Laos – La sua linfa vitale è il fiume Mekong

Laos – Il Laos “no stress” tra passato e presente
Cambogia – L’estasi davanti ai templi di Angkor
Cambogia – Un angelo svizzero medico in Cambogia

Un itinerario sorprendente che permette la scoperta del Paese asiatico navigando il suo fiume storico da Huay Xai, al confine con la Thailandia, fino a Luang Prabang, la graziosa antica capitale protetta dall’Unesco e prediletta dai turisti.

Il fiume Mekong ha costituito per millenni la linfa vitale del Laos, uno dei paesi più poveri al mondo, dove l’80 per cento degli abitanti vive di agricoltura. Ancora oggi circa 60 milioni di persone dipendono dalle risorse delle sue acque e da quelle dei suoi affluenti. Questo fiume, che nasce in Tibet e attraversa Cina, Birmania, Thailandia, Cambogia e Vietnam, ha profondamente inciso sulla storia del Laos, al punto che quasi tutto il paese si è sviluppato lungo le sue rive. Per questo, il nostro itinerario realizzato da Kel 12, prevede la scoperta del Laos navigando il suo fiume storico, laddove è possibile: da Huay Xai, al confine con la Thailandia, fino a Luang Prabang, la graziosa cittadina protetta dall’Unesco e prediletta dai turisti. Oltre non si può navigare a causa di ripide e cascate. Proseguiremo pertanto verso la capitale Vientiane in aereo. Il nostro viaggio continuerà quindi in Cambogia alla scoperta degli affascinanti templi di Angkor, immersi nella foresta e abbracciati dalle magiche radici dei suoi alberi.

La grande madre
Il nostro viaggio inizia da Milano-Malpensa, dove un volo diretto Thai airways ci porta a Bangkok, da cui si riparte per Chiang Rai nel nord della Thailandia. Da qui in un’ora di pulmino si raggiunge Chieng Khong, un porto fluviale considerato “la porta dell’Indocina”. Il Mekong, la “Madre di tutti i fiumi”, che segna il confine tra l’antico impero siamese e il Laos, è davanti a noi. Il nostro viaggio entra nel vivo. Un’imbarcazione ci attende per attraversare il fiume. Prima di raggiungerla passiamo sotto un arco di dubbio gusto, considerato appunto “la porta dell’Indocina”. Giunti sull’altra sponda, a Huey Xai, espletiamo sul posto le pratiche per il visto e ci incamminiamo verso il modesto albergo dove passeremo la notte, ospitato in un’antica casa coloniale francese.
Prima di cena visitiamo un tranquillo villaggio di etnia Lenten, che si affaccia sul Mekong a una trentina di chilometri da dove alloggiamo. Le abitazioni sono plurifamiliari con tetti in foglie di palma e bambù, come tutti gli altri villaggi in cui sosteremo nei giorni seguenti lungo il Mekong. Siamo nel cosiddetto Triangolo d’oro, noto per la coltivazione del papavero da oppio. Nel villaggio in cui ci troviamo sembra che lo coltivino non per commerciarlo, ma solo per consumarlo. Le donne indossano vestiti blu e neri, non hanno sopracciglia (vengono depilate all’età di 15 anni) e nei capelli lisci portano una moneta d’argento. L’atmosfera è tranquilla. Gli uomini giocano alle pétanque: il gioco delle bocce che i Francesi hanno introdotto durante la loro dominazione (1893-1953).
Rientriamo a Huey Xai. La via principale è un susseguirsi di guesthouse, negozi e agenzie di viaggio. Anche qui l’atmosfera è rilassata e la passeggiata piacevole.
Il mattino seguente una lunghissima barca in legno ci aspetta per una crociera che durerà due giorni. La nostra meta è Luang Prabang, l’antica capitale del Laos, che dista circa 300 chilometri. Per la notte faremo tappa a Pakbeng in un grazioso resort che si affaccia sulle rive del Mekong.
La navigazione lungo il fiume è piacevole. Il nostro barcone scivola sull’acqua a una velocità media di 20 km/h aiutato dalla corrente del fiume che a tratti è intensa. Siamo nel mese di febbraio e l’acqua è bassa. Sulle rive si sono pertanto create improvvisate spiaggette di sabbia bianchissima, simile a quella del mare. La foresta incombe a pochi metri. Ma per lunghi tratti le sponde sono rocciose, con forme appuntite. Il fiume è molto selvaggio. I rari villaggi si affacciano sulle acque, a volte nascosti dalla folta vegetazione. Si intuisce la loro esistenza dalle barche ormeggiate lungo le rive, coltivate a patate, e dall’animazione: bimbi che giocano, donne che lavano i panni, altre che setacciano la sabbia cercando povere pagliuzze d’oro, uomini che pescano pesci o alghe, animali che si abbeverano, buoi di fiume che si immergono. Il Mekong per tutta questa gente è una fonte di vita: fornisce cibo e acqua per irrigare i terreni e rappresenta la via di comunicazione principale. In alcuni villaggi, dove si fermano i barconi dei turisti, le donne tessono la seta per arrotondare le scarse entrate.
A un paio d’ore da Luang Prabang un’imponente parete rocciosa si erge sulla riva destra del fiume. Qui, nelle grotte di Pak Ou, che si aprono in alto, si trova un commovente e suggestivo luogo di culto, caratterizzato dalla semplicità della fede popolare. Sotto la volta, nelle sacre caverne, è ospitata un’innumerevole quantità di statuette, alcune povere e grezze, offerte dalle popolazioni che risiedono lungo il fiume e nelle aspre montagne che lo costeggiano.

