rosso all’arancione, che si specchiano sull’acqua ferma. I contadini sulle loro barche piatte stanno remando per tornare dagli orti galleggianti alle loro case a palafitta nei villaggi. Qualche pescatore si attarda. La sua immagine allungata si riflette sulla superficie dell’acqua. Sembra un paesaggio irreale. È questa la prima immagine di questo lago, che è un mondo a sé. Siamo arrivati al nostro splendido albergo, che si affaccia sulla riva ed è gestito da un francese.
Situato a circa 900 metri di altezza e delimitato da due catene montuose il lago Inle, di una bellezza incomparabile, è lungo solo 22 chilometri e largo 11, ma da esso si dirama una vastissima ragnatela di canali navigabili. È famoso per il suo stile di vita. Una società fluttuante, dove la canoa non solo è mezzo di trasporto, ma diventa anche spazio sociale. La popolazione vive di agricoltura, di artigianato e di pesca. In birmano “in” significa lago, mentre “le” vuol dire quattro. In effetti i primi documenti risalenti al 1637 parlano di quattro villaggi. Oggi sulle rive se ne affacciano diciassette, abitati complessivamente da 70 mila persone. Ma l’intera regione, compreso chi abita sulla terraferma ma vive del lago, ne conta 130 mila.
Secondo la leggenda, nel 1359 due fratelli originari di Dawei nel sud del paese arrivarono in questa regione per lavorare al servizio di un cosiddetto “sao pha”, che significa “signore del cielo”, il titolo ereditario assegnato ai capi Shan. Fu talmente soddisfatto del duro lavoro e del comportamento dei due che chiese loro di far giungere altre trentasei famiglie da Dawei: tutti gli Intha, la principale etnia che popola le rive di queste acque, sarebbero loro discendenti. Gli Intha sono in effetti grandi lavoratori, conosciuti per la loro originale tecnica di remata, che consiste nell’utilizzare piccole imbarcazioni piatte, sospinte da un remo su cui si fa pressione con la gamba, avvantaggiandosi di una leva simile alla forca veneziana. La superficie del lago è in continua evoluzione a causa dei famosi orti galleggianti, fissati al fondo – la profondità oscilla tra due e tre metri – con un palo di bambù. Le isole e le penisole che si vengono così a formare sono collegate da una rete di canali che costituiscono le principali vie di trasporto e permettono di navigare per ore senza percorrere mai lo stesso tragitto.

Tutta la vita attorno al lago
Il mattino alle 8 la nostra barca ci attende per una splendida gita, che in tre ore lungo canali navigabili ci porterà verso sud, al villaggio di Sagar. È aperto al turismo da pochi anni, da quando il governo ha concesso uno statuto speciale alla tribù dei Pa O, di etnia Shan, che abita Sagar, ma vive soprattutto sulle montagne ed è famosa per il suo aglio, che sembra sia il migliore del paese. Per visitare il villaggio bisogna essere accompagnati da una loro guida. La tribù dei Pa O conta circa 500 mila persone e sembra bene organizzata, perché possiede un albergo e un ristorante sul lago e richiede un pedaggio a chi visita Sagar. Con queste entrate finanziano opere sociali.
La gita è particolarmente interessante per capire come queste popolazioni riescano a vivere sull’acqua. Siccome il lago è poco profondo ed è colmo di alghe, la nostra barca è dotata di un motore a scoppio con una strana elica che non affonda, ma gira a filo d’acqua causando uno spruzzo a forma di arco. Attraversiamo diversi pittoreschi villaggi con le case a palafitta. La gente vive sulle rive del lago e dei canali: i bimbi giocano con l’acqua, le donne lavano i panni, molti si lavano, altri coltivano i loro orti galleggianti a bordo delle canoe o trasportano merce, altri ancora pescano. Il paesaggio è verdissimo e cambia continuamente prospettiva. Lungo un canale incontriamo addirittura due bufali che nuotano. Finalmente arriviamo a Sagar, dove il mercato sta per chiudere. Gli abitanti ci accolgono con la consueta gentilezza, ci mostrano le loro case e ci offrono banane. La abitazioni hanno la struttura in canna di bambù e le pareti e i tetti in paglia o fogliame. Sono molto simili a quelle che abbiamo visto sulle montagne. Sulla riva visitiamo alcuni suggestivi stupa abbandonati (monumenti religiosi a forma di cono), che si specchiano nelle acque del canale. Le rare statue di Buddha sono naif e hanno uno sguardo meno dolce del solito.
Sulla via del ritorno notiamo diversi pescatori all’opera. Su minuscole canoe trasportano enormi ceste a forma di cono con un telaio in bambù avvolto da reti. Le posano sul fondo del lago rovesciate e piantano un palo di bambù per sapere dove si trovano. Quindi si spostano attorno e sbattono violentemente il remo della canoa sull’acqua per spaventare i pesci e orientarli verso la rete. Sembra che nel lago Inle ne vivano venticinque specie. Il nostro barcaiolo si avvicina alla canoa di un pescatore che ci mostra orgoglioso il suo bottino custodito sul fondo dell’imbarcazione.

Gli orti galleggianti
Siamo rimasti sul lago altri due giorni per visitare i mercati, i villaggi specializzati nell’artigianato, i luoghi di culto. Ogni giorno ci colpiva l’enorme diffusione degli orti galleggianti. Gli studiosi affermano che se si va avanti di questo passo nel giro di alcuni secoli il lago scomparirà. Creare un orto galleggiante è faticoso, ma relativamente semplice. Le piante di giacinto che crescono spontaneamente sul lago hanno infatti la proprietà di costituire piccole isole. Si tratta di staccare con grande fatica uno di questi isolotti, di trascinarlo con la canoa dove si desidera, di fissarlo con pali di bambù al fondo del lago (altrimenti fluttua e se ne va) e di ricoprirlo di alghe di cui il lago è colmo, che rendono il “terreno” fertilissimo. Questi isolotti vengono allineati in filari tra i quali i contadini entrano con le loro canoe strette e piatte. Oggi si coltivano soprattutto pomodori (ma anche fiori, frutta e altri ortaggi) che maturano ben tre volte all’anno. Quelli del primo raccolto sono di piccole dimensioni e vengono pertanto consumati localmente, ma i successivi vengono distribuiti in tutto il paese e coprono il 60 per cento del fabbisogno.

Buddha deformati dalla devozione
Le cinque statue di Buddha conservate nel tempio Phaung Daw Oo, che si affaccia sul lago, sono tra le più venerate in Myanmar. La devozione dei fedeli le ha addirittura sfigurate. In Birmania vige infatti l’usanza da parte dei pellegrini di applicare alle statue del Buddha sottilissimi lamine d’oro, che si acquistano in bustine (simili a quelle delle nostre figurine) nei luoghi di culto. Ebbene a furia di ricevere foglie d’oro queste cinque statue sono ormai sfigurate e non hanno più la parvenza del Buddha. Ogni anno, tra settembre e ottobre, quattro delle cinque statue vengono trasportate sul lago a bordo di una stupenda imbarcazione, seguita da centinaia di canoe di fedeli in festa, e accompagnate nei vari villaggi, dove trascorrono una notte di grande festa. La quinta statua, a partire dagli anni Settanta, non viene più spostata. Sembra che durante una tempesta la barca che trasportava le cinque statue si rovesciò: quattro furono ripescate, la quinta non fu ritrovata perché si trovava già al suo posto cosparsa di alghe. Da allora non viene più rimossa.
Il monastero Nag Phe Kyaung è noto per i suoi gatti saltatori, ma custodisce una splendida collezione di statue del Buddha realizzate in vari stili e in diverse epoche. I maligni sostengono che qualche volta anche i monaci buddisti si annoiano. Qualcuno di loro si è allora dedicato ad ammaestrare gatti, che sollecitati saltano dentro un cerchio, come fanno le tigri e i leoni al circo.
Un altro luogo mistico di grande fascino è Shwe Inn Thein, uno straordinario complesso di stupa del XVII secolo costruiti su una collina che purtroppo sono stati danneggiati dall’azione degli elementi naturali, ma finora non ancora sottoposti a restauro. Ed è proprio questo stato di abbandono a conferire a quel luogo un’atmosfera magica e di pace. Al sito si giunge percorrendo un cammino coperto sotto un colonnato lungo quasi due chilometri, che collega il luogo sacro al paese. Purtroppo il turismo ne ha in parte snaturato la magia, perché lungo il corridoio si allineano bancarelle che vendono chincaglierie di cattivo gusto. E dire che l’artigianato di qualità in questo paese non manca!

