Camerun – Tutta l’Africa in un solo paese

Camerun – Dove il tempo sembra essersi fermato
Camerun – Stregato dalla gente e dai colori nel mio primo viaggio in Africa
Camerun Un medico ticinese nel Camerun, il ricordo di Giuseppe Maggi

Dalle foreste alle montagne, dai fiumi ai laghi, dalle dorate spiagge oceaniche ai verdi altopiani, dalla brulla savana al pre-deserto. Perché andare proprio qui? Perché è un continente in miniatura. Salvo le dune di sabbia, propone tutte le caratteristiche tipiche di questa terra

Perché piuttosto che andare in Kenya, Senegal, Etiopia, Tanzania o Mali dovrei recarmi proprio in Camerun? “Perché – risponde Stefano Nori, autore della guida “Polaris” (Firenze 2008) su questo paese – la sua ricchezza e la sua varietà umana e naturalistica sono immense e preziose, uniche e senza uguali in tutto il continente; perché qui un viaggio riserva tante soprese e situazioni inaspettate; perché mille documentari e reportage televisivi non potranno mai rendere giustizia a quanto visto direttamente sul campo. Infine, perché se l’esperienza ha ancora un valore, pur avendo visitato ben 26 stati africani, non mi sono più allontanato da questo bellissimo paese, sin dalla prima volta in cui ci andai, nel novembre 1987”. E anche perché – aggiungiamo noi – in un continente dilaniato da guerre e da pericoli per il viaggiatore, è un’isola di pace e di sicurezza.
Il nostro itinerario, organizzato da Kel 12, prevede una breve tappa a Douala, la capitale economica, per ripartire il mattino seguente verso l’estremo nord, che costituisce un triangolo incuneato tra Nigeria a ovest e Ciad ad est.
Douala, uno dei luoghi con maggiori precipitazioni di tutto il continente, è importante per il suo porto commerciale che serve tutta l’Africa occidentale. È una città particolarmente brutta con i suoi trasandati locali e negozi in stile europeo, che ricordano i tristi periodi dell’epoca coloniale: dall’Occidente sembra infatti aver preso solo il peggio. La sera a cena incontriamo due coppie di italiani che lavorano per aziende europee. Ci raccontano dell’estrema corruzione che regna in Camerun – è considerata la nazione più corrotta al mondo – e di quanto sia sgradevole vivere in questa città, dove gli europei conducono ancora vita separata, come durante il colonialismo. Questa immagine del paese stride profondamente con quella che ci faremo nei giorni successivi, che coincide invece con la descrizione citata sopra di Stefano Nori.
Il nostro volo interno del mattino seguente parte puntuale. Breve sosta tecnica a Yaounde, la capitale, per poi proseguire a nord verso Maroua, che raggiungiamo in un paio d’ore. Maroua, la cittadina più grande del settentrione, si presenta squadrata, con grandi viali urbanisticamente bene ordinati, con basse costruzioni e con un forte carattere di villaggio africano. La sua maggiore attrazione è costituita dal mercato centrale coperto suddiviso in due parti. Una artigianale per turisti, dove si viene aggrediti dai venditori, ed una, per la gente del luogo, suddivisa a seconda delle varie attività, dove spiccano le botteghe dei sarti. In altre zone della cittadina si visitano il quartiere dei fabbri, che producono oggetti riciclando ferro usato, e quello puzzolente delle concerie.

Piccoli regni all’interno dello stato
Una giornata del nostro viaggio è dedicata alla visita della “Chefferie” di Oudjilla, abbarbicata su una collina delle Mandara Mountains. Dista una cinquantina di chilometri da Maroua, ma ci scontriamo subito con uno dei mali del Camerun: le strade. Una gran parte del tragitto odierno si svolge su un’arteria asfaltata, ma cosparsa non di buchi bensì di crateri, tanto da costringere i veicoli quasi a fermarsi per superarli. Abbiamo visto camion fermi ai lati della careggiata in panne a causa delle condizioni stradali, tali da costringerci a tenere una media di 20-25 chilometri orari. Quando poi si giunge alla pista che monta sulla collina, le nostre 4×4 stentano a salire, tanto è cosparsa di sassi. Forse a piedi saremmo stati più veloci, ma i raggi del sole sono troppo cocenti. Sulla strada incontriamo diversi villaggi costituiti da assembramenti di “saré”, cioè di capanne rotonde collegate tra loro per ospitare un nucleo familiare. Con i loro tetti in paglia ed i muri in mattoni di banco (costituiti di terra, paglia e sterco di animale) sembrano appartenere al paesaggio. La “Chefferie” conta 25 villaggi e circa 30 mila abitanti. Ma prima di continuare la mia descrizione è necessario spiegare che cosa è una “chefferie”. È una sorta di regno all’interno dello stato e riconosciuto dal governo centrale. Questi regni, con compiti simili a quelli dei nostri comuni, giocano un ruolo fondamentale nella vita culturale e politica del Camerun. Lo stato, oltre a riconoscerli, basa gran parte della sua struttura sociale sull’autorità morale degli “Chef”, che sono accettati dai cittadini e che tramandano il loro potere ai discendenti di sangue. Esercitano funzioni giuridiche, politiche e spirituali, come vedremo nella Chefferie di Oudjilla, con un’autorità che si estende su tutti i campi della vita quotidiana. Il centro simbolico di questo potere è il palazzo. Ed allora entriamo nel “palazzo” di Oudjilla.