Un magico equilibrio
Il colpo d’occhio che ci offriva – scriveva all’inizio del secolo scorso l’esploratore Francis Garnier – era fra i più pittoreschi e animati … I tetti, l’uno accanto all’altro, si allineavano in file parallele lungo il fiume e serravano da ogni lato una montagna che si elevava come una cupola coperta di verde. Alla sommità della montagna un that o dagoba (monumenti religiosi ndr) slanciava la sua acuta cuspide sulla vegetazione, formando il tratto dominante del paesaggio”.
La città laotiana prediletta dai Francesi durante il protettorato e oggi la più amata dai turisti, dopo oltre un secolo da quando furono scritte queste parole, appare ancora così.
Una vera gioia per gli occhi, scriveva più o meno nello stesso periodo il diplomatico parigino Auguste Pavie. Con i suoi fiumi, la città e le montagne intorno, questo è indiscutibilmente il più bel posto del Laos”.
Le ville del periodo coloniale francese oggi sono state trasformate in alberghi o in eleganti negozi, ma lo spirito di questa cittadina, inserita nel 1995 dall’Unesco sulla lista del Patrimonio mondiale dell’Umanità, non è stato alterato. Sorge a 700 metri di quota, racchiusa da una cerchia di montagne, e propone un magico equilibrio tra il suo stupendo quadro ambientale e le opere d’arte che l’uomo ha creato per celebrare la profonda fede buddista, di cui si ha una testimonianza ogni mattina all’alba se ci si apposta su una delle vie principali. I monaci passano con la loro ciotola protesa a ricevere il cibo per la giornata e lunghe file di persone li attendono inginocchiate sui bordi della strada per protendere i loro doni. Al tramonto rimbombano invece i suoni dei tamburi che rammentano l’insegnamento del Budda e richiamano alla meditazione.
Luang Prabang ospita più di trenta monasteri. Ognuno con la sua particolarità. Sarebbe ingiusto e difficile stilarne una graduatoria, ma il più solenne è certamente Vat Xieng Thong, perché qui un tempo risiedeva il grande Venerabile, la guida spirituale di tutti i monaci. È anche uno dei più antichi della città – risale al XVI secolo – ed è stato risparmiato dal saccheggio avvenuto nel 1887 ad opera delle Bandiere Nere thailandesi, che distrussero tutti gli altri luoghi di culto.
Nel Palazzo reale adibito a museo si può ammirare il Pha Bang, una statua che rappresenta il simbolo di legittimazione buddista della monarchia laotiana e che ha dato il nome alla città. Curiosa celebrazione in uno stato in cui sopravvive una delle ultime dittature comuniste e dove la monarchia ha abdicato da ormai oltre 35 anni.
Prima di lasciare Luang Prabang vale la pena di visitare il variopinto mercato artigianale serale, che si svolge ogni giorno in centro città.