Un artigianato di qualità
In Myanmar in generale e al lago Inle in particolare si può ancora trovare un artigianato di elevata qualità, accanto a chincaglierie di cattivo gusto prodotte per turisti frettolosi. In questo paese l’industrializzazione non si è espansa al di fuori dei centri principali, per cui si costruiscono ancora molti oggetti artigianalmente e si sono conservate abilità manuali andate perse ormai quasi ovunque. I prodotti artigianali più preziosi del lago Inle sono certamente i tessuti ottenuti filando la fibra contenuta nel fusto del fior di loto. È l’unico posto al mondo dove avviene questa lavorazione, che richiede tempi lunghissimi. Ma qui la mano d’opera costa poco, troppo poco: una tessitrice non arriva a guadagnare 100 dollari al mese. Quasi in ogni casa è presente un telaio. Al lago Inle, come ad Amarapura, la città imperiale vicino a Mandalay si tesse il filato di seta proveniente dalla Cina, ottenendo stoffe di elevatissimo pregio. In altre parti del Myanmar, anche sulle montagne vengono invece prodotti teli variopinti in cotone con soggetti tradizionali di grande bellezza. I più belli si acquistano sul luogo di produzione.
Sul lago Inle esistono anche centri di lavorazione dell’argento, di produzione della carta fatta a mano e dei sigari con le foglie di tabacco coltivato negli orti.
Lungo una strada di Mandalay, alcune centinaia di chilometri a sud rispetto al lago Inle, un’intera via è dedicata agli atélier dove si lavora il marmo e si producono soprattutto Buddha di dubbio gusto. Bagan, la città che ospitò il primo impero birmano tra l’XI e il XIII secolo è invece famosa per i suoi preziosi oggetti in lacca, la cui lavorazione richiede alcuni mesi.

Una terra di mercati
Non puoi conoscere un paese senza visitare i suoi mercati. E questo vale soprattutto per una nazione poco industrializzata come il Myanmar. Il mercato forse più interessante e pittoresco che abbiamo visitato durante il viaggio è quello del villaggio di Nan Pan, il più grande che si tiene sulle rive del lago Inle, dove ogni giorno della settimana cambiano le sedi dei mercati. In questo luogo affluisce sia la gente che viene dal lago, sia quella che scende dalle vicine montagne. L’afflusso dalla riva è caotico perché le imbarcazioni sono moltissime ed è quasi impossibile ormeggiare. Una volta a terra il mercato è enorme e vi si trova di tutto. La parte dedicata ai turisti è per fortuna molto ristretta. Tutto il resto è per gli indigeni. Il più variopinto è il settore ortofrutticolo. È incredibile la varietà dei prodotti alimentari. Qui si utilizza tutto di tutto. Non si butta via niente. Lo abbiamo notato in tutti i mercati durante il viaggio. May, la nostra graziosa guida, che è anche una buongustaia, ci mostra tutti i cibi e ci spiega come si cucinano.
Praticamente ogni giorno durante il nostro itinerario in Myanmar abbiamo visitato mercati. I più interessanti sono quelli a cui affluiscono i contadini da varie parte della regione, come accade al lago Inle, ma anche a Kyaing Tong nel nord-est e a Bagan. Notissimo è anche il mercato di Yangon, dove si trova di tutto, ma non il fascino della campagna.

Birmania, dilemma etico per il turista

Birmania – In fuga lontano dalla globalizzazione
Birmania – Un passo nella storia
Birmania – Un lago, un mondo
Birmania – Un paese sospeso tra storia e futuro

Riteniamo che sia troppo presto per il turismo, gli investimenti e gli aiuti… – affermava nel 1995, dopo il colpo di stato militare, il premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi. Finché arriva denaro, lo Slorc (ndr. il partito dei militari) non sarà mai incentivato al cambiamento“.
Nutro un profondo rispetto per la Signora (così viene chiamata Aung San Suu Kyi in Myanmar), ma non sono d’accordo con lei – scriveva nel 2004 un sostenitore della Lega Nazionale per la Democrazia. Se avessi modo di parlarle so che mi ascolterebbe. Il boicottaggio generale non è possibile”. Purtroppo la Signora è tuttora perseguitata dalla giunta militare, le è impedito di partecipare alla vita politica. I militari sono al potere da quasi cinquant’anni. Nel 1990 concessero le elezioni, ma quando la Lega Nazionale per la Democrazia di Aung San Suu Kyi vinse con l’82 per cento dei voti non rispettarono il verdetto del popolo.
E allora, data questa situazione, è il caso di visitare la Birmania? È il problema di coscienza con cui mi sono scontrato prima di decidere di partire per questo splendido ma sfortunato paese. La guida Lonely Planet nelle prime pagine del volume dedicato al Myanmar, si pone lo stesso interrogativo e spiega le ragioni della pubblicazione. “Pensiamo – si legge nelle pagine iniziali – che il viaggio sia uno dei mezzi più potenti che il mondo abbia a disposizione per la diffusione della tolleranza, della comprensione reciproca e della democrazia… È vero, nel 1995 Aung San Suu Kyi affermò che il paese non era pronto per il turismo, ma aggiunse che ‘i turisti possono aprire il mondo alla gente del Myanmar proprio come la gente del Myanmar può aprire gli occhi dei turisti sulla situazione del proprio paese, se sono interessati a conoscerla’. Siamo d’accordo”, conclude l’autore della guida.
Scorriamo brevemente gli argomenti pro e contro ben riassunti da Lonely Planet. Iniziamo da quelli contrari. Il governo è ricorso ai lavori forzati per costruire le infrastrutture turistiche. Visitare il Myanmar può essere interpretato come una forma di approvazione della dittatura. È impossibile evitare che parte del denaro dei turisti finisca nelle tasche della giunta, che, d’altra parte, mostra ai visitatori solo ciò che vuole. Ecco invece le ragioni dei favorevoli. La maggioranza della popolazione vede di buon occhio i turisti. Nelle zone frequentate dagli stranieri è più difficile che avvengano abusi riguardo ai diritti umani. Se non si viaggiasse in Myanmar, il governo potrebbe decidere di imprimere un ulteriore giro di vite alla repressione. Per la popolazione locale chi visita il paese è fonte di reddito e un mezzo per comunicare con il mondo esterno. Non so quale delle due tesi sia la più corretta, ma molto dipende dalla mentalità, dal modo con il quale ci si avvicina a questo come ad altri paesi con regimi totalitari. “I visitatori che giungono nel nostro paese – ha affermato Aung San Suu Kyi in un’intervista – possono risultare utili a seconda di quello che fanno e di come lo fanno”. Ho trovato in Myanmar gente deliziosa, che ha piacere di incontrare gli stranieri. Da tutte le persone che si sono aperte al dialogo, il governo mi è sembrato mal tollerato e assolutamente impopolare, mentre della Signora tutti parlano con venerazione e rispetto. È vero, i turisti non hanno accesso a tutte le regioni, ma dove arrivano con la giusta mentalità possono portare un’immagine di rispetto e di tolleranza. Questo è il turismo in cui credo.

