Armenia – La tragedia del genocidio all’inizio del Novecento

Armenia – Monasteri e fortezze immersi in una natura selvaggia
Armenia – La rinascita iniziò dalla laguna veneta
Armenia – L’amara verità storica del genocidio armeno
Armenia – La letteratura del viaggiatore

Il territorio, nei secoli, è stato invaso e suddiviso tra diversi imperi, da quello romano a quello persiano, da quello russo a quello ottomano. Una cultura millenaria che conserva tracce e presenze di tutte le civiltà continentali. Secondo la leggenda gli abitanti sono discendenti di Hayk, bisbisnipote di Noé.

Non si può non provare una simpatia istintiva per il popolo armeno, sopravvissuto nel corso di millenni a innumerevoli tentativi di conquista, assimilazione, conversione e annientamento. Eppure ha superato tutte queste prove atroci restando ancorato a due capisaldi: la fede cristiana, abbracciata nel 301, e la millenaria cultura fondata su una lingua, che si sviluppò in seguito all’invenzione di un proprio alfabeto nel 404. Il giovane stato armeno, nato nel 1991 dopo lo sfaldamento dell’Unione sovietica, occupa solo una piccola parte, circa un decimo dell’antica Armenia geografica, che i Romani chiamavano il Regno dei Tre Mari, siccome si estendeva dal Mar Nero, al Mar Caspio sino al Mediterraneo. L’Armenia odierna conta poco più di 3 milioni di abitanti, a fronte degli oltre 8 milioni di armeni sparsi in tutto il mondo. Il suo governo democratico è ancora giovane e presenta ampi margini di miglioramento – la corruzione sembra diffusa – ma per la popolazione il collante rimane la religione. Alla mia precisa domanda su quali sono i rapporti tra stato e chiesa, Vahé, la nostra colta guida locale non ha avuto esitazioni a rispondere che il punto di riferimento principale rimane la religione, talmente radicata nell’anima del popolo per cui essere armeni è sinonimo di essere cristiani.
Un viaggio in Armenia è interessante perché permette di ripercorrere, grazie a numerose testimonianze, le tappe della sua tormentata storia a contatto con culture e civiltà diverse che hanno influenzato arte, lingua, cucina, usi e tradizioni popolari.

Il Grande Male, iniziò nel 1915
All’alba del 24 aprile 1915 la polizia turca irrompe nelle case degli intellettuali armeni di Costantinopoli per arrestarli. È l’inizio del genocidio che nel giro di sette anni porterà all’eliminazione di oltre un milione e mezzo di persone: uomini, donne, anziani, bambini.
A Yerevan, la capitale armena, sulla Collina delle Rondini un suggestivo e imponente monumento ricorda questo crimine contro l’umanità. Un muro in basalto lungo 100 metri, che reca i nomi di città e province dove si sono svolti i massacri, conduce al memoriale composto da una stele alta 44 metri e divisa in due per rappresentare le regioni occidentale e orientale del paese, ma al contempo è una sola per enfatizzare l’unità del popolo. Vicino alla stele 12 lastre ripiegate verso il centro, dove arde una fiamma perenne, ricordano le regioni perse dell’Armenia occidentale. Il 24 aprile di ogni anno giungono fin lassù armeni provenienti da ogni parte del mondo con un fiore in mano. Nella memoria di ognuno di loro esiste un tragico ricordo. Questo monumento è stato costruito nel 1967 in epoca sovietica. Accanto, quattro anni dopo l’indipendenza raggiunta nel 1991, è stato edificato un museo circolare. Documenta le atrocità commesse dai turchi seguendo un preciso piano di sterminio del popolo armeno. Durante la visita sentite un pugno nello stomaco. Le foto e i filmati presentati ricordano un’altra vergogna della storia: l’olocausto degli ebrei. E gli storici rammentano come Hitler, nel 1939, in procinto di invadere la Polonia, rispose alle obiezioni di suoi collaboratori scettici sull’intervento: “Qualcuno parla forse ancora dello sterminio degli armeni”? Purtroppo aveva ragione, l’annientamento di un intero popolo sembrava destinato all’oblio a causa del cinismo della realpolitik di molti stati. Eppure non era mancato chi, al momento dei massacri, aveva rischiato la propria vita per denunciare in modo documentato quanto stava accadendo. A costoro e ad altri che hanno aiutato le vittime sono dedicate lapidi e iscrizioni all’interno del museo. Faccio un solo nome, quello del medico tedesco Armin Wegner, collaboratore dell’esercito turco, che lasciò il fronte portando con sé una documentazione fotografica sconvolgente. Ricordo una sua foto esposta al museo del genocidio in cui si vede un soldato turco mostrare sprezzante un tozzo di pane a un gruppo affamato di bimbi cadaverici, che non hanno più nemmeno la forza di alzarsi per afferrarlo.
Il genocidio del 1915-22 non è purtroppo un episodio isolato. Già nel 1894-96 si stima che vennero sterminati due-trecentomila armeni residenti nell’Anatolia orientale, ai quali vanno sommate le centinaia di migliaia di persone che dovettero fuggire o furono costrette a convertirsi all’Islam per avere salva la vita (secondo alcune stime armene questi loro antenati islamizzati che attualmente vivono in Anatolia orientale, in gran parte mischiati coi curdi, superano addirittura i 2 milioni). Nel 1909 seguirono altri massacri di 30 mila persone in Adana e in Cilicia. Non solo i turchi si accanirono contro questo popolo. Anche le purghe di Stalin fecero migliaia di vittime, dopo che nel 1920 la giovane Repubblica armena nata nel 1918 fu assoggettata all’Unione sovietica.