Vientiane, la capitale
Secondo gli autori della guida Lonely Planet dedicata al Laos, Vientiane “può fregiarsi del titolo di capitale più tranquilla di tutto il pianeta”. Percorrendola si incontrano numerosi stili architettonici che rammentano la sua animata storia: dal laotiano al thailandese, dal cinese all’americano, dal sovietico al francese. Ma lungo i larghi viali alberati spiccano soprattutto gli eleganti edifici coloniali francesi. Per non parlare di una goffa imitazione dell’Arco del trionfo parigino, che in città viene ironicamente chiamato “la pista verticale”, perché fu costruito con i soldi concessi dagli Americani per costruire un nuovo aeroporto. Nessun grattacielo sovrasta le pagode, più numerose degli edifici pubblici. Ci si può rendere conto dell’elevata devozione popolare entrando a caso in uno dei tanti monasteri per assistere a semplici e sincere cerimonie religiose, celebrate ad hoc per piccoli gruppi di fedeli, da giovani monaci.
La sera la gioventù si riversa sull’ombreggiata passeggiata lungo il Mekong e nelle piazzette esegue esercizi di ginnastica al ritmo di musica moderna. I turisti possono passeggiare senza timori per le vie della città e sul lungofiume, dove viene proposto un simpatico mercatino dell’artigianato.
Anche Vientiane, come Luang Prabang, è stata rasa al suolo dalla furia dei Siamesi (attuali Thailandesi) nel 1828. Tra i monasteri solo il Wat Si Saket è stato risparmiato dagli invasori, sembra per l’affinità architettonica con gli edifici del loro paese. La particolarità di questo monumento consiste nelle mura interne punteggiate da piccole nicchie che contengono migliaia di statuette del Budda.
Ma il monumento più importante della città e dell’intero Laos, simbolo della religione buddista e della sovranità del paese, è il Pha That Luang, le cui guglie dorate sono visibili da lontano e rappresentano l’orgoglio della nazione. Raffigura la metafora dell’elevazione umana, che passa dall’ignoranza all’illuminazione del buddismo, realizzata proponendo piattaforme quadrate sovrapposte e degradanti: la prima simboleggia la terra, le successive i petali di loto per giungere all’apice con il bocciolo del fiore sacro in forma allungata.

Itinerario
1° giorno
Milano-Bangkok
2° giorno
Bangkok-Chiang Rai-Chieng Khong-Huey Xai
3° giorno
Navigazione da Huey Xai a Pakbeng
4° giorno
Navigazione da Pakbeng a Luang Prabang
5° giorno
Luang Prabang
6° giorno
Luang Prabang-Vientiane
7° giorno
Vientiane-Phnom Penh
8° giorno
Phnom Penh-Sambor Prei Kuk-Siem Reap (Angkor)
9° giorno
Siem Reap (Angkor)
10° giorno
Siem Reap (Angkor)-Bangkok-Milano

Bibliografia
Laos Lonely Planet, Torino 2007
Laos Polaris, Firenze 2009

Cambogia – L’estasi davanti ai templi di Angkor

Cambogia – Un angelo svizzero medico in Cambogia
Laos – La sua linfa vitale è il fiume Mekong
Laos – Il Laos “no stress” tra passato e presente

Nei secolari e imponenti siti archeologici cambogiani è facile rimanere senza parole per la simbologia che esprimono, per l’eccezionale contesto naturale in cui si trovano e per l’armonia con la foresta che li ospita.

Potete aver visitato qualsiasi angolo del mondo, ma davanti ai templi di Angkor in Cambogia rimarrete estasiati. Per la loro imponenza, per la simbologia che esprimono, per l’eccezionale contesto naturale in cui si trovano, per l’armonia con la foresta che li ospita trasformatasi a sua volta in grande artista e architetto quando le radici dei suoi alberi abbracciano questi monumenti secolari, per i canti degli uccelli, per gli indimenticabili tramonti. Per poter vivere tutte queste emozioni vale la pena di recarsi all’alba sui siti archeologici, quando ancora non sono invasi dai turisti, taluni ahimé rumorosi. E non sottovalutate l’ampiezza del sito. Checché ne dicano le agenzie di viaggio dedicare un solo giorno ad Angkor è davvero troppo poco!
Visitando oggi la Cambogia (13,5 milioni di abitanti) non può non sorprendere il forte contrasto tra gli splendori del passato e la dura realtà del presente. L’orgoglio per i grandi fasti imperiali, dopo gli anni bui dei Khmer Rossi, è fortissimo e Angkor è diventata il simbolo dell’identità nazionale, per cui la si vede rappresentata ovunque: sulla bandiera, sulle lattine della birra nazionale, sulle sigarette, così come sulle insegne di molti alberghi.