Birmania – Un paese sospeso tra storia e futuro

Birmania – In fuga lontano dalla globalizzazione
Birmania – Un passo nella storia
Birmania – Un lago, un mondo
Birmania – Birmania, dilemma etico per il turista

È con la cultura che si innesca il progresso, perché senza di essa l’uomo è condannato a vedere nell’altro sempre e solo un nemico”. Questa frase del sociologo algerino K.F. Allam, mi sembra spieghi bene il senso del viaggiare e soprattutto di un viaggio in Birmania, un paese che non è stato ancora colonizzato dalle mode straniere e che ha salvaguardato una propria identità, la ‘birmanità’. Ed è proprio questo il motivo per cui vale la pena di visitare la Birmania.
Sette persone su dieci in Myanmar lavorano la terra. L’11% circa dei 52 milioni di abitanti vive nella capitale, dove non si conosce ancora il fenomeno della migrazione di massa verso la grande città. La vasta pianura centrale con il suolo più fertile del paese solcato dalle acque del fiume Ayeyarwady, lungo oltre duemila chilometri, è sempre stata dominata dal gruppo che nelle varie epoche si è rivelato il più forte: i Bamar o Birmani che con il 68% costituiscono la maggioranza della popolazione. Si ritiene siano migrati anticamente dall’Himalaya e già nell’XI secolo dominavano buona parte del territorio dalla loro capitale Bagan, una delle meraviglie di questo paese. In Myanmar gli etnologi riescono a distinguere ben 135 gruppi etnici differenti, mentre una ricerca fatta negli anni Quaranta aveva recensito 242 lingue e dialetti diversi. Tutti questi popoli si sono stanziati lungo il fiume Ayeyarwadi, sovrapponendosi gli uni agli altri senza però mai meticciarsi completamente e conservando ognuno le proprie identità culturali e linguistiche. L’orgoglio e i pregiudizi tra le varie etnie della Birmania sono spesso causa di tensioni, tanto che una delle maggiori difficoltà incontrate dai governi che si sono succeduti nel paese è sempre consistita nel mantenere la pace e la stabilità dei confini. Anche gli Inglesi, durante la loro dominazione coloniale (1824-1948) riuscirono a stento a mantenere l’ordine, alternando promesse di semi-autonomia all’uso della forza. Come fanno notare gli autori della guida turistica Lonely Planet, “benché sia passato oltre un secolo e il governo sia cambiato, la situazione è rimasta pressoché invariata. Gli scontri tra le truppe a maggioranza Bamar e i gruppi etnici minoritari, protrattisi nei quattro decenni successivi all’indipendenza, sono stati ormai quasi tutti sedati. Le etnie che hanno firmato accordi di cessate il fuoco con le autorità hanno ottenuto in cambio una limitata autonomia economica, mentre quelle che continuano a combattere contro il governo vengono trattate con brutalità”. Diverse regioni considerate ancora ‘calde’ (definite dai locali ‘zone nere’, le più pericolose, e ‘zone marroni’, le meno bellicose) sono tuttora chiuse al turismo. Recentemente però alcune sono state aperte perché il governo ha trovato un compromesso con le tribù locali.
Tutte le persone che ho incontrato si augurano che il governo cambi al più presto, ma quando si parla del futuro molti si dicono preoccupati per l’unità del paese e temono che il Myanmar si possa dividere come è avvenuto tragicamente in Jugoslavia dopo la caduta del regime. Una delle regioni storicamente più autonomiste è quella abitata dall’etnia Shan, a sua volta suddivisa in diverse tribù con lingue e religioni differenti. Si tratta di una terra splendida e con un sottosuolo ricchissimo. È stata la prima destinazione del mio viaggio in Birmania e mi ha permesso, di visitare diversi villaggi di montagna dove si ha davvero l’impressione che il tempo si sia fermato. La stessa atmosfera la si trova anche a Bagan e nelle altre città imperiali e sul lago Inle.

Danimarca – Tra paesaggi marini selvaggi e una campagna armoniosa

Danimarca – Alla scoperta dei vichinghi e del castello di Amleto
Danimarca – Una monarchia antica e democratica

Una natura incontaminata con paesaggi marini selvaggi e una campagna estremamente armoniosa. Ville e castelli immersi nel verde. Un’atmosfera tranquilla che fa sentire a proprio agio. Un paese, che, come la sua capitale, appare al tempo stesso rilassato e operoso. È questa la Danimarca che vi proponiamo in questo itinerario di viaggio che richiede una decina di giorni in automobile, su strade in cui guidare è piacevolissimo, perché appena ci si allontana da Copenhagen sono poco trafficate e scorrono tra campagne incantevoli e lungo coste sabbiose.

L’architettura moderna e il design figurano tra le principali attrattive della Danimarca. Un primo e significativo approccio lo si ha atterrando all’aeroporto di Copenhagen disegnato da Arne Jacobsen. Una struttura armoniosa, dove tutto, dalla facciata in metallo e vetro, dalle poltrone alle lampade, dai tessuti alle posate, era stato da lui progettato in un unico insieme perfettamente integrato.
Noleggiamo un’automobile con la quale ci dirigiamo verso ovest e in un meno di due ore arriviamo a Odense, terzo centro del paese e città natale di Hans Christian Andersen, il più noto scrittore di fiabe al mondo. Tutto a Odense ricorda il letterato: musei, sculture che lo ritraggono assieme ai personaggi dei suoi racconti più noti e curiosità inaspettate come le panchine pubbliche con zampe di mostri al posto delle gambe. Passeggiando per le anguste viuzze dell’antico quartiere che sorge attorno alla casa-museo di Andersen si ha l’impressione di tornare indietro nel tempo. Le case hanno un aspetto pittoresco e affascinante, con quelle minuscole finestre quadrate la cui parte inferiore soltanto è ornata da tendine. Ma, nonostante quelle case siano abitate e formino nel complesso un insieme armonioso, il quartiere è impresso di una tale nostalgia che si ha l’impressione di contemplare la scenografia di uno spettacolo dimenticato, ben lontano dalle luci della ribalta.
Quando morì il 4 agosto 1875 qualcuno scrisse che Andersen “sapeva come far vibrare le corde dell’animo umano”. Nelle sue fiabe si trova una quantità di spunti di riflessione: motivi esistenziali, riflessioni psicologiche, problemi sociali, frequenti rimandi autobiografici. E la realtà Andersen la guardò spesso con amarezza e pessimismo, anche perché la sua vita non fu molto felice. Figlio di un ciabattino, assurse ai massimi onori, ma soffrì molto per le sue sembianze fisiche da brutto anatroccolo. Tanto che arrivò a giudicare la bellezza fisica “un dono più prezioso del genio e della forza morale”.

Skagen,Ascona danese
Lasciamo le magiche luci dell’isola di Fyn, che ispirarono le fiabe di Andersen, per raggiungere verso ovest la penisola dello Jylland che collega la Danimarca alla Germania. Il paesaggio estivo è affascinante: enormi chiazze gialle di colza, mazzi rossi di papaveri, l’oro dei campi di grano, il verde chiaro dell’orzo, quello brillante dei prati abbracciati dai boschi dove la luce penetra a stento, ma dove crescono in abbondanza mirtilli, lamponi, more e, in autunno, ottimi funghi. “Stavo pensando alle gente che ha vissuto prima di noi – esclama il giovane gentiluomo protagonista di ‘Un racconto di campagna’ romanzo di metà Novecento della famosa scrittrice danese Karin Blixen – e che ha disboscato e dissodato e arato questa terra. Quante volte avranno dovuto ricominciare da zero questo lavoro! In quei giorni lontani bisognava combattere gli orsi e i lupi, e poi i pirati e gli invasori, e poi ancora i padroni crudeli e spietati. Ma se un giorno di raccolto come questo, essi dovessero risorgere dalle loro tombe e guardare questi campi e questi prati, forse penserebbero che ne è valsa la pena”.
In meno di due ore di automobile raggiungiamo Ahrus, dove ci limitiamo a visitare, nella periferia occidentale della città, la cosiddetta “Città Vecchia”, uno dei più interessanti musei all’aperto di tutta la Danimarca. Diversi edifici antichi, provenienti da varie città danesi e risalenti ai secoli XVII, XVIII e XIX sono stati trasferiti qui e ricostruiti con estrema cura per riportare alla luce una città del passato. Il museo consente di osservare tutti gli aspetti della vita urbana di un tempo con le diverse attività commerciali, artigianali, industriali e amministrative.
Riprendiamo il nostro itinerario per raggiungere (ci vogliono circa 2 ore e mezzo) Skagen, la punta più a nord della Danimarca. Le strade sono in ottimo stato e permettono medie piuttosto elevate (circa 80 km/h), anche perché la montagna più alta del paese raggiunge un’altezza di 147 metri. Arriviamo in tempo per visitare il museo locale, che raccoglie le opere di un gruppo di artisti che tra il 1830 e il 1930 scoprì questo luogo discosto e rimase sedotto dai suoi paesaggi desertici battuti dai venti e dalla sua luce intensa e perpetuamente cangiante. Il museo espone 1500 tele, disegni, sculture e oggetti, nonché la sala da pranzo dell’hotel Brondum dove gli artisti della “scuola di Skagen” avevano il loro punto di ritrovo. I pittori si appassionarono all’immaginario romantico di questo villaggio di pescatori e alle dure condizioni di vita dei suoi abitanti. Con un vivido stile figurativo diventato famoso a livello internazionale ritrassero scene di vita quotidiana della comunità dei pescatori. I dipinti esposti riescono ad evocare l’atmosfera del luogo. Particolarmente affascinanti sono le opere di P.S. Kroyer soprattutto perché l’artista si sforza di ‘dipingere la luce’, attratto in particolare dalla cosiddetta ‘ora blu’, ovvero il momento di transizione tra il giorno e la notte, quando il cielo e il mare sembrano fondersi nella medesima tonalità di blu.
È interessante notare una certa similitudine di destino tra la storia di questo villaggio di pescatori, dove ancora oggi al mattino si tiene un’asta del pesce, con quello di un altro borgo di pescatori: Ascona. Entrambe hanno attratto uomini d’arte e di cultura, che hanno costituito ‘scuole’ di fama internazionale e hanno avuto un simile atteggiamento nei confronti delle popolazioni locali: interesse in quanto soggetti delle loro opere, ma non in quanto interlocutori.
Lasciamo il museo per visitare il paesino dalle case basse in legno ed i suoi suggestivi paesaggi illuminati da quella luce straordinaria immortalata dagli artisti.
Proseguiamo in automobile verso la punta nord. Giunti a un parcheggio si procede per un paio di chilometri a piedi per raggiungere il punto in cui l’incontro tra le acque del mare del Nord e del Baltico crea una forte corrente e dove la luce è impagabile grazie all’unione di terra acqua e cielo.
Al ristorante dell’hotel Ruths a Grenen, l’antica Skagen, si trova una delle migliori cucine della Danimarca.