Una storia tormentata
Le leggende narrano che gli armeni sono i discendenti di Hayk, bisbisnipote di Noè, la cui Arca si arenò sul Monte Ararat dopo il diluvio universale. In onore a questa tradizione gli armeni chiamano infatti la loro nazione Hayastan. Gli storici fanno invece risalire le origini di questo popolo alla seconda metà del II millennio a.C. quando in Anatolia orientale sorse uno stato unitario chiamato Urartu, che raggruppava varie tribù dislocate su un vasto territorio e che raggiunse il suo periodo di massimo splendore tra il IX e il VII secolo a.C. Ma per incontrare la prima dinastia armena, quella degli Orontidi, dobbiamo attendere fino al VI secolo a.C. L’Armenia raggiunse comunque la sua massima espansione (estese i suoi confini fino alla Cappadocia e a Gerusalemme) nel primo secolo a.C. sotto il regno di Tigrane II della dinastia degli Artassidi, che ottennero l’indipendenza grazie all’appoggio dei Romani. Il Paese fungeva infatti da stato cuscinetto tra romani e parti. Sotto la dinastia degli Arsacidi, sentendo la pressante minaccia di assimilazione culturale da parte dei persiani, ebbero luogo due avvenimenti che segneranno irrimediabilmente la storia di queste terre: la conversione al Cristianesimo nel 301 e la creazione dell’alfabeto armeno un secolo più tardi, nel 404. Saranno questi i due punti di riferimento costanti che salveranno nel corso dei secoli l’identità e la cultura di questo popolo nonostante le vicissitudini storiche avverse. L’Armenia fu dunque la prima nazione al mondo ad adottare il Cristianesimo come religione di stato. Gli arabi invasero l’Armenia per la prima volta attorno al 645. A partire da questa data iniziarono le pressioni per convincere il popolo a convertirsi all’Islam, ma venne poi raggiunto un accordo che permetteva agli armeni di continuare a professare il Cristianesimo. Nel corso del XIII secolo i Mongoli di Tamerlano distrussero gran parte del territorio. Alcuni monasteri isolati e fortificati, giunti fino ai nostri giorni e principale meta dei viaggi turistici, furono risparmiati e svolsero, come già in passato, una fondamentale funzione di formazione culturale e sociale. Dall’inizio del XVI secolo il territorio fu conteso per lungo tempo da due stati musulmani nemici: l’Impero ottomano sunnita, e la Persia sciita. Tre secoli più tardi l’esercito russo conquistò la maggior parte dell’Armenia persiana. Da allora una parte della popolazione rimase assoggettata all’Impero ottomano (Armenia occidentale) e una parte alla Russia zarista (Armenia orientale), con una piccola propaggine in Iran. Durante la prima guerra mondiale il popolo armeno era quindi diviso sui due fronti in guerra. Circostanza che diede il pretesto ai turchi per tentare di eliminare gli armeni, la cui presenza intralciava il grande progetto del panturchismo, con il quale si volevano unire tutti i popoli di origine turca del continente asiatico.

Una sintesi di civiltà diverse
Come si può notare da questo breve e sommario excursus storico il territorio armeno nel corso dei secoli è stato ripetutamente invaso e suddiviso tra diversi imperi che si sono succeduti: da quello romano a quello persiano, da quello russo a quello ottomano, solo per citare i più importanti. “Nella cultura armena – come fa notare Nadia Pasqual, di lontane origini armene, sulla migliore guida in italiano di questo paese – sono presenti i lasciti di tutte queste civiltà, che si ritrovano nell’arte, nella lingua, nella cucina, negli usi e nelle tradizioni popolari. Il contatto e la convivenza con popolazioni di lingua e religioni diverse hanno arricchito il patrimonio culturale armeno, ma non l’hanno modificato nei suoi fondamenti più profondi, che rimangono legati ai valori cristiani e al forte senso di appartenenza alla loro terra. Gli armeni – conclude Nadia Pasqual – si sono sempre riconosciuti come popolo e anche durante i lunghi periodi di assoggettamento straniero hanno coltivato il proprio patrimonio nazionale sviluppando una produzione culturale e artistica originale, della quale sono giustamente fieri e che oggi offrono con gioia ai visitatori”. Per questi motivi, ben sintetizzati in questa citazione, l’Armenia merita di essere visitata.