Visita al palazzo reale di Oudjilla
Ad accoglierci c’è il vecchio regnante, stravaccato su un lettino in legno con uno scopino in mano per difendersi dalle mosche, davanti a un vecchio televisore spento. Sostiene di avere già compiuto i cento anni, ma francamente sembra più giovane. Fa fatica ad alzarsi e ci saluta sdraiato. Ha 50 mogli e 113 figli. Parla a stento il francese, ma uno dei figli funge da traduttore. Alle nostre domande risponde evasivamente. Non così il principe ereditario – il secondo genito, poiché secondo la tradizione il primogenito è considerato meno intelligente – che nel frattempo ci ha raggiunti. Veste una tuta blu da meccanico, nonostante stesse lavorando nei campi, e parla perfettamente il francese. Ci accoglie con calore, anche perché da oltre un mese non riceve visite da turisti, e ci introduce nel palazzo. È costituito da un enorme assembramento di capanne simili a quelle prima descritte. Basti pensare che ognuna delle 50 mogli ha diritto a quattro unità, ma molto anguste: una per dormire, una per cucinare e due come deposito per il miglio.
La prima sala del palazzo è dedicata alle udienze. Lo chef svolge infatti un ruolo simile al nostro giudice di pace. Dirime dissidi legati soprattutto a divorzi e a questioni ereditarie, mentre i reati più gravi vengono demandati ai tribunali dello stato. Proseguiamo la nostra visita ed entriamo in una stalla molto buia, dove viene custodito il bue sacro. Per tre anni vive lontano dalla luce in uno spazio angusto affinché ingrassi, sino al sacrificio rituale che avviene nel periodo della raccolta del miglio tra novembre e dicembre. Nella capanna successiva sono conservate le urne funerarie degli antenati. Si accede quindi al quartiere delle mogli, che sono governate dalla prima consorte. Lo “chef” non dorme mai nelle loro stanze, ma sono le donne che a turno si recano nella sua abitazione posta all’esterno del “saré”, così come quelle dei figli adulti. Il “palazzo” è provvisto di corrente elettrica, ma non di acqua. Ed i pozzi sono lontani.
Ci incamminiamo con il principe ereditario verso una collina da cui si gode una splendida vista sulla campagna e sulle montagne circostanti. Tra i tanti tetti in paglia ne spiccano alcuni in lamiera. Gli chiediamo come vede il futuro della sua comunità. Non sarà infatti facile conciliare la conservazione di quel patrimonio etnico-culturale con i veloci e continui mutamenti della società, che stanno cominciando a giungere anche lassù. Con espressione preoccupata risponde di voler rimanere fedele alle tradizioni, ma di rendersi conto che dovrà fare i conti con il modernismo. Sarà quindi necessario, aggiunge, accettare molti compromessi. Ma la sua speranza è che Oudjilla venga in futuro considerata patrimonio mondiale dell’Unesco, perché è convinto che questo riconoscimento gli procurerebbe i mezzi necessari per conservare le tradizioni, con il rischio però, aggiungiamo noi, di diventare una sorta di riserva o di museo all’aperto.

Le attività ai bordi della strada
Se le strade sono sconnesse, i panorami che presentano valgono bene la scomodità del tragitto. E, soprattutto, sono luogo di vita. Così attraversando un ponte ci imbattiamo in un gruppetto di ragazzini che fanno il bagno nudi in un pozzo d’acqua e si divertono quando mostriamo le foto dei loro tuffi. Poco più avanti ci fermiamo per osservare un gruppetto di giovani donne che travasano da un recipiente all’altro i grani di miglio facendoli cadere dall’alto per ripulirli. Ripetono quel movimento più volte facendo sembianza di non vederci, ma quando ci avviciniamo ci sorridono e accennano qualche parola in francese. La gente in questo paese è molto dolce e disponibile: credo siano questi incontri l’esperienza più ricca del nostro viaggio. Attraversando i villaggi si notano bancarelle in cui si vende di tutto, anche se solitamente il mercato si svolge in un giorno ben preciso della settimana. Si commercia anche carne appena macellata. Sui bordi della strada assistiamo alla cruenta macellazione di uno zebù, una sorta di bue africano. Vediamo le interiora dell’animale sgozzato giacere sulla pelle distesa per terra come una tovaglia. Due giovani si accaniscono con una mazza sulla povera bestia, che viene ridotta in pezzi da vendere al vicino mercato.

Itinerario

1° giorno
Italia-Douala

2° giorno
Douala-Maroua

3° giorno
Maroua (il mercato settimanale) – Maga

4° giorno
Maga-Pouss (il mercato settimanale) – Waza

5° giorno
Waza-Oujilla-Col di Koza-Mokolo

6° e 7° giorno
Mokolo-Tourou (il mercato settimanale) – Roumsiki

8° giorno
Roumsiki-Mayo Plata (il mercato settimanale) – Maroua

9° giorno
Maroua-Douala-Parigi

Bibliografia
Camerun, il paese dei mille villaggi Polaris, Firenze 2008
Costa d’Avorio, Ghana, Togo, Benin, Nigeria, Cameroun Lonely Planet, Torino 2010

Camerun – Stregato dalla gente e dai colori nel mio primo viaggio in Africa

Camerun – Tutta l’Africa in un solo paese
Camerun – Dove il tempo sembra essersi fermato
Camerun Un medico ticinese nel Camerun, il ricordo di Giuseppe Maggi