Mare del nord tra sabbia e vento
Sabbia e vento, una terra piatta, che a malapena riesce a contenere il mare del Nord e le sue burrasche, disseminata, subito al di qua della linea delle dune che costeggiano il mare, da bacini interni, laghi salmastri non profondi spazzati da un vento quasi costante. A tratti si attraversano paesaggi lunari, dall’aspetto quasi desertico in cui la strada attraversa le dune ricoperte di erica fiorita che le tinteggia di viola.
E’ questo il paesaggio che si trova percorrendo la costa nord-occidentale, dapprima la nazionale numero 11 e in seguito la 181, tra Skagen e Ribe. Particolarmente suggestivo il tratto che costeggia il Ringkobing Fjord. Un sottile lembo di terra, ampio a malapena un chilometro, separa lungo i suoi 35 chilometri il fiordo dal mare del Nord. Dalle dune di questa punta sabbiosa fanno capolino alcune casette di vacanza. Questo luogo è la meta preferita dagli amanti di windsurf: chi è alle prime armi può fare esperienza nelle calme acque delle baie, i provetti possono invece cimentarsi con le acque del mare del Nord sull’altro lato.
Partendo il mattino da Skagen si arriva a Ribe nel tardo pomeriggio, ancora in tempo per passeggiare prima di cena nelle viuzze della più caratteristica cittadina della Danimarca. Si possono infatti visitare i luoghi storici del centro, dove oltre cento edifici sono classificati quali monumenti nazionali, seguendo con passo tranquillo un itinerario ad anello che non richiede più di un’ora di cammino. Ribe ospita anche l’albergo più antico della Danimarca: l’hotel Dagmar appena ristrutturato. Percorrendo la tortuosa strada acciottolata della città vecchia, su cui si ffacciano antiche case in legno di varie tinte costruite attorno alla cattedrale romanica, si ha l’impressione di vivere l’atmosfera di un’altra epoca. Questo villaggio medievale, grazie alla sua dimensione contenuta, ha potuto conservare la sua unità architettonica senza tuttavia perdere la sua vivacità ed evitando quindi di diventare una città-museo. Un’esperienza interessante è la visita guidata notturna (gratuita) che si tiene ogni sera alle 22 dal primo maggio al 15 settembre, sui passi delle sentinelle medievali. Una “sentinella” in uniforme munita di lanterna e armata di alabarda, accompagna i turisti per le vie del borgo, che di notte diventano ancora più suggestive, intonando antiche melodie danesi. Davanti agli edifici più rappresentativi ne narra la storia in danese e inglese. Si tratta di una simpatica trovata turistica, che riscuote notevole successo.

L’isola aristocratica
In meno di due ore da Ribe si ritorno a Fionia (Fyn), la seconda isola per dimensioni della Danimarca. Con i suoi paesaggi agresti e le case coloniche dal tetto in paglia è soprannominata “il giardino della Danimarca”. L’aristocrazia danese scelse proprio Fionia per costruirvi, nel corso dei secoli, le proprie ricche magioni. Ancora oggi si conservano in ottimo stato palazzi, castelli e ville, tra cui il romantico Egenskov Slot è il più pregevole. E’ uno dei manieri rinascimentali danesi meglio conservati. Si erge su un’isola in mezzo a un lago, circondato da una foresta di querce che gli ha dato il nome. E’ ancora abitato dai discendenti del suo costruttore, ma una parte è aperta al pubblico. Splendido è il parco progettato nel Settecento con spazi coltivati delimitati da siepi e il giardino inglese con grandi prati verdi attorniati da alberi di querce. A una ventina di chilometri da Egeskov si trova Faborg, il più grazioso villaggio dell’isola. Come la maggior parte dei borghi danesi sorge attorno a una strada principale con al centro una vasta piazza che ospita il mercato. A pochi chilometri dal centro, in direzione nord-ovest, a Falsled si trova il Falsled Kro, l’albergo più bello che abbiamo trovato durante il viaggio, che offre anche una delle cucine più raffinate della Danimarca.
Un ponte lungo una ventina di chilometri collega Fionia con l’isola più grande del paese, Sjaelland, sulla quale si trova anche la capitale Copenhagen. Racconta una saga che per avere Sjaelland, Gefion, la dea della fertilità, dovette sedurre il re di Svezia. Dopo una notte d’amore in una radura, il re – che non sapeva con chi avesse a che fare – le fece una generosa promessa: avrebbe lasciato alla dea tutta la terra che poteva arare in un giorno e una notte. E così, dal magico aratro di Gefion, nacque questa regione. Nella sua parte meridionale è collegata attraverso ponti ad altre isolette. La più interessante è quella di Mon. Si narra che Odino, il padre dei Vichinghi, l’aveva scelta come suo rifugio dopo la vittoria dei cristiani che avevano distrutto il paganesimo scandinavo. Mon è famosa per le sue graziose chiesina romaniche e per i suoi bianchi scogli ricchi di fossili.
Le chiese di Fanefjord, Keloby ed Elmelunde sono riccamente affrescate da un anonimo pittore del XV secolo, diventato famoso con l’appellativo di maestro di Elmelunde. I suoi dipinti, dal carattere naif, realizzati su sfondo bianco, rappresentano i personaggi della Bibbia raccontati ai contadini analfabeti con un linguaggio simile ai nostri fumetti: propongono scene giocose ambientate nel giardino dell’Eden, demoni grotteschi, la bocca spalancata dell’inferno.
Alte fino a 130 metri le scogliere di gesso dell’isola di Mon, che si ergono su un mare color verde giada, sono uno dei luoghi simbolo della Danimarca. Lunghe scalinate in legno, che partono dal Geo Center, dove viene spiegato il fenomeno geologico, permettono di scendere al mare. Si può passeggiare lungo la riva alla ricerca di fossili, che però non è facile trovare perché i visitatori sono sempre più numerosi. Se non è tutto esaurito trascorrete la notte al Liselund Ny Slot, un albergo di charme ricavato da una casa padronale ottocentesca situata in un parco che si affaccia sulle bianche scogliere.