Le testimonianze
C’era una torre d’oro, in cima alla quale dorme il re. Secondo gli abitanti di questo Paese, dentro questa torre vi è un Genio, dalla forma di serpente a nove teste, che è il vero signore di tutto il regno…”. Così descriveva Angkor nel 1296 il diplomatico cinese Chou Ta-Kuan. E pensare che a quei tempi l’impero khmer era già in fase di decadenza. Nei due secoli precedenti era arrivato a dominare quasi l’intera area dell’Indocina e nel 1285 era stato visitato da Marco Polo. “Sappiate – scriveva il mercante veneziano ne “Il Milione” – che ‘quel regno non si può maritare neuna bella donzella che non convegna che ‘l re la provi, e se li piace, sì la tiene, se no, sì la marita a qualche barone. E sì vi dico che negli anni Domini 1285, secondo ch’io Marco Polo vidi, quel re avea 326 figliuoli, tra maschi e fimine, chè ben n’a 150 da arme. In quel regno à molti elefanti, e legno aloe assai, e ànno molto del legno onde si fanno li calamari”, cioè l’ebano.

La storia
L’impero khmer non nacque certo di colpo o per miracolo, ma fu il punto di arrivo di una lunga serie di eventi. Ben prima del IX secolo, infatti, in questa zona esistevano già diversi regni alquanto potenti. A Sambor Prei Kuk, tra Phnon Penh e Angkor, si possono visitare le imponenti testimonianze monumentali immerse nella foresta dell’antica capitale di uno di questi regni, quello dei Chenla.
Ma è solo a partire dal IX secolo che accadde qualcosa di completamente nuovo, quando un sovrano di nome Jayavarman II (“varmann” significa protettore) fondò una nuova capitale nei pressi dell’attuale Angkor, si proclamò dio-re e creò un nuovo culto imperniato sull’adorazione del sovrano divinizzato. Nasceva così la dinastia che avrebbe portato alla costituzione del più grande impero che il Sud-est asiatico continentale abbia mai conosciuto, lasciando ai posteri quella straordinaria eredità costituita dai templi di Angkor. Un impero che affondava storicamente le sue radici nella cultura indiana, sia per quanto attiene alle pratiche religiose, sia all’organizzazione del regno. I cambogiani accolsero dapprima la religione induista per poi passare al buddismo. Nei monumenti di Angkor queste due religioni convivono una accanto all’altra.
La chiave di successo di questo impero fu legata alla capacità di sfruttare l’acqua edificando un sofisticato sistema idrico che permise agli antichi khmer di governare gli elementi naturali. Lo sviluppo del regno alternava momenti di grande prosperità e di unione ad altri di caos e di lotte interne. Gli antichi sovrani-divinità s’impegnarono uno dopo l’altro a costruire templi che superassero quelli dei loro predecessori per dimensioni, ornamenti e armonia simmetrica. Tutte queste opere sono giunte a noi, ad iniziare dall’Angkor Watt, considerato il più imponente edificio sacro al mondo. L’uomo che portò l’impero all’apice della sua gloria e introdusse la religione buddista nell’impero fu Jayavarman VII (regno 1181-1219), il più grande sovrano di Angkor, considerato una sorta di eroe nazionale, la cui immagine è oggi onnipresente in Cambogia. Fu lui l’artefice dell’edificazione della città sacra di Angkor Thom, una delle mete principali dei tre milioni di turisti che ogni anno visitano questi siti archelogici. La civiltà di Angkor gli sopravvisse per più di due secoli, ma dopo Jayavarman VII iniziò il declino: non venne più edificato alcun monumento in pietra ed è come se con lui si fosse esaurita la vena creatrice del popolo khmer. Sovrani sempre più inetti salirono al potere e trascurarono la manutenzione del sistema idrico che rendeva la terra fertile e l’agricoltura rigogliosa.