“Un concentrato d’Africa”, “Tutta l’Africa in un solo Paese”, “Un’Africa in miniatura”: sono gli slogan con cui si comincia timidamente a promuovere il turismo in Camerun, uno stato del centro Africa, situato nel cuore del Golfo della Guinea tra la Nigeria e il Congo, grande una volta e mezza l’Italia. E in effetti questo Paese, salvo le dune di sabbia, propone tutte le caratteristiche tipiche del continente: dalle fitte foreste alle alte montagne con fiumi, laghi e cascate, dalle dorate spiagge oceaniche ai verdi altopiani, dalla brulla savana saheliana popolata da elefanti al pre-deserto dell’estremo nord al confine con il Ciad. Ma il vero tesoro del Camerun è rappresentato dalla sua popolazione, oltre 240 etnie con lingue e culture proprie. Era il mio primo viaggio nell’Africa nera. Sono rimasto stregato dai colori, dagli odori, dalle sensazioni, dalla gentilezza e dalla dolcezza delle persone che ho incontrato. Mi sono subito reso conto che per vivere quell’esperienza non potevo ricorrere agli stessi parametri che solitamente utilizzo per altri viaggi. L’approccio è meno intellettuale e più sensitivo. Se in Europa vado a caccia di monumenti e di paesaggi, in Camerun mi devo maggiormente affidare alle mie sensazioni, alle percezioni. Al mio ritorno, quando gli amici mi chiedevano cosa avevo visto, mi trovavo in difficoltà a rispondere. Ho tentato di dire che avevo incontrato molta gente e avevo provato molte sensazioni, qualche volta difficili da comunicare. Il nostro itinerario, purtroppo molto breve, prevedeva la visita dell’estremo nord, un triangolo incuneato tra la Nigeria e il Ciad, alla scoperta di mercati e villaggi di campagna, dove il tempo sembra essersi fermato. Nel nord non ci sono grandi città, ma solo villaggi. E per lo più composti di capanne sparpagliate nella campagna, dato che l’80 per cento del Paese vive di agricoltura. I nuclei familiari vivono in piccole capanne rotonde edificate con terra, paglia e sterco di animale, tutte collegate tra loro, dove si svolgono le attività domestiche. Questo insieme di costruzioni è cinto da muri in pietra costruiti a secco. Inutile dire che la corrente elettrica è rara e l’acqua è spesso lontana. Il momento di maggior socializzazione per questa gente è costituito dal mercato settimanale, che si tiene sempre lo stesso giorno in determinati villaggi. Le capanne, con i loro tetti in paglia, sembrano mimetizzarsi con il paesaggio. Per ore e ore, percorrendo strade dissestate, si vedono persone lavorare nei campi coltivati attorno alle abitazioni e ci si chiede come sarà quella vita tanto diversa dalla nostra e certamente durissima e scomoda. Francamente non so quale risposta dare e mi rendo conto che qualsiasi confronto è fuori posto. Ma poi visitando Douala, la capitale economica del Paese, non ho dubbi: in Camerun si vive meglio in campagna che in quella città, perché del nostro modo di vivere occidentale la vita urbana sembra aver preso solo i peggiori difetti.

Camerun – Dove il tempo sembra essersi fermato

Camerun – Tutta l’Africa in un solo paese
Camerun – Stregato dalla gente e dai colori nel mio primo viaggio in Africa
Camerun Un medico ticinese nel Camerun, il ricordo di Giuseppe Maggi

Tra gli alberi ed enormi massi erranti, in un paesaggio che sembra un presepe vivente, sbucano i tetti in paglia di agglomerati di capanne cinte da un muro per garantire l’intimità famigliare. Sulle piste si incontrano donne incamminate verso i mercati. Nei villaggi lo stregone svolge ancora un ruolo sociale.

Proseguiamo il nostro itinerario nell’estremo nord del Camerun ai confini tra Nigeria e Tchad, organizzato da Kel 12, dirigendoci verso le Mandara Mountains, in una zona sperduta tra le colline percorrendo piste sconquassate, ma attraverso paesaggi dove il tempo sembra essersi fermato. Tra gli alberi ed enormi massi erranti sbucano i tetti in paglia di rotonde capanne collegate tra loro e circondate da muri in sasso per proteggere l’intimità familiare. Sembrano appartenere a un presepe vivente. La mia curiosità per conoscere la vita che si svolge all’interno di quelle mura (“saré”) è enorme. Ci fermiamo con le nostre jeep davanti a diversi gruppi di capanne. La gente è gentile ma non ci invita ad entrare, come vorremmo. Più avanti abbiamo però la possibilità di visitare un nucleo ormai disabitato.
Entrati nel muro di cinta si nota una sorta di gazebo in legno, sopra il quale viene essicato il miglio, e sotto, all’ombra, mangia il capofamiglia. Le donne ed i bambini consumano invece i pasti al coperto di un’altra tettoia in paglia situata davanti alla prima capanna, che appartiene al capofamiglia ed è dominata da una statua del suo dio personale, una sorta di angelo custode. Fino all’età di 7 anni i bimbi dormono assieme alla madre, in seguito tutti assieme. Dopo i 15 anni i maschi si trasferiscono fuori dal “saré”, mentre le ragazze, in attesa di prendere marito, occupano un’altra capanna interna. Negli spazi intimi che si creano tra le capanne, i membri della famiglia si lavano. Chi se lo può permettere dedica uno spazio coperto anche al bue sacro, che viene ingrassato per tre anni senza che possa mai uscire o vedere la luce del giorno. Siccome nel corso del tempo raggiunge proporzioni ragguardevoli per trasferirlo al luogo del sacrificio diventa necessario demolire una parete. La sua carne viene quindi cucinata, mentre le donne preparano la birra di miglio. La festa dura tre giorni e viene condivisa con gli abitanti del villaggio. Proseguiamo la nostra visita all’interno del “saré”. Un’ulteriore capanna, dove al centro si trova un ampio granaio per la conservazione del miglio, è destinata alla prima moglie, che dispone pure di uno spazio attiguo dove vengono custoditi gli animali di piccola taglia: soprattutto capre e pecore. Una successiva capanna è destinata alla seconda consorte e una ulteriore, con due granai per le scorte, alla mogle più giovane, che prima di iniziare la vita familiare viene qui segregata per tre giorni. Un ultimo spazio è consacrato alla cucina, dove le varie mogli si alternano ai fornelli.
Gli animali più grandi dormono all’aperto, ma all’interno delle mura, dove dispongono di una abbeveratoio. Accanto si trova una pietra sulla quale viene esposta la statua di un dio, al quale ci si rivolge quando sorgono problemi tra i membri della famiglia, naturalmente dopo avere consultato lo sciamano (stregone) del villaggio. A seconda del suo responso viene sacrificato un pollo sbattendogli la testa sul sasso e facendogli colare il sangue sulla pietra. La cerimonia termina con preghiere dopo avere mangiato tutti assieme l’animale sacrificato e bevendo l’immancabile birra di miglio.