Itinerario

1° giorno
Copenhagen-Odense (120 km)

2° giorno
Odense-Åhrus-Skagen (400 km)

3° giorno
Skagen-Frederikshavn-Ribe (432 km)

4° giorno
Ribe-Egeskov-Fåborg (175 km)

5° giorno
Fåborg-Mons Klint-Praestø (265 km)

6° giorno
Praestø-Roskilde-Hillerød (130 km)

7° giorno
Hillerød-Helsingør-Copenhagen (110 km)

8° e 9° giorno
Copenhagen

Bibiografia

Svezia, Norvegia, Danimarca La guida verde Michelin, Milano 2007
Danimarca Lonely Planet, edizione 2008
Danimarca, Islanda Guide d’Europa, Touring Club Italiano, Milano 2001
Danimarca Le Guide Mondadori, Milano 2008
Copenhagen e Danimarca Guide Low Cost, Firenze 2009
Copenhagen-Danimarca Meridiani no. 49, giugno 1996

Danimarca – Alla scoperta dei vichinghi e del castello di Amleto

Danimarca – Tra paesaggi marini selvaggi e una campagna armoniosa
Danimarca – Una monarchia antica e democratica

Nella più antica monarchia del mondo si vive come i gatti nel periodo estivo e come gli orsi in quello invernale. Quando esce un tiepido raggio di sole, la città impazzisce.

Dopo avere unificato la Danimarca e la Norvegia, Harald “Dente blu” nel 980 scelse Roskilde come capitale del suo nuovo regno. La città perse la sua importanza politica nel 1417 quando Erik Pomerania spostò la capitale a Copenhagen. Nella cattedrale romanica, che sorge al centro della città nelle vicinanze della piazza, sono seppelliti i monarchi danesi fino alle recenti generazioni. Roskilde riveste pertanto un ruolo di primo piano nella storia del paese.

Sulle orme dei vichinghi
Il Museo delle navi vichinghe ricorda l’importanza di questa cittadina in epoca vichinga. Espone i ritrovamenti di cinque navi vichinghe, costruite tra il 1030 e il 1042, riassemblati con cura certosina su nuove intelaiature. Permettono di capire quali fossero la struttura e le funzioni di queste imbarcazioni, che offrono un’interessante panoramica di quelle che erano le diverse tipologie in epoca vichinga. Sono infatti esposti un mercantile costruito per affrontare le traversate transoceaniche, una nave da guerra di 30 metri del tipo utilizzato per compiere incursioni all’estero, un mercantile costiero, una nave da guerra di 17 metri probabilmente impiegata in una zona baltica e un peschereccio. Nel fiordo accanto al museo si possono poi vedere le ricostruzioni di queste imbarcazioni con la spiegazione delle tecniche costruttive vichinghe. Un filmato presenta la navigazione da Roskilde a Dublino effettuata nel 2008 con una di queste navi ricostruite, seguendo naturalmente le rotte dei vichinghi. Sembra che l’incredibile agilità di questi vascelli fosse dovuta alla leggerezza dei materiali usati nella costruzione. In mare non c’era flotta o popolo che potesse contrastare la supremazia vichinga. Tra l’VIII e l’XI secolo, grazie soprattutto a questa supremazia i vichinghi riuscirono a invadere l’Inghilterra, a saccheggiare Parigi, a impadronirsi della Normandia, a conquistare Kiev, a combattere persino contro i greci alle porte di Costantinopoli.

Tre castelli che fecero la storia del paese
Dall’epoca vichinga facciamo un salto di alcuni secoli per visitare tre castelli importanti per la storia della Danimarca: Fredensborg, attuale residenza estiva dei sovrani; Frederiksborg, che per un secolo servì da residenza reale e Kronborg, che l’Amleto di Shakespeare ha reso noto nel mondo intero.
Fredensborg lo si può visitare solo in luglio quando la famiglia reale danese è assente. È però aperto al pubblico fino a tarda sera lo splendido parco che circonda la residenza e dove è molto piacevole passeggiare. Nei pressi c’è un albergo, stellato ma purtroppo decadente, ricavato da una classica locanda per gli ospiti fatta costruire da Federico IV nel 1723.
A pochi chilometri di distanza si trova il castello di Frederiksborg, che si estende su tre piccole isole in mezzo al lago Slotsso. Fino all’abolizione della monarchia assoluta i monarchi danesi furono consacrati nella splendida cappella del castello. Nella seconda metà dell’800 un incendio lo distrusse quasi completamente, ma venne rapidamente restaurato grazie all’aiuto di tutta la nazione e in particolare di J.C. Jacobsen, proprietario del birrificio Carlsberg. Dal 1882 è stato trasformato in Museo nazionale di storia danese, con mobilio, oggetti di interesse storico, ritratti e quadri. La parte più interessante della visita è comunque rappresentata dagli imponenti saloni.
Per recarsi a Helsingor, dove si trova Kronborg il castello di Amleto, vale la pena di fare una piccola deviazione verso la punta settentrionale dello Sjaelland, dove gli amanti del mare possono ammirare le splendide distese di sabbia di Hornbaek e Tivildeleje.
Il castello di Kronborg ospita da secoli un fantasma eccellente: quello del principe folle, reso reale dal genio di Shakespeare. Si narra che sulla terrazza di questo castello Amleto abbia visto il fantasma di suo padre avviluppato da una spessa coltre di nebbia. In verità sembra che Shakespeare non abbia mai visitato Kronborg con la sua imponente mole, sottolineata dalle alte torri e da un tetto di rame verde sormontato da eleganti guglie che tagliano il cielo. Si possono visitare la cappella, le stanze reali, la sala da ballo e ammirare un’importante collezione di arazzi. Il castello conserva un’atmosfera lugubre e misteriosa che ricorda ad ogni angolo il capolavoro di Shakespeare.

Copenhagen rilassata e febbrile
La prima sensazione che si prova passeggiando per le vie della capitale danese è del tutto particolare: rilassata ma al tempo stesso febbrile. La guida Michelin la definisce “un affascinante centro urbano di provincia con l’atmosfera di una capitale”. I suoi abitanti ne sono orgogliosi, si vantano di vivere nella sede della monarchia più antica del mondo e si cullano nel mito della democrazia ideale e della prospera tranquillità. Si narra che per vivere felici a Copenhagen basti apprendere un segreto: ci si deve trasformare in gatti da maggio a settembre e in orsi da ottobre ad aprile. L’orso campa beato nel calduccio della sua tana; il gatto, al contrario, ama vivere all’aperto, e quando trova un pertugio se la fila di casa per passeggiare magari su un tetto. In effetti il sole sembra rappresentare la vera ossessione di questo popolo: quando esce un tiepido raggio la città impazzisce e la sua via più affascinante, il Nihavn, un canale scavato alla fine del XVII secolo e oggi arteriavivacissima con le facciate delle case a pignoni tinteggiate a colori vivaci, si affolla. Tutto in questa città sembra volerci ricordare che quasi cinque secoli fa fu la capitale di un impero scandinavo che comprendeva Danimarca, Svezia e Norvegia, e che durante il regno di Cristiano IV, alla fine del Cinquecento, fu sede di una delle corti più splendide d’Europa. Copenhagen colpisce infatti i visitatori per la sua inattesa grandiosità monumentale: le ampie strade, i superbi castelli regali di Amalienborg (attuale sede della regina) e di Rosenborg, il solenne Christiansborg, sede del parlamento danese, le decine di torri, le chiese imponenti, i vastissimi parchi, i musei spettacolari, il dispiegamento di architetture neoclassiche, barocche, rinascimentali e della nostra epoca. Ma il simbolo di questa città rimane la celeberrima sirenetta seduta su una roccia che guarda il mare con infinita malinconia. È opera dell’artista danese Edvard Eriksen. La scolpì nel 1913 ispirato da una favola di Andersen, che narra la storia di una figlia del re del mare, la quale ha la disgrazia di innamorarsi di un principe “terrestre”.