La visita
L’impero khmer durò oltre 600 anni, dall’801 al 1432 (invasione thai), ma ebbe soltanto quattro secoli di splendore. I templi tramandati fino ai nostri giorni risalgono infatti a un periodo che va dal IX al XII secolo. Abbandonati alla giungla per secoli furono riscoperti dai francesi nella metà dell’Ottocento e saccheggiati da eserciti e tombaroli. Considerati tra i più importanti siti archeologici al mondo, affascinano il visitatore per le imponenti dimensioni, per la qualità architettonica e per le splendide decorazioni (bassorilievi).
Le centinaia di templi tuttora esistenti non costituiscono però che lo scheletro sacro del vasto centro politico, religioso e sociale, perché si riteneva che soltanto gli dèi potessero dimorare in strutture di mattoni o in pietra. Attorno ad essi sorgevano abitazioni, edifici pubblici e palazzi costruiti in legno e ormai scomparsi. Si pensa che la capitale del regno avesse oltre un milione di abitanti, quando Londra non contava che 50 mila anime. Come dicevamo, le dimensioni sono imponenti. Angkor Wat era circondato da un fossato colmo d’acqua largo 190 metri che racchiudeva un gigantesco rettangolo di 1,5 per 1,3 chilometri di lato. Angkor Thom aveva dimensioni ancora più rilevanti: raggiungeva i 10 chilometri quadrati di superficie. Il fossato era largo 100 metri e circondava un muro di cinta alto 8 metri e lungo 12 chilometri. Gli edifici erano costruiti in arenaria proveniente da una cava lontana 50 chilometri. Le pietre venivano trasportate su enormi zattere via acqua. I monumenti svolgevano al tempo stesso funzione di tempio funerario, che ospitava le ceneri del re defunto, e di tempio di culto consacrato a Vishnu, la divinità hindu con la quale il sovrano si identificava. Le cittadelle rappresentavano una riproduzione in miniatura dell’universo e una sorta di luogo di transito attraverso il quale l’essere umano raggiungeva la dimora degli dèi.
Oltre ai monumenti citati, che sono i più importanti, se ne possono visitare molti altri nelle vicinanze. Particolarmente suggestiva la “cittadella delle donne”, costruita in arenaria rosa e nota per i suoi delicatissimi bassorilievi.

Phnon Penh
Conosciuta un tempo come la “perla dell’Asia” la sua fama è stata offuscata negli anni Settanta dalla triste ombra di una guerra civile particolarmente cruenta che ha causato oltre 2 milioni di morti. Tanti quanti sono oggi gli abitanti di questa città, completamente distrutta nel 1772 dai thailandesi e in seguito ricostruita. Oggi Phnon Penh, capitale della Cambogia sin dall’inizio del XV secolo, dopo la caduta dell’impero khmer, si presenta come una metropoli in transizione tra una certa nostalgia per il passato e il caos di una città moderna. L’impronta del periodo coloniale francese (1863-1954) è ancora molto presente, soprattutto nel centro città. A quell’epoca risalgono i due edifici di maggiore interesse turistico: il palazzo reale, costruito su ispirazione di quello di Bangkok, e il museo nazionale.
Il palazzo reale reinterpreta un’architettura tipica cambogiana. È balzato spesso alla ribalta della cronaca alla fine del XX secolo, in quanto sede di quel re Sihanouk, ultimo dio-re del paese, famoso in gioventù per le sue prodezze amatorie e personaggio dal passato politico camaleontico, che è riuscito a salvare la monarchia (oggi sul trono siede suo figlio Sihamoni) nonostante tutte le tempeste attraversate dal suo paese. Statista di livello internazionale, generale, presidente, regista cinematografico (ha realizzato una trentina di film) è amato e considerato il padre della nazione da molti cambogiani, “ma per altri è l’uomo che ha tradito alleandosi con i Khmer Rossi. Per molti versi – commentano gli autori della guida Lonely Planet – le sue contraddizioni corrispondono a quelle della Cambogia contemporanea”.
Il Museo Nazionale racchiude alcuni fra i più significativi e rimarchevoli tesori dell’arte khmer. La visita è un passo preliminare indispensabile per meglio comprendere e apprezzare sia l’arte figurativa di Angkor, caratterizzata da uno stupefacente realismo, sia quella del periodo precedente.