Lo stregone del granchio
A proposito di sciamani, abbiamo avuto occasione di incontrarne uno a Roumsiki. È ormai diventato un’attrazione turistica, ma la gente del posto continua a recarsi da lui per ricevere consigli. Lo chiamano stregone del granchio, perché interloquisce con questo animale. Dopo avere ascoltato la domanda del suo interlocutore sistema dei legnetti posati su una coltre di terra all’interno di un’anfora. Quindi, dopo aver debitamente parlato con il granchio, lo introduce nell’anfora e lo lascia agire per una trentina di secondi. Interpretando il modo in cui sono stati scompigliati i legnetti formula la risposta. Io gli ho chiesto come prevedeva l’evoluzione della situazione economica europea. Senza scomporsi ha interloquito con il granchio per rispondermi che andrà sempre un po’ meglio, ma il progresso sarà lento.
Roumsiki è un villaggio fuori dal mondo, ma in grande trasformazione, dove si trovano alcuni simpatici oggetti artigianali e dove sopravvivono alcune antiche tradizioni. Come quella di trovarsi sotto i cosiddetti fichi della parola – uno destinato ai saggi, uno ai giovani ed uno alle donne – per discutere di questioni pubbliche.
Il paesaggio attorno è molto spettacolare: propone picchi di roccia vulcanica alti decine di metri che spuntano dal terreno distanti uno da uno dall’altro, ricordando lontanamente la californiana Monument Valley.

Itinerario

1° giorno
Italia-Douala

2° giorno
Douala-Maroua

3° giorno
Maroua (il mercato settimanale) – Maga

4° giorno
Maga-Pouss (il mercato settimanale) – Waza

5° giorno
Waza-Oujilla-Col di Koza-Mokolo

6° e 7° giorno
Mokolo-Tourou (il mercato settimanale) – Roumsiki

8° giorno
Roumsiki-Mayo Plata (il mercato settimanale) – Maroua

9° giorno
Maroua-Douala-Parigi

Bibliografia
Camerun, il paese dei mille villaggi Polaris, Firenze 2008
Costa d’Avorio, Ghana, Togo, Benin, Nigeria, Cameroun Lonely Planet, Torino 2010

Camerun – Un medico ticinese nel Camerun, il ricordo di Giuseppe Maggi

Camerun – Tutta l’Africa in un solo paese
Camerun – Dove il tempo sembra essersi fermato
Camerun – Stregato dalla gente e dai colori nel mio primo viaggio in Africa

Nel diario di viaggio ho scritto di quanto sia rimasto colpito dalla dolcezza e dalla gentilezza di quella gente e di come non si possa giudicare un viaggio del genere con gli stessi parametri di altre esperienze. Esiste però, purtroppo, anche un rovescio della medaglia, che sarebbe ingenuo e scorretto tacere, anche perché in parte chiama in causa la nostra civiltà occidentale. Raccontavo di come Douala, la capitale economica del Camerun, sia una brutta città costruita in epoca coloniale, che della nostra cultura ha recepito solo gli elementi peggiori. In Camerun ho incontrato un anziano italiano che con orgoglio mi raccontava come noi europei abbiamo portato la civilizzazione in Africa. E no, le cose non stanno proprio così. Il colonialismo certamente, ma per diversi aspetti anche certe forme di turismo, della nostra civiltà hanno “esportato” soprattutto il peggio. Basti pensare alla politica. Quali esempi abbiamo fornito e cosa abbiamo fatto per preparare quei Paesi a gestire l’indipendenza, dopo che ci siamo impossessati delle loro maggiori risorse? Il Camerun ha conquistato l’indipendenza nel 1960, dopo aver subito la dominazione dei tedeschi dapprima e dei francesi e degli inglesi in seguito, ed è subito finito sotto un padre padrone: il presidente Hamadou Ahijio, che ha governato per 22 anni. Il potere è poi passato a Paul Biya, che ha apparentemente “democratizzato” il Paese, portandolo al poco invidiabile primato di Stato più corrotto del mondo. In Camerun bisogna pagare per avere buoni voti a scuola, per entrare all’università, per disporre di un letto in ospedale, persino per ottenere un funerale decente. La corruzione segue abitudini e rituali, frutto di regole e norme di comportamento che condizionano la quotidianità. Ed è un vero peccato perché il Camerun ha di un interessante potenziale economico, potendo contare sull’esportazione di caffè, cacao, cotone, banane, olio di palma, legname e petrolio. Questo Paese, il cui reddito pro capite è uno dei più elevati del continente, può vantare la quasi totale autosufficienza alimentare. Se all’estero questo piccolo Stato, oggi purtroppo considerato a rischio per il turismo, è noto per aver dato le origini al giocatore di calcio Eto’o e al tennista Noah, in Ticino è invece conosciuto per essere stato la seconda patria del dottor Giuseppe Maggi, il medico di Caneggio che ha dedicato quarant’anni della sua vita alla battaglia contro la malaria e molti altri mali che affliggono le popolazioni più povere del Camerun del nord. Nella sua lunga attività, che gli valse anche una candidatura al premio Nobel per la pace, il medico ticinese ha costruito in Camerun cinque ospedali, quattro dei quali nel corso degli anni si sono resi autonomi. L’ultima sua creazione, invece, continua ad essere gestita da “L’Opera Umanitaria Dr. Maggi”, che porta avanti il sogno del fondatore – di cui quest’anno ricorre il venticinquesimo della morte – con un’équipe di cinquanta sanitari, tutti africani.