Itinerario

1° giorno
Lugano-Zurigo-Yerevan

2° giorno
Yerevan-Garni-Geghard

3° giorno
Agarak-Aruch-Dashtadem-Harich-Gyumri

4° giorno
Odzun-Haghpat-Sanahin-Tumanyan

5° giorno
Dilijan-Lago Sevan

6° giorno
Noraduz-Selim-Noravank-Yerevan

7° giorno
Echimiadzin-Metsamor

8° giorno
Erebuni-Artashat-Dvin

9° giorno
Hovanavank-Saghmosavan-Amberd

10° giorno
Yerevan-Zurigo-Lugano

Bibliografia

Armenia Polaris, Firenze 2010
Georgia, Armenia, Azerbaigian Lonely Planet, Milano 2008
Armenia Braot, Bucks (England), 2003
Claude Murafian et Ericc van Lauwe, Atlas Historic de l’Arménie, Paris 2001

Armenia – Monasteri e fortezze immersi in una natura selvaggia

Armenia – La tragedia del genocidio all’inizio del Novecento
Armenia – La rinascita iniziò dalla laguna veneta
Armenia – L’amara verità storica del genocidio armeno
Armenia – La letteratura del viaggiatore

L’itinerario parte dalla capitale Yerevan ricca di musei che testimoniano una storia difficile ma ricca e prosegue in uno spettacolare territorio montagnoso alla scoperta di antichissime chiese e monasteri, di fortezze e caravanserragli situati lungo la Via della Seta.

Nonostante le continue occupazioni e i tentativi di assimilazione, di conversione e di annientamento l’etnia armena è sopravvissuta alle vicende storiche avverse fondandosi sulla fede cristiana e sulla millenaria cultura espressa in una lingua con un alfabeto proprio. Dalle avversità storiche ha saputo trarre anche aspetti positivi assimilando nel vocabolario, nell’arte, nella cucina, negli usi e costumi l’essenza delle civiltà di cultura e religione diverse con cui la sua popolazione è venuta suo malgrado in contatto. Visitando oggi l’Armenia come turisti si percepisce questa ricchezza.
L’architettura religiosa, dato l’alto significato del Cristianesimo nella storia armena, costituisce certamente l’elemento caratterizzante di questo paese. Chiese e monasteri sono spesso appollaiati sopra dirupi o situati in magnifiche vallate, dove il corso delle acque ha scavato profondi canyon. Ma sono interessanti anche le visite alle fortezze, erette in luoghi impervi per difendere il territorio dalle continue invasioni, e ai caravanserragli, siti di sosta per i commercianti che percorrevano la mitica Via della Seta. Al di fuori della capitale Yerevan, dove vive un terzo degli oltre 3 milioni di abitanti (all’estero se ne contano quasi 9 milioni), il paesaggio è agreste, spesso senza vegetazione, dato che ci si trova sovente sopra i 2000 metri di altezza. Dietro qualsiasi curva della strada bisogna essere pronti a frenare perché molto spesso le mandrie di mucche o di pecore scambiano l’asfalto per il pascolo. Zona vulcanica ad alto rischio sismico l’Armenia in molte regioni offre visioni lunari. Il lago Sevan (il terzo lago più alto del pianeta, situato, con i suoi 110 km2 di superficie, a 1900 metri) offre uno dei paesaggi più suggestivi: di un color azzurro scuro si contrappone al marrone delle montagne desertiche. Il tragitto che lo collega a Yerevan, attraverso il passo Selim, è particolarmente affascinante. Si attraversano profonde pareti rocciose per raggiungere paesaggi desertici e poi, ad un tratto, spuntano villaggi verdissimi, simili ad oasi, in mezzo a montagne spettrali. I paesini sono rurali e molto poveri, ma il territorio, salvo durante il rigido inverno, è molto fertile. E di spazio non ne manca. A tratti abbiamo attraversato zone viticole. Per affrontare temperature che scendono di molti gradi sotto lo zero i contadini, una volta colta l’uva, devono interrare i tralci per dissotterrarli in primavera. Il paesaggio forse più straordinario è la vallata in cui si trova il monastero di Noravank. Si attraversa per 8 chilometri un canyon con pareti altissime di color rosso e giunti nel fondovalle si scorge il monastero in uno spettacolare scenario di rocce rosate.