Itinerario
1° giorno
Milano-Bangkok
2° giorno
Bangkok-Chiang Rai-Chieng Khong-Huey Xai
3° giorno
Navigazione da Huey Xai a Pakbeng
4° giorno
Navigazione da Pakbeng a Luang Prabang
5° giorno
Luang Prabang
6° giorno
Luang Prabang-Vientiane
7° giorno
Vientiane-Phnom Penh
8° giorno
Phnom Penh-Sambor Prei Kuk-Siem Reap (Angkor)
9° giorno
Siem Reap (Angkor)
10° giorno
Siem Reap (Angkor)-Bangkok-Milano

Bibliografia
Cambogia Lonely Planet, Torino 2011
Cambogia Polaris, Firenze 2008
Vietnam-Cambogia Meridiani n. 145, Milano 2006
Cambogia Guide Ulysse Moizzi, Milano 2011
Angkor National Geographic, Torino 2006

Laos – Il Laos “no stress” tra passato e presente

Laos – La sua linfa vitale è il fiume Mekong
Cambogia – L’estasi davanti ai templi di Angkor
Cambogia – Un angelo svizzero medico in Cambogia

Il motto nazionale del Laos potrebbe essere “nessun problema”. Ad affermarlo sono Andrew Burke e Justine Vaisutis, autori della guida Lonely Planet dopo avere vissuto per mesi in questo Paese, sempre più amato dai giovani occidentali alternativi che partono in viaggio per lunghi periodi, con un pesante sacco in spalla e alla ricerca di nuove sensazioni. Ma anche il viaggiatore purtroppo frettoloso come l’autore di questa rubrica, arrivando in Laos percepisce questa atmosfera “no stress”. Un ambiente interpretato dai francesi, colonizzatori in Indocina, con questa espressione, forse razzista: “I vietnamiti piantano il riso, i cambogiani lo guardano germogliare e i laotiani lo ascoltano crescere”. Se i nostri giovani alternativi sono attratti da questo clima rilassato, d’altra parte, girando per le strade della tranquilla capitale Vientiane, si incontrano studenti che si comportano, vestono e si divertono come i loro coetanei alla moda nelle nostre metropoli. E il turismo non farà che accelerare questi mutamenti. Il Laos è considerato uno dei Paesi più poveri al mondo. Senza sbocchi sul mare, l’80 per cento dei suoi circa 7 milioni di abitanti vive ancora di agricoltura di sussistenza. Eppure il Paese è ricco di materie prime: di potassio, fondamentale per produrre fertilizzanti, di bauxite, usata per fabbricare l’alluminio, di minerali, di gomma, di pasta per la carta, di combustibili, di amido, di alberi industriali. Recentemente si stanno investendo ingenti capitali destinati alla costruzione di dighe per lo sfruttamento dell’energia idroelettrica. Le acque del Mekong, che per millenni hanno garantito un’economia di sussistenza a oltre 60 milioni di persone che vivono lungo il fiume in ben sei nazioni (Laos, Tailandia, Vietnam, Cambogia, Cina e Bimania), verranno quindi sempre più impiegate per produrre l’energia elettrica necessaria ad alimentare nuove attività industriali, con gravi conseguenze per l’ambiente e per le abitudini di vita. D’altraparte l’Indocina esce da un periodo storico difficilissimo, che, dopo quello della colonizzazione francese, ha visto gli Stati Uniti confrontarsi con i regimi comunisti locali appoggiati da Cina e Unione Sovietica. In Laos, dal 1975, è al potere un “regime democratico popolare”. Quando in quell’anno, prima Phnon Penh in Cambogia e in seguito Saigon in Vietnam, caddero nelle mani dei comunisti, nel Laos il re acconsentì ad abdicare dopo 650 anni di monarchia e venne creata una Repubblica Democratica Popolare, sul modello sovietico e vietnamita. Il 10 per cento della popolazione lasciò il Paese e si trasferì all’estero. Si trattava dell’esodo di gran parte della classe dirigente. Lo sviluppo del Laos subì così come conseguenza, almeno per una generazione, un forte rallentamento. Solo quattro anni dopo la statalizzazione di tutti i beni privati, il governo laotiano fece marcia indietro permettendo ai contadini di abbandonare le cooperative agricole e di tornare a coltivare la terra in proprio. Il Paese si apriva così all’economia di mercato e anche all’avvento di capitali stranieri. Nel frattempo, ai confini del Laos, in Cambogia dal ’75 al ’79 si era consumata una tragedia politica: il sanguinario governo dei Khmer Rossi, che voleva trasformare il Paese con la forza in una cooperativa agraria guidata dai contadini, fece 2 milioni di vittime secondo gli esperti della Yale University. Il governo comunista laotiano, oltre alla liberalizzazione dell’economia, tornò sui suoi passi iniziali anche per quanto concerneva la religione. In un primo tempo l’insegnamento buddista venne infatti bandito dalle scuole e si impedì ai fedeli di offrire cibo ai monaci. Ma dopo un solo anno il premier fece marcia indietro, giungendo persino nel 1992 a sostituire l’emblema della falce e del martello, che sormontava lo stemma nazionale, con l’effige del Pha That Luang, il monumento che sorge a Vientiane ed è simbolo allo stesso tempo della religione buddista e della sovranità laotiana.