Turchia – Sulle orme dei Greci e dei Romani

Turchia – Re Mida e le antiche civiltà
Turchia – Il fascino di Istanbul ieri e oggi, una società in rapidissima crescita

Alla scoperta della mitica Troia, che ispirò i poemi di Omero; di Pergamo con la sua straordinaria biblioteca; di Efeso, considerata la Pompei turca; di Didima, celebre per le sentenze del suo oracolo; di Afrodisia, la città dell’amore; delle cascate pietrificate di Pamukkale, emblema della Turchia turistica.

Le coste turche che si affacciano sul Mar Egeo, distanti un tiro di schioppo dalle isole greche, sono state nel corso dell’antichità fortemente legate alla cultura dapprima greca e in seguito romana. Risultano ricchissime di luoghi che testimoniano questo passato. L’Associazione archeologica ticinese ha organizzato un interessante viaggio nella regione alla scoperta dei siti più significativi e più interessanti. Ecco il mio diario di viaggio.

Il nostro itinerario non poteva non iniziare dalla mitica Troia, che deve il suo fascino letterario ai poemi di Omero. Nell’Iliade, il poeta narra le conseguenze del rapimento della bellissima Elena che fu sottratta al marito Menelao, re greco di Sparta, dal troiano Paride. Furioso Menelao mosse guerra a Troia, che fu vinta dopo dieci anni grazie al celebre stratagemma del cavallo di legno ideato dall’astuto Ulisse; Elena fu restituita al legittimo sposo. Nell’Odissea, Omero racconta invece il travagliato viaggio di ritorno a casa di Ulisse e la morte di Achille, colpito da Paride, figlio di Menelao, al tallone, unico punto vulnerabile del suo corpo.
È probabile che l’epica omerica sia basata sul ricordo di una serie di guerre del XIII secolo a.C. dovute a rivalità commerciali tra i greci di Micene e i troiani. Troia era infatti situata in posizione strategica su una bassa catena di colline, dalle quali si potevano controllare i traffici via mare e via terra.
Per secoli gli studiosi pensarono che i luoghi descritti da Omero fossero unicamente fonte della sua fantasia. Fino a quando, nel 1871, un archeologo dilettante, Heinrich Schliemann – un inquieto uomo d’affari tedesco che visse a lungo in Russia –, non portò alla luce Troia. Gli scavi hanno rivelato ben nove antiche città sovrapposte con datazione risalente fino al 3000 a.C. Oggi si ritiene che la città a cui si riferiscono le vicende narrate da Omero appartenga al VI periodo. Di fatto, per immaginarsi come poteva essere, bisogna lavorare molto di fantasia, ma se si ha la fortuna di disporre di una valida guida, come è successo a noi, si riesce comunque a vivere la magia di quel luogo immerso in una splendida natura. Gli oggetti più significativi trovati durante gli scavi sono esposti al museo archeologico di Istanbul.

A Pergamo s’inventò la pergamena
Il nostro viaggio prosegue a sud verso Pergamo, famosa per la sua biblioteca e per la scoperta della carta pergamena. In funivia si raggiunge l’acropoli, situata sulla cima di una collina, da cui si gode una magnifica vista sulla vallata fino al mare.
La vera nascita di questa città, di cui si hanno tracce già nel VI secolo a.C., risale ad Alessandro Magno, che morì nel 323 a.C. senza designare un successore. I suoi generali si spartirono allora il suo regno e Lisimaco assunse il controllo di gran parte della regione egea. Stanziatosi a Pergamo con un cospicuo tesoro di 9’000 talenti, partì per una guerra di conquista senza fare ritorno. Il suo luogotenente Filetero si appropriò così del tesoro e strinse una serie di alleanze militari con i vicini, che permisero ai suoi discendenti di far fiorire uno dei centri più importanti del mondo ellenistico, famoso soprattutto per la sua straordinaria biblioteca che vantava un patrimonio di oltre 200 mila volumi. Per far crescere la città e conferirle sempre maggior prestigio si progettarono monumenti importanti prendendo Atene come modello.
La biblioteca assunse una tale importanza da far temere ai responsabili di quella di Alessandria, ricca di ben 700 mila volumi, che alcuni suoi famosi studiosi potessero lasciare l’Egitto attratti da Pergamo. Per scongiurare questa concorrenza gli Egiziani sospesero l’esportazione del papiro del Nilo. Gli scienziati di Pergamo si misero allora al lavoro e inventarono la pergamena ricavata da pelli di animali.
Visitando l’acropoli ci si può rendere conto delle enormi proporzioni della biblioteca e dello splendore dei monumenti principali, come l’altare di Zeus, i cui straordinari bassorilievi – capolavoro dell’arte ellenistica – sono stati trasferiti a Berlino da Carl Humann, l’ingegnere tedesco che nell’Ottocento scoprì la città mentre stava costruendo una linea ferroviaria.

Alle origini della medicina
Un altro punto di grande interesse di Pergamo riguarda la visita dell’Asclepeion: ospedale e scuola di medicina tra i più famosi dell’antichità. Creato in epoca ellenistica, raggiunse il massimo della fama nel periodo romano quando vi lavorò Galeno, considerato il padre della medicina occidentale. Il malato veniva curato fisicamente e psicologicamente. La diagnosi veniva rivelata al paziente, mentre si trovava in uno stato di sogno-dormiveglia, dal dio Asclepio (Esculapio).
Si accede al sito percorrendo una lunga via sacra su cui anticamente si affacciavano botteghe. Su una colonna con bassorilievi è inciso un serpente, simbolo del dio della medicina. Esattamente come il serpente che si spoglia della propria pelle e risorge a nuova vita, così i pazienti dell’Asclepeion si spogliavano delle loro malattie. E tra costoro si annoverano nomi celebri come Adriano, Marco Aurelio e Caracalla.