Radici del passato a Yerevan
Nella capitale i grigi palazzi dell’epoca sovietica convivono con i grattacieli moderni di stampo occidentale. Abbondano i musei che illustrano la ricca e tormentata storia di questo popolo. Su due colline situate ai due estremi della città sorgono due monumenti simbolo: il Memoriale per le vittime del genocidio con l’annesso museo e l’imponente e fiera statua della Madre Armenia, che sostituì quella di Stalin la notte stessa in cui giunse la notizia della sua morte. Ma il sacrario della cultura armena è considerata la grande biblioteca di manoscritti Matenadaran, che si erge come una cattedrale in cima al viale più importante di Yerevan. Dedicata all’inventore dell’alfabeto armeno, Mesrop Mashtots la cui statua troneggia all’entrata, custodisce 17 mila manoscritti, in gran parte armeni, e 100 mila documenti medievali e moderni. All’interno una fiera scritta avverte il visitatore: “Seppur siamo una piccola nazione, anche noi abbiamo compiuto opere di prodezza e di valore che crediamo meritino di essere ricordate”. L’orgoglio con cui la nostra apprezzatissima guida locale, Vahé, ci mostra quei preziosi manoscritti salvati dalle malvagità della storia è commovente.
Nella neoclassica e suggestiva Piazza della Repubblica, restaurata con garbo, accanto alla sede del governo e di alcuni ministeri, un edificio imponente ospita il museo statale di Storia armena, che illustra le principali tappe dal paleolitico all’epoca moderna. Le sale più suggestive sono quelle iniziali dove sono esposti reperti di eccezionale qualità artistica, che attestano l’elevato grado di questa civiltà nell’antichità, sin dall’epoca urartea risalente al primo millennio a.C. Ma l’oggetto esposto forse più eccezionale è una scarpetta, la più antica mai scoperta al mondo, che risale a 5500 anni fa, recentemente rinvenuta in una grotta.

Gli edifici religiosi
Il poeta russo Osip Mandelstam definì questa terra, dove ogni pietra narra la storia del suo popolo, “regno di pietre urlanti”. Ed in effetti tutti gli edifici sono costruiti in basalto, perché offriva maggiore resistenza alle devastazioni. L’architettura religiosa, con le sue soluzioni originali che avrebbero influenzato notevolmente lo stile degli edifici religiosi in tutta Europa, è senz’altro quella che più caratterizza l’Armenia. Come fa notare lo storico dell’arte italiano Alpago Novello, l’architettura sacra armena si distingue per semplicità e chiarezza, per la presenza di volumi geometrici elementari organizzati in modo simmetrico. Tanto da far associare a Cesare Brandi, in un famoso articolo intitolato “Le chiese di cristallo”, questi volumi di forme elementari “organizzati secondo assi simmetrici con una rigorosa logica di tipo geometrico-matematico, alle formazioni cristalline naturali”.
Per capire queste costruzioni bisogna distinguere due periodi. Dal VII al IX secolo l’architettura medievale presenta due aspetti originali: da una parte l’inserimento della cupola al centro della chiesa ricorrendo a soluzioni statiche interessanti e spesso ardite, dall’altra un certo contrasto tra un esterno monumentale e quadrangolare e un interno molto lineare e luminoso.
Dal IX al XIV secolo, invece, sorgono importanti monasteri che riprendono i motivi architettonici precedenti, ma con l’aggiunta di nuove esperienze. È in questo periodo che nasce il cosiddetto “gavit”, elemento tipico dell’architettura armena, tanto che non esiste una traduzione italiana di questo termine. Si tratta di una sala collocata davanti all’entrata che fungeva da vestibolo, luogo di sepoltura riservato ai notabili e di ritrovo per i cittadini. Non solo i cristiani, ma anche gli infedeli potevano incontrarsi qui e discutere, socializzare e commerciare. L’ingresso in chiesa era invece consentito solo a chi era battezzato.
“La scelta di costruire i complessi monastici in posizione dominante in fondo a profonde valli o sulla cima di altopiani difficilmente accessibili – scrive Nadia Pasqual, autrice della miglior guida in italiano sull’Armenia – garantiva la sicurezza di questi edifici che avevano la fondamentale funzione di produrre e conservare il patrimonio culturale nazionale e che in alcuni casi divennero anche importanti centri politici. Questi ambienti impervi e isolati facilitavano inoltre il raccoglimento e la concentrazione necessari ai religiosi per coltivare la profonda spiritualità che ancora oggi ammanta questi luoghi carichi di suggestioni”.
Un altro simbolo dell’Armenia sono i khatchkar: letteralmente significa croci di pietra. Si tratta di lastre di pietra finemente scolpite per rappresentare simboli cristiani, spesso la croce. Sono presenti in quasi tutti gli edifici religiosi – chiese, monasteri, cimiteri – incastonati nelle pareti o piantati nel terreno. In tutto il paese ne sono state censite oltre 30 mila, ma mi sono rimaste in particolare nella mente le numerosissime presenti nel suggestivo cimitero di Noraduz, che sorge sulle rive del lago Sevan. Camminare tra queste tombe sepolcrali indorate dai licheni in una giornata di sole in riva al lago incoronato dalle montagne è un’esperienza davvero indimenticabile.

