Laos – Il Laos “no stress” tra passato e presente

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Il motto nazionale del Laos potrebbe essere “nessun problema”. Ad affermarlo sono Andrew Burke e Justine Vaisutis, autori della guida Lonely Planet dopo avere vissuto per mesi in questo Paese, sempre più amato dai giovani occidentali alternativi che partono in viaggio per lunghi periodi, con un pesante sacco in spalla e alla ricerca di nuove sensazioni. Ma anche il viaggiatore purtroppo frettoloso come l’autore di questa rubrica, arrivando in Laos percepisce questa atmosfera “no stress”. Un ambiente interpretato dai francesi, colonizzatori in Indocina, con questa espressione, forse razzista: “I vietnamiti piantano il riso, i cambogiani lo guardano germogliare e i laotiani lo ascoltano crescere”. Se i nostri giovani alternativi sono attratti da questo clima rilassato, d’altra parte, girando per le strade della tranquilla capitale Vientiane, si incontrano studenti che si comportano, vestono e si divertono come i loro coetanei alla moda nelle nostre metropoli. E il turismo non farà che accelerare questi mutamenti. Il Laos è considerato uno dei Paesi più poveri al mondo. Senza sbocchi sul mare, l’80 per cento dei suoi circa 7 milioni di abitanti vive ancora di agricoltura di sussistenza. Eppure il Paese è ricco di materie prime: di potassio, fondamentale per produrre fertilizzanti, di bauxite, usata per fabbricare l’alluminio, di minerali, di gomma, di pasta per la carta, di combustibili, di amido, di alberi industriali. Recentemente si stanno investendo ingenti capitali destinati alla costruzione di dighe per lo sfruttamento dell’energia idroelettrica. Le acque del Mekong, che per millenni hanno garantito un’economia di sussistenza a oltre 60 milioni di persone che vivono lungo il fiume in ben sei nazioni (Laos, Tailandia, Vietnam, Cambogia, Cina e Bimania), verranno quindi sempre più impiegate per produrre l’energia elettrica necessaria ad alimentare nuove attività industriali, con gravi conseguenze per l’ambiente e per le abitudini di vita. D’altraparte l’Indocina esce da un periodo storico difficilissimo, che, dopo quello della colonizzazione francese, ha visto gli Stati Uniti confrontarsi con i regimi comunisti locali appoggiati da Cina e Unione Sovietica. In Laos, dal 1975, è al potere un “regime democratico popolare”. Quando in quell’anno, prima Phnon Penh in Cambogia e in seguito Saigon in Vietnam, caddero nelle mani dei comunisti, nel Laos il re acconsentì ad abdicare dopo 650 anni di monarchia e venne creata una Repubblica Democratica Popolare, sul modello sovietico e vietnamita. Il 10 per cento della popolazione lasciò il Paese e si trasferì all’estero. Si trattava dell’esodo di gran parte della classe dirigente. Lo sviluppo del Laos subì così come conseguenza, almeno per una generazione, un forte rallentamento. Solo quattro anni dopo la statalizzazione di tutti i beni privati, il governo laotiano fece marcia indietro permettendo ai contadini di abbandonare le cooperative agricole e di tornare a coltivare la terra in proprio. Il Paese si apriva così all’economia di mercato e anche all’avvento di capitali stranieri. Nel frattempo, ai confini del Laos, in Cambogia dal ’75 al ’79 si era consumata una tragedia politica: il sanguinario governo dei Khmer Rossi, che voleva trasformare il Paese con la forza in una cooperativa agraria guidata dai contadini, fece 2 milioni di vittime secondo gli esperti della Yale University. Il governo comunista laotiano, oltre alla liberalizzazione dell’economia, tornò sui suoi passi iniziali anche per quanto concerneva la religione. In un primo tempo l’insegnamento buddista venne infatti bandito dalle scuole e si impedì ai fedeli di offrire cibo ai monaci. Ma dopo un solo anno il premier fece marcia indietro, giungendo persino nel 1992 a sostituire l’emblema della falce e del martello, che sormontava lo stemma nazionale, con l’effige del Pha That Luang, il monumento che sorge a Vientiane ed è simbolo allo stesso tempo della religione buddista e della sovranità laotiana.

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