A Efeso si respira l’aria del passato
Efeso è certamente il sito più spettacolare del nostro itinerario, tanto che alcuni la considerano la Pompei turca. Visitando questa città, che in età romana fu capitale di una provincia e raggiunse una popolazione di 250 mila abitanti, la vita del passato sembra ancora animare le rovine. Camminando lungo le vie dell’epoca romana, su cui si affacciano imponenti fontane, si possono visitare le terme, il grande teatro, la splendida biblioteca di Celso, che è stata rimessa in piedi, la piazza del mercato, il tempio di Adriano, i curiosi gabinetti pubblici, il postribolo e i quartieri abitativi.
Efeso era già prospera nel 600 a.C., ma ciò che noi oggi visitiamo risale all’età romana. Era un centro commerciale e religioso di grande importanza. Il suo monumento più rinomato, di cui rimane però purtroppo poco da vedere, è certamente il tempio eretto in onore di Cibele dapprima, di Artemide in seguito, e considerato nell’antichità una delle sette meraviglie al mondo. Il santuario, che venne più volte ricostruito, fu meta di pellegrinaggi a partire dall’800 a.C.. Sorprende per le sue incredibili dimensioni, 110 metri per 55, se paragonate a quelle di un tempio normale che erano di 30 metri per 10.

Dall’oracolo a Didima invece che a Delfi
Proseguiamo in direzione sud e raggiungiamo Mileto, che dal 700 a.C. al 700 d.C., quando le acque del mare lambivano ancora la città, fu un importante centro commerciale e amministrativo, grazie al suo porto. Famosa per la sua urbanistica molto moderna, affascinante per le sue terme, il suo monumento più imponente è il grande teatro, che a testimonianza dell’importanza della città, poteva ospitare 15 mila spettatori. Collegato a Mileto da una via sacra lunga 17 chilometri, ancora oggi in aperta campagna, sorge il suggestivo tempio di Apollo a Didima, dove operava un oracolo considerato autorevole quanto quello di Delfi. Giunti sul posto i pellegrini ponevano le loro domande ai sacerdoti, che attraversando una galleria – tuttora esistente – entravano nel tempio e le riferivano all’oracolo, il quale ispirato da dio proponeva le sue risposte, che venivano poi comunicate ai fedeli. Il sito è molto ben conservato e permette di immaginare queste dinamiche di culto.

Afrodisia, città della dea dell’amore
Lasciamo la costa lungo il Mar Egeo per inoltrarci nell’entroterra. Situata su un altopiano all’altezza di 600 metri ci accoglie Afrodisia, circondata da montagne. Molto meno affollata, ma ben conservata quasi quanto Efeso, rende bene l’idea della grandiosità e delle imponenti dimensioni delle città classiche. Per molti secoli fu soprattutto un luogo sacro, dove si celebrava il culto di Afrodite (o in età romana di Venere) e ancor prima della dea assira dell’amore e della guerra: Nin. Si trasformò in città solo nel II secolo a.C. e divenne capitale della provincia romana della Caria. La maggior parte delle rovine, in buono stato di conservazione, risale dunque al periodo di Roma. Il monumento più celebre è certamente l’imponente tempio di Afrodite, trasformato in basilica cristiana attorno al 500 d.C.. Impressionante lo stadio, che con i suoi 270 metri di lunghezza e una capienza di 30 mila spettatori era uno dei più grandi del mondo antico. La città è famosa anche per la sua scuola di scultura. Nel piccolo museo sono esposte alcune opere, come la statua di Afrodite, che testimoniano l’abilità degli scultori locali.

Cascate pietrificate a Pamukkale
Le cascate pietrificate di Pamukkale rappresentano una delle immagini turistiche più celebrate della Turchia moderna. Si tratta di bianche e splendenti formazioni calcaree, formatesi in seguito all’azione delle acque mineralizzate calde che, scorrendo lungo la parete rocciosa, si raffreddano e depositano il calcio di cui sono ricche. Nel corso dei secoli si sono create suggestive vasche di travertino attorno alle quali i Romani costruirono una grande stazione termale, denominata Hierapolis, per sfruttare le proprietà curative, note da millenni, di queste acque.
Attorno a questa incredibile e unica attrazione turistica era nata negli scorsi decenni una grande speculazione, che aveva gravemente compromesso il fascino del luogo. Nel corso degli ultimi anni le costruzioni abusive sono state distrutte e Hierapolis ha riacquistato il suo enorme charme. Ai turisti è ancora permesso bagnarsi nelle vasche di travertino, che sono di nuovo rifornite dalle originali sorgenti, mentre anni fa venivano dirottate verso le terme di improvvisati alberghi.
Accanto alle cascate pietrificate si può visitare l’antica Hierapolis fondata in età romana. Particolarmente suggestiva la necropoli, con più di 1200 tombe, costituite da tumuli, sarcofagi o monumenti sepolcrali a forma di casa, e in qualche caso anche di palazzo. Al termine della nostra visita abbiamo percorso il lungo viale su cui si allineano queste testimonianze funerarie illuminate dall’ultima luce del giorno, dopo avere assistito allo spettacolo delle cascate pietrificate che riflettono i colori del tramonto.