I principali siti archeologici
Essendo il nostro viaggio organizzato dalla Società archeologica ticinese, un’attenzione particolare è stata dedicata alla visita dei principali siti archeologici. La maggior parte si trova negli immediati dintorni della capitale. Il più antico è Agarak, scoperto di recente. Risale al 2800-2600 a.C. e sorge su una base naturale in basalto. Sembra si trattasse di un luogo di culto, che si estendeva su un’area molto vasta.
Il sito forse più affascinante, Metsamor, appartiene invece all’epoca urartea attorno al 1200 a.C. Il luogo era noto come centro metallurgico – si vedono ancora le fornaci – e soprattutto per le sue attività astronomiche. Sembra che gli studiosi dell’epoca avessero individuato le costellazioni, fossero riusciti a suddividere l’anno in dodici periodi e conoscessero la stella Sirio che decretava l’inizio del nuovo anno. Conoscenze che venivano utilizzate per il culto, ma certamente preziose anche per l’agricoltura e quindi per organizzare la vita economica. Il museo annesso presenta i reperti trovati durante gli scavi, soprattutto nelle tombe, dove i notabili venivano seppelliti con i loro schiavi. La presenza di una splendida ranocchia in pietra e di un sigillo di fattura mesopotamica indicano come il commercio fosse già molto sviluppato.
Pure di epoca urartea è Erebuni, situata alle porte dell’attuale Yerevan e fondata nel 782 a.C. in un’epoca di relativa stabilità politica. Della città rimangono le fondamenta della muraglia, del palazzo reale, dei vasti magazzini, dei quartieri militari e dell’area sacra. Nel museo annesso si possono vedere le tubature in pietra completamente chiuse che servivano per trasportare l’acqua dalla montagna lontana 40 chilometri.
Con la visita di Garni ci spostiamo invece in epoca romana. L’edificio più suggestivo, in parte ricostruito dai sovietici, risale al 77 d.C. Fu edificato in basalto, caratteristica che lo differenzia dagli altri templi romani, con il denaro che Tiridate I d’Armenia ricevette dall’imperatore Nerone.

Itinerario

1° giorno
Lugano-Zurigo-Yerevan

2° giorno
Yerevan-Garni-Geghard

3° giorno
Agarak-Aruch-Dashtadem-Harich-Gyumri

4° giorno
Odzun-Haghpat-Sanahin-Tumanyan

5° giorno
Dilijan-Lago Sevan

6° giorno
Noraduz-Selim-Noravank-Yerevan

7° giorno
Echimiadzin-Metsamor

8° giorno
Erebuni-Artashat-Dvin

9° giorno
Hovanavank-Saghmosavan-Amberd

10° giorno
Yerevan-Zurigo-Lugano

Bibliografia

Armenia Polaris, Firenze 2010
Georgia, Armenia, Azerbaigian Lonely Planet, Milano 2008
Armenia Braot, Bucks (England), 2003
Claude Murafian et Ericc van Lauwe, Atlas Historic de l’Arménie, Paris 2001

Armenia – La rinascita iniziò dalla laguna veneta

Armenia – La tragedia del genocidio all’inizio del Novecento
Armenia – Monasteri e fortezze immersi in una natura selvaggia
Armenia – L’amara verità storica del genocidio armeno
Armenia – La letteratura del viaggiatore

Sull’isola di San Lazzaro poco distante da Piazza San Marco, un abate armeno nel XVIII secolo fondò un convento dove lavorare in silenzio per salvare l’Armenia non con le mani, ma attraverso la valorizzazione della sua cultura.

Una minuscola isola, situata nella laguna di Venezia, da cui si gode una splendida vista sulla Serenissima, ha svolto un ruolo determinante per la salvaguardia dell’identità armena e per la rinascita di questo popolo nel XVIII secolo, proprio mentre il territorio della madre patria era conteso, come ormai avveniva da secoli, tra russi, ottomani e persiani. Quando si temeva che tutto dovesse andare per il peggio, a San Lazzaro una comunità di religiosi condotta dall’abate Mechitar lavorava in silenzio per salvare la cultura, la lingua e la religione di una civiltà che sembrava destinata a scomparire. Il fondatore della congregazione con sede a Venezia era convinto di poter salvare l’Armenia non con le armi, ma attraverso la valorizzazione della sua cultura.
Era questa una delle tante comunità armene che si erano costituite all’estero. La tragica storia di questo popolo ha infatti portato ad un esodo nel corso dei secoli. L’attuale Armenia, costituitasi come stato indipendente dal 1991, conta circa 4 milioni di abitanti. La maggioranza degli armeni – si calcola oltre 8 milioni – vive però al di fuori dei confini nazionali: in Georgia, negli Stati Uniti, in Russia (soprattutto a Mosca), in Francia e in altri paesi europei, in Libano, in Siria, in Iran, in Turchia, in Australia, in America meridionale. In Italia abitano diverse comunità, che in tutto contano tra le 2 mila e le 3 mila persone, sparse in varie regioni. Ma quella storicamente più importante si trova tuttora sull’isola di San Lazzaro, nella laguna veneziana. La nostra guida armena Vahé Lazarian, che ci ha fatto conoscere e amare il suo paese, ha studiato armenologia per ben dodici anni a San Lazzaro. Durante un suo soggiorno in Italia ci ha condotti alla scoperta dell’isola e della sua storia.