Cambogia – Un angelo svizzero medico in Cambogia

Cambogia – Cambogia – L’estasi davanti ai templi di Angkor
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Laos – Il Laos “no stress” tra passato e presente

Quando la nostra guida cambogiana a Seam Reap, la città che custodisce le meraviglie di Angkor, ci ha mostrato l’ospedale pediatrico gestito dal medico elvetico Beat Richner mi sono sentito orgoglioso della mia nazionalità. Si dice che in questo istituto e in altri quattro che fanno parte della stessa organizzazione ogni settimana vengano strappati alla morte oltre 3 mila bimbi. Gli ospedali sono sovvenzionati dallo Stato, ma per la maggior parte sono sostenuti da donazioni estere, molte delle quali provenienti dal nostro Paese. Per finanziare la sua attività questo estroverso medico svizzero tiene ogni sabato sera un concerto. La sua grande passione è infatti il violoncello. Hobby che gli è valso il soprannome di Beatocello, unendo il suo nome di battesimo con quello del suo amato strumento musicale. Beat Richner era arrivato in Cambogia una prima volta nel 1974 come volontario, ma poi aveva dovuto lasciare il Paese per la presa del potere dei Khmer rossi, che con la loro dittatura sterminarono il 91 per cento dei medici cambogiani. Dopo la caduta di questo governo del terrore, nel 1991 il re Sihanouk aveva proposto a Beatocello di tornare in Cambogia per ricostruire l’ospedale in cui aveva lavorato e che nel frattempo era andato distrutto. Il medico aveva accettato la nuova sfida. Nel giro di vent’anni gli istituti sanitari sono diventati cinque, dove viene curata la maggior parte dei bimbi del Paese. Tutti i servizi sono gratuiti e lo staff medico è quasi totalmente cambogiano. Una delle caratteristiche fondamentali dell’esperienza di Richner in Cambogia è il livello di alta qualità della medicina, considerato però eccessivo e “non sostenibile” da varie organizzazioni internazionali, secondo cui lo standard sanitario dovrebbe corrispondere alla realtà economica del Paese in cui si opera. “La nostra è una medicina corretta, non di lusso, obietta il pediatra elvetico. Cinque studi internazionali, effettuati in 100 diversi Paesi – prosegue – attestano che a livello mondiale i nostri ospedali hanno la migliore relazione tra costi e guarigione”. Nelle case di cura di Beatocello un’ospedalizzazione media dura 5 giorni e costa 240 dollari. Un’altra grande sfida per Richner è tenere lontana dai suoi centri la corruzione, una delle maggiori piaghe della Cambogia. Mi spiegava un cambogiano incontrato durante il viaggio che l’ “iniziazione” a questo cancro della società comincia sin dai primi anni di scuola. Siccome gli insegnanti sono pagati molto poco (meno di 100 dollari al mese) pretendono dagli allievi una piccola somma che permette loro di arrotondare lo stipendio. Lo stesso avviene per le cure mediche pubbliche, per essere curati bisogna foraggiare infermieri e dottori. Niente di tutto ciò nei cinque ospedali del pediatra elvetico, che si ispira agli stessi principi su cui si fondava quasi mille anni fa la politica sanitaria estremamente innovativa del più grande sovrano che abbia mai avuto la Cambogia: Jayavarman VII che governò il Paese dal 1181 al 1219, nel periodo di maggiore grandezza dell’impero Khmer (IX-XIII). “Tutte le creature – si legge nel suo ‘Editto degli ospedali’ – che sono immerse nell’oceano delle sofferenze, possa io trarle fuori attraverso la virtù di questa buona opera (gli ospedali gratuiti). Possano tutti i re della Cambogia, attaccati al bene, che proteggeranno la mia fondazione, raggiungere con la loro discendenza, le loro mogli, i loro mandarini, i loro amici, il soggiorno della liberazione in cui non vi è più malattia. Il sovrano è colui che soffre delle malattie dei suoi sudditi più che per le sue: infatti è il dolore pubblico che fa il dolore dei re e non il loro stesso dolore”. Una concezione della socialità che purtroppo non trova riscontro nella Cambogia dei nostri tempi.