Itinerario

1° giorno
Lugano-Milano-Istanbul-Canakkale

2° giorno
Canakkale-Troia-Pergamo-Kusadasi

3° giorno
Kusadasi-Efeso-Mileto e Didima-Kusadasi

4° giorno
Kusadasi-Afrodisia-Hierapolis (Pamukkale)

5° giorno
Pamukkale-Usask-Gordio-Ankara

6° giorno
Ankara-Hattusa-Yazilikaya-Alachahöyük-Ankara

7° giorno
Ankara-Istanbul

8° giorno
Istanbul

9° giorno
Istanbul-Milano-Ticino

Bibliografia
Turchia Clup Guide, Milano 1989
Turchia Le Guide Mondatori, Milano 2011

Turchia – Il fascino d’Istanbul ieri e oggi, una società in rapidissima crescita

Turchia – Sulle orme dei Greci e dei Romani
Turchia – Re Mida e le antiche civiltà

Il nostro itinerario archeologico in Turchia alla scoperta dei vari periodi di civilizzazione di questo affascinante Paese non poteva non terminare con una sosta di due giorni – troppo breve – a Istanbul, l’antica Costantinopoli. La prima volta che visitai questa splendida metropoli è stato oltre quarant’anni fa, quando non avevo ancora vent’anni. Fu amore a prima vista. Era il mio primo incontro con l’Oriente. E allora l’atmosfera orientale la si respirava davvero a pieni polmoni. Ricordo che sull’antico ponte di Galata gli uomini fumavano la tipica pipa ad acqua, il “narghilé”. Girando per le vie del centro storico, all’ombra dei monumenti che testimoniano secoli di storia, incontravo molte donne con il volto coperto. E poi ricordo i canti dei “muezzin” al tramonto per chiamare i fedeli alla preghiera e la gente che al Gran Bazar interrompeva il lavoro per recarsi alla moschea. Sono poi tornato sulle rive del Bosforo più volte a distanza di anni. Negli anni Ottanta mi ci recai – con grande sorpresa di amici e colleghi – per visionare un modernissimo impianto di impaginazione per giornali. Gli americani avevano deciso di installare lì il loro modello pilota per l’Europa. Era un segno che quella società si stava muovendo, soprattutto nella sua metropoli principale. Oggi di quella Istanbul che avevo visto da ragazzo e che tanto avevo amato rimane poco. Nel centro storico, il quartiere per intenderci di Santa Sofia e della Moschea Blu, case fatiscenti stanno per essere restaurate e la nostra guida ci dice con orgoglio: “Vedrete, fra qualche anno che meraviglia diventerà questo quartiere!”. Lontano dai luoghi storici e turistici la metropoli si è sviluppata ed europeizzata all’inverosimile e conta ormai 16 milioni di abitanti. In piazza Taksim, il centro moderno, le ragazze vestono all’occidentale. Per incontrare donne velate bisogna salire sulla spianata del Topkapi, davanti alla Moschea Blu, dove giungono le turiste da Paesi arabi lontani. Lo stesso discorso vale per il Gran Bazar, uno dei mercati più famosi al mondo, dove la merce esposta è ormai globalizzata. La periferia di Istanbul è sterminata, con grattacieli bene ordinati. Vi si respira la stessa atmosfera che in Cina: ovunque si volga lo sguardo si vedono cantieri edilizi, a testimonianza di una crescita economica rapidissima. La stessa impressione l’ho provata ad Ankara, ma anche nelle campagne del sud-ovest e del centro del Paese. Le antiche case contadine giacciono ormai abbandonate: sono state sostituite da grandi caseggiati disposti secondo un preciso piano regolatore. In un vasto campo, accanto a un villaggio agricolo, mi ha colpito la presenza di uno di questi casermoni: solitario come una pianta in mezzo alla campagna. Ma presto sarà affiancato da altri, che sorgeranno in modo ordinato, perché in questo Paese la crescita è inarrestabile. Come europeo, se penso a ciò che sta avvenendo nel vecchio continente, non posso non interrogarmi sugli anni a venire e giungere alla conclusione che noi stiamo probabilmente finendo un ciclo, mentre in Turchia si guarda ancora al futuro con fiducia.

Turchia – Re Mida e le antiche civiltà

Turchia – Sulle orme dei greci e dei romani
Turchia – Il fascino di Istanbul ieri e oggi, una società in rapidissima crescita

Dall’epoca romana ed ellenistica facciamo un salto indietro nel tempo alla scoperta delle più antiche civiltà che hanno popolato l’attuale Turchia. Tra cui quella del famoso Re Mida, che trasformava in oro tutto ciò che toccava.

Visitiamo i siti archeologici dell’età ittita, che corrisponde al secondo millennio a.C., e dei regni di Frigia del leggendario re Mida (VIII secolo a.C.) e di Lidia del ricchissimo Creso (VI secolo a.C.) che seguirono al mondo ittita. Prosegue così l’itinerario organizzato dall’Associazione archeologica ticinese in terra turca, con tappa naturalmente anche ad Ankara per visitare il prestigioso Museo delle civiltà anatoliche, dove sono stati raccolti gli oggetti più preziosi provenienti dai principali siti archeologici.
Al di fuori del mondo mesopotamico, gli Ittiti sono il popolo civilizzato più antico che si conosca di quel periodo. Di grande importanza è l’età definita del “grande impero” (XIII secolo a.C.), durante il quale gli Egiziani e gli Ittiti si divisero il mondo di allora. Dopo la guerra di Kadesh (1290 a.C.), in cui i due eserciti si scontrarono senza veri vincitori e vinti, i sovrani dei due paesi finirono per stringere un patto di alleanza di estrema modernità, tanto da prevedere addirittura l’estradizione per chi compiva reati. È di questo periodo anche la conquista di uno sbocco sul Mar Egeo, che apriva agli Ittiti nuovi confini. Gli elevati livelli culturali raggiunti da questa civiltà sono testimoniati dagli splendidi oggetti rinvenuti sui siti archeologici. La storia di questo popolo di origine indoeuropea la si conosce invece grazie alla scoperta di diverse tavolette scritte in caratteri cuneiformi, che soltanto dopo molti anni di studi è stato possibile decifrare. Parlano dei loro rapporti con gli Assiri e con l’Egitto, ma anche di contratti, di codici, di leggi, di procedure e di riti religiosi, di profezie degli oracoli e di letteratura. La forza militare degli Ittiti era determinata dall’uso della cavalleria, che grazie alla scoperta di un carro da guerra con ruote a raggi, si spostava con particolare rapidità di movimento sul campo di battaglia. A bordo del carro prendevano posto l’auriga, un arciere e un soldato con lo scudo per garantire la difesa.