Mechitar era nato in Armenia e a ventiquattro anni si era trasferito a Costantinopoli seguito da alcuni discepoli decisi a salvare il proprio paese risvegliando la fede, la cultura e la lingua del loro popolo. Ma ben presto i turchi si accorsero dei suoi intenti e Mechitar nel 1701 fu costretto a fuggire con i suoi seguaci. Riparò in Grecia, a Modone, una cittadina controllata dai veneziani. I turchi arrivarono anche lì e Mechitar nel 1715 si trasferì a Venezia, che in quei tempi era uno dei centri editoriali più importanti al mondo. Non poteva capitare meglio, data la sua intenzione di pubblicare in lingua armena le traduzioni di numerose opere riguardanti i campi più svariati della cultura. Le numerose isolette della laguna ospitavano monasteri ed i veneziani non erano propensi ad accettare una nuova congregazione. Ma gli armeni erano influenti e ben visti in città, perché abili commercianti che garantivano il collegamento con le Indie, con la Persia e con il resto dell’Europa. Tanto che, secondo un detto veneziano, ci vorrebbero ben sette ebrei per fare un armeno. Dopo due anni di permanenza in città la congregazione ottenne il permesso di trasferirsi sull’isola di San Lazzaro, ormai disabitata da due secoli, dapprima in affitto e in seguito come proprietaria. Riuscirono a resistere perfino all’ordine di Napoleone di sopprimere tutte le congregazioni religiose. San Lazzaro rimane così l’unica isola nella laguna veneta ad aver conservato, unitamente a San Francesco del Deserto, la sua antica funzione conventuale. Sul modo in cui la congregazione armena riuscì ad evitare l’ordine napoleonico esistono diverse spiegazioni, di cui alcune romanzesche. Le abilità diplomatiche dei sacerdoti mechitaristi sembrano comunque essere fuori discussione. La congregazione, anche da un profilo religioso, gode infatti da sempre di uno statuto speciale: è infatti riconosciuta sia dalla chiesa cattolica romana, sia da quella armena e da secoli funge da anello di congiunzione, da ponte tra le due religioni. La prospettiva culturale di Mechitar si rivela così caratterizzata da una rara ampiezza di vedute, soprattutto nel saper integrare il patrimonio spirituale e teologico dell’Oriente con quello dell’Occidente. Come scrive lo studioso italiano Claudio Gugerotti, “Mechitar diede alla cultura armena uno slancio inedito e certamente straordinario proprio perché comprese, con intelligenza rara, che si poteva essere cosmopoliti senza snaturarsi”.
L’influsso culturale della congregazione venne riconosciuto dagli storici armeni sin dall’Ottocento. Nel secolo successivo lo scrittore Arshag Tchobanian affermò che “nessuna istituzione armena ebbe un influsso così originale, così profondo e permanente sugli armeni nel diffondere lo spirito, il gusto, i costumi occidentali quanto la Casa di Mechitar”. Lo storico Arakel Babachanian scrisse addirittura che l’opera di Mechitar “segna l’inizio di un’epoca tutta nuova nella storia del nostro progresso spirituale” al punto da proporre di “denominare quell’epoca (cioè fin oltre la metà dell’Ottocento ndr.) come epoca mechitariana”.

