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Alcuni anni fa, durante un viaggio in Turchia con un gruppo di amici, approfittai di un lungo trasferimento in torpedone per promuovere una discussione con la nostra guida, un intellettuale turco. Lessi due brani: uno sulla questione curda e il secondo sul genocidio armeno. Terminata la mia lettura, che voleva certamente essere provocatoria, il nostro accompagnatore esclamò adirato: “Mi è capitato raramente di ascoltare tante sciocchezze in così poco tempo”. L’ambiente si raggelò e solo dopo qualche giorno riuscimmo a spiegarci. La sua reazione era chiaramente difensiva, nonostante fosse critico verso il suo governo. In quell’occasione capii che molti turchi non sono ancora pronti a discutere su certi argomenti e il genocidio armeno figura tra quelli più tabù.
Quest’anno, nell’ambito di un viaggio in Armenia organizzato dall’Associazione Archeologica Ticinese, ho visitato con grande interesse a Yerevan il museo del genocidio e mi è tornato alla mente quello scontro con la guida turca. La barbarie di quella tragedia, iniziata nell’aprile del 1915, che ha portato all’eliminazione nel giro di sette anni di oltre un milione e mezzo di armeni – uomini, donne, anziani e bambini – è ampiamente documentata. Eppure Ankara si ostina a negare quei fatti: perché?
Ai tempi del genocidio il territorio armeno era spartito tra Impero ottomano, Russia zarista e Persia. Nel corso della prima guerra mondiale Russia e Turchia combattevano su fronti opposti. Accadde così che ci furono armeni arruolati nei due eserciti in guerra tra loro. Secondo la storiografia ufficiale turca gli armeni ottomani, manipolati dai russi, non sarebbero stati soldati leali, ed avrebbero anzi costituito una presenza nemica all’interno dello stesso esercito ottomano assassinando numerosi turchi. Le autorità sarebbero pertanto state costrette a deportare questi soldati per ragioni di sicurezza interna. Questo non può comunque in nessun caso giustificare l’eliminazione di un intero popolo, donne, anziani e bambini compresi. La realtà è probabilmente un’altra. Questi episodi di “antiturchismo” armeno furono sfruttati come pretesto per eliminare un’importante presenza cristiana in Turchia, considerata un ostacolo alla realizzazione del panturchismo, favorevole all’unione di tutti i popoli asiatici di origine turca. Oggi il governo di Istanbul ha una posizione più sfumata e mette in dubbio il numero di vittime denunciate dagli armeni per evitare di dover riconoscere che si sia trattato di un genocidio, cioè del tentativo di eliminare un popolo. D’altra parte alcuni intellettuali turchi hanno recentemente chiesto al loro governo di arrendersi di fronte all’evidenza. La mancata ammissione del genocidio costituisce pure un ostacolo per l’accettazione della Turchia nella Comunità europea.
Ma perché allora ostinarsi a negare questa verità, seppur scomoda?
Non è certamente facile per uno Stato ammettere che la sua storia ufficiale vada riesaminata. Anche perché se è vero che il genocidio è avvenuto prima di Atatürk, il padre della Turchia moderna, è altrettanto vero che tra i collaboratori dell’eroe nazionale figuravano anche ideologi del panturchismo e dello sterminio degli armeni. La storiografia ufficiale celebra infatti politici che – qualora il genocidio venisse riconosciuto – dovrebbero essere considerati da un giorno all’altro criminali per avere commesso atrocità contro gli Armeni. Inoltre Yerevan potrebbe chiedere riparazioni territoriali, economiche o di altra natura, sebbene sostenga di non volerlo fare. A livello internazionale il genocidio è riconosciuto da una ventina di Stati, tra cui anche la Svizzera. Si tratta quindi effettivamente di una situazione di non facile soluzione per Ankara, che può ben spiegare il nervosismo della guida turca di cui parlavo all’inizio.