Hattusa, capitale dell’impero ittita
Molto suggestiva è la visita di Hattusa, l’immensa capitale dell’impero ittita, con le sue solide mura costruite in pietra, che anticamente si estendevano per sei chilometri e con diverse porte di accesso, tra le quali imponenti e ben conservate sono quelle dette “dei leoni” e “del re”, dalle statue che le fiancheggiano, i cui originali sono attualmente conservati ad Ankara, così come diversi altri oggetti qui rinvenuti, tra i quali due recipienti in terracotta di notevoli proporzioni (90 centimetri) a forma di toro, in ottimo stato di conservazione.
Oggi dei grandi palazzi di un tempo sopravvivono solo le fondamenta in pietra calcarea, ma il sito sprigiona un fascino particolare: all’armonia delle colline color del grano su cui è stata costruita la città, si contrappongono imponenti e minacciosi massi rocciosi che conferiscono al luogo una forza incredibile. Questa atmosfera quasi soprannaturale è ancor più presente in uno straordinario santuario rupestre del XIII secolo a.C. (Yazilikaya). Il tempio è stato ricavato dalla natura e si compone di due gallerie su cui sono stati scolpiti magnifici bassorilievi a sfondo religioso. Celebre è il “Corteo delle dodici divinità” raffigurate da guerrieri armati.
Una trentina di chilometri verso nord separano Hattusa da Alacahöyük, centro fiorente della cultura preittita Hatti, dove sono state rinvenute tredici prestigiose tombe reali risalenti a un periodo tra il 2200 e il 1900 a.C.. Questi sepolcri di forma rettangolare –lunghi fino a 7 metri e larghi 3 – erano protetti da un muro in pietra grezza ricoperto di travi in legno su cui venivano posti i crani e gli zoccoli degli animali sacrificati durante i riti funebri. Gli scavi hanno portato alla luce oggetti artistici di bronzo, oro e argento di incomparabile bellezza, che raffigurano la concezione del mondo di allora e che venivano usati durante i servizi divini. Oggi sono esposti ad Ankara e rappresentano una buona parte del tesoro archeologico del Museo delle civiltà anatoliche.

I tesori di Creso re dei Lidi e di Re Mida del regno dei Frigi
I regni di Lidia e Frigia si riferiscono allo stesso territorio, popolato prima dai Frigi, che si sostituirono agli Ittiti, e in seguito dai Lidi, che furono soppiantati dai Persiani.
Gordio, la capitale dell’antica Frigia, si trova un centinaio di chilometri a ovest di Ankara. Il paesaggio è molto suggestivo perché cosparso di tumuli funerari, la maggior parte dei quali non ancora scavati dagli archeologi. Si tratta insomma di una grande necropoli all’aperto, che si può bene osservare dalla collina più elevata su cui sorgeva l’acropoli. Il tumulo più alto – 60 metri di altezza e 300 di diametro – ospita la tomba intatta di un re frigio dell’VIII secolo a.C., che si presume si chiamasse Mida o Gordio. Al tumulo si accede da una galleria laterale attraverso un lungo corridoio che conduce a una sorta di casetta in legno di cedro e circondata da tronchi di ginepro. Vi è stato rinvenuto il corpo di un uomo di età stimata tra i 60 e i 65 anni, alto 1 metro e 59 centimetri, intorno al quale erano deposti alcuni oggetti funerari, esposti in parte nel museo adiacente e in parte – i più preziosi e in particolare due tavolini pieghevoli in legno intarsiato – al Museo delle civiltà anatoliche di Ankara.
Legate a re Mida sono nate molte leggende. La più famosa tramanda una lezione morale sull’avidità. Si narra infatti che il re frigio abbia chiesto a Dioniso il potere di trasformare in oro tutto ciò che toccava. Ben presto si accorse di essere stato preso alla lettera: il cibo al tatto si trasformava in oro, così come accadde alla figlia durante un affettuoso abbraccio. Il re chiese allora a Dioniso di liberarlo da questa maledizione. Questi gli disse di immergersi nel fiume, le cui sabbie divennero aurifere.
Nel Museo Archeologico di Usak è esposto invece il cosiddetto “Tesoro di Creso”, costituito da uno splendido corredo per banchetti in argento, da gioielli e da una serie di tavole dipinte: tutti oggetti risalenti alla seconda metà del VI secolo a.C. e che furono al centro di un piccante giallo internazionale. Proveniente da tumuli funerari scavati da tombaroli, il tesoro finì negli Stati Uniti al Metropolitan Museum di New York. La polemica scoppiò nell’85 quando il prestigioso museo presentò una mostra in cui vennero annunciati straordinari reperti greco-orientali. Un giornalista americano, dopo avere intuito la provenienza del tesoro, prese contatto con un collega turco. Ne nacque un’inchiesta giornalistica internazionale, che, facendo leva su dissidi sorti tra i tombaroli turchi, poté dimostrare come il tesoro fosse stato trafugato negli Stati Uniti dalla Turchia. La questione assunse risvolti penali e politici e nel giro di dieci anni gli oggetti tornarono a Usak, dove erano stati rubati.

Itinerario

1° giorno
Lugano-Milano-Istanbul-Canakkale

2° giorno
Canakkale-Troia-Pergamo-Kusadasi

3° giorno
Kusadasi-Efeso-Mileto e Didima-Kusadasi

4° giorno
Kusadasi-Afrodisia-Hierapolis (Pamukkale)

5° giorno
Pamukkale-Usask-Gordio-Ankara

6° giorno
Ankara-Hattusa-Yazilikaya-Alachahöyük-Ankara

7° giorno
Ankara-Istanbul

8° giorno
Istanbul

9° giorno
Istanbul-Milano-Ticino

Bibliografia
Turchia Clup Guide, Milano 1989
Turchia Le Guide Mondatori, Milano 2011