San Lazzaro degli Armeni, che si raggiunge in quindici minuti di vaporetto da San Marco, è un pezzo di Oriente trapiantato nella Laguna. La visita è consentita ogni giorno dalle 15 alle 17.
Quando i sacerdoti mechitaristi arrivarono sull’isola nel 1717 trovarono solo una piccola chiesa e alcune capanne. Iniziarono quindi l’edificazione dell’attuale monastero e l’ampliamento della superficie dell’isola. L’ultima tappa fu ultimata nel 1850.
Dal pontile, situato a fianco della darsena ottocentesca, si gode una splendida vista sulla Serenissima. Il giardino che circonda il monastero è un’oasi di pace. Ispirò il poeta inglese Lord Byron che trascorse alcuni periodi a San Lazzaro, dove apprese la lingua armena, “un idioma ricco, che ripagherebbe chiunque della fatica di impararlo”.
Attraverso il giardino si entra nel convento. L’architettura non è orientale, salvo le decorazioni della chiesa. Visitato il refettorio, un interessante ambiente settecentesco dominato da un’imponente Ultima Cena di Pier Antonio Novelli, si attraversano numerosi corridoi adornati di dipinti donati al monastero e si sale al primo piano decorato da stucchi settecenteschi dove si trova la biblioteca, che costituisce la grande attrattiva della visita. Ospita oltre 200 mila volumi, di cui la grande maggioranza antichi. La scelta delle opere è stata concepita da Mechitar come raccolta degli strumenti necessari alle attività di ricerca, che spaziavano dalla teologia alla filosofia, dalle scienze alla storia, alla letteratura. Nel contempo l’abate ha impegnato la Congregazione nella raccolta di antichi manoscritti, con l’invio di confratelli in Oriente e in America e, quando non era possibile acquisire alcuni esemplari, venivano copiati. Il convento ospitava fino a pochi anni fa anche una tipografia che in 250 anni di attività ha stampato oltre 4 mila volumi frutto di ricerche o traduzioni in lingua armena prodotte dai padri della comunità, che oltre a praticare la preghiera si dedicano tuttora al lavoro intellettuale a favore della cultura armena. Dai tipi della casa editrice di San Lazzaro sono però uscite numerose altre opere stampate in ben 36 lingue. Dal 1967 i preziosissimi manoscritti sono custoditi in un nuovo edificio circolare a prova di fuoco, che li ha risparmiati da un furioso incendio divampato nel 1975.

Armenia – L’amara verità storica del genocidio armeno

Armenia – La tragedia del genocidio all’inizio del Novecento
Armenia – Monasteri e fortezze immersi in una natura selvaggia
Armenia – La rinascita iniziò dalla laguna veneta
Armenia – La letteratura del viaggiatore

Alcuni anni fa, durante un viaggio in Turchia con un gruppo di amici, approfittai di un lungo trasferimento in torpedone per promuovere una discussione con la nostra guida, un intellettuale turco. Lessi due brani: uno sulla questione curda e il secondo sul genocidio armeno. Terminata la mia lettura, che voleva certamente essere provocatoria, il nostro accompagnatore esclamò adirato: “Mi è capitato raramente di ascoltare tante sciocchezze in così poco tempo”. L’ambiente si raggelò e solo dopo qualche giorno riuscimmo a spiegarci. La sua reazione era chiaramente difensiva, nonostante fosse critico verso il suo governo. In quell’occasione capii che molti turchi non sono ancora pronti a discutere su certi argomenti e il genocidio armeno figura tra quelli più tabù.
Quest’anno, nell’ambito di un viaggio in Armenia organizzato dall’Associazione Archeologica Ticinese, ho visitato con grande interesse a Yerevan il museo del genocidio e mi è tornato alla mente quello scontro con la guida turca. La barbarie di quella tragedia, iniziata nell’aprile del 1915, che ha portato all’eliminazione nel giro di sette anni di oltre un milione e mezzo di armeni – uomini, donne, anziani e bambini – è ampiamente documentata. Eppure Ankara si ostina a negare quei fatti: perché?
Ai tempi del genocidio il territorio armeno era spartito tra Impero ottomano, Russia zarista e Persia. Nel corso della prima guerra mondiale Russia e Turchia combattevano su fronti opposti. Accadde così che ci furono armeni arruolati nei due eserciti in guerra tra loro. Secondo la storiografia ufficiale turca gli armeni ottomani, manipolati dai russi, non sarebbero stati soldati leali, ed avrebbero anzi costituito una presenza nemica all’interno dello stesso esercito ottomano assassinando numerosi turchi. Le autorità sarebbero pertanto state costrette a deportare questi soldati per ragioni di sicurezza interna. Questo non può comunque in nessun caso giustificare l’eliminazione di un intero popolo, donne, anziani e bambini compresi. La realtà è probabilmente un’altra. Questi episodi di “antiturchismo” armeno furono sfruttati come pretesto per eliminare un’importante presenza cristiana in Turchia, considerata un ostacolo alla realizzazione del panturchismo, favorevole all’unione di tutti i popoli asiatici di origine turca. Oggi il governo di Istanbul ha una posizione più sfumata e mette in dubbio il numero di vittime denunciate dagli armeni per evitare di dover riconoscere che si sia trattato di un genocidio, cioè del tentativo di eliminare un popolo. D’altra parte alcuni intellettuali turchi hanno recentemente chiesto al loro governo di arrendersi di fronte all’evidenza. La mancata ammissione del genocidio costituisce pure un ostacolo per l’accettazione della Turchia nella Comunità europea.
Ma perché allora ostinarsi a negare questa verità, seppur scomoda?
Non è certamente facile per uno Stato ammettere che la sua storia ufficiale vada riesaminata. Anche perché se è vero che il genocidio è avvenuto prima di Atatürk, il padre della Turchia moderna, è altrettanto vero che tra i collaboratori dell’eroe nazionale figuravano anche ideologi del panturchismo e dello sterminio degli armeni. La storiografia ufficiale celebra infatti politici che – qualora il genocidio venisse riconosciuto – dovrebbero essere considerati da un giorno all’altro criminali per avere commesso atrocità contro gli Armeni. Inoltre Yerevan potrebbe chiedere riparazioni territoriali, economiche o di altra natura, sebbene sostenga di non volerlo fare. A livello internazionale il genocidio è riconosciuto da una ventina di Stati, tra cui anche la Svizzera. Si tratta quindi effettivamente di una situazione di non facile soluzione per Ankara, che può ben spiegare il nervosismo della guida turca di cui parlavo all’inizio.