Itinerario

1° giorno
Copenhagen-Odense (120 km)

2° giorno
Odense-Åhrus-Skagen (400 km)

3° giorno
Skagen-Frederikshavn-Ribe (432 km)

4° giorno
Ribe-Egeskov-Fåborg (175 km)

5° giorno
Fåborg-Mons Klint-Praestø (265 km)

6° giorno
Praestø-Roskilde-Hillerød (130 km)

7° giorno
Hillerød-Helsingør-Copenhagen (110 km)

8° e 9° giorno
Copenhagen

Bibiografia

Svezia, Norvegia, Danimarca La guida verde Michelin, Milano 2007
Danimarca Lonely Planet, edizione 2008
Danimarca, Islanda Guide d’Europa, Touring Club Italiano, Milano 2001
Danimarca Le Guide Mondadori, Milano 2008
Copenhagen e Danimarca Guide Low Cost, Firenze 2009
Copenhagen-Danimarca Meridiani no. 49, giugno 1996

Danimarca – Una monarchia antica e democratica

Danimarca – Tra paesaggi marini selvaggi e una campagna armoniosa
Danimarca – Alla scoperta dei vichinghi e del castello di Amleto

La Danimarca non figura certo tra le mete turistiche più gettonate, salvo la sua capitale Copenhagen, che viene invece spesso proposta come destinazione per un fine settimana. Eppure è un paese che merita di essere visitato per le sue bellezze naturali (un mare selvaggio e paesaggi agricoli armoniosi illuminati dalla suggestiva luce del nord), per la sua offerta culturale (ville e castelli immersi nel verde, villaggi pittoreschi dove si ha l’impressione che il tempo si sia fermato) e per l’atmosfera tranquilla, piacevole, senza stress che si nota a partire dalla sua capitale. L’estate è certamente il momento ideale per visitare questo paese. Per la maggior parte dell’anno infatti i danesi vivono con la luce artificiale. Con l’arrivo della bella stagione ogni occasione è buona per stare all’aperto. Lo si nota soprattutto nella capitale, dove le vie del centro storico nelle giornate miti e soleggiate si affollano. Ma Copenhagen è anche indicativa dell’atmosfera che si respira in tutto il paese: una vita rilassata ma al tempo stesso febbrile. La guida verde Michelin definisce la capitale “un affascinante centro urbano di provincia con l’atmosfera di una capitale”. I danesi sono considerati dagli scandinavi i meridionali del nord. Sono un popolo simpatico, aperto, egualitario e non violento. Durante la seconda guerra mondiale, nonostante fossero occupati dai tedeschi, riuscirono a favorire la fuga degli ebrei in barca verso la neutrale Svezia, salvando loro la vita. Sono stati i primi a riconoscere il matrimonio tra gay già nel lontano 1989. In Danimarca è difficile diventare molto ricchi, a causa delle tasse elevate. In compenso la previdenza sociale è talmente sviluppata che la miseria è altrettanto rara. L’inno nazionale non canta di battaglie, di martiri, di eroi, ma intona “Det er et yndikt land”, che significa “questa è una terra meravigliosa”. I tifosi di calcio cantano: “Siamo rossi, siamo bianchi, siamo la dinamite danese”. Se vincono sono allegri e bevono. Se perdono sospirano
e bevono, ma non hanno mai provocato il minimo incidente. I danesi sono fieri della loro identità: sono infatti moltissime le case dove sventola la bandiera nazionale. Alla richiesta, posta da un recente sondaggio, di quantificare la propria felicità in una scala da 1 a 10, gli abitanti di questo paese hanno espresso la votazione massima tra diverse nazioni europee, con ben 8,3
punti. La loro soddisfazione si basa su un’economia fiorente, sul moderato tasso di disoccupazione, su stipendi elevati, su eccellenti servizi sociali in termini di abitazioni, ospedali e scuole, sull’efficienza dei trasporti pubblici e sul basso livello di criminalità. E si trattava soltanto dell’ultima di una serie di indagini condotte negli ultimi due decenni. Anche le precedenti hanno dimostrato come i danesi siano insolitamente soddisfatti di ciò che la vita riserva loro. Sono la monarchia più antica d’Europa ed il loro legame con la regina Margherita sembra sia ottimo. Su di lei in Danimarca si ripete da anni una
battuta che rende bene l’idea: se un giorno la corona dovesse scomparire, Margrethe sarebbe eletta presidente della Repubblica. La tradizione alla quale la sovrana appartiene conferma la sua democraticità, che si manifesta anche nella semplicità dell’aspetto. D’altra parte Margherita è una donna impegnata, intelligente e colta: ha conseguito ben quattro lauree universitarie.

Dalle Centovalli all’Onsernone

L’itinerario che vi propongo oggi spazia tra due valli, Centovalli e Onsernone, e percorre una delle più belle mulattiere del Cantone: quella che collega Loco in valle Onsernone a Intragna. Di origini antichissime, sicuramente antecedente al Cinquecento, era molto importante perché consentiva agli onsernonesi i rapporti con i mercati di Locarno e di Ascona, ma veniva utilizzata anche per il transito del bestiame del Locarnese che in estate veniva trasferito sugli alpeggi dell’Onsernone.
Si tratta di un itinerario facile, molto piacevole e interessante, che si può percorrere in mezza giornata: sono circa 3 ore di cammino (poco più di 7 chilometri), se non siete velocissimi, oltre naturalmente alle fermate, che possono essere numerose. Meglio partire il mattino presto, ma anche se volete dormire un po’ più a lungo non preoccupatevi perché il tragitto è quasi tutto ombreggiato.
Il punto di partenza più indicato è la fermata dell’autopostale “Intragna ponte”, che potete raggiungere con la vostra automobile (c’è un costoso posteggio). Da lì in circa un quarto d’ora salite al villaggio. Al termine dell’itinerario, quando arriverete a Loco, in una ventina di minuti l’autopostale di linea per Locarno vi riporterà dove avete parcheggiato.
Intragna merita certamente una prima sosta per visitare la barocca chiesa parrocchiale di San Gottardo (con le decorazioni pittoriche ottocentesche degli artisti locali Giacomo Antonio Pedrazzi, Giovanni Antonio Vanoni e Agostino Balestra) con la torre campanaria più alta del Ticino (65 metri) e la cinquecentesca Casa Maggetti, sede di un curato e interessante museo etnografico.
Dalla chiesa parrocchiale si segue uno stretto vicolo che porta all’ottocentesco oratorio del Sacro Cuore, da cui parte la mulattiera su cui si sviluppa il nostro itinerario.
Rimaste sostanzialmente ai margini dei grandi assi di traffico – spiega Massimo Colombo, responsabile di Via Storia per il Ticino – le valli del Locarnese sono state risparmiate dal notevole sviluppo subito dalla rete viaria che in alcune zone del cantone ha decisamente marcato il territorio. Ciò ha consentito la conservazione di gran parte delle secolari mulattiere contadine, ancor oggi ricche di grande fascino, che costituiscono una delle principali attrattive turistiche della regione: tra queste, la mulattiera che collega Intragna a Loco può essere considerata, a giusto titolo, una delle più belle del Ticino”.
Le frazioni che si trovavano sopra l’attuale villaggio di Intragna erano molto abitate, tanto che disponevano di una scuola propria davanti alla quale passa il nostro itinerario. In una trentina di minuti di salita si arriva a Pila, con un bel gruppo di rustici, dove si trova appunto la scuola. La vista è splendida e spazia sul villaggio sottostante, sull’imbocco delle Centovalli e dell’Onsernone, sulle Terre di Pedemonte fino ad abbracciare il lago Maggiore sullo sfondo. La mulattiera prosegue quindi verso Vosa, ancora frazione di Intragna. In lontananza si sente scorrere il fiume Isorno. Da qui il nome di Intragna, intra amnes, cioè tra due fiumi: Melezza e Isorno. Giunti all’oratorio Sacro Cuore di Gesù, eretto alla fine dell’Ottocento, si entra nel comune di Loco. Si giunge dapprima a Vosa di Dentro, per poi scendere verso le suggestive gole dell’Isorno. Oltrepassato il ponte in ferro, che ha sostituito quello cinquecentesco in pietra spazzato via dall’alluvione del 1978, la mulattiera risale in direzione di Loco. Sul tragitto si incontrano alcune cappelle porticate che offrivano rifugio ai viandanti. Incantevole la posizione di Niva, dove da quasi vent’anni si è ritirato a vita eremitica fra Bartolomeo Schmitz. Purtroppo il villaggio è in via di abbandono, ma grazie agli aiuti finanziari di diverse associazione si sta procedendo ad interessanti restauri. Si passa quindi dalla frazione di Rossa, prima di giungere a Loco, un tempo rinomato centro di lavorazione della paglia. Nel villaggio si consiglia di visitare il museo etnografico e la parrocchiale di San Remigio con le opere di un interessante pittore locale, Giovanni Samuele Meletta, e un’Ultima cena realizzata nel 1683 da Gottfried Maes di Anversa, offerta alla comunità da un emigrato arricchitosi.

In Vallemaggia sulle orme di Zoppi

Rima, dolce piano, luogo di sosta, paradiso del ciliegio!” Sono parole di Giuseppe Zoppi, tratte da “Il libro dell’alpe”, l’opera più nota di questo autore ticinese d’inizio Novecento, che forse qualche lettore ricorderà di avere studiato a scuola. Vi propongo oggi un itinerario circolare che da Broglio sale ai monti di Rima, che hanno ispirato questi versi a Zoppi, scende verso Prato-Sornico, per poi tornare a Broglio. Per percorrerlo calcolate al massimo quattro ore di cammino, più il tempo necessario per diverse soste. Per meglio apprezzare questo comodo e ombreggiato itinerario, vi consiglio di procurarvi (alla sede dell’ente turistico a Maggia o al negozio di artigianato Artis in piazza a Cevio) il pieghevole “Sentieri di pietra” dedicato a Broglio e a Prato-Sornico. Fa parte di una serie di una ventina di bellissimi prospetti che vi permetteranno di scoprire la Vallemaggia, soffermandovi davanti a luoghi e monumenti che senza le necessarie indicazioni difficilmente scoprireste e soprattutto apprezzereste.
Il nostro itinerario parte da Broglio, che raggiungete in circa tre quarti d’ora da Locarno. Raccolto attorno alla sua chiesa, che sulla facciata presenta un notevole San Cristoforo del Quattrocento, questo villaggio è circondato da una vasta campagna che era nota per i suoi gelsi. Furono piantati nel XIX secolo dalla famiglia Pometta. Le foglie servivano per nutrire i bachi allevati appositamente per ottenere la seta.
Imboccando il sentiero per i monti passate davanti alla casa dove nacque Giuseppe Zoppi (1896-1952), che ambientò in quei luoghi i suoi innumerevoli scritti. In un’ora circa raggiungete i monti di Rima. Sul percorso incontrate cinque cappelle di cui quattro affrescate nella seconda metà dell’Ottocento dal pittore valmaggese Giovanni Antonio Vanoni di Aurigeno. A questo proposito vi consigliamo di consultare il pieghevole della stessa collana “Aurigeno… e il Vanoni”. La prima cappella, che rappresenta una Deposizione, fu offerta come ex voto da un emigrante appena tornato dall’America, in segno di ringraziamento per essere scampato ad una burrasca in mare. Accanto alle cappelle si trovano alcune semplici croci in ferro per ricordare i contadini caduti sul versante opposto della valle mentre facevano il fieno di bosco o cercavano le capre. Una “caraa”, cioè un sentiero delimitato da muretti per impedire al bestiame in transito di uscire nei prati, vi introduce al monte, con le sue splendide torbe che si affacciano sul “dolce piano, luogo di sosta, paradiso del ciliegio” cantato da Zoppi. Un tempo soggiornavano qui per buona parte dell’anno gli abitanti di Broglio da una parte e quelli di Prato dall’altra. Le torbe in legno edificate su uno zoccolo in muratura, usate ai tempi come abitazione o come stalla, sono molto ben conservate. Anche quelle ristrutturate hanno in generale rispettato il valore architettonico originale.
Dai monti di Rima un comodo sentiero nel bosco di larici e faggi scende verso Prato-Sornico. Un villaggio che nel corso dei secoli ebbe un’importanza civile e religiosa particolare. A testimonianza di questo passato nel nucleo si conservano edifici di elevato valore storico: la chiesa parrocchiale, il campanile, il palazzo della giudicatura, la torba, la casa parrocchiale, i palazzi signorili e una casa in legno.
Seguite ora i cartelli indicatori per Broglio. Giunti in località Lovalt, immersa in una splendida campagna, su un’abitazione ammirate due interessanti affreschi a soggetto religioso del Seicento e del Settecento. Proseguite sul sentiero, attraversate il ponte sospeso sulla profonda gola scavata dal “Ri della Valle di Prato”, per giungere all’oratorio di Vedlà in un luogo idilliaco immerso nel verde. In una ventina di minuti arrivate di nuovo a Broglio.

Assisi – Ripercorrendo strade e valli di un soldato diventato santo

Assisi – A lezione di umiltà e gioia lungo la strada del silenzio

In compagnia di Padre Callisto sulle tracce di San Francesco, lungo conventi, simboli sacri e preziose chiese che si sono miracolosamente salvati dal terribile terremoto di qualche anno fa.

Chiunque salga sul colle della città serafica non può sfuggire a una suggestione indescrivibile, misteriosa, impalpabile, del tutto diversa dalla bellezza della valle umbra”. Così Lina Duff-Gordon, compagna di viaggio del critico d’arte Bernard Berenson, descriveva nel 1900 la sua emozione davanti ad Assisi. Un’emozione che prova anche il viaggiatore contemporaneo di fronte a questa città così unitaria e ricca di significati legati alla straordinaria figura di San Francesco il cui messaggio rimane sempre di grande attualità. La visitiamo con padre Callisto Caldelari, frate ticinese molto amato dalla gente, perché cerca ogni giorno, e con successo, di interpretare in chiave moderna il messaggio di Francesco. La nostra visita sarà cronologica e seguirà le tappe principali della vita del santo.
Giunti ai piedi della collina su cui sorge questa incantevole cittadina umbra, ci fermiamo per ammirarne l’unità architettonica. “Il villaggio – ci spiega la nostra guida d’eccezione – è costruito in pietra rosa proveniente dai monti del Subasio, le montagne retrostanti dove Francesco si ritirava a meditare. Le case moderne in cemento sono colorate di rosa per non compromettere il colpo d’occhio da lontano”.

La casa natale di San Francesco
Il nostro itinerario inizia davanti alla Chiesa Nuova eretta nel 1615, a spese di re Filippo III di Spagna, sui resti della supposta casa paterna di San Francesco. Davanti alla chiesa un monumento è dedicato ai genitori del santo. Il padre, Pietro Bernardone, era un commerciante di stoffe che acquistava il materiale in Provenza e aveva laboratorio ad Assisi. Durante un viaggio d’affari conobbe donna Pica, che diventò sua moglie. Per questa ragione Francesco parlava bene la lingua provenzale. Dalla madre ereditò anche il suo spirito allegro.
Nella seconda metà del XIII secolo, al tempo di Francesco, si stava profilando una nuova classe sociale, quella dei ricchi commercianti, a cui apparteneva anche la sua famiglia. Pietro Bernardone aveva però l’ambizione di far acquistare al suo casato il titolo nobiliare. Per ottenerlo esisteva una sola strada: distinguersi in guerra. Francesco venne destinato a questo compito. Giovane brillante e vivace, combatté dapprima una battaglia contro i Perugini e quindi decise di partire per le crociate. Ma giunto a Spoleto, distante pochi chilometri da Assisi, secondo la tradizione un sogno gli rivelò che stava compiendo una scelta sbagliata. Tornò allora nella sua città natale e decise di cambiar vita, deludendo le aspettative del padre. Fece voto di povertà, curò i lebbrosi, vendette le stoffe dell’azienda di famiglia per distribuire il ricavato ai poveri. Per queste sue scelte venne rifiutato dal suo ceto sociale e Pietro Bernardone lo denunciò e lo imprigionò per furto (secondo il diritto romano il padre aveva diritto di vita e di morte sui figli e sulla moglie). Sotto le fondamenta della Chiesa Nuova sono ancora conservate la prigione che ospitò il santo, la sua abitazione e il negozio di Pietro Bernardone. È giunta fino ai nostri giorni anche la cosiddetta “porta dei morti”. Nel Medioevo i defunti lasciavano la casa da una porta speciale che veniva aperta solo per il passaggio delle bare. Utilizzarla da vivi portava male, ma Francesco abbandonò la sua casa natale passando simbolicamente proprio da questa porta per abbracciare una nuova vita.
La sua prima dimora fu la graziosa chiesetta di San Damiano, che si trovava fuori dalle mura della città.

Chiara segue Francesco
Prima di lasciare il centro storico per scendere a San Damiano, padre Callisto ci conduce alla basilica di Santa Chiara e racconta la storia di Chiara, una giovinetta che si era probabilmente innamorata di Francesco e che all’età di diciotto anni lasciò pure lei la propria casa (fu poi seguita da due sorelle e dalla madre), fece voto di povertà e come Francesco dedicò la sua vita ai poveri nel convento di San Damiano, la prima dimora di Francesco che poi l’abbandonò per cederla a Chiara e alle sue compagne. Quando Chiara morì a San Damiano nel 1252, il papa invitò le suore a lasciare quella chiesetta fuori dalle mura, perché ritenuta poco sicura, per trasferirsi nella chiesa di San Giorgio in attesa che venisse costruito il convento di Santa Chiara, che avrebbe ospitato l’ordine della clarisse. Si narra che il papa riconobbe l’ordine proprio il giorno prima della morte di Chiara. Le suore lasciarono San Damiano per trasferirsi in città, ma portarono con loro il crocefisso che secondo la tradizione aveva parlato a Francesco, confermandolo nella sua vocazione (“Francesco, va e ripara la mia casa che, come vedi, va tutta in rovina”). Si tratta di un crocefisso bizantineggiante con il Cristo vivo attorniato dai santi. Lo si può ammirare nella chiesa di Santa Chiara, che ospita anche la suggestiva tomba della santa.

La prima dimora di Francesco
Ma torniamo a Francesco, che dopo aver rotto con il padre (“Non dirò più padre mio Pietro di Bernardone, ma unicamente Padre nostro che sei nei cieli”) ed aver lasciato la sua casa si ritirò a San Damiano. La chiesetta si trova ancora oggi immersa nella splendida campagna umbra. Il sentiero che in un quarto d’ora circa porta dal convento di Santa Chiara a San Damiano scorre tra ulivi e cipressi in un paesaggio di pace. Quando Francesco giunse in questo luogo la chiesetta esisteva già, era amministrata da un sacerdote e molto mal ridotta. Assieme a un gruppo di compagni, che lo seguirono nonostante fosse stato ripudiato dalla sua famiglia e dal suo ceto sociale, Francesco sistemò per bene San Damiano prima di cederlo a Chiara, dove la santa trascorse la sua vita con le compagne. Mentre era ancora a San Damiano Francesco chiese al suo vescovo l’autorizzazione di predicare. Questi non si assunse la responsabilità di quella decisione e lo mandò dal papa, che gli concesse il permesso.
Questa idilliaca chiesetta immersa nel verde si presenta in ottime condizioni. Si possono visitare i luoghi in cui visse Chiara con le sue monache: il refettorio, il dormitorio, l’infermeria in cui la santa, morta a 59 anni, venne curata e la cappella da cui ascoltava la messa.

Verso la chiesetta della Porziuncola
Lasciato San Damiano a Chiara, Francesco si trasferì nel piccolo “tugurio” detto Rivotorto, che dista non molti chilometri. Francesco non vi rimase a lungo perché un contadino rivendicò quel luogo per ospitare i suoi asinelli. Da lì Francesco, che era spesso assente da Assisi perché viaggiava moltissimo (in Italia, Francia, Spagna e persino in Egitto e in Palestina), si trasferì verso la sua ultima dimora: la chiesetta della Porziuncola. Prima di raggiungerla si passa davanti al luogo in cui vivevano i lebbrosi, emarginati dai sani e segnalati con un campanello al collo.
Da lontano si scorge l’imponente chiesa di Santa Maria degli Angeli, dentro la quale è conservata la chiesetta della Porziuncola, dove il santo morì. “Frate Francesco – scrisse Giosuè Carducci – quanto d’aere abbraccia/ questa cupola bella del Vignola, / dove incrociando a l’agonia le braccia / nudo giacesti sulla terra sola!” (Rime Nuove, XV, 1861-67). Il maestoso edificio, costruito attorno alla chiesetta, nascose agli occhi del poeta la sede autentica di Francesco, la cappella annerita e minuscola miracolosamente salva dal terremoto del 1832: è questa la miglior metafora di un personaggio tradito dalla ricezione della storia.
Francesco e i suoi seguaci vivevano in capanne sparse attorno alla graziosa chiesetta, molto ben conservata. Quando Francesco sentì che la morte si avvicinava si fece trasferire in una capanna vicino alla Porziuncola e posare nudo sulla terra. Spirò cantando “Laudato sii mi Signore per sora nostra morte corporale…”.

Assisi – A lezione di umiltà e gioia lungo la strada del silenzio

Assisi – Ripercorrendo strade e valli di un soldato diventato santo

Insieme a Padre Callisto sulle tracce di San Francesco tra i luoghi della cristianità. Chiese e cripte ricche d’arte che vengono visitate da centinaia di pellegrini. La storia delle spoglie scomparse dopo la costruzione della “doppia basilica”.

Sotto l’influenza dell’ordine religioso fondato da Francesco, la città vide sbocciare un’arte nuova che segnò una svolta nella storia artistica dell’Italia. La sua lezione spirituale fatta di rinuncia, accettazione umile e gioia mistica, determinò una nuova visione artistica espressa nella purezza e nell’eleganza dell’arte gotica.
Due anni dopo la morte di Francesco era pronta la cripta della chiesa per accogliere le sue spoglie. Fu disegnata dal suo successore Elia e ad affrescare la basilica di San Francesco vennero chiamati i più importanti artisti del momento, tra cui Giotto che realizzò qui uno dei suoi capolavori narrando la vita del santo. Il grandioso complesso, tra i maggiori templi della cristianità, è formato dalla sovrapposizione di due chiese che lasciano individuare due differenti fasi costruttive. Il progetto della doppia basilica evidenziava la duplice funzione cui doveva rispondere la struttura, destinata inferiormente a chiesa tombale e a cripta, e superiormente ad aula monastica, di predicazione e cappella papale.
Le spoglie del santo, custodite per un paio d’anni nella chiesa di San Giorgio vicino a Santa Chiara, furono trasportate verso la nuova basilica, ma quando arrivarono nelle vicinanze si scontrarono due diverse visioni dell’ordine: chi riteneva che la chiesa fosse troppo ricca e quindi non fedele alle idee di Francesco e chi invece la riteneva idonea. Fatto sta che le spoglie scomparvero. La tradizione vuole però che il santo sia sepolto nella cripta della basilica inferiore, che si può visitare. Ed in effetti è probabile che il corpo di Francesco sia stato veramente sepolto in quella sede. Nel 1790 papa Pio VII ordinò dei lavori, che vennero eseguiti di notte per evitare pettegolezzi, per cercare il sepolcro. Sotto l’altare venne trovata una bara in pietra con le spoglie di un uomo, che vennero esaminate con metodi moderni nel 1940. Si stabilì che si trattava di un uomo di circa quarant’anni. È quindi probabile che si tratti di Francesco. Un ultimo esame eseguito negli anni Ottanta ha confermato questa tesi.
Del santo rimane comunque la storia della vita narrata da Giotto in diciannove superlativi affreschi. L’artista non terminò però il lavoro, perché partì per Firenze dove fu chiamato ad affrescare Santa Croce. Il lavoro venne proseguito dai suoi discepoli, ma confrontando le tavole del maestro con quelle dei suoi allievi, si apprezza ancor più la capacità di sintesi e l’essenzialità di Giotto.

Le Carceri, luogo di meditazione
Molti sono i luoghi francescani che si potrebbero ricordare, ma uno non può essere tralasciato perché di particolare importanza: “le Carceri”. Non si tratta di una prigione, ma di un sito appartato dove Francesco e i suoi compagni si ritiravano in silenzio a meditare. Si trova a mezza costa sul Monte Subasio. Lo si può raggiungere comodamente in automobile, ma molti pellegrini vi arrivano con il noto cavallo di San Francesco, cioè a piedi. In quel luogo il santo aveva prescritto una regola particolare che suggeriva penitenza e assoluto silenzio. Si narra che fece zittire anche degli uccelli che disturbavano la meditazione. Gli assisiani scoprirono molto presto quel bosco e iniziarono a frequentarlo rubandogli la pace. Il santo si ritirò quindi dapprima su un’isoletta del lago Trasimeno, in seguito sul più lontano monte de La Verna, dove per dirla con Dante ricevette “l’ultimo sigillo”, le stigmate.