Armenia – La letteratura del viaggiatore

Armenia – La tragedia del genocidio all’inizio del Novecento
Armenia – Monasteri e fortezze immersi in una natura selvaggia
Armenia – L’amara verità storica del genocidio armeno
Armenia – La rinascita iniziò dalla laguna veneta

La letteratura costituisce certamente un forte incentivo a viaggiare. Chi non ha mai sognato di visitare i luoghi che fanno da scenario al suo romanzo preferito? A me piace, quando ciò si rivela possibile, concretizzare questi sogni e partire per vedere “dal vivo” i paesaggi dei libri che leggo. Qualche volta però succede il contrario: si visita un paese, si scoprono orizzonti fino a quel momento sconosciuti, si gustano cibi particolari, si ascoltano musiche nuove e nasce il desiderio di accostarsi alla letteratura. Come scrivono gli autori di quel paese? Come vedono la loro realtà? Quali i loro pensieri, il loro vissuto, i problemi che affrontano? Così è successo per l’Armenia. Dopo il viaggio, e soprattutto dopo la sconvolgente visita al museo del genocidio a Yerevan, mi sono trovato a cercare scritti su questo tema. E nella biblioteca di casa ecco un libro dalla copertina suggestiva che mi ha colpito: “La masseria delle allodole”. Quanta forza possano avere le pagine di un libro lo ha dimostrato proprio il successo di quest’opera, che ha segnato l’esordio narrativo di Antonia Arslan (Rizzoli 2004). Muovendosi con sensibilità nel territorio fertile di emozioni che si situa tra ricordi familiari, ricerca storica e invenzione poetica, la Arslan (in origine Arslanian) ha raccontato le vicende armene con tale intensità da attirare l’attenzione di un pubblico vasto, che si è allargato ancora di più quando dal romanzo è stato tratto un film diretto dai fratelli Taviani. Il genocidio armeno è giunto così nelle case dei lettori – e degli spettatori – con grande forza. Antonia Arslan è nata a Padova da una famiglia di origine armena. Laureata in archeologia, per molti anni ha insegnato presso l’università della sua città, pubblicando nel contempo saggi letterari, contribuendo alla traduzione dell’opera del poeta armeno Varuyan e curando opere inerenti la storia del genocidio. Il salto verso il narrativo è del 2004. “Non potevo farne a meno” ha più volte ripetuto. E forse la spinta è arrivata dai ricordi d’infanzia: quel nonno serio e severo che l’accompagna a trovare “il suo santo” nella basilica padovana, che nei suoi tardi anni condivide con lei le immagini mai cancellate della sua patria lontana. Quel nonno arrivato in Italia da ragazzino per frequentare il Collegio armeno di Venezia, prestigiosa scuola per i rampolli delle famiglie più importanti della piccola nazione, e che non aveva mai più potuto tornare nella sua terra d’origine. Quel nonno che aveva sognato di portare in Armenia la moglie italiana e i suoi figli, la famiglia che nel frattempo si era creato in Italia, un progetto a lungo accarezzato con il fratello rimasto a casa e bruscamente spezzato proprio dai fatti del 1915. I maschi Arslanian brutalmente uccisi, le donne e i bambini spinti con altre migliaia di armeni verso il deserto siriano in una marcia forzata che ogni giorno faceva le sue vittime tra fame, febbre e violenze. Rinuncerà il nonno – dopo questo orrore – al suo passato, concedendosi solo nei suoi ultimi anni la nostalgia per quella terra, per gli affetti familiari perduti, per i sapori e i colori della sua infanzia. Una nostalgia che passerà alla nipotina e che costituirà – molti anni dopo – il motore della ricerca alla base della Masseria delle allodole. I profumi dell’Oriente (quelli del pane, dello yoghurt, dei dolci), le abitudini particolari di un parentado che dopo la diaspora (qualcuno in effetti si salverà) si espande su diversi continenti, le parole del nonno che ricorda la casa antica sulle colline e le dolci giornate di vendemmia: l’eco di quella cultura si fa materia di studio – delle proprie origini, ma anche di pagine di storia che non possono cadere nell